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Giacomo Luciani
Il contagio
democratico non va
a petrolio
L’ondata di rivolte popolari nel mondo arabo ha dimostrato quanto la regione resti connessa sul piano politico. Il fenomeno però pone un interrogativo riguardo ai principali paesi produttori di petrolio: i vantaggi classici di uno “rentier state” saranno sufficienti a fermare il contagio?
La rapidità con la quale il moto di rivolta popolare, iniziato in Tunisia, si è propagato all’Egitto, al Bahrein, alla Libia e allo Yemen conferma come, nonostante il tramonto dell’unità politica araba come ideologia di rinascita nazionale, la sfera politica regionale sia strettamente interconnessa. Contribuisce a questa dimensione panaraba
del discorso politico la dimensione sovranazionale di fondamentali strumenti di informazione, come Al Jazeera, oltre naturalmente la comunanza della lingua.
Giacomo Luciani è direttore scientifico del
A questo bisogna aggiungere che lo sviluppo della
Master in Energia internazionale della Parete non conosce confini: il ruolo fondamentale dei
ris School of International Affairs di Sciennuovi strumenti di comunicazione e socializzazione
ces Po a Parigi. È anche uno dei “Global
in rete ha avuto un chiaro riscontro in Tunisia,
Scholar” dell’Università di Princeton. RisieEgitto e Bahrein; negli altri paesi invece l’impatto
de a Ginevra, dove insegna al Graduate Inè stato meno chiaro.
stitute for International and Development
Studies.
LO “STATO RENTIER” E L’EFFETTO CONTAGIO. Ormai un quarto di secolo fa, chi scrive questo articolo ha contribuito a formulare la cosiddetta teoria dello rentier state, un concetto che è stato ampiamente utilizzato, e talvolta contestato, nell’analisi della dinamica politica dei paesi produttori
di petrolio e di altre materie prime.
La teoria afferma che l’accesso a una rendita proveniente dall’estero (definita come
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differenza tra il prezzo realizzato e il costo di produzione comprensivo del normale
tasso di profitto prevalente in un mercato competitivo) consente al governo del paese
produttore di non dover dipendere dall’imposizione di tasse per sostenere le spese
correnti. In questo caso, la principale funzione del governo è quella di distribuire la
rendita, al contrario di quanto avviene nella maggior parte delle economie, dove gli
esecutivi devono ricorrere al prelievo fiscale prima di poter attuare una redistribuzione attraverso la spesa.
Va inoltre considerato che, dalla rivoluzione francese in poi, la spinta verso la democrazia è spesso nata in risposta alle accresciute necessità fiscali dello Stato: per poter aumentare efficacemente l’imposizione, lo Stato ha bisogno infatti della legittimità democratica. L’accesso a una rendita esterna importante tende invece a consolidare il regime in essere, qualunque esso sia: una democrazia di lunga tradizione, come
quella norvegese, non cessa certo di essere una democrazia, ma una democrazia debole, come quella venezuelana, può soffrire di tendenze autoritarie, che si presenteranno probabilmente in veste populista.
La logica vale anche per i regimi autoritari che attraverso le rendite godono di maggiori strumenti per mantenersi al potere. In questa categoria però, i regimi patrimoniali che reggono società segmentate (come le monarchie del Golfo dove prevalgono
divisioni tribali) sembrano più adatti a gestire la manna petrolifera, rispetto ai presunti regimi repubblicani, quali quello libico o quello del Ba’ath iracheno.
LA DISCRIMINANTE DEL PETROLIO E IL TARLO DELLA DEMOCRAZIA. L’analisi dello Stato rentier serve anche a introdurre una distinzione all’interno della regione araba, dove non tutti gli Stati hanno accesso alla rendita petrolifera. La teoria proposta alla fine degli anni Ottanta sosteneva che un’evoluzione in
senso democratico era possibile per i paesi i cui governi dipendono in misura sostanziale dall’imposizione fiscale, mentre sarebbe stata poco probabile per gli Stati rentier. La seconda parte di questa previsione è stata confermata dai fatti, mentre la prima fino a oggi è stata smentita.
Per gli ultimi trent’anni gli esperti della regione si sono trovati a spiegare quella che
appariva come un’eccezione regionale: la mancanza di una pulsione democratica. Per
citare il titolo di un classico volume collettivo degli anni Novanta, curato da Ghassan
Salamè, ci si poneva la domanda: Democracy without democrats?1.
Oggi i fatti sembrano dimostrare che dopotutto le attese di una spinta democratica
non erano infondate: i regimi tunisino ed egiziano hanno resistito con successo al
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cambiamento per trent’anni, ma sono arrivati alla fine ridotti a semplici facciate, crollando come un mobile vecchio interamente mangiato dai tarli. Alla prima sfida seria,
la facciata è crollata e nessuno si è schierato a favore dello status quo, nemmeno le
forze della repressione, che si sono rifiutate di reprimere.
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GIOVANI SENZA PROSPETTIVE: IL DETONATORE DI UN VECCHIO
MALCONTENTO. L’impressione che si trae è che certi meccanismi ben individuati dalla scienza politica (il legame tra istruzione e desiderio di libertà politica, tra
maggiore benessere materiale e volontà di libertà personale, tra l’apertura economica
e quella politica, e così via) siano effettivamente operanti, anche se talvolta il loro effetto può essere nascosto, contenuto, represso anche per molti anni. La Storia, in fondo, non ha fretta; possono essere necessari decenni perché processi ineluttabili vengano a maturazione.
Così anche il mancato accesso alla rendita petrolifera ha portato non tanto a un rafforzamento dello strumento fiscale (nessun paese della regione ha tentato seriamente
di dotarsi di una fiscalità moderna, in larga misura per paura delle implicazioni politiche) quanto a un progressivo restringimento del numero dei beneficiari dello sviluppo; un fenomeno che ha visto le élite tentare di mantenere il passo con gli standard
di benessere dei paesi petroliferi, mentre le masse registravano un continuo peggioramento del loro reddito reale.
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Il “capitalismo degli amici” (crony capitalism), basato sul controllo politico dell’accesso alle risorse e la creazione di nicchie di privilegio ben protette dalla concorrenza, ha progressivamente chiuso qualsiasi prospettiva di mobilità sociale. In tutti quei
paesi del Nord Africa e del Medio Oriente che non sono produttori di petrolio, i giovani si sono visti privati di qualsiasi prospettiva, e sono stati costretti a cercare un futuro all’estero2.
UN CONTAGIO “METODOLOGICO”. I casi del Bahrein e della Libia sono in-
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vece molto diversi. Per loro, il contagio è stato principalmente “metodologico”; la
stessa esperienza di Tunisia ed Egitto ha dimostrato come il potere non riesca a reprimere manifestazioni di massa che si protraggono nel tempo e che finiscono per portare alla paralisi del paese.
A dire il vero il Bahrein ha da tempo praticamente cessato di essere un paese produttore – la sua produzione petrolifera è ormai quasi insignificante – e ha perseguito con
successo una politica di diversificazione economica basata sulla finanza (è il principale centro di finanza offshore della regione), sull’industria (la produzione di alluminio e
un’importante raffineria alimentata da petrolio saudita), il turismo (grazie alla vicinanza con l’Arabia Saudita e al clima sociale più permissivo) e l’istruzione (numerose
scuole private sono sorte nel paese e attirano studenti principalmente sauditi).
Anche se la straordinaria ascesa di Dubai ha messo in ombra il Bahrein, quest’ultimo ha imboccato ancora prima di Dubai una strategia di diversificazione basata sullo sviluppo dei servizi di qualità. La principale differenza tra i due paesi consiste nell’eredità storica e nella composizione della popolazione: il Bahrein infatti è un’oasi
che storicamente ha sempre avuto una popolazione piuttosto rilevante; non a caso la
Gran Bretagna aveva fissato a qui la residenza del suo agente politico, che controllava tutti gli emirati della costa del Golfo salvo il Kuwait, mentre Dubai era stata scelta come sede secondaria.
Dubai, invece, ha una popolazione residente quasi interamente composta di espatriati: il 90% dei residenti non sono cittadini degli Emirati Arabi Uniti. In Bahrein, gli
espatriati sono circa il 50% della popolazione residente, e la popolazione nazionale è
divisa tra una maggioranza sciita e una minoranza sunnita, con quest’ultima che controlla quasi tutte le leve del potere e dell’economia.
DALL’EMIRATO ALLA MONARCHIA COSTITUZIONALE. Paradossalmente, il Bahrein è un paese politicamente molto più aperto di quanto non lo fossero l’E-
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gitto e soprattutto la Tunisia o la Libia. Hamad bin Isa al Khalifa è diventato emiro
del Bahrein alla morte del padre nel 1999 e ha inaugurato una stagione di cauta apertura politica, con l’emanazione nel 2002 di una costituzione approvata per referendum popolare.
La nuova carta ha trasformato l’Emirato in monarchia e Hamad ha assunto il titolo di
re: una trasformazione che segna il passaggio da un potere di tipo tradizionale-tribale a uno di tipo costituzionale. La nuova costituzione ha creato inoltre un sistema bicamerale, con una camera eletta a suffragio universale e una nominata dal re; le più
recenti elezioni si sono tenute nell’ottobre del 2010, le precedenti nel 2006.
Tuttavia, nell’estate del 2010 il governo ha denunciato la scoperta di un complotto
dell’opposizione, arrestandone vari esponenti. In anni precedenti si erano verificati
diversi disordini ed episodi di rivolta, sempre dovuti all’insoddisfazione della popolazione sciita per la sua relativa marginalizzazione.
Alla radice di questa tensione vi è il fatto che – pur avendo inaugurato una stagione
di caute aperture – il re non ha voluto o potuto sostituire il primo ministro Khalifa bin
Salman al Khalifa, suo zio, in carica da 40 anni. In pratica, dall’indipendenza nel
1971, il paese ha avuto un solo capo di governo, noto peraltro per le sue tendenze conservatrici. Il re ha invece progressivamente attribuito maggior potere al principe ereditario, Salman bin Hamad al Khalifa, che, a differenza del primo ministro, è noto per
essere un riformatore. Salman ha costituito così una specie di governo parallelo, che
spesso si è opposto alle posizioni del governo ufficiale.
Sintetizzando, possiamo dire che il Bahrein non è più uno Stato rentier, ma si trova a
metà strada di un processo di democratizzazione che la spinta popolare vuole vedere
completato. Per questo motivo, la richiesta fondamentale è la rimozione del primo ministro e la nomina di un governo che sia responsabile di fronte al parlamento eletto:
in breve, la realizzazione di una vera e propria monarchia costituzionale.
PIÙ PETROLIO, MENO APERTURE. Una situazione per certi versi analoga si
riscontra in Kuwait, dove pure il parlamento è liberamente eletto, ma il governo è nominato dall’emiro. Il parlamento ha la possibilità di obbligare alle dimissioni un singolo ministro approvando una mozione di sfiducia nei suoi confronti, ma il governo
non ha bisogno della fiducia del parlamento per entrare in carica. Questo ha generato una situazione di stallo costituzionale che paralizza il paese ormai da anni, impedendo qualsiasi politica di sviluppo. In compenso, in Kuwait lo Stato continua a godere di una rendita petrolifera abbondante.
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In altri paesi del Golfo, invece, i processi di apertura politica sono stati più timidi o
quasi del tutto assenti. Quasi nessuna apertura si registra negli Emirati Arabi Uniti,
dove le famiglie regnanti continuano a esercitare un potere assoluto: ciò riflette anche la composizione della popolazione, che per la federazione nel suo complesso è
composta all’80% di espatriati. I soli cittadini indiani sono circa il doppio di tutti i
cittadini degli emirati e se si considera la popolazione sopra i 14 anni lo squilibrio è
ancora maggiore. Questo significa che la carta della mobilitazione popolare rischierebbe facilmente di ritorcersi contro la popolazione nazionale; in questo modo, le famiglie regnanti hanno relativamente buon gioco a scoraggiare richieste di democratizzazione che inevitabilmente accentuerebbero il fossato che divide i cittadini del
paese dagli espatriati, rendendo ancora più precaria la situazione.
In Arabia Saudita, invece, gli espatriati sono un terzo della popolazione residente: i
cittadini del paese sono dunque ancora in solida maggioranza, anche se nella composizione delle forze di lavoro il rapporto si inverte: gli espatriati sono i due terzi degli
occupati, i cittadini solo un terzo. Nonostante la monarchia saudita sia assoluta, la gestione del potere ha una tradizione partecipativa, nel senso che difficilmente il re
prende decisioni senza essersi assicurato il consenso di tutte le componenti fondamentali della società. Queste sono integrate in una serie di istituzioni corporative, attraverso le quali la famiglia regnante realizza una compenetrazione capillare con le
élite politicamente rilevanti.
Nel caso dell’Arabia Saudita, le classi dirigenti sono multiple e politicamente concorrenti: in particolare significativa è la competizione tra l’élite religiosa e quella economica e professionale. La prima ha radici sociali molto più profonde della seconda, come ha dimostrato l’esperimento delle elezioni municipali tenutesi nel 2005, il cui risultato ha fatto sorgere il dubbio che un processo di democratizzazione potrebbe risultare disastroso per i modernizzatori.
Le elezioni municipali avrebbero dovuto tenersi nuovamente nel 2009, ma sono state
opportunamente dimenticate, senza troppi rimpianti. Ciò non toglie che si registrino
periodicamente dichiarazioni in favore di un parlamento eletto – anziché nominato,
come è attualmente. Ancora in questi giorni si è espresso in questo senso uno dei fratelli del re, il principe Talaal bin Abdulaziz.
Inoltre, in Arabia Saudita come negli Emirati e in Kuwait, la rendita petrolifera continua a giocare un ruolo molto importante; nonostante la diversificazione dell’economia, l’aumento del prezzo del petrolio da un lato e la crisi finanziaria internazionale
dall’altro hanno fortemente cambiato l’equilibrio tra lo stato e la borghesia nazionale.
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Se dieci anni fa lo Stato era in crisi finanziaria e si rivolgeva alla borghesia per averne il supporto nel perseguimento delle politiche di sviluppo nazionale, oggi tutte le
risorse finanziarie sono tornate in mano pubblica.
LA PECULIARITÀ LIBICA. Il caso saudita è interessante soprattutto per fare un
confronto con quello libico. In Libia il potere di Gheddafi e della sua famiglia non è
stato meno assoluto, anche se il colonnello ha avuto il vezzo di ripetere che non ricopriva alcuna carica ufficiale nella Jamahiriya.
In compenso, l’esercizio del potere è stato caratterizzato da decisioni solitarie e capricciose, che hanno progressivamente scavato un abisso tra il potere e la società.
Il potere ha monopolizzato ogni attività economica e ha dato dimostrazione di quasi totale incompetenza: la Libia è stata impegnata in una successione disastrosa di
avventure internazionali, mentre pochissimo è stato fatto per diversificare l’economia e creare occasioni attraverso cui la popolazione potesse partecipare alla prosperità economica al di là della pura e semplice redistribuzione della rendita petrolifera. Il risultato finale è che il regime ha finito con l’essere isolato dalla società, anche se le risorse economiche a sua disposizione gli hanno consentito di prolungare la repressione.
Poiché tutte le forze in gioco comprendono perfettamente che così è, la ricerca di un
“consenso nazionale” per ricreare le basi dello Stato è particolarmente difficile. Se ne
è avuta prova anche in Iraq, dove l’emergenza di una democrazia funzionale continua
a scontrarsi contro ostacoli molto rilevanti. Del resto anche l’Iraq è stato investito dall’onda del “potere alle masse”, dimostrando come la paralisi delle istituzioni democratiche può portare a risultati imprevisti.
LIBERTÀ ALLA PROVA DEL BUDINO. Indubbiamente l’ondata democratica è
animata da un forte desiderio di maggiore libertà, soprattutto libertà personale, e rispetto per la legalità e i diritti umani. Sarebbe sorprendente quindi se si ricadesse in
una serie di regimi autoritari. Tuttavia, anche per questa situazione vale in definitiva
la prova del budino: per verificare non rimane che mangiarlo.
Se le rivoluzioni non sapranno rapidamente trasformarsi in efficaci coalizioni di governo, capaci di ristabilire l’ordine e di migliorare rapidamente le condizioni di vita della popolazione, l’ondata potrebbe facilmente essere seguita da un riflusso. L’Europa,
che per mezzo secolo ha ipocritamente predicato la democrazia, mentre offriva ogni
sorta di sponda agli autocrati (e l’Italia in particolare con Gheddafi, al limite della far-
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sa) deve ora cogliere l’occasione per appoggiare il cambiamento. Uno degli effetti della rivolta è la completa emarginazione di al Qaeda e della maggior parte delle forze che
si richiamano alla religione: non si possono quindi agitare gli spettri dell’islamismo militante e dello scontro delle civiltà, che peraltro non è mai esistito. L’Europa non può
trincerarsi dietro a ostacoli sempre maggiori alla circolazione delle persone: deve
aprirsi a uno scambio fecondo, che è da sempre nel suo migliore interesse.
Da allora si è avuto un flusso continuo di analisi di questa natura (per citare alcuni titoli recenti: Debating Arab authoritarianism curato da Oliver Schlumberger; The Arab State and neo-liberal globalization: the restructuring of State power in the Middle East curato da Laura Guazzone e Daniela Pioppi; Democracy building and democracy erosion: political change north and south of the Mediterranean di Eberhard Kienle).
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Questo può sembrare vero anche per l’Italia e per altri paesi dell’Europa meridionale; tuttavia la differenza è che i giovani dei paesi dell’UE hanno un passaporto capace di aprire loro le porte di un più vasto mercato del lavoro, mentre per la maggior parte dei giovani arabi l’impiego all’estero è rimasta una
chimera.
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