La sottile linea del destino - capitolo 2

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La sottile linea del destino - capitolo 2
Capitolo 2
Braunau am Inn, 20 aprile 1889: ore 18:05
La cittadina austriaca sembrava una cartolina in bianco e nero
tratteggiata sulla linea dell'orizzonte. Le strade erano illuminate
solo da un tappeto di stelle disteso sotto un cielo terso. Un vento
primaverile spirava da est e trasportava dolcemente le foglie cadute
dagli alberi che come diligenti sentinelle si stagliavano verso l'alto.
Una coppia, fasciata in soprabiti neri, si muoveva velocemente lungo
un marciapiede reso insicuro dalla mancanza di alcune lastre. Il rumore dei tacchi della donna, simile al ticchettio cadenzato di una
sveglia, spezzava un silenzio assordante. Tutto sembrava avvolto
nella tranquillità quando d'un tratto l'aria sembrò prima comprimersi e poi essere trapassata da una serie improvvisa di saette. I
bagliori carichi d'elettricità parvero indugiare in un punto preciso
della strada. L'uomo, incuriosito, si soffermò un istante a osservare
quello strano fenomeno atmosferico. L'iniziale stupore si trasformò
in preoccupazione quando davanti ai suoi occhi migliaia di piccole
luci, simili a brillanti fiocchi di neve dalle scie luminose, si mossero
come schegge impazzite all'interno di uno squarcio creatosi nell'aria. Impaurito, strattonò la donna abbandonando la strada.
Quando il buio riprese possesso della scena, una figura tonica, rivestita di una tuta nera e aderente, si manifestò come un fantasma
nella notte. L’uomo controllò lo stato della tuta rallegrandosi del
fatto che fosse tutto a posto. Sorrise all’interno del casco protettivo.
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Trasse un lungo respiro poi lasciò che il suo sguardo sfrecciasse
curioso per qualche istante, alla ricerca di un punto di riferimento.
Si mosse in direzione della targa di legno agganciata al muro.
La scritta sembrava essere stata quasi corrosa dal tempo. A fatica
lesse il nome della via: Bauen Birchenstadt.
Era nel posto giusto.
Si mosse rapidamente nel vicolo nonostante avesse ancora molto
tempo a disposizione. S'inerpicò per una breve salita, dove, alla fine,
una rampa di scale dava accesso a un ponte. Lo attraversò con la
complicità del buio. Poco dopo si trovò di fronte a una lunga via semideserta incastrata tra due fila di case. A fatica scorse il numero sul
muro, probabilmente disegnato con un gesso di colore rosso. Era
molto vicino al suo obiettivo che sapeva essere al numero quindici
di Salzburger Vorstadt. Anche se non ne aveva bisogno, perché il
computer inserito nel cappuccio lo avrebbe condotto facilmente a
destinazione, aveva studiato ripetutamente la cartina tridimensionale, imparando a memoria la strada, la posizione dell’accesso alla
casa e l’ubicazione della stanza rispetto alla proiezione tridimensionale dello stabile. Quando lo individuò, rallentò l'andatura fino a
fermarsi davanti al portone socchiuso. Rivolse ancora un'occhiata
furtiva intorno a se poi lo spinse facendo attenzione a non fare il
minimo rumore. Le scale erano buie e prima di salirle preferì prepararsi. Il vento sembrò aumentare improvvisamente d'intensità provocando un sibilo rabbioso all'interno del portone semiaperto.
L'uomo lo paragonò a un grido disperato, un monito proveniente
dall’aldilà. Fu colto da un improvviso brivido. Si guardò ancora intorno. Il respiro era affannoso. Non fu facile per lui riconoscere che
aveva paura. Era la sua prima vera missione e sapeva che non poteva sbagliare.
Aprì una cerniera della tuta e prelevò la parte centrale dell'arma
formata da una lega ultraleggera. Poi ne aprì un'altra, dalla quale
prese una canna molto piccola e da un'altra ancora estrasse un caricatore. In pochi istanti le sue sapienti mani avevano assemblato
l'arma che avrebbe ucciso il predestinato.
Come un ladro in procinto di penetrare nell'abitazione prescelta,
salì silenziosamente le scale. Non sapeva quante persone avrebbe
trovato, i testi cartacei consultati non ne parlavano, così come quelli
visionati in rete. Forse ce n’erano tre o quattro, ma ormai non importava: era pronto.
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Udì le urla di dolore di una donna. Guardò il timer, era l'ora prestabilita: le diciotto e trentadue minuti. Aguzzò l'udito fino a quando
non sentì il vagito di un neonato. Era il segnale, doveva entrare in
azione. Con un calcio spalancò la porta. Un uomo, uscito in fretta
dalla stanza in fondo al corridoio, gli si fece incontro.
«Wer du bist?» urlò preoccupato. «Wer du bist?» Cercò di colpirlo con un pugno.
La flebile luce di una lampadina appesa a un filo traballò quando
l'intruso schivò il colpo e muovendosi con una rapidità spaventosa
gli affondò un coltello nella pancia. Gli occhi dell'uomo si dilatarono
all'infinito nel momento in cui percepì la punta d’acciaio squarciargli la carne. Cadde sulle ginocchia.
L'uomo in tuta nera non perse tempo. Gli girò intorno, estrasse il
coltello e glielo puntò alla gola, poi la lacerò da destra a sinistra, in
profondità. La figura massiccia stramazzò a terra. L’uomo la osservò
per un istante, quasi provasse rimorso per quello che aveva appena
fatto, poi percorse il breve tratto che lo divideva dal suo obiettivo.
Risolse la questione in pochi attimi. Entrò nella camera e fece fuoco
contro la figura femminile seduta ai piedi del letto. Senza provocare
nessun rumore, le due ogive perforanti s'infilarono nel cuore e nella
testa della donna, trapassandoli. L’impatto devastante contribuì allo
zampillio del sangue che si sparse a chiazze sulle lenzuola. Le ogive
terminarono la loro corsa nella parete di legno dalla parte opposta.
Dopo pochi istanti si sgretolarono fino a divenire polvere.
La seconda donna teneva il bambino in braccio. Con mano tremante sembrò chiedere pietà all’uomo in piedi davanti a lei. Cercò di
ritrarsi il più possibile addosso alla spalliera del letto, ma non aveva
via di scampo.
«No… no…» urlò allungando una mano verso lo sconosciuto.
L’uomo esplose altri due colpi mortali. Il bambino rotolò sul petto della madre prima che lui lo bloccasse e con freddezza lo adagiasse sul materasso. Fissò i suoi occhi color smeraldo in quelli del neonato che si contorceva piangendo.
Per un istante un impulso compassionevole sembrò rovistargli il
cervello creando come un piccolo corto circuito, poi le informazioni
di quello che sarebbe stato il futuro di quella creatura passarono
veloci.
«Mi dispiace ma non ho altra scelta» disse mentre gli puntava la
minuscola canna d'acciaio alla tempia. Sparò, ma non ebbe il corag15
gio di guardare. Fu tranquillizzato di aver raggiunto il suo obiettivo
dal fatto che il vagito del bambino si spezzò nello stesso istante in
cui premette il grilletto. Non guardò quel corpicino disteso sul letto.
Non aveva mai ucciso un bambino, tantomeno un neonato, ma non
aveva avuto scelta. Si assicurò che le due donne fossero morte. Prelevò, da una tasca laterale, un piccolo involucro marrone. Lo strofinò
sul muro e la sostanza infiammabile prese fuoco come la punta di un
fiammifero. La poggiò sulle lenzuola del letto e poi sul bordo delle
tende che rapidamente s’infiammarono. Gli ordini erano stati chiari:
non doveva lasciare tracce del suo passaggio.
Quando uscì nel corridoio vide che l'uomo era ancora vivo. Stava
strisciando a fatica verso le scale. Forse era stato troppo delicato nel
passare la lama del coltello sul suo collo. In un'altra situazione sarebbe stato un errore imperdonabile.
Una scia di sangue era rimasta impressa sulle tavole di legno che
formavano il pavimento. Gli fu sopra e gli sparò nella nuca con una
freddezza agghiacciante. Uscì.
Sapeva di non avere sbagliato, ma si voltò un'unica volta per leggere il nome sulla targa in metallo della porta d'ingresso: Alois Hitler.
Annuì con la testa. Guardò il timer, erano le diciotto e cinquantacinque e il suo primo incarico era terminato con successo.
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