Divinis® è lieto di proporvi

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Divinis® è lieto di proporvi
Divinis® Bar à Vins è lieto di proporvi
“La Vertigine del Tempo”
Martedì 17/2/2015
Il Teroldego Granato
di Elisabetta Foradori
Granato 2003
Elisabetta Foradori ~ Mezzolombardo (TN)
Vigneto delle Dolomiti I.G.T. ~ Teroldego ~ 13° ~ Euro 71,50
Granato 2004
Elisabetta Foradori ~ Mezzolombardo (TN)
Vigneto delle Dolomiti I.G.T. ~ Teroldego ~ 13,5° ~ Euro 68,50
Granato 2006
Elisabetta Foradori ~ Mezzolombardo (TN)
Vigneto delle Dolomiti I.G.T. ~ Teroldego ~ 13° ~ Euro 66,00
Granato 2007
Elisabetta Foradori ~ Mezzolombardo (TN)
Vigneto delle Dolomiti I.G.T. ~ Teroldego ~ 13° ~ Euro 63,00
Granato 2009
Elisabetta Foradori ~ Mezzolombardo (TN)
Vigneto delle Dolomiti I.G.T. ~ Teroldego ~ 13° ~ Euro 50,00
Granato 2010
Elisabetta Foradori ~ Mezzolombardo (TN)
Vigneto delle Dolomiti I.G.T. ~ Teroldego ~ 13° ~ Euro 50,00
Esclusivamente in occasione della serata a chi desidera acquistare i vini per l’asporto, riserviamo uno sconto del 10%.
Le nostre iniziative sono dirette a favorire un consumo moderato e consapevole del vino. Qualità e non quantità.
Foradori
1901 — fondazione dell’azienda agricola
1929 — Vittorio Foradori acquista l’azienda
1960 — Roberto Foradori inizia la sua attività. Prima produzione di ‘Foradori’
1976 — Gabriella Casna Foradori gestisce l’azienda dopo la scomparsa del marito
1984 — Elisabetta termina gli studi alla scuola enologica di San Michele all’Adige e affronta la
sua prima vendemmia.
1985 — inizio delle selezioni massali sulla varietà Teroldego, che porteranno alla
registrazione di quindici diversi cloni.
1986 — prima produzione di ‘Granato’
1987 — prima produzione di ‘Morei’ e ‘Sgarzon’ (prodotti fino al 1999)
2000 — inizio progetto ‘viti da seme’ sulla varietà Teroldego
2002 — conversione alla agricoltura biodinamica
2007 — l’azienda entra nel gruppo VinNatur
2009 — certificazione Demeter. L’azienda si unisce al gruppo Renaissance des AOC. Prima
produzione di ‘Nosiola Fontanasanta’. Riprende la produzione di ‘Morei’ e ‘Sgarzon’
2010 — prima produzione di ‘Manzoni Bianco Fontanasanta’. Elisabetta fonda assieme a 10
vignaioli trentini il consorzio ‘i Dolomitici’
Foradori è, oggi, un’azienda in cammino. Dopo dieci anni d’uso dei preparati biodinamici in
vigna e di attenzioni quotidiane in cantina iniziamo a percepire il valore del nostro lavoro.
La conoscenza e la consapevolezza dei cicli naturali si sono perfezionate durante lunghi
anni di apprendimento: ogni stagione ci porta cose nuove, ogni giorno insegna e ci fa
capire. Abbiamo imparato a metterci in ascolto per cogliere le sottili differenze esistenti in
natura e a preservare la sincerità del carattere dell’uva nell’espressione del suo luogo
d’origine. La nostra gestualità agricola si eleva così a creatività: abbiamo il compito e il
privilegio di alzarci ogni mattino e di essere liberi di lavorare assecondando il messaggio
che la terra ci vuole dare in quel momento. Lavoriamo fra le montagne coltivando il
Teroldego nei suoli alluvionali del Campo Rotaliano, la Nosiola e il Manzoni Bianco sulle
colline argilloso-calcaree di Cognola.
Raccogliamo le uve di 26 ettari di vigna - l’80% a Teroldego, il 15% a Manzoni Bianco e il
5% a Nosiola - per produrre in media 160.000 bottiglie ogni anno: 90.000 di Foradori, 20.000
di Granato, 20.000 di Fontanasanta Manzoni Bianco, 8.000 di Fontanasanta Nosiola e 10.000
per ciascuno dei vecchi vigneti di Teroldego Sgarzon e Morei.
Disposti tra Veneto, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia, i sistemi montuosi che
compongono le Dolomiti, Patrimonio dell’Umanità, descrivono un paesaggio di straordinaria
bellezza. Un ambiente unico, dove l’eccezionale contesto naturale si fonde completamente
con la storia degli uomini che hanno attraversato e vissuto queste montagne, e con quella di
chi continua a farlo. Un territorio di passaggio, porta tra il Mediterraneo e l’Europa
continentale, ma anche luogo ammaliante, che da millenni ha condotto le comunità umane
ad insediarsi nelle valli, protette dall’abbraccio delle vette e costantemente stimolate dalla
spinta vitale della loro vertiginosa verticalità. Sviluppatasi soprattutto in area trentina e
altoatesina, anche l’antica cultura della vite e del vino prende quindi delle sfumature uniche,
riflessi di uomini e montagne, cangianti come la luce che vi batte nelle varie ore del giorno,
nelle diverse stagioni. Una viticoltura principalmente legata alla ritualità in epoca etrusca,
che si è espansa gradualmente nel corso dei secoli, trasformandosi assieme alle abitudini di
consumo ma rimanendo a lungo in secondo piano all’interno delle economie locali. È
attorno al X secolo che comincia a svilupparsi una produzione vinicola di qualità supportata dalla Chiesa e dal commercio con l’Europa centrale - e a disegnarsi la rivalità mai
risolta tra l'area trentina e quella altoatesina: vini apprezzati nelle corti e narrati dai
viaggiatori, espressioni straordinarie di genti e territori. Il suolo e i suoi sassi, i forti sbalzi
termici tra il giorno e la notte, le brezze che puntuali soffiano dai laghi e dalle valli, il calore
imprigionato e rilasciato dalle pareti rocciose: sono solamente alcuni dei fattori che
descrivono un potenziale incredibile, un'identità profonda e definita, che dalle radici può
passare ai grappoli d’uva, al vino.
Al confine tra Trentino e Alto Adige, il Campo Rotaliano è la pianura alluvionale formata dal
torrente Noce prima dell’affluenza nell’Adige: un triangolo di quattrocento ettari, circondato
da possenti pareti rocciose. Nodo di comunicazione fondamentale in epoca romana, il
territorio del Mezo (da medium, pianura) è stato da sempre zona di transito di merci e
viaggiatori, ma anche punto di contatto tra culture e genti profondamente diverse tra loro,
vivo della pulsante ricchezza che solo la varietà del confronto può determinare. Il Noce ne
ha disegnato la geografia, portando a valle rocce diverse dalle tante montagne che sfiora, e
dividendo naturalmente la piana in due aree distinte, con i rispettivi castelli e i borghi
sottostanti: due ville, i cui governi si sono susseguiti sotto l’influenza del Principato
vescovile di Trento e dei Conti del Tirolo, e divenute poi le attuali Mezzolombardo e
Mezzocorona. Nonostante le frequenti e devastanti piene del torrente, il valore di queste
terre per la viticoltura era ben noto già nel Medioevo: un terreno sciolto e magro, con una
straordinaria capacità di drenaggio delle precipitazioni; così simile a quello dei pendii, ma
allo stesso tempo protetto dalle montagne, che mitigano l’ambiente con la loro azione di
riverbero del calore solare. Nel 1231 un documento attesta l’eccellenza dei vigneti dell’area
di Mezzolombardo, mentre nel Cinquecento si parla finalmente del Teroldego, una
produzione che si è consolidata nel corso dei secoli, divenendo elemento centrale nella
definizione del paesaggio, dell’economia e della società stessa della Piana Rotaliana,
espressione pura del territorio. Per arrivare alla morfologia attuale è necessario però
attendere metà Ottocento, quando l’alveo del Noce viene regimentato e deviato a Sud e la
zona finalmente liberata dalla minaccia delle alluvioni. La terra, poca e preziosa, si rivela
allora nella sua complessità, cambiando totalmente natura a seconda della distanza
dall’antico letto del fiume: una risorsa dal potenziale incredibile, che è necessario conoscere
realmente per poterne tradurre nel vino le caratteristiche profonde.
La collina a Est di Trento rappresenta un contesto estremamente particolare, dove il
paesaggio agricolo si mescola a quello boschivo e alle residenze, in un delicato equilibrio
tra spazio antropizzato e naturale. La villa Fontanasanta, il cui nome deriverebbe dal rio
Salùga (da ‘Santa aga’, acqua santa) che vi scorre accanto, domina la città circondata da
bosco e vigneti, mentre alle sue spalle, ben esposta a sud, una piccola valle sale fino alla
spianata di Martignano. Riserva di caccia da metà Cinquecento, nel 1815 la tenuta diviene
sede della splendida villa in stile impero costruita per volere del Conte Simone Consolati,
Console nella Trento del Principe Vescovo Thun e appartenente ad una famiglia che nel
corso dei secoli ha avuto un ruolo centrale nella vita politica della città. Il punto di rottura
arriva con il primo conflitto mondiale, un momento estremamente drammatico per la zona,
posta esattamente sul confine: la popolazione viene evacuata a forza, e tutto il territorio
subisce pesanti devastazioni. Fontanasanta, profondamente danneggiata, viene però
riscattata dal marito di Annunziata Consolati, Carl Von Lutterotti, che fa piantare frutteti e
vigneti, definendo così le basi dell’odierno assetto agricolo della proprietà. Oggi il vociare
delle feste ottocentesche lascia spazio al silenzio, protagonista assoluto, mosso solamente
dai rumori del bosco, onnipresente nell’abbracciare i vigneti, e dall’acqua che scorre in
piccoli ruscelli. La terra, rossa di argilla e bianca di calcare, torna finalmente ad essere
produttiva: suolo ideale per Incrocio Manzoni e Nosiola, assieme al contesto ambientale
unico diventa terreno perfetto per due vitigni dalle radici così profondamente legate a
questo territorio e alla sua storia.
Lavorare con la natura affina la capacità di sentire, rende partecipi lo spirito e le abitudini
del contadino, porta alla comprensione profonda dei processi vitali. Alla dimensione più
concreta del fare si affianca una dimensione diversa che si allontana dall’aspetto
materialistico e si arricchisce di una dimensione più spirituale. Scopriamo allora una natura
diversa fatta di macrocosmi e microcosmi, pulsante di vita ed espressione di molteplicità mai
banale. È questa la natura che invita a porsi in ascolto e a considerare ogni gesto agricolo
non come fine a se stesso ma partecipe di un ciclo completo. Un paesaggio agrario ricco di
diversità è un grande valore che va protetto, curato, raccontato e ricostruito. E così abbiamo
piantato siepi attorno alle vigne e vecchie varietà di frutta, cercato di reintrodurre animali,
curato il manto erboso dell’interfilare seminando molte erbe diverse. Si sono moltiplicate le
farfalle, gli insetti e gli uccelli. Pur vivendo in un’area ad agricoltura intensiva come il
Trentino la natura ha reagito e quasi ringraziato.
Abbiamo iniziato ad usare i preparati biodinamici nel 2002, dopo un lungo tempo di
riflessione e di confronto con il nostro operare nel passato. L’agricoltura biodinamica è un
intervento agronomico “solare”: ogni pratica in campagna tende a portare le forze del sole
nei processi vitali del terreno e della pianta. Il sistema planetario è un vero e proprio essere
vivente, in cui le sfere di azione dei singoli pianeti compenetrano la luce solare che inonda
la terra. L’uso dei preparati biodinamici catalizza queste forze. Non ci siamo allontanati dallo
spirito moderno della conoscenza e della ricerca, ma abbiamo cercato di riportare l’uomo
con la sua spiritualità dentro la scienza, considerando non solo l’aspetto materialistico della
natura ma affrontando la comprensione profonda dei processi vitali. L’uomo moderno ha
dimenticato che è attorno all’agricoltura che gravitano quasi tutte le attività umane.
Fra le foglie delle nostre vigne sono tornati i nidi di merli, tordi, fringuelli; e poi, a
primavera, farfalle, api e molti insetti. Abbiamo ripreso a curare il prato nell’interfilare, a
piantare siepi e, da poco, ad introdurre gli animali in azienda. A Fontanasanta sono stati
riattivati stalle e pollai; usiamo il letame per l’allestimento del cumulo. Il lavorare in un
organismo agricolo a ciclo chiuso, cioè autosufficiente, è il nostro obiettivo futuro. Le
componenti umana/sociale, vegetale, animale e minerale hanno un ruolo sinergico e di pari
peso nella nostra realtà.
I preparati biodinamici agiscono “dinamicamente”, non quantitativamente: ne usiamo
quantità piccolissime alle quali corrisponde un apporto di sostanza quasi nullo. Attraverso il
loro uso, dopo averli dinamizzati in acqua, portiamo al suolo e alla pianta le informazioni
che attivano i processi di vita e dunque la fertilità. Quando emulsioniamo la preparazione
biodinamica con un movimento circolare, la forza centrifuga fa salire il liquido sulle pareti
del recipiente mentre la forza centripeta scava un imbuto al centro del vortice. Cambiando
la direzione, tutto si inverte. La dinamizzazione genera dunque un movimento ed una
forma, assieme all’ossigenazione, indispensabile alla moltiplicazione della vita. La
formazione delle superfici gioca un ruolo importante nella misura in cui queste rinchiudono
il prodotto da dinamizzare: il ribaltamento di queste superfici, conseguenza del
cambiamento delle direzioni, porta la “memoria” del prodotto nell’acqua. Nei gesti che
accompagnano l’allestimento dei preparati, la loro conservazione, dinamizzazione e
distribuzione, abbiamo ritrovato cadenze e ritmi che avevamo dimenticato. L’attività agricola
ritorna ad essere vicina all’uomo. Riusciamo così a camminare nelle nostre vigne
osservandole con occhi diversi. Ogni pratica agricola è conseguenza di un’informazione che
la pianta ci trasmette. Assaggiamo il vino e ne riusciamo a percepire l’essenza e l’energia.
Guardiamo le immagini delle cristallizzazioni sensibili del Teroldego, della Nosiola o del
Manzoni Bianco nella loro evoluzione nel tempo e vediamo l’astratto delle nostre sensazioni
che si materializza in sempre più fitti e fini cristalli. Non ci sono numeri o dati ma
semplicemente percezioni: è così che ci sembra di essere parte del ciclo naturale, di poter
unire la nostra conoscenza alla comprensione intuitiva della natura, di far parte dei suoi
ritmi. Ci siamo finalmente messi in ascolto ed abbiamo capito.
Da ormai venticinque anni mi dedico al Teroldego, quasi una mezza vita spesa a cercare di
far esprimere attraverso questa varietà la terra che la custodisce. Nei primi tempi, da giovane
diplomata all’Istituto Agrario di San Michele all’Adige, ascoltavo poco la mia terra, occupata
com’ero dalla sopravvivenza dell’Azienda. Lavoravo già molto sulla biodiversità del vitigno,
attraverso le continue selezioni massali e più tardi con viti da seme, ma il mio percorso
somigliava a quello di molti altri viticoltori: la formazione prevalentemente tecnica mi
portava a considerare i gesti agricoli come azioni ripetitive e meccaniche, che avevano come
fine ultimo la produzione di un’uva apparentemente sana e di un vino similmente
ineccepibile. Verso la fine degli anni Novanta molte cose stavano cambiando e una
sensazione di incompletezza e di precarietà iniziava ad accompagnare le mie giornate: una
percezione profonda e rigeneratrice, che mi portava a sentire la mancanza dell’anima nei
vini che allora producevo. Se ripenso a quei momenti sono invasa da un sentimento di
gratitudine: è attraverso quelle sensazioni che ho potuto ritrovare me stessa e il senso del
mio operare in agricoltura. Non è facile il percorso a ritroso verso Madre terra. Recuperare
la capacità di muoversi all’interno dei cicli naturali; riavvicinarsi ad un più intimo contatto
con la terra; rimuovere preconcetti e sfatare paure: lavorare con la natura - e non contro di
essa - impegna in un cammino appassionante e complesso, che rende partecipi lo spirito e
le abitudini del contadino, modificandone la sensibilità e affinando la capacità di ascoltare.
Oggi sento di aver ridato onore e creatività ai miei atti agricoli. Lavoro cercando di ottenere
frutti e vini che siano l’espressione autentica della mia terra, la stessa che lascerò sana e viva
ai miei quattro figli perché siano orgogliosi di poter scegliere se essere contadini.
Quando una viticoltura sana permette alla pianta di esprimersi nella sua interezza, il frutto
che ne deriva sarà espressione di autenticità. La qualità del vino che produciamo si
manifesta nella vitalità del prodotto. Il preservare le forze di vita del frutto originario durante
il passaggio di trasformazione uva — vino, restituisce al vino e a chi lo beve la percezione
del suo luogo di origine, entra in sintonia con il cibo, fa nascere una bevanda digeribile che
dona senso di benessere. Non ricorriamo ad interventi correttivi in cantina: nulla viene
aggiunto, tutto viene accompagnato cercando di mettersi in ascolto. Il vino mantiene
spontaneità espressiva e trasmette la personalità di una materia prima intensa e viva. Ci
sembra così di portare dentro un bicchiere la fragranza dei fiori dei pascoli dolomitici, la
mineralità delle rocce che circondano le vigne, la chiarezza dei cieli di montagna, l’indole
del popolo che abita le valli alpine. È nostro compito trasferire tutto il carattere della terra
trentina dentro ogni nostra bottiglia.
Vinifichiamo le uve in recipienti diversi, e negli stessi affiniamo poi il vino. Il legno di acacia
e rovere dei tini e delle botti è materiale vivo: molto partecipe ai processi di trasformazione,
lascia qualche sua traccia e accompagna il vino nel tempo sostenendolo. La terracotta della
tinajas dona all’uva la libertà completa di esprimersi e al vino la possibilità di ricollegarsi
con la terra. Questi contenitori sono fortemente energetici: la loro forma ampia e allungata
avvolge ed accoglie; l’argilla che li compone ha la proprietà di mettere in contatto le forze
del cosmo con quelle terrestri. I contenitori in cemento aiutano per la loro inerzia termica;
anche l’acciaio ha un suo ruolo nella nostra cantina e rimane a testimoniare il nostro
percorso negli anni. Usiamo solo lieviti indigeni e non controlliamo le temperature in
fermentazione. Non aggiungiamo solfiti al vino se non dopo il primo travaso - che
normalmente avviene dopo sei-otto mesi dalla svinatura - per arrivare ad avere non più di
30-50 mg/l di anidride solforosa in bottiglia. Teroldego, Nosiola e Manzoni bianco vengono
imbottigliati senza essere filtrati.
Il nostro lavoro si misura con il tempo, con i ritmi della natura, con l’aspettare che la vite
cresca, invecchi, dia frutti, con l’evoluzione lenta del vino nel silenzio e nel buio della
cantina, con il suo cambiare dentro la bottiglia prima e dentro il bicchiere poi. La
spontaneità espressiva di un vino carico di vita permette una sua continua trasformazione,
un rivelarsi in tutta la sua essenza. È un vino che non ci lascia mai. Quando aprirete una
nostra bottiglia fate si che abbia la temperatura di cantina, versate il vino in bicchieri ampi e
seguitelo nel tempo: vi accompagnerà con versatilità, condividendo la personalità di
un’intensa materia prima che accoglie la varietà del cibo che avrete nel piatto. Un vino ricco
di forze vitali nasce da un atto di amore verso la natura, e come tale non potrà che
avvolgervi e sorprendervi.
GRANATO
Vite e melograno hanno per provenienza origini comuni e si accompagnano spesso nel
bacino del Mediterraneo. Il frutto del melograno possiede inoltre il fascino, la bellezza e
l’intensità del frutto della vite. È a questo connubio ideale che si ispira il nome del
“Granato”, nome di un Teroldego di particolare concentrazione e fittezza, che affonda le sue
radici nelle pietre di tre vigneti del Campo Rotaliano.
Varietà: Teroldego
Sito dei vigneti: Comune di Mezzolombardo, Vignai, Cesura, Regin
Superficie dei vigneti: diverse parcelle per complessivi 4 ettari. 6.000 ceppi per ha (guyot)
Suolo: terra alluvionale, ghiaioso-ciottolosa
Fermentazione: in grandi tini aperti
Affinamento: 18 mesi in botte
Produzione: 20.000 bottiglie
Informazioni tratte dal Sito Ufficiale dell’Azienda
I commenti di Maurizio Landi
È difficile per me, che non sono un conoscitore del Teroldego, capire se questo vino
corrisponde a un progetto di valorizzazione del vitigno e del territorio, o se si tratti di un
progetto aziendale di valorizzazione di un marchio. Conosco i vini di Elisabetta Foradori fin
dai primi anni ’90 e, anche se in modo discontinuo, li ho sempre seguiti perché ne
ammiravo la forza. In particolare sono sempre stato un sostenitori del vigneto Sgarzon e ho
pianto calde lacrime quando l’azienda aveva deciso di non commercializzarlo più
separatamente. Il Granato era un vino che facevo fatica ad apprezzare: nelle prime versioni,
per i miei gusti, era troppo morbido, forse segnato dalla presenza di Syrah, ma non ne ho
mai avuto conferma. Perciò questa occasione mi è servita per riprendere contatto con
questo vino, in questo periodo, prendendo contatto con diverse annate, tutte del periodo
successivo alla conversione dell’azienda in biodinamica.
Il 2003, come ovvio, è segnato da un’annata molto calda e inizia a mostrare qualche
cedimento. L’aromaticità è fin da subito caratterizzata da note “caramellose” e decadenti.
Non cede con sbavature eccessive, ma rimane comunque su toni surmaturi e “molli”.
Il 2004 sulle prime è scontroso. Caratterizzato da una nota aromatica molto precisa, giocata
sull’amarena matura, con una presenza di tannino evidente, ma equilibrato. Con
l’ossigenazione si apre e acquisisce una dinamica e una freschezza straordinarie che ne
fanno un vino di grande carattere e fascino. Caratteristiche che non si perdono anche agli
assaggi successivi. Grande tenuta e grande vino!
Il 2006, viceversa, sembra un po’ sotto tono. Più “leggero”, più sottile, sembra decisamente
un vino minore, ma non trascurabile.
Il 2007 torna sui toni del 2004, con grande slancio e forza. Ovviamente, avvicinandosi nel
tempo, i tannini sono un po’ più duri e serrati, ma il vino promette veramente un grande
futuro. Anche in questo caso un fascino ammaliante.
Il 2009, anche in questo caso frutto di un’annata calda, è più accessibile, anche se mantiene
una certa austerità. Ci avviciniamo nel tempo e i vini si fanno meno leggibili, soprattutto per
chi, come me, non conosce bene il vitigno. Forse non ha l’allungo delle annate migliori, ma
si tratta di un vino di tutto rispetto.
Il 2010 è decisamente troppo giovane per poterlo apprezzare a pieno, ma promette
senz’altro grandi cose. Vedremo…
Complessivamente una bella degustazione che apre, almeno per me, un capitolo nuovo su
quest’azienda e su questo vino. Un vino importante che pone un tassello importante nel
panorama del Trentino. Certo, il prezzo non è trascurabile e in questo, a mio avviso,
l’azienda esagera un po’, ma tant’è!
Tutte le bottiglie utilizzate durante la degustazione provenivano dall’azienda e i prezzi
indicati sono il frutto delle rivalutazioni che l’azienda medesima ha fatto sulle bottiglie delle
annate più vecchie.
Questo note, che avevo scritto in occasione della precedente degustazione verticale, calzano
perfettamente alla degustazione di oggi. Qualche variazione, ma non particolarmente
significativa. Il 2004 si apre fin da subito, ma conferma il suo slancio. Un gran vino. Il 2006,
anche se la bottiglia non sembra avere problemi, rimane comunque minore. Il 2010, anche
se è ancora troppo giovane, inizia a mostrare una forza notevole. Veramente un bel vino!