Ascolta la mia ombra

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Ascolta la mia ombra
SOVRACCOPERTA
“Ciò di cui ha più bisogno
l’amore è la fantasia.
Ciascuno deve inventare l’altro
con tutta la sua fantasia,
con tutte le sue forze,
senza cedere un millimetro
di terreno alla realtà; e quando
la fantasia di due persone
s’incontra... non esiste nulla
di più bello al mondo.”
MARC LEVY
Ascolta la mia ombra
Marc Levy è l’autore francese contemporaneo più letto al mondo: i suoi romanzi, tradotti in quarantuno lingue,
hanno venduto complessivamente più
di venti milioni di copie. Tra i suoi grandi successi ricordiamo Se solo fosse vero
(2006), I figli della libertà (2008), Quello che non ci siamo detti (2009), Il primo
giorno (2010) e La prima stella della notte (2010). Marc Levy vive a New York.
Il suo sito internet è www.marclevy.info
MARC LEVY
Ascolta
la mia ombra
romanzo
RoMAin GARY
812834
In copertina:
© Christine Rodin/Trevillion Images
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E se esistesse qualcuno capace di catturare la nostra anima, svelandone ogni
segreto, ogni ferita?
Quando capisce di possedere questo formidabile dono, lui è ancora un bambino, timido e isolato dagli altri. Sono le
ombre la sua sola compagnia: la parte
nascosta e più fragile di ciascuno di noi,
ma anche la più trasparente, la più pura.
Le ombre lo seguono, lo circondano,
sempre pronte a sussurrargli all’orecchio
frammenti di ricordi e di verità perdute.
E, attraverso di loro, lui impara a riconoscere la sua vocazione: aiutare le persone
in carne e ossa, curandole dai loro malanni e insieme restituendo loro desideri e risposte che credevano smarriti per
sempre. Fino a quando, ormai medico
affermato, dopo anni trascorsi a cercare
di guarire le vite altrui, non decide di
prendere in mano la propria. Mettendosi sulle tracce dell’unica donna che per
lui abbia contato davvero.
Con Ascolta la mia ombra Marc Levy
torna alle atmosfere magiche di Se solo
fosse vero per celebrare la forza del primo
amore. E regalarci il suo romanzo più
emozionante, palpitante di umanità e
soffuso di una luminosa, irresistibile tenerezza.
SOVRACCOPERTA
“Ciò di cui ha più bisogno
l’amore è la fantasia.
Ciascuno deve inventare l’altro
con tutta la sua fantasia,
con tutte le sue forze,
senza cedere un millimetro
di terreno alla realtà; e quando
la fantasia di due persone
s’incontra... non esiste nulla
di più bello al mondo.”
MARC LEVY
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Marc Levy è l’autore francese contemporaneo più letto al mondo: i suoi romanzi, tradotti in quarantuno lingue,
hanno venduto complessivamente più
di venti milioni di copie. Tra i suoi grandi successi ricordiamo Se solo fosse vero
(2006), I figli della libertà (2008), Quello che non ci siamo detti (2009), Il primo
giorno (2010) e La prima stella della notte (2010). Marc Levy vive a New York.
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E se esistesse qualcuno capace di catturare la nostra anima, svelandone ogni
segreto, ogni ferita?
Quando capisce di possedere questo formidabile dono, lui è ancora un bambino, timido e isolato dagli altri. Sono le
ombre la sua sola compagnia: la parte
nascosta e più fragile di ciascuno di noi,
ma anche la più trasparente, la più pura.
Le ombre lo seguono, lo circondano,
sempre pronte a sussurrargli all’orecchio
frammenti di ricordi e di verità perdute.
E, attraverso di loro, lui impara a riconoscere la sua vocazione: aiutare le persone
in carne e ossa, curandole dai loro malanni e insieme restituendo loro desideri e risposte che credevano smarriti per
sempre. Fino a quando, ormai medico
affermato, dopo anni trascorsi a cercare
di guarire le vite altrui, non decide di
prendere in mano la propria. Mettendosi sulle tracce dell’unica donna che per
lui abbia contato davvero.
Con Ascolta la mia ombra Marc Levy
torna alle atmosfere magiche di Se solo
fosse vero per celebrare la forza del primo
amore. E regalarci il suo romanzo più
emozionante, palpitante di umanità e
soffuso di una luminosa, irresistibile tenerezza.
SOVRACCOPERTA
“Ciò di cui ha più bisogno
l’amore è la fantasia.
Ciascuno deve inventare l’altro
con tutta la sua fantasia,
con tutte le sue forze,
senza cedere un millimetro
di terreno alla realtà; e quando
la fantasia di due persone
s’incontra... non esiste nulla
di più bello al mondo.”
MARC LEVY
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Marc Levy è l’autore francese contemporaneo più letto al mondo: i suoi romanzi, tradotti in quarantuno lingue,
hanno venduto complessivamente più
di venti milioni di copie. Tra i suoi grandi successi ricordiamo Se solo fosse vero
(2006), I figli della libertà (2008), Quello che non ci siamo detti (2009), Il primo
giorno (2010) e La prima stella della notte (2010). Marc Levy vive a New York.
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E se esistesse qualcuno capace di catturare la nostra anima, svelandone ogni
segreto, ogni ferita?
Quando capisce di possedere questo formidabile dono, lui è ancora un bambino, timido e isolato dagli altri. Sono le
ombre la sua sola compagnia: la parte
nascosta e più fragile di ciascuno di noi,
ma anche la più trasparente, la più pura.
Le ombre lo seguono, lo circondano,
sempre pronte a sussurrargli all’orecchio
frammenti di ricordi e di verità perdute.
E, attraverso di loro, lui impara a riconoscere la sua vocazione: aiutare le persone
in carne e ossa, curandole dai loro malanni e insieme restituendo loro desideri e risposte che credevano smarriti per
sempre. Fino a quando, ormai medico
affermato, dopo anni trascorsi a cercare
di guarire le vite altrui, non decide di
prendere in mano la propria. Mettendosi sulle tracce dell’unica donna che per
lui abbia contato davvero.
Con Ascolta la mia ombra Marc Levy
torna alle atmosfere magiche di Se solo
fosse vero per celebrare la forza del primo
amore. E regalarci il suo romanzo più
emozionante, palpitante di umanità e
soffuso di una luminosa, irresistibile tenerezza.
SOVRACCOPERTA
“Ciò di cui ha più bisogno
l’amore è la fantasia.
Ciascuno deve inventare l’altro
con tutta la sua fantasia,
con tutte le sue forze,
senza cedere un millimetro
di terreno alla realtà; e quando
la fantasia di due persone
s’incontra... non esiste nulla
di più bello al mondo.”
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Marc Levy è l’autore francese contemporaneo più letto al mondo: i suoi romanzi, tradotti in quarantuno lingue,
hanno venduto complessivamente più
di venti milioni di copie. Tra i suoi grandi successi ricordiamo Se solo fosse vero
(2006), I figli della libertà (2008), Quello che non ci siamo detti (2009), Il primo
giorno (2010) e La prima stella della notte (2010). Marc Levy vive a New York.
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segreto, ogni ferita?
Quando capisce di possedere questo formidabile dono, lui è ancora un bambino, timido e isolato dagli altri. Sono le
ombre la sua sola compagnia: la parte
nascosta e più fragile di ciascuno di noi,
ma anche la più trasparente, la più pura.
Le ombre lo seguono, lo circondano,
sempre pronte a sussurrargli all’orecchio
frammenti di ricordi e di verità perdute.
E, attraverso di loro, lui impara a riconoscere la sua vocazione: aiutare le persone
in carne e ossa, curandole dai loro malanni e insieme restituendo loro desideri e risposte che credevano smarriti per
sempre. Fino a quando, ormai medico
affermato, dopo anni trascorsi a cercare
di guarire le vite altrui, non decide di
prendere in mano la propria. Mettendosi sulle tracce dell’unica donna che per
lui abbia contato davvero.
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amore. E regalarci il suo romanzo più
emozionante, palpitante di umanità e
soffuso di una luminosa, irresistibile tenerezza.
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A Marquès bastò un solo giorno per prendermi in antipatia. Un solo giorno perché commettessi l’irreparabile.
La nostra insegnante d’inglese, la signora Schaeffer, ci
aveva spiegato il Simple Past. Il Simple Past indicava, in
linea generale, un passato finito senza alcun rapporto con
il momento in cui si parla e che si può collocare perfettamente nel tempo. Più chiaro di così!
Terminata la spiegazione, la signora Schaeffer puntò
il dito verso di me, chiedendo d’illustrare il concetto con
un esempio a mia scelta. Quando dissi che sarebbe stato
bello se l’anno scolastico fosse stato al Simple Past, Élisabeth scoppiò a ridere. Soltanto noi due avevamo trovato
la battuta divertente, quindi evidentemente il resto della
classe non aveva capito il significato del Simple Past inglese. Avevo guadagnato punti con Élisabeth e Marquès
non ne fu affatto contento. Ormai il mio destino era segnato per il resto del trimestre. A partire da quel lunedì,
primo giorno di scuola e prima lezione d’inglese, avrei
vissuto un autentico inferno.
La signora Schaeffer mi affibbiò immediatamente una
punizione da scontare il sabato mattina successivo. Tre
ore a raccogliere le foglie in cortile. Odio l’autunno!
Martedì e mercoledì Marquès mi rifilò una serie di sgambetti. Nella gara per stabilire chi fra noi due riuscisse a far
ridere di più i compagni, ogni volta che io finivo lungo disteso per terra, lui guadagnava punti. A un certo momento fu persino un po’ in vantaggio, ma Élisabeth non lo trovava divertente e la sua sete di vendetta crebbe ancora.
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Giovedì Marquès passò a qualcosa di più pesante: trascorsi l’ora di matematica chiuso nel mio armadietto, dove
mi aveva costretto a entrare bloccando poi la porta. Fornii la combinazione del lucchetto al custode che aveva
sentito i miei colpi mentre puliva gli spogliatoi. Per non
attirare su di me ulteriori guai passando per uno spione,
giurai di essermi stupidamente chiuso dentro da solo mentre cercavo di nascondermi. Il custode, perplesso, mi chiese come avessi fatto a chiudere il lucchetto dall’interno.
Io feci finta di non aver sentito e me la diedi a gambe.
Non avevo risposto all’appello. La punizione del sabato
fu prolungata di un’ora dal professore di matematica.
Venerdì fu il giorno peggiore della settimana. Marquès
sperimentò su di me i principi elementari della legge della
gravitazione di Newton appresa durante la lezione di fisica delle undici.
La legge dell’attrazione universale, scoperta da Isaac
Newton, dice grosso modo che due corpi si attirano con
una forza proporzionale alla rispettiva massa e inversamente proporzionale al quadrato della distanza che li separa. Questa forza segue la retta passante per il centro di
gravità dei due corpi.
Sui manuali si legge questa definizione. Nella realtà, le
cose vanno diversamente. Prendiamo un alunno che ruba
un pomodoro in mensa, senza alcuna intenzione di mangiarlo; aspettiamo che la sua vittima venga a trovarsi a una
distanza ragionevole, che l’alunno lanci il suddetto pomodoro con tutta la forza del suo avambraccio e vedremo
come, nel caso di Marquès, la legge di Newton abbia agito
in maniera diversa dal previsto. Infatti la direzione presa
dal pomodoro non seguì affatto la retta passante per il
centro di gravità del mio corpo. Il pomodoro atterrò direttamente sui miei occhiali.
Nel coro di risate che invase il refettorio riconobbi quella di Élisabeth, schietta e aggraziata, e fu quello a ferirmi
più di tutto il resto.
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Quel venerdì sera, mentre mia madre ripeteva con il tono
di chi ha sempre ragione: «Hai visto? È andato tutto bene»,
appoggiai il libretto delle note disciplinari sul tavolo di
cucina, dissi di non aver fame e andai a dormire.
***
Il fatidico sabato mattina, mentre i miei compagni facevano colazione davanti alla tivù, io mi presentai a scuola.
Il cortile era deserto; il custode piegò il mio libretto
debitamente firmato e lo infilò nella tasca del suo camice grigio. Mi diede un forcone, mi disse di stare attento a non farmi male e poi indicò un mucchio di foglie e una carriola ai piedi del canestro da basket, la cui
rete mi sembrava l’occhio di Caino, o meglio quello di
Marquès.
Ero alle prese con il mio compito da una mezz’ora
buona, quando il custode decise finalmente di venirmi in
aiuto.
«Ma io ti conosco! Eri quello chiuso nell’armadietto,
vero? Farsi mettere in punizione il primo sabato di scuola è assurdo quasi quanto la storia del lucchetto bloccato
dall’interno» disse togliendomi il forcone dalle mani.
Lo conficcò con un gesto sicuro nella montagnola di
foglie e ne sollevò più di quante io fossi riuscito a raccoglierne da quando mi ero messo all’opera.
«Cos’hai fatto per meritarti una punizione del genere?» chiese riempiendo la carriola.
«Un errore di coniugazione» mormorai.
«Be’, non posso rimproverarti, la grammatica non è
mai stata il mio forte. A quanto pare, te la cavi altrettanto male con le pulizie. Mi dici cosa sai fare bene?»
La domanda suscitò in me profonde riflessioni. Per
quanto esaminassi il problema da varie angolazioni, non
riuscivo a trovare in me il benché minimo talento. All’improvviso capii perché i miei genitori dessero tanta impor17
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tanza a quei sei mesi di anticipo: non c’era nient’altro in
grado di renderli fieri del loro figlio.
«Avrai pure degli interessi, qualcosa che ti piacerebbe
fare, un sogno da realizzare?» aggiunse raccogliendo un
secondo mucchio di foglie.
«Sconfiggere la notte» risposi balbettando.
La risata di Yves (così si chiamava il custode) risuonò
talmente forte che due passeri volarono via dal ramo veloci come un fulmine. Quanto a me, mi incamminai a
testa bassa, con le mani in tasca, verso la parte opposta
del cortile. Yves mi raggiunse e mi fermò.
«Non volevo prenderti in giro! Però la tua risposta è
un po’ strana, tutto qui.»
L’ombra del canestro si allungava nel cortile. Il sole
era ancora distante dallo zenit e la mia punizione ben lontana dall’essere terminata.
«Perché mai vuoi sconfiggere la notte? È davvero un’idea bizzarra!»
«Quando aveva la mia età, anche a lei faceva paura.
Chiedeva sempre di chiudere le persiane della sua camera perché la notte non potesse entrare.»
Yves mi fissò stupefatto. I suoi lineamenti erano cambiati, l’espressione bonaria era scomparsa.
«Primo, non è vero, e secondo, come fai a saperlo?»
«Se non è vero, qual è il problema?» ribattei ricominciando a camminare.
«Il cortile non è grande, non andrai lontano» disse
Yves raggiungendomi «e non hai risposto alla mia domanda.»
«Lo so e basta.»
«D’accordo, è vero. Avevo molta paura del buio, ma
non l’ho mai raccontato a nessuno. Se mi dici come lo
hai scoperto e se mi giuri di mantenere il segreto, ti lascerò andar via alle undici invece che a mezzogiorno.»
«Affare fatto!» accettai porgendogli la mano.
Yves la strinse e mi fissò. Non avevo la più pallida idea
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di come avessi fatto a sapere che il custode, da bambino,
aveva il terrore del buio. Forse avevo semplicemente trasferito su di lui la mia paura. Perché gli adulti devono per
forza trovare una spiegazione a tutto?
«Vieni, andiamo a sederci» propose Yves indicando la
panchina vicino al canestro.
«No, mettiamoci lì» replicai accennando a quella sul
lato opposto.
«Va bene.»
Mentre eravamo uno di fianco all’altro in mezzo al cortile, lo avevo visto nei panni di un bambino poco più grande di me, ma come facevo a spiegarglielo? Non so perché
si fosse prodotto questo fenomeno, so solo che la carta
da parati della sua stanza era ingiallita, il parquet della
casa in cui viveva scricchiolava, e anche questo contribuiva ad angosciarlo nel cuore della notte.
«Non lo so» risposi, un po’ spaventato. «Me lo sono
immaginato, credo.»
Restammo seduti su quella panchina per un lungo momento, entrambi in silenzio. Poi Yves ha sospirato, mi ha
dato un buffetto sul ginocchio e si è alzato.
«Su, fila! Abbiamo fatto un patto e sono le undici. Tieni
per te questo segreto: non voglio che i ragazzi mi prendano in giro.»
Salutai il custode e tornai a casa in anticipo sull’orario previsto, chiedendomi come sarei stato accolto da
papà. La sera prima era rientrato tardi da un viaggio e
ormai la mamma doveva avergli spiegato perché non ero
a casa. Quale altro castigo mi sarei beccato per essere
stato punito il primo sabato di scuola? Mentre camminavo assorto in questi pensieri, uno strano fenomeno attirò
la mia attenzione. Il sole era alto nel cielo e la mia ombra
sembrava troppo lunga, molto più grande del solito. Mi
fermai un istante per guardarla più da vicino: le sue forme
non corrispondevano alle mie, quell’ombra allungata sul
marciapiedi non sembrava affatto la mia, ma quella di
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qualcun altro. La osservai con attenzione e, di nuovo,
ebbi la visione di uno scorcio dell’infanzia di un’altra
persona.
Un uomo mi trascinava in fondo a un giardino sconosciuto, si toglieva la cinghia dei pantaloni e me le suonava di santa ragione.
Per quanto furioso, mio padre non avrebbe mai alzato le mani su di me. Mi è parso allora d’intuire da quale
memoria riemergessero quei ricordi. Ma era un’ipotesi
del tutto improbabile, per non dire impossibile. Ho accelerato il passo, tremando come una foglia, ben deciso a
rientrare al più presto.
Papà mi aspettava in cucina; non appena sentì appoggiare la cartella in salotto, mi chiamò con voce grave.
Già altre volte, a causa di un brutto voto, della camera
in disordine, dei giocattoli smontati, delle incursioni notturne nel frigo, delle letture a tarda ora con la lampadina tascabile e della radiolina della mamma sotto il cuscino, per non parlare del giorno in cui mi ero riempito le
tasche nel reparto dolciumi del supermercato mentre la
mamma non mi prestava attenzione (a differenza del vigilante), ero riuscito a scatenare alcune memorabili sfuriate paterne. Ma conoscevo qualche trucco, fra cui un irresistibile sorriso contrito, in grado di placare le peggiori
tempeste.
Questa volta però non dovetti ricorrere a nulla del genere: papà non aveva l’aria arrabbiata, solo triste. Mi chiese di sedere di fronte a lui al tavolo della cucina e mi prese
le mani fra le sue. La nostra conversazione durò dieci minuti, non di più. Mi spiegò una serie di cose sulla vita, che
avrei capito una volta giunto alla sua età. Ne afferrai soltanto una: stava per andarsene. Avremmo continuato a vederci ogni volta che fosse stato possibile, ma non fu in grado
di dirmi cosa intendeva esattamente con «possibile».
Papà si alzò e mi chiese di andare a consolare la mamma
nella sua stanza. Prima di questa conversazione avrebbe
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detto «la nostra stanza», ma da quel momento in poi sarebbe stata esclusivamente della mamma.
Obbedii all’istante e salii al piano di sopra. Arrivato all’ultimo gradino, mi voltai: papà aveva una piccola valigia in mano. Mi fece un cenno di saluto e la porta di casa
si chiuse alle sue spalle.
Avrei rivisto mio padre solo da adulto.
***
Ho trascorso il weekend con la mamma, fingendo di non
sentire il suo dolore. Lei non diceva nulla, di tanto in
tanto sospirava e i suoi occhi si riempivano di lacrime. A
quel punto si voltava perché non la vedessi.
A metà pomeriggio siamo andati al supermercato. Da
un po’ di tempo, quando la mamma era giù di morale andavamo a fare la spesa. Non ho mai capito in che modo
una confezione di cereali, delle verdure o un paio di collant nuovi possano risollevare l’umore. La guardavo passare da uno scaffale all’altro, chiedendomi se si accorgesse di me. Con il carrello pieno e il portafogli vuoto, siamo
tornati a casa. La mamma ci ha impiegato una vita a mettere via tutto.
Quel giorno ha preparato un dolce, una torta di mele
guarnita di sciroppo d’acero. Ha apparecchiato per due
sul tavolo della cucina, ha portato la sedia di papà in cantina, poi è risalita e si è seduta di fronte a me. Ha aperto
il cassetto vicino ai fornelli, ha preso il pacchetto di candeline usate il giorno del mio compleanno, ne ha messa
una in mezzo alla torta e l’ha accesa.
«È la nostra prima cena da innamorati» mi ha detto
sorridendo. «Dovremo ricordarcela sempre, tu e io.»
A pensarci bene, la mia infanzia era piena di prime volte.
Quella torta di mele allo sciroppo d’acero è stata la nostra cena. Lei mi ha preso la mano e l’ha stretta forte fra
le sue.
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«Hai voglia di raccontarmi cosa non va a scuola?» ha
chiesto.
***
Il dolore della mamma mi aveva talmente occupato la
mente da far passare in secondo piano le disavventure del
sabato. Ci ripensai mentre andavo a scuola, sperando che
Marquès avesse trascorso un weekend migliore del mio.
Magari, con un po’ di fortuna, non avrebbe più avuto bisogno di qualcuno da perseguitare.
La fila della classe 6C si era già formata e a minuti sarebbe iniziato l’appello. Élisabeth era proprio davanti a
me: indossava un golfino blu scuro e una gonna scozzese
che le arrivava alle ginocchia. Marquès si voltò e mi lanciò un’occhiataccia. Gli allievi entrarono in fila indiana
nell’edificio.
Durante la lezione di storia, mentre la signora Henry
ci raccontava le circostanze nelle quali Tutankhamon
aveva perso la vita (come se fosse stata al suo fianco al momento della morte!), pensavo con una certa inquietudine alla ricreazione.
La campanella suonò alle dieci e mezzo: l’idea di ritrovarmi in cortile con Marquès non mi attirava molto,
ma non avevo scelta. Dovevo seguire i miei compagni.
Ero seduto solo soletto sulla panchina su cui avevo parlato con il custode il giorno della punizione, prima di rientrare in casa e scoprire che papà stava per andarsene,
quando Marquès venne a sedersi accanto a me.
«Ti tengo d’occhio» disse afferrandomi la spalla. «Non
osare candidarti alle elezioni come rappresentante di classe. Io sono più grande, quel posto spetta a me. Se non
vuoi grane, ascolta il mio consiglio: restatene in disparte.
Ah, e non avvicinarti a Élisabeth... lo dico per il tuo bene.
Sei troppo giovane, non hai nessuna possibilità. Inutile
sperare, staresti male per niente, piccolo idiota.»
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Quel mattino, nel cortile della ricreazione, c’era un
tempo bellissimo. Me lo ricordo perfettamente, e per un
motivo ben preciso. Le nostre due ombre si adagiavano
sull’asfalto una accanto all’altra. Quella di Marquès era
più lunga della mia di almeno un metro; questione di proporzioni, ovvio. Mi sono spostato furtivamente in modo
che la mia ombra prendesse il sopravvento. Marquès non
se ne accorse nemmeno, ma a me quel giochetto divertiva. Per una volta ero io il più forte, tanto sognare non costa
niente. Marquès, mentre continuava a massacrarmi la spalla, vide Élisabeth passare vicino al castagno a pochi metri
da noi. Si alzò e mi ordinò di non muovermi, lasciandomi
finalmente in pace.
Yves uscì dalla rimessa in cui riponeva il suo materiale. Venne verso di me e mi guardò con un’espressione
così seria che mi chiesi cos’avessi combinato, questa volta.
«Mi dispiace per tuo padre» disse. «Con il tempo, forse
le cose andranno a posto.»
Come faceva a saperlo già? In fondo la fuga di papà
non era sulla prima pagina del giornale.
Purtroppo però nelle cittadine di provincia tutti sanno
tutto di tutti e ci sono persone avide delle disgrazie altrui,
a cui non sfugge nessun pettegolezzo. Non appena ho
considerato la situazione sotto questo aspetto, la realtà
della fuga di papà mi è ripiombata addosso per la seconda volta, simile a un macigno. Di sicuro già da quella sera
se ne sarebbe parlato nelle case di tutti i miei compagni
di classe. Alcuni avrebbero attribuito la responsabilità a
mia madre, altri avrebbero dato la colpa a papà. In ogni
caso, io sarei stato il figlio che non aveva saputo rendere
il padre abbastanza felice da impedirgli di andarsene.
L’anno iniziava decisamente male.
«Andavi d’accordo con lui?» mi chiese Yves.
Risposi di sì con un cenno del capo, tenendo lo sguardo fisso sulla punta delle scarpe.
«La vita è ingiusta... Mio padre era un bastardo, non
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