Paolo_Ruffilli - Giacomo Giuntoli
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Paolo_Ruffilli - Giacomo Giuntoli
GIACOMO GIUNTOLI L’ONOMASTICA IN PREPARATIVI PER LA PARTENZA DI PAOLO RUFFILLI La serie di racconti Preparativi per la partenza (2003)1 rappresenta il primo capitolo del percorso narrativo di Paolo Ruffilli. Infatti, prima di allora lo scrittore forlivese si era dedicato esclusivamente alla poesia, debuttando nel 1972 con La quercia delle gazze, silloge debitrice di Ungaretti, in cui «dal suo viaggio in Grecia, apparentemente legato a una temperie di tipo romantico, il poeta ricava la convinzione che il mito non è più sostanza delle cose e di esso non si può fare che uno scavo interno, critica immanente e devastata».2 A quest’opera altre seguirono, che incontrarono l’apprezzamento di Eugenio Montale e Vittorio Sereni e che permisero a Ruffilli, con le raccolte Piccola colazione (1987, American Poetry Prize), Diario di Normandia (1990, premio Montale), Camera Oscura (1992) e La gioia e il lutto – passione e morte per Aids (2003, Prix Européen), di assurgere ad un ruolo di primo piano nella poesia italiana e internazionale. Una carriera artistica di grande rilievo che, fatto molto raro per le opere poetiche, ha conosciuto un certo successo di pubblico. Qui ci occuperemo, tuttavia, del solo Ruffilli narratore, la cui produzione in prosa si limita a due titoli: il già citato Preparativi per la partenza (2003), in cui si tratta di tipi singolari e della loro vita fuori dal comune, e il recente Un’altra vita (2010), venti racconti d’amore dedicati ad altrettanti scrittori famosi. Preparativi per la partenza si compone di diciotto racconti, in cui Ruffilli dialoga con altrettanti personaggi: in ordine di apparizione, un lupo di mare esiliato sulle Alpi, un borghese che abbandona la vita mondana per rifugiarsi nell’anonimato della periferia, il primatista mondiale di notti in bianco, il giocatore d’azzardo incallito che uccide la moglie perché non scopra che ha perso tutte le loro fortune al gioco, i Clavadistas messicani che, come atto propiziatorio di fertilità, si tuffano da uno strapiombo alto 1 P. RUFFILLI, Preparativi per la partenza, Venezia, Marsilio 2003 G. PANELLA, Quel che resta del verso 21, recensione al volume di G. INZERILLO, La virtù della frivolezza. Saggio sull’opera di Paolo Ruffilli, Bari, Stilo Editrice 2009. La recensione è consultabile on-line all’indirizzo web http://www.stiloeditrice.it/sito/index.php?option=com_content&view=article&id= 226:recensione &catid=50:recensioni 2 198 GIACOMO GIUNTOLI quarantacinque metri, un eccentrico intellettuale americano, uno scrittore afasico isolatosi dal mondo, un ermafrodito, un’analista cinica e sempre a caccia di uomini, un collezionista di conchiglie, una prostituta, un ladro, un’affermata sessuologa, uno scrittore che abbandona la sua carriera per una donna, un giudice ormai deluso della giustizia, un motociclista pluricampione, il direttore dei Progetti Speciali al MIT di Boston e infine un marinaio che rifugge la sua casa e vive dentro l’atto del partire. Questi personaggi, secondo Ruffilli, sono «vie di molti alter ego», ovvero esperienze umane che l’autore non ha vissuto e di cui si riappropria sulla pagina attraverso l’immaginazione. «Le vie di molti alter ego», infatti, fu la dedica che lo scrittore appose ad ogni libro acquistato dal pubblico durante una presentazione che avvenne all’Università di Pisa nell’aprile 2004.3 Come non richiamare alla memoria, seppure con un significato diverso da quello che lo scrittore francese le attribuì a suo tempo, la celeberrima frase di Flaubert «Mme Bovary c’est moi». È questa, in sostanza, la dichiarazione di Paolo Ruffilli. Nei Preparativi i nomi svolgono un ruolo fondamentale. È lo stesso autore, nel prologo, a fare un’analisi paraetimologica del proprio nome e cognome. E durante l’opera si crea una certa ambiguità: non si può dire con certezza se sia un doppio dell’autore o l’autore stesso a dialogare con i suoi personaggi. Invece appare chiaro che il narratore dei Preparativi sia intradiegetico ed è in qualche modo correlato, come si vedrà, a quello proustiano. Anche se nella Recherche il nome del narratore Marcel appare almeno una volta nel testo, il nome Paolo è citato solo nel prologo. Ma di questo ci occuperemo più avanti. Nei Preparativi sono presenti diversi toponimi, mentre di tre soltanto dei diciotto personaggi viene esplicitato il nome. Quindi nell’opera saranno presenti solo quattro nomi di persona: Johann Marie, Leda, la Dama di Vermeer e Paolo, il nome dell’autore. Ed ognuno di questi merita particolare attenzione perché in essi sono contenuti dati preziosi per intendere nel suo complesso quest’opera, i cui racconti sembrano essere correlati fra loro: Il mio nome è uno dei vezzeggiativi che i romani usavano per i loro figli. Il più comune e antico, per il suo alludere al piccolo appena nato. Dunque carico della tenerezza che anche un popolo ruvido e guerriero sa esprimere, come gli animali feroci nei confronti dei propri cuccioli. È di origine romana anche il cognome, che inquadra me e la famiglia di mio padre tra i Rufi filii, i figli di Rufo. Questo antenato di pelo fulvo militava in una delle legioni che Roma teneva a presidio del 3 Io stesso partecipai all’incontro in cui la prof.ssa Elena Salibra fece da mediatrice fra autore e studenti. L’ONOMASTICA IN PREPARATIVI PRIMA DELLA PARTENZA 199 confine sacro, a nord del fiume Rubicone, e si fermò dopo il servizio militare nella regione che non a caso continua a chiamarsi la Romagna, terra di mio padre e dei suoi avi. Un capostipite non troppo antico, distante quaranta generazioni appena. Un margine esiguo, nel senso almeno delle mutazioni biologiche. Perciò è lecito pensare a una continuità dei caratteri fisici fondamentali, anche se la mescolanza è sempre stata la risorsa segreta della nostra penisola, lanciata con il suo ponte sul mare. Migrazioni continue e miscugli di sangue: capelli ricci e pelle color cenere, naso camuso e occhi tagliati in obliquo, statura alta e ossa sottili. Tratti esotici che mi porto addosso. Mi chiamo Paolo Ruffilli. Ne do notizia qui non senza sorridere. Ma lo faccio perché mi sono convinto che, pronunciando il mio nome anche solo mentalmente, l’ignaro lettore mi darà una scossa. Come una parola magica, le mie poche sillabe dominate dallo scorrere delle liquide mi costringeranno a rifluire fuori dal moto di deriva e mi spingeranno nel pieno della corrente.4 Dunque lo scrittore attribuisce una dimensione magica all’evocazione del suo nome e cognome. Anche se l’autore parla di “magia”, analizza in modo parascientifico il proprio nome, come se si potesse, attraverso l’analisi etimologica, fare una mappatura genetica delle origini remote dell’uomo Paolo Ruffilli, che solo in quel momento si sente autorizzato a prendere la parola di fronte al proprio pubblico e a iniziare ufficialmente il libro di cui è autore. Ma c’è dell’altro, poiché il rapporto fra lo scrittore forlivese e l’onomastica non si limita al nome d’autore, ma sconfina anche in quello dei personaggi: Chiunque abbia conosciuto la scissione del proprio io, sa che è possibile ricomporne i pezzi nell’ordine che più gli piace. È quel che faccio qui con i miei personaggi, figure delle numerose anime di una stessa persona e infinita varietà dell’unità dinamica di ognuno. […] Metto la mia firma sopra questa piccola piramide di vicende insolite, che ho inseguito e imbandito qui di seguito non senza divertirmi e abusando del mio potere di demiurgo. […] Arrivo a derubare dei nomi i miei protagonisti non per dare più risalto al mio, ma perché in ciascuno di loro ritrovo innominata la mia aspirazione senza seguito.5 L’io molteplice del narratore ingloba in sé tutti i personaggi. E, quasi di conseguenza, alcuni di questi si trovano a perdere il nome, sacrificato da un “demiurgo” che dopo aver rivendicato la paternità della propria opera nel prologo, ne diventa l’assoluto protagonista. Ogni nome, presente o assente che sia, deve fare i conti con quello di Paolo Ruffilli: così i Preparativi pos- 4 5 RUFFILLI, Preparativi …, cit., p. 7-8. Ibid. 200 GIACOMO GIUNTOLI sono essere considerati in tutto e per tutto un romanzo dell’io,6 dove quest’ultimo è rappresentato da una polifonia di voci altre e diverse. La struttura dell’opera è influenzata da un nobile precedente ottocentesco: le Operette morali di Giacomo Leopardi, delle quali Paolo Ruffilli non a caso curò un’edizione.7 Infatti quanto scritto dall’autore forlivese nella sua prefazione alle Operette sembra essere profetico per quello che saranno i Preparativi: Libro dei sogni poetici, d’invenzione e di capricci malinconici» le aveva definite scherzosamente il Leopardi, consegnando invece a queste pagine la dialettica drammatica del suo pensiero e della sua stessa vita. Opera filosofica, libro di poetica, autentica passione laica […] luogo di coincidenza di poesia e di prosa, di ragionamento e di fantasia, di invenzione e di analisi del reale.8 Il 27 luglio 1821 Leopardi annotava nello Zibaldone altre parole che sembrano attagliarsi ai Preparativi: Ne’ miei dialoghi io cercherò di portar la commedia a quello che è stato finora proprio della tragedia, cioè i vizi dei grandi, i principi fondamentali delle calamità e della miseria umana, gli assurdi della politica, le sconvenienze appartenenti alla morale universale, e alla filosofia, l’andamento e lo spirito generale del secolo, la somma delle cose, della società, della civiltà presente.9 Nei Preparativi, così come nelle Operette, occupa un ruolo fondamentale il dialogo che s’instaura fra i personaggi, cui Ruffilli, come Leopardi, affida «la dialettica drammatica del suo pensiero e della sua stessa vita». Ma in Leopardi sono i personaggi a essere al centro della scena, senza che l’autore, come invece accade in Ruffilli, sia presenza attiva in ogni singolo racconto. È proprio lo scrittore dei Preparativi, infatti, a sostenere che i suoi personaggi sono «figure delle numerose anime di una stessa persona e infinita varietà dinamica di ognuno». Una varietà dinamica che Ruffilli attraversa, incontro dopo incontro, ma senza arrivare ad un livello di incarnazione pieno con nessuno dei personaggi. Inoltre, paradossalmente, il livello di incarnazione fra autore e personaggio pare essere maggiore quando 6 Qui per “romanzo dell’io” non intendo fare mia la definizione che Philippe Forest sviluppa in Il romanzo, l’io (Giunti, Milano 2004). Per romanzo dell’io, semplicemente, intendo un romanzo che ha come argomento centrale il disvelamento dell’io profondo dell’autore. 7 G. LEOPARDI, Operette morali, Milano, Garzanti 1984. Introduzione, note e commenti di Paolo Ruffilli. Questa edizione ha conosciuto un vasto successo di pubblico; nel 2011 Garzanti ha licenziato la diciassettesima ristampa. 8 Ivi, pp. XXI-XXII. 9 G. LEOPARDI, Zibaldone, edizione commentata e revisione del testo critico a c. di R. Damiani, Milano, Mondadori 1997, p. 1004 L’ONOMASTICA IN PREPARATIVI PRIMA DELLA PARTENZA 201 quest’ultimo non ha nome. Perciò, ancor prima di analizzare i nomi, vanno presi in considerazione coloro che nomi non hanno. Nel racconto Il centro e la periferia si narra la storia di un uomo dell’alta borghesia che ha deciso di condurre una vita anonima (infatti non ha nome) in un appartamento della Bovisa, una zona della periferia di Milano, rinunciando ad appartenere alla sua classe sociale e perdendo volutamente i privilegi del suo status: Ero incredulo alla vista. Avrei capito, se il padrone di casa avesse dilapidato il patrimonio al gioco o se si fosse rovinato per amore. Ma non riuscivo a capacitarmi che, dietro a una scelta in piena libertà, avesse abbandonato la trafila di sale e saloni in Borgonuovo per l’angusto alloggio della Bovisa. Tuttavia capita di restare folgorati per la via di Damasco, come Paolo di Tarso.10 Quindi Paolo (l’unico nome che ricorre sia nel prologo sia nei racconti), qui Paolo di Tarso, è folgorato sulla via di Damasco così come Paolo Ruffilli è folgorato dalla possibilità di cambiare vita in modo radicale e percorrere le vie di molti alter ego, conquistate attraverso la forza dell’immaginazione. Una folgorazione che avviene sia quando i personaggi scelgono di abbandonarsi a un unico imperativo assoluto, sia quando l’autore viene a conoscenza dei loro casi umani e dei motivi che li hanno portato a scegliere di condurre quella vita piuttosto che un’altra. In altre parole, così come il personaggio s’innamorò di una vita che fece sua, allo stesso modo lo scrittore si innamora di quelle vite che non visse e di cui viene a conoscenza, rapito, attraverso il racconto dei diretti interessati. Questo vale peraltro per tutti i personaggi, con o senza nome che siano. Per comprendere questo rapporto fra assenza e presenza di nominazione, va ricordato che Ruffilli, proprio nell’anno in cui dava alle stampe i Preparativi, aveva curato un’edizione della Regola Celeste – Il libro del Tao del pensatore cinese del V secolo a.C. Lao-Tzu,11 da lui tradotta e corredata di un fitto apparato di note scritte di proprio pugno. Il breve libro si compone di ottantuno capitoletti ed è il testo cardine del pensiero taoista. Per i suoi contenuti criptici, esso viene considerato da molti studiosi come intraducibile. E tuttavia, paradossalmente, esso rappresenta il testo cinese più tradotto in Occidente. Il primo pensiero della Regola Celeste, Il libro del Tao, nella versione di Paolo Ruffilli, è il seguente: 10 RUFFILLI, Preparativi …, cit., p. 21. Lao-Tzu (in altre traslitterazioni Lao Tse, Laozi etc.) è uno dei più importanti esponenti della filosofia cinese; se secondo la tradizione cinese visse nel VI secolo a.C., molti storici attualmente ritengono sia dal collocare nel IV secolo a.C., mentre secondo altri si tratta ancora di una figura leggendaria, sintesi di diversi personaggi. A Lao-Tzu è attribuito il Tao Te Ching, testo sacro taoista, e per questo è ritenuto il fondatore del Taoismo. 11 202 GIACOMO GIUNTOLI La via che può essere detta via non è la vera via. Il nome che può essere chiamato per nome non è il vero nome eterno. Senza nome è il principio del cielo e della terra, con il nome è la madre delle cose. Ed è nell’alternarsi di Essere e Non-essere che appaiono dell’uno il gran prodigio e i limiti dell’altro. E, pur se nati insieme, hanno nomi diversi E in comune solo il mistero. Sono il mistero più fondo del mistero, la porta di ogni meraviglia.12 Così, se la via che può essere detta via non è la vera via, nemmeno la via dei molti alter ego che Ruffilli impersona può essere detta vera. E qui non si può far altro che citare nuovamente e alla lettera la regola del Tao: «Il nome che può essere chiamato per nome non è il vero nome eterno. Senza nome è il principio del cielo e della terra, con il nome è la madre delle cose». Così, a parte il nome Paolo, tutti i personaggi con nome, Johann Marie, Leda e la Dama di Vermeer, avranno in sé, almeno in parte, o totalmente, caratteri femminili, in linea con il pensiero taoista per il quale il nome è la madre delle cose. Ed è con l’alternarsi di Essere e Non-essere – in questo caso Nome e Assenza di nome – che Ruffilli ci racconta la varietà dinamica che ognuno possiede. Infatti l’assenza, nella Regola celeste del Tao, è strettamente connessa con la presenza, come dimostrano alcune parole di commento all’antico libro cinese tratte sempre dalla medesima edizione: Per capire l’intima connessione degli opposti, basta pensare alla diretta dipendenza l’uno dall’altro, nell’esperienza di tutti i giorni, del bello e del brutto, del bene e del male. Se ho il gusto del bello, inevitabilmente colgo il brutto di tutto ciò che non corrisponde ai miei canoni. Se ho il senso del bene, altrettanto inevitabilmente avverto quando sto compiendo il male. L’opzione binaria (sì-no, positivonegativo), operativa nell’uso comune, riposa su un fatto fondamentale: la coincidenza degli opposti, che la logica tenderebbe a escludere e che l’esperienza testimonia invece nella realtà. È il segreto stesso della realtà e solo l’uomo saggio, scoprendolo, riesce a metterlo in atto nella sua vita.13 12 13 LAO-TZU, La Regola Celeste – Il libro del tao, a c. di Paolo Ruffilli, Bologna, Rizzoli 2004, p. 29. Ivi, p. 31. L’ONOMASTICA IN PREPARATIVI PRIMA DELLA PARTENZA 203 È in questo alternarsi che si evoca «il mistero più fondo del mistero, la porta di ogni meraviglia»: così l’assenza di nomi è assolutamente “attiva”, confondendosi con la presenza di nomi. Nella prefazione alla Regola Celeste – Il libro del Tao sempre Ruffilli, riguardo al pensiero taoista: Il grande fascino che subito il Tao Te Ching esercitò […] risiedeva nella convinta scelta del cosiddetto «insegnamento senza parole»: la necessità di rendere estremamente dinamico il linguaggio per rispondere, sul piano gnoseologico, all’impronunciabilità non solo del vero ma della stessa realtà.14 Quindi la scelta di relegare molti personaggi dei Preparativi nell’anonimato è in linea con la necessità di rendere dinamico il linguaggio. Così potremmo parlare di un anonimato attivo che fa da controcanto ai pochi nomi che appaiono nel testo. Il primo di questi è Johann Marie, un ermafrodito protagonista del racconto Le due facce della luna: Andavo a visitare un autentico ermafrodito: un individuo che portava su di sé gli organi riproduttori di due sessi. Uno dei tre o quattro casi dei quali si avesse notizia certa in tutto il mondo […] mi domandavo che genere grammaticale si dovesse usare per un ermafrodito. A rigore, né il maschile né il femminile. Il neutro forse, potendone disporre. […] I generi si potevano invertire, ma annullare no. E mi domandavo cosa si provasse a essere l’una e l’altra cosa insieme, come si potesse esprimere grammaticalmente quella condizione mista.15 I nomi Johann e Marie, uno maschile e uno femminile, appartengono al personaggio che include in sé entrambi i sessi. Questi due nomi sembrano evocare due dimensioni antitetiche e allo stesso tempo complementari in cui i generi si incontrano senza che nessuno dei due abbia la meglio, in totale equilibrio.16 Non si deve dimenticare, infatti, che nel caso di Johann Marie ci troviamo di fronte a un nome composto. Anche se per questo particolare caso, più che un nome composto, Johann e Marie sono due nomi, uno maschile e uno femminile, costretti giocoforza a convivere così come i due sessi nel personaggio. Lo stesso testo ci porta in questa direzione quan14 Ivi, p. 23. RUFFILLI, Preparativi …, cit., p. 63. 16 L’etimo onomastico del nome Johann è l’ebraico Yohanan o Yehonnan, composto di Yoh/Yah, abbreviazioni di Yahweh (in ebr. ‘Dio’) e Hanan (in ebr. ‘misericordia’) con il significato di ‘Dio ha avuto misericordia’ (concedendo un figlio molto atteso). Per il nome Marie ci sono due proposte etimologiche differenti. La prima, e più accreditata, sostiene che il nome in questione sia di origine egizia, derivato da mrj(t) ‘amato, caro’, con il suffisso diminutivo ebraico -am. La seconda, invece, sottolinea come il nome potesse in origine connotare la sorella di Mosè, che si rivoltò contro l’autorità del fratello, da qui il collegamento con la radice maràh, ‘ribellarsi, essere ribelle’. A. ROSSEBASTIANO - ELENA PAPA, I nomi di persona in Italia: dizionario storico ed etimologico, Torino, UTET 2005, p. 31. 15 204 GIACOMO GIUNTOLI do racconta di come il padre di Johann Marie decise di chiamare così suo figlio: Non c’era terapia né chirurgica né di altro tipo in grado di modificare l’anomalia. Fu il padre il primo a capire che era inutile. […] Suo figlio, comunque andasse, non avrebbe avuto una vita normale. Se di figlio, al maschile, si poteva parlare. […] Aveva scelto un doppio nome, nel rispetto dei fatti: Johann Marie.17 Dopo un ermafrodito il secondo personaggio provvisto di nome è Leda, una donna che farà comprendere al protagonista dell’opera l’abisso che separa l’universo maschile da quello femminile. Leda è una psicoterapeuta fiorentina dalla vita amorosa sfrenata, che confida all’autore e protagonista dell’opera alcune opinioni sul rapporto uomo-donna. Fra queste vi è la seguente: «Le donne e gli uomini non sono fatti per vivere insieme.» Due mondi lontani e stranieri.18 Così il protagonista, il cui nome, Paolo, è reso esplicito solo nel prologo, dopo aver conosciuto nella fiction cosa significhi avere in sé ambo i sessi, fa sua l’esperienza di una donna spietata e cinica proprio attraverso la conoscenza di Leda. Se Johann Marie era coabitazione forzata delle due entità opposte, Leda ne è la scissione. Anche in questo caso il nome del personaggio è adeguato. Infatti, nonostante l’etimologia sia incerta, l’ipotesi più probabile è che il nome Leda sia addirittura di origine pregreca, forse spiegabile col licio lada ‘donna, sposa’.19 Leda, inoltre, era la figlia di Testio e la sposa di Tindareo, che fu sedotta da Giove tramutatosi in cigno e fu madre dei Dioscuri. Proprio a questo episodio mitologico si rifà il titolo di un’opera di Gabriele D’Annunzio, la Leda senza cigno (1916). La protagonista del libro del Vate non ha molto da spartire con l’analista dei Preparativi se non fosse per una curiosa ma significativa analogia. Figlia del proprietario di una famosa scuderia di cavalli da corsa, che in seguito il padre aveva perduto, la Leda dannunziana si era fidanzata per interesse con un orfano, prossimo ad ottenere un’imponente eredità, che gli era stato presentato dal pitone, un malvivente che il D’Annunzio definisce come un «procacciante in cerca di complici e vittime». Appena Leda ottiene dal fidanzato, come pegno nuziale, una polizza d’assicurazione per un milione e mezzo, lei e il pitone, di comune accordo uccidono l’ereditiere, dopo averlo 17 RUFFILLI, Preparativi …, cit., p. 65. Ivi, p. 74. 19 E. DE FELICE, Dizionario dei nomi italiani, Milano, Mondadori 1992, p. 225. 18 L’ONOMASTICA IN PREPARATIVI PRIMA DELLA PARTENZA 205 drogato, gettandolo in un dirupo con la sua auto. Nell’attesa che il processo per la morte sospetta si concluda con un nulla di fatto, Leda e il suo paraninfo continuano a vivere una vita sfarzosa e, ritrovandosi ancora una volta a dover sbarcare il lunario, cercano nuove vittime per mettere in atto la solita truffa. A questo punto del romanzo Leda inizia ad intrattenere una relazione amorosa con un personaggio di nome Paolo, «minorenne ch’ella aveva traviato»20. Però, tempestivamente, la famiglia di lui riesce con buoni esiti a ostacolare la relazione fra i due. Leda arriva addirittura, per Paolo, a tentare il suicidio «per immaginazione d’amore e per insofferenza della sua stupida vita». Ora, nei Preparativi si ritrova il duo Paolo-Leda, e anche stavolta la fredda analista provvede all’educazione di quest’ultimo – anche se questo avviene in un modo del tutto diverso da quello della vicenda dannunziana. Quanto all’analisi onomastica, è evidente la varietà dinamica che caratterizza i nomi presenti nel romanzo. Tuttavia Paolo, Johann Marie, Leda ed un ultimo quasi-nome, che stiamo per vedere, vanno considerati come nomi la cui verità è parziale, poiché nella realtà, così come recita il testo taoista, essi rappresentano solo la provvisorietà di un approssimazione al vero. Sempre nella prefazione al Libro del Tao, Ruffilli scrive: Questa scelta della parola in assenza, tipica della poesia (nel senso anche del contributo all’elaborazione dei modi della poesia che il Tao Te Ching realizza) presupponeva un lettore attivo e creativo, l’unico che si potesse concepire e auspicare come lettore nel senso appunto taoista. Un lettore per scelta, un lettore deciso a confrontarsi con le ragioni misteriose ma indilazionabili della vita e dell’essere.21 Il quarto e ultimo nome presente nei Preparativi è quello di Dama di Vermeer,22 che l’autore dà ad una sessuologa per la sua grazia ed alterigia. 20 G. D’ANNUNZIO, Leda senza cigno, in Prose di romanzi, a c. di Annamaria Andreoli, Mondadori, Milano, 1989, p. 925 21 LAO-TZU, La Regola Celeste …, cit., p. 29. Questo «lettore attivo e creativo» di stampo taoista non può altro che richiamare alla mente il lettore auspicato dal postmodernismo. Roland Barthes, uno dei massimi teorici del Postmoderno, ebbe a dire del Ruffilli poeta nel 1978: «Sappiamo da Blanchot che lo spazio della scrittura è spazio di morte. E Ruffilli può essere preso come caso singolo e singolare del modo in cui la lettera poetica si dimostra lettera della trafittura, dopo essere stata per un attimo più o meno prolungato lettera della luminosità. […] Non è frequente trovare effetti così inquietanti in un contesto apparentemente disteso e in aria di altrettanta leggerezza.» R. BARTHES, Cahier de poesie, E3, 1978, poi tradotto in La filigrana dell’essere, 1979, e inserito come editoriale in P. RUFFILLI, Camera Oscura, Milano, Garzanti,1992. Infatti anche la letteratura di Ruffilli è letteratura di morte che, però, a differenza del post-moderno originale, trova nella morte solo il contrario della vita. 22 Jan Vermeer (1632-1675) è, come è noto, uno dei massimi esponenti della pittura fiamminga del Seicento. I suoi quadri, in cui di sovente sono ritratte figure femminili, sono famosi per l’estrema vividezza e qualità dei colori. Fra i suoi numerosi capolavori è necessario citare almeno La ragazza con l’orecchino di perla, La lattaia, L’astronomo e La veduta di Delft. 206 GIACOMO GIUNTOLI La Dama di Vermeer aveva su di sé i segni dell’antica potenza navale […] Ero venuto a cercarla, per la fama indiscussa che ne faceva l’esperta più ascoltata sui temi della sessualità, dall’alto dei suoi settant’anni di vita e di studi, di ricerche che erano state le più audaci e non smettevano affatto di essere ancora avanzate.23 La sessuologa olandese continuerà la sua funzione esplicativa di “madre delle cose”, per dirla con il Tao, raccontando i segreti dell’essere donna ad un assorto Ruffilli e concludendo in tal modo il percorso che quest’ultimo aveva iniziato con Johann Marie e proseguito con Leda. Ma improvvisamente ecco che i turbamenti del protagonista si risolvono, e ciò avviene quando la Dama e lo scrittore stesso, da intruso, entrano nel quadro di Vermeer, divenendo ambedue parte dell’opera d’arte. Mi trovavo proprio dentro la pittura di Vermeer, in un quadro di solida vita borghese. Risaltava eloquente la figura di lei, assorta nel suo discorrere piano, tanto più regolare quanto più andava scavando nel fondo. Per ridare visibilità, in acque tranquille, ai sedimenti e alle parti rimosse: l’autentica vita di tutto il reale giaceva deposta, in silenzio, appena oltre il pelo della superficie agitata.24 Dama è un nome raro di significato trasparente e si può inserire tra i nomi augurali.25 Ed è una scelta onomastica senza dubbio curiosa. Infatti, solitamente, non è difficile imbattersi nel nome comune dama in letteratura, mentre al contrario il nome proprio Dama può essere considerato, a mio avviso, un unicum voluto dall’autore per portare a compimento la sua complessa strategia onomastica. Per quel che riguarda, invece, la menzione di Vermeer, essa sembrerebbe rimandare solo ed esclusivamente al nome del pittore olandese. In realtà, essa contiene anche un richiamo ad un famoso passo proustiano, il che fa sì che l’uso del cognome del grande pittore si carichi di ulteriori significati. Il passo in questione è la morte dello scrittore Bergotte nella Recherche du temps perdu. Tale accostamento tra quest’opera e quella di Ruffilli potrebbe sembrare avventato. Ma invece è proprio il nome Dama di Vermeer, oltre alla presenza nel romanzo del quadro La veduta di Delft, che ci consentono di effettuare il parallelo. Nella Recherche, la speculazione intorno alla creazione letteraria è uno dei motivi principali, un interrogarsi ricorrente che culmina nella scena finale, nell’ultimo ricevimento a casa dei Guermantes, là dove il narratore non può far altro che constatare come la caducità dell’uomo e dei suoi sentimenti siano opposti all’eternità e al valore dell’arte. Testimoni di questa ve23 RUFFILLI, Preparativi … , cit., p. 98. Ivi, p.100. 25 ROSSEBASTIANO - PAPA, I nomi di persona …, cit., p. 314. 24 L’ONOMASTICA IN PREPARATIVI PRIMA DELLA PARTENZA 207 rità sono i tre artisti che appaiono nella Recherche: lo scrittore Bergotte, il musicista Vinteuil e il pittore Elstir. Il primo di questi muore non a caso di fronte alla Veduta di Delft, una delle opere del pittore fiammingo noto in particolar modo per i suoi straordinari effetti di luce, tali da far credere allo spettatore che la realtà stessa sia stata accolta e racchiusa all’interno dell’opera. Così Proust descrive questo evento nella Prigioniera, la quinta parte della Recherche: Morì nelle seguenti circostanze: in seguito a una crisi, abbastanza leggera, di uremia, gli era stato prescritto il riposo. Ma poiché un critico aveva scritto che nella Veduta di Delft di Vermeer (prestata al museo dell’Aja per una mostra di pittura olandese), quadro ch’egli adorava e credeva di conoscere alla perfezione, un piccolo lembo di muro giallo (di cui non si ricordava) era dipinto così bene da far pensare, se lo si guardava isolatamente, a una preziosa opera d’arte cinese, d’una bellezza che poteva bastare a se stessa, Bergotte mangiò un po’ di patate, uscì di casa e andò alla mostra. Sin dai primi gradini che gli toccò di salire, fu colto da vertigini. […] Le vertigini aumentavano; lui non staccava lo sguardo, come un bambino da una farfalla gialla che vorrebbe catturare, dal prezioso piccolo lembo del muro. «È così che avrei dovuto scrivere, pensava. I miei ultimi libri sono troppo secchi, avrei dovuto stendere più tratti di colore.26 Nel passo proustiano accade che lo scrittore Bergotte perda la vita di fronte alla Veduta di Delft poiché l’opera gli era apparsa «ammucchiata su uno dei due piatti la sua propria vita, mentre l’altro conteneva il piccolo lembo di muro così ben dipinto in giallo. Sentiva d’aver dato, incautamente, la prima per il secondo». Invece in Ruffilli accade il contrario. L’autore di Preparativi per la partenza entra nell’opera di Vermeer per convivere con la Dama. Può darsi che fosse la luce radente a rendere netta e più dominante la sua figura. Ogni dettaglio risaltava con la chiarezza del tratto di Vermeer. Mi trovavo dentro un quadro fiammingo, lì sui canali alla foce di Amstel, luce di mare e di vento, nella penombra animata di un interno. E le tinte, sottolineate dalla luce che pioveva dai vetri della finestra, erano quelle del pittore di Delft: grigio chiaro, azzurro spento, giallo limone, rosso aranciato, rosa, verde bottiglia. Colori capaci di armonizzare in una mobilità sospesa nel tempo. […] E netti contorni manteneva ogni immagine, lì nella stanza: un composto, un amalgama non più separabile di tenero 26 M. PROUST, Alla ricerca del tempo perduto, Milano, Mondadori 1989, traduzione dal francese di Giovanni Raboni, vol. III, pp. 586-587. 208 GIACOMO GIUNTOLI e fermo. Ogni parola e ogni oggetto erano liberi ormai dalla loro pellicola esterna, come estratti dall’astuccio che normalmente li conteneva preservati e nascosti.27 Secondo Ruffilli l’autore, mediante l’atto scrittorio, e la parola che ne deriva, s’impossessa del reale e idealmente oltrepassa Bergotte andando a vivere proprio dentro all’inarrivabile immagine di bellezza che aveva causato la morte dello scrittore francese nato dalla penna di Proust. Diventare parte della Veduta di Delft è il punto massimo del viaggio che il protagonista compie, passando di personaggio in personaggio sino a disvelare il reale quale esso è ed a conoscere se stesso. La «lettera della trafittura» di Ruffilli, così come acutamente l’aveva definita Barthes, qui conosce il suo zenith. Ma questo stato di cose è momentaneo, destinato a non durare. Lo scrittore non può pacificamente convivere con la Dama di Vermeer. Ciò andrebbe in contrasto con il pensiero taoista. L’uomo che ha ottenuto la saggezza e ha conquistato il reale deve comunque adeguarsi al flusso naturale dell’esperienza umana sulla terra, il cui termine ultimo è la morte: oltrepassati i confini dell’io, è il momento di superare i confini della vita e andare incontro all’ineluttabile. Ecco quali sono i Preparativi cui si allude nel titolo di questo avvincente romanzo dell’io: Bisogna perdersi per potersi ritrovare. Non è un cancellarsi, ma un andare oltre … Si ricordi il discorso sul vuoto. In fondo, con i nostri preparativi per la partenza, ci alleniamo al viaggio più avventuroso che ci attende: ai confini di noi stessi. Tutta la mia curiosità, glielo confesso, è concentrata ormai su questa stretta gola. Scivolando di là, l’ipotesi più attendibile per l’esperienza che ho fatto da viaggiatore è che la strada continui.28 Un epilogo in cui la luce prevale sulla tenebra ed è in contrasto con il precedente leopardiano delle Operette. Infatti, se il Dialogo di Tristano e di un amico, il componimento conclusivo delle Operette morali, si chiudeva con un’esaltazione della morte, considerata da Leopardi come liberazione dal dolore fisico, invece il marinaio dell’ultimo racconto di Ruffilli trova nella morte la possibilità di iniziare «il viaggio più avventuroso che ci attende» e crede fermamente che la strada continui. Non è difficile riconoscere in questo marinaio certe caratteristiche che lo accomunano ad Ulisse. Infatti entrambi sono succubi di una sete di conoscenza che li costringe, eternamente, a partire. Il confronto potrebbe andare avanti, estendendosi addirittura ad altri marinai presenti nella tradizione letteraria occidentale. E 27 28 RUFFILLI, Preparativi …, cit., pp. 98 e 100. Ivi, p. 146. L’ONOMASTICA IN PREPARATIVI PRIMA DELLA PARTENZA 209 sono certo che sarebbe un’analisi suggestiva e pertinente. Ma questo basti. Ciò ci distoglierebbe troppo dall’analisi onomastica, che poi è il focus della nostra disquisizione. Infatti, l’atto conclusivo di questo romanzo dell’io è fitto di notazioni sui nomi così come lo era il prologo: La nostra società impedisce a chiunque di dileguarsi […] Ti concede libertà di manovra solo a patto che tu non ti renda anonimo. Devi avere per forza una residenza, per essere raggiunto in un qualsiasi momento da una delle tante incombenze burocratiche che ci sovrastano.29 Con queste parole il marinaio medita sulla costrizione che il nome esercita sull’uomo, fino quasi a diventare una gabbia. Una riflessione di per sé interessante, ma che risulta addirittura sorprendente se pensiamo che questo libro era iniziato con una digressione sull’analisi etimologica del nome del suo stesso autore, Paolo Ruffilli. Dopo l’intervento del marinaio, il racconto continua su tale falsariga, soffermandosi ancora sui nomi: Il fatto non era per nulla eccezionale nella cittadina di Tavistock, come in altri centri costieri lì intorno. Nello stesso edificio si contavano altri domicili fatti di nomi e cognomi, ma di rare presenze. Gente di mare, agenti di compagnie commerciali in navigazione, capitani di lungo corso, impegnati in chissà quali rotte lontane. Erano padroni e affittuari perennemente assenti, evocati solo dalle generalità anagrafiche sulle targhe dei campanelli delle porte. «Per alcuni di noi, partire è come rinascere.30 L’atteggiamento negativo nei confronti dell’avere un nome, manifestato dal marinaio, continua nelle vibranti parole dell’autore. Come è possibile – chiederanno alcuni – che Paolo Ruffilli, dopo avere dato nella prima parte dei Preparativi uno spazio così significativo ai nomi, adesso nel capitolo finale si scagli contro di essi con una dura filippica? La risposta è presto detta: l’assenza è il massimo della presenza. Perciò «i domicili fatti di nomi e cognomi, ma di rare presenze» sono testimoni del compimento della parabola insita nell’opera ruffilliana. I nomi e i cognomi rimangono affissi sulle porte, ma la presenza si è dileguata. L’atto della partenza ha cancellato la presenza e il marinaio può lasciarsi alle spalle il vecchio nome per iniziare una nuova vita. Infatti «partire è come rinascere». Così il marinaio e l’autore possono imbarcarsi per un viaggio che va al di là della dimensione 29 30 Ivi, p. 139. Ivi, p. 139-140. 210 GIACOMO GIUNTOLI meramente marittima. Siamo di fronte a un itinerario di dimensioni cosmiche: L’antico marinaio era salito a bordo della nave spaziale. Le mappe e i portolani si erano dilatati e infittiti di nomi a più grandi distanze. Ma le spedizioni erano messe in moto ancora e sempre dal desiderio di conoscenza: vederci un po’ più chiaro, in quel mutare continuo che si dispiegava senza posa ovunque, dentro e intorno a sé.31 Se la fine del brano allude nuovamente alla varietà dinamica derivata dal pensiero taoista tanto cara all’autore, il suo inizio chiarisce finalmente il complesso disegno onomastico tratteggiato nei Preparativi. Tutto comincia da un nome in questo romanzo dell’io. Ma, per entrare più a fondo «nel mutare continuo che si dispiega senza posa ovunque», bisogna abbandonare anche quello, gabbia che impedisce la partenza. La tensione che spinge a viaggiare è dettata dal desiderio di conoscenza: nuovi nomi su mappe e portolani sono destinati a soppiantare quelli lasciati sulla terra ferma. Così, attraverso la perdita del nome si arriva alla conquista del sé o almeno si riesce a vedere dentro di esso in modo più chiaro. La «lettera della trafittura» di Ruffilli, dopo aver toccato lo zenith con la presenza del nome, conosce il suo nadir attraverso l’esperienza dell’assenza del nome. Non è detto tuttavia che dentro al punto più oscuro della tenebra non si possa conoscere il massimo della luce. Così il Tao insegna. Dopo sei anni di silenzio narrativo nel 2010 è uscita una nuova raccolta di racconti, Un’altra vita, libro in cui, fedele alla massima enunciata nei Preparativi, per la quale «è nell’assenza il più alto grado di presenza», non vi sono nomi propri, così come lo stesso autore commenta in una recente intervista: Volutamente senza nomi, perché sono tutte facce di noi stessi, altrettanti alter ego, possibilità e occasioni per essere uno dei tanti sé che popolano una personalità e una vita. A che scopo chiamarli Paolo e Francesca, Dante e Beatrice … Ognuno si riconoscerà più facilmente dentro la “figura” (in senso teatrale) e ci si infilerà dentro per agirla avendola fatta propria.32 31 Ivi, p. 145. P. GAROFANO, Intervista a Paolo Ruffilli, in Un’altra vita, Roma, Fazi 2010, consultabile integralmente on-line all’indirizzo web http://www.lankelot.eu/letteratura/ruffilli-paolo-unaltra-vitaintervista-paolo-ruffilli.html 32 L’ONOMASTICA IN PREPARATIVI PRIMA DELLA PARTENZA 211 Così Paolo Ruffilli in Un’altra vita dà al lettore esattamente la stessa opportunità che si era creata con il grande affresco ego-centrico (nel vero senso della parola) dei Preparativi. In questo caso il percorso è rappresentato da venti racconti che ci rendono partecipi di altrettante storie d’amore nelle quali il processo di immedesimazione è favorito dalla mancanza di nomi per i personaggi. C’è, tuttavia, alla fine di ogni racconto il nome di uno scrittore che Ruffilli segnala al lettore come dedicatario, nonché come elemento d’ispirazione per il racconto stesso. Gli scrittori omaggiati dall’autore sono prelevati liberamente da varie tradizioni letterarie e sono, in ordine di apparizione, James Joyce, Anton Cechov, Marcel Proust, Ernest Hemingway, Emily Dickinson, Elsa Morante, Katherine Mansfield, Anaïs Nin, Hermann Hesse, Cesare Pavese, Franz Kafka, Robert Musil, Luigi Pirandello, Henry James, Raymond Carver, Guy de Maupassant, John Cheever, Dorothy Parker, Virginia Woolf e infine Anna Maria Ortese. Ciò chiaramente crea una dialettica fra il nome del dedicatario e la materia del racconto. Al lettore il compito di comprendere e decriptare le eventuali allusioni o gli omaggi che attraverso il racconto rimandano a questi grandi protagonisti del mondo della letteratura. E dunque anche questa volta il nome gioca un ruolo importante nell’economia dell’opera, anche se in un modo del tutto diverso da quello dei Preparativi. Questa insolita strategia onomastica sembra essere un dono che lo scrittore offre al lettore, adesso in grado di immedesimarsi con qualsiasi personaggio desideri. Una scelta curiosa per un autore che nella sua prima opera di narrativa si era avvicinato all’onomastica in modo del tutto diverso. Ma, a ben vedere, nonostante i nomi appaiano fra parentesi, in fondo ad ogni racconto, quasi in disparte, pur tuttavia essi ricoprono un ruolo fondamentale nell’economia dell’opera, diventando il trait d’union con cui il lettore può collegare il racconto alla materia dell’ispirazione. Un’operazione certo non sempre priva di intoppi, che richiede la collaborazione di un lettore onnivoro e smaliziato. Anche in Un’altra vita siamo dunque di fronte ad un autore che si serve dei nomi in modo originale, confidando nella loro forza evocativa.