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La sopravvivenza degli antichi nella Chinatown di Pizzi Cannella
di Valentina Casacchia
In CHINATOWN, l’antico di cui si parla appartiene alla cultura orientale, soprattutto cinese,
letta percepita ed elaborata da un contesto occidentale.
La citazione consapevole di alcuni leit-motiv della pittura tradizionale cinese, come gli
uccelli, il bambù, i vasi, il sigillo o il timbro di inchiostro come firma sull’opera, o la presenza del
testo all’interno della composizione, rappresentano la superficie di un percorso più profondo,
precisamente legato alla predilezione per il “vuoto” all’interno dell’organizzazione compositiva
dell’opera.
Grossolanamente, l’importanza del vuoto nell’arte orientale, discende dall’idea che tutto ciò
che esiste è necessariamente vuoto, incompiuto, inafferrabile. Esso è presente nella carta, nel
pennello, nell’inchiostro, nella mente e nel corpo del pittore cosi come nell’anima di chi guarda. Il
vuoto non è una dimensione passiva o morta, è al contrario la condizione necessaria a ogni segno
per muoversi e costruire il proprio spazio. É la dimensione che garantisce profondità alla
composizione, soprattutto laddove lo spazio (altra caratteristica dell’arte orientale) non si costruisce
tramite la griglia prospettica bensì attraverso le sfumature di inchiostro.
In tal modo il punto di vista non è mai unico ma sempre molteplice. La figura umana,
misura di tutte le cose e canone pressoché invincibile dell’arte occidentale, quasi scompare nella
pittura orientale. La pittura è pittura di paesaggio, di spazi aperti, fiori, animali, montagne, acque.
Ognuno di essi è l’incarnazione di un soffio vitale e creatore che tutto pervade, anche l’artista,
fattosi vuoto al suo passaggio, partecipa di questo scorrere universale.
Gli sfondi dei paesaggi di Guo Xi (1020-1090) o Jing Hao (X sec), fatti di brume trasparenti,
nebbie soffuse, e campiture di luce rivivono in quelli di Pizzi Cannella fatti a loro volta di
modulazioni di ombre e zone di colore che evocano lo spazio senza costringerlo in alcuna struttura.
Ciò che ora è cambiato è che lo sfondo di Pizzi Cannella, pur nella sua formale trasparenza,
recupera la sua “occidentalità” nella forte presenza del soggetto, dell’uomo e dunque della storia. Il
punto di vista dell’artista è centrale e presente. Lo scorrere delle cose lo attraversa ma non lo lascia
indenne: la contingenza è ribadita a ogni colpo di pennello.
Ciò che Pizzi Cannella raffigura sulla carta o sulla tela non è un insieme organizzato di
elementi solidi, piuttosto il luogo di un evento, la “scena del delitto”, fatta a sua volta di molteplici
eventi che avvengono contemporaneamente.
Un’altra caratteristica importante della tradizione orientale, soprattutto cinese, è la presenza
sul dipinto di un brano calligrafico. A partire dalle dinastie Yuan o Ming molti pittori che erano
anche letterati, come Wáng Xīzh o Wèi Shuò (IV sec.) iniziarono a scrivere i loro brani sui dipinti
secondo l’ideale del “poetare dipingendo e dipingere poetando”. Questa usanza si è spesso ripetuta
nella storia dell’arte di ogni tempo, soprattutto in quella contemporanea, come la “scrittura bianca”
di Mark Tobey o l’opera di Cy Twombly. Nel caso di Pizzi Cannella il testo ha lo stesso ruolo che
hanno le sue figure. Sono segni fluttuanti, indizi, titoli, chiavi di lettura, frammenti di sensazioni,
memorie. Non hanno uno spazio maggiore delle figure, non ne sono necessariamente il
completamento, partecipano, come il resto degli elementi, all’accadere dell’opera. In questo ciclo di
lavori, il testo ha forse un ruolo maggiore poiché è tradotto in ideogrammi, strutture simboliche alla
radice, dove i segni si fanno immagini e le immagini segni.