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RACCONTARE E RACCONTARSI.
IL “SUEŇO” BOLIVIANO DI FEDERICA RIGLIANI
di
Fabiana De Nisi
Carnevale di Oruro conosciuto anche come Diablada
Sai, in italiano c'è una parola per sonno e
una per sogno. In spagnolo si usa
sueňo per entrambe. In italiano sogni qualcuno
in spagnolo sogni con qualcuno.
Stanotte ho sognato con te.
Federica Rigliani, La mia Bolivia esiste
Un curioso aneddoto racconta che la regina Vittoria, adirata per gli insulti rivolti
ad un suo collaboratore, si fosse fatta portare una carta geografica e, sentenziando
"la Bolivia non esiste", l'avesse cancellata con una croce. La Bolivia, non solo
esiste, ma è uno dei paesi più affascinanti dell’America latina1.
Il libro d’esordio di Federica Rigliani, intitolato La mia Bolivia esiste, ne
costituisce una prova inconfutabile.
Questa terra è alta alta: avvistarla dall’aereo è stato incredibile, appare
sospesa tra le nuvole e le montagne. L’Illimani, la vetta più alta della
Cordigliera Reale, sormonta La Paz e le Ande somigliano a spuma di
cioccolato ricoperta con panna….2
Scrittrice e traduttrice, militante e attivista per i diritti civili, la Rigliani con queste
parole dà inizio al suo romanzo che si snoda attraverso una coinvolgente
corrispondenza epistolare, attualizzata dal ricorso ad uno stratagemma
postmoderno, internet e le mail.
La mia Bolivia esiste è la narrazione di un duplice viaggio. Di evidente ispirazione
autobiografica, il romanzo racconta l’esperienza odeporica e spirituale di
Fedequerinda, un personaggio femminile, che la Rigliani dichiara di aver “rubato”
ad una poetessa aquilana, Anna Maria Giancarli, autrice del libro I trucchi del
reale, edito da Piero Manni. Fedequerinda
è molto di me e di quello che sono stata io nella mia permanenza boliviana,
ma non sono io. Io viaggio accanto a lei, le presto alcune storie, dei dolori,
qualche passione e le presto anche la mia amica Amalia, per raccontarsi e
raccontare, attraverso e-mail che da Sucre giungono all’Aquila, il nostro
viaggio insieme3.
È il 6 aprile 2000 quando la Rigliani, appassionata di Sudamerica, decolla alla
volta della Bolivia. Tutto l’entusiasmo nei confronti del paese che sta per
1 Portale Bolivia http://www.sudamerica.it/portali/bolivia/index.php, 03.01.2011.
2 F. RIGLIANI, La mia Bolivia esiste, Pescara, Tracce, 2009, p. 11.
3 F. RIGLIANI, Fedequerinda, http://www.fedequerida.net/, 20.12.2010.
1
accoglierla è racchiuso in queste poche righe:
Amo il sudamerica. Mia madre si è spiegata il mio bisogno di rimanere
dicendo che forse in un’altra vita ho sofferto in questo continente. Mia
madre è una donna semplice che non sa nulla di metempsicosi e
trasposizione dell'anima4.
Le Ande, infatti, costituiranno per la Rigliani un’esperienza memorabile, compiuta
in sintonia con il Teatro de los Andes, il gruppo boliviano di César Brie. Subito
dopo la laurea, infatti, la neo scrittrice inizia un periodo di collaborazione
lavorativa proprio con il gruppo teatrale che tanto l’aveva estasiata, facendole
versare fiumi di inchiostro. La stessa Rigliani dichiara:
molti dei miei scritti ruotano intorno al tema del teatro boliviano. Sono
il risultato di una ricerca in loco per la realizzazione di una tesi
sperimentale sul gruppo sul quale avevo deciso di laurearmi, il Teatro
de los Andes, formatosi pochi anni prima e sul quale non esistevano
ancora materiali bibliografici di riferimento5.
Il viaggio in Bolivia consente alla protagonista di mettere in atto “un triplice
attraversamento: quello geografico, drammaturgico ed etnico-antropologico”6.
Attraversamento geografico significa esplorare la Bolivia in lungo e in largo.
“Continuerò a raggiungere luoghi fin quando mi sarà possibile”7, sentenzia la
Rigliani che fin dall’inizio subisce il fascino di un paese “che è tutto e tutto il suo
contrario”8. A partire dalle stagioni.
Ad aprile fa un po’ freddo la mattina presto, poi il clima diventa più mite
perché il sole lo scalda. A maggio non sarà più così e a giugno entrerà
l’inverno. Il cielo qui è blu, tanto blu, a volte troppo blu. È pulito e sembra
più vicino: le stelle le vedi a portata di mano, la luna piena esplode di luce e
ti impressiona. Pensi di poterla toccare. Di notte vedo la croce del Sud in
questo cielo al contrario9.
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F. RIGLIANI, Op. cit., p. 63.
F. RIGLIANI, Fedequerinda, http://www.fedequerida.net/, 20.12.2010.
F. RIGLIANI, Op. cit., p. 61.
Ivi, p. 61.
Ivi, p. 61
2
9 Ivi, p. 18
Il viaggio di Fedequerinda parte dalla capitale costituzionale, Sucre, “piccola,
bianca e coloniale, tutte discese e baldacchini di legno alle finestre”10, e
precisamente da Yotala, un piccolo pueblo11 di duemila anime situato nei pressi
della casa-teatro, il posto dove la protagonista alloggerà durante la sua
permanenza in Bolivia.
Con un punto di vista decisamente femminile che si evince dalla sensibilità con la
quale entra in contatto con il mondo circostante, Fedequerinda esplora il paese con
uno stupore quasi primordiale:
vedi tante Bolivie diverse, ma tutte un'unica terra con tante disuguaglianze,
disparità e contraddizioni. Proprio l’abbondanza delle diversità che qui
convivono ne fanno una terra piena di tradizioni e di incredibile ricchezza
culturale, e la rendono magica in quel suo particolare modo di percepire il
mondo12.
L’attraversamento geografico da parte della giovane protagonista prosegue.
Destinazione successiva: Potosì. Capoluogo dell’omonimo dipartimento, la città
boliviana di Potosì, un tempo, era il posto più ricco e più popoloso del mondo. Poi
arrivarono i bianchi e per tre secoli le ricchezze strappate alla terra hanno
arricchito le dinastie europee.
Il Cerro Rico, la montagna di Potosì, trasudava argento allora, ma la povertà
attuale copre le vestigia di quello che fu il suo antico splendore (…) I
minatori continuano a far esplodere dinamite cercando una piccolissima
vena, ma la montagna non è più generosa13.
L’anima di Potosì sono i minatori. Piccoli, ingobbiti e scuri sfrecciano silenziosi
attraverso gallerie alte meno di un metro e prive di travi di sostegno.
Sfruttati per secoli, gli uomini del buio ancora oggi scavano a mani nude i cunicoli
tortuosi sotto la crosta di fango della montagna, a contatto con ogni sorta di
esalazione velenosa. Proprio come i loro antenati durante il periodo coloniale.
L’ingresso della protagonista in una miniera che le si apre davanti come “una
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Ivi, p. 16
La parola “pueblo” può significare indistintamente sia “popolo” che “villaggio”.
F. RIGLIANI, Op. cit., p. 13.
Ivi, p. 37.
3
bocca spalancata nella roccia”14 si accompagna allo scavo della propria interiorità:
ecco riemergere suggestioni che mi porto dentro (...) Il mondo minerario è
così nuovo per me. Capisco che i minatori boliviani sono una vera e propria
classe sociale, come le nostre tute blu. Sicuramente rappresentano il punto di
contatto tra la società urbana e quella rurale, il luogo in cui città e campagna
si incontrano anche se, purtroppo, drammaticamente15.
In realtà il viaggio in Bolivia di Fedequerinda comincia molto tempo prima. Sugli
scritti di César Brie16 e sulla sua drammaturgia. Il teatro de los Andes diventa per
la protagonista un mezzo per scoprire la realtà boliviana con le sue caratteristiche
millenarie e le sue connotazioni geografiche, antropologiche e sociali.
Come ho già sottolineato, è quello che la protagonista stessa definisce un
attraversamento drammaturgico. Nella mail Prime impressioni la Rigliani
sottolinea gli effetti che gli spettacoli della compagnia hanno sortito sul suo modo
di percepire il Sud America. Si tratta di frasi estremamente incisive che
riecheggiano la concezione poetica maturata nel corso degli anni da Brie, attore e
intellettuale di successo.
Mi sorprendo a riconoscere in questa quotidianità gli spettacoli del Teatro de
los Andes, come se la scena fosse uscita dal teatro per occupare le strade che
cammino: la rivedo nei gesti, negli abiti e negli sguardi delle persone che
incontro, nei nuovi oggetti che conosco, nelle sfumature cromatiche che mi
circondano (…) Scopro che l’ingenuità che traspariva da quei lavori,
ricercata nella sua semplicità, vive qui. È tipica di questa popolazione e la
differenzia molto dalla società europea del primo mondo, dove è sempre più
14 Ivi, p. 38
15 Ivi, p. 42.
16 César Miguel Brie Gowland nasce a Buenos Aires nel 1954. All'età di due anni il piccolo César si trasferisce con la
famiglia in Patagonia. Il padre, dopo il lavoro di ufficiale giudiziario, è impiegato nel sindacato e insieme alla
moglie fonda una compagnia teatrale amatoriale. César, invece, a causa della forte timidezza, si rifiuta di recitare.
Intanto numerosi problemi spingono la famiglia a spostarsi nuovamente a Buenos Aires dove il padre decide di
aprire una libreria. L’Argentina in quegli anni vive un periodo molto delicato e il teatro, al quale Brie cercava di
avvicinarsi, diventa sempre più sensibile al clima di proteste operaie e studentesche. A metà anni '70 arriva l'esilio e
César è costretto a trasferirsi a Milano dove nel centro sociale occupato del quartiere Isola fonda un gruppo, il
collettivo di Tupac Amaru. Segue l'incontro con l'Odin di Barba e il sodalizio con Iben Nagel Rassmussen, attrice
storica dell'Odin. Sul finire degli anni '80, l'attore decide di proseguire da solo. Nel 1989 porta in scena “Il mare in
Tasca” che riscuote un grande successo. Nel 1991 ritorna in America latina ma questa volta si trasferisce in Bolivia
dove, insieme all'attrice Naira Gonzales, fonda il Teatro de los Andes. La compagnia della casa di Yotala allestisce
quattro grandi spettacoli: “Colon”, “I Sandali del Tempo”, “Ubu in Bolivia” e l' “Iliade”. Oggi Brie ha cinquant'anni
e prosegue, instancabile la sua attività di drammaturgo. Cfr. F. MARCHIORI, César Brie e Il teatro de los Andes,
Milano, Ubulibri, 2003.
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difficile essere semplici e pericoloso essere ingenui .
Fernando Marchiori, studioso di letteratura e teatro, nel suo ultimo libro, “César
Brie e il Teatro de los Andes”, riporta frammenti della Autobiografia di Brie,
accompagnati da un’acuta critica. Nei paragrafi dedicati al ritorno del
drammaturgo in America latina, Marchiori sottolinea come l’ipotesi boliviana
fosse nata da un duplice intento: “cercare un nuovo pubblico per il teatro e creare
un teatro per questo pubblico”18.
Affinché il suo teatro riuscisse a diffondersi, Brie sapeva di dover imparare a
conoscere la Bolivia. Determinare un avvicinamento alle lingue e alle etnie locali,
dai quechua agli aymara, dai chiriguanos ai guaranì, era fondamentale. A questo
proposito le parole che Brie ha scritto di suo pugno sono chiarificatrici:
Mi attirava l’idea di rivolgermi a persone così diverse da me, il fatto che non
avrei potuto fare il teatro che facevo, che dovevo inventarne un altro (…)
Lasciare entrare l’altro in me, farmi capire dall’altro. Trovare uno spazio
comune. La risposta, il teatro da inventare, doveva trovare una sua forma
particolare, eppure partire da quanto sapevo e prendere vita, non per aver
successo, o per averlo nella misura in cui avere successo significa veramente
suonare le corde spirituali di una nazione19.
Quello etnico è, infine, il terzo attraversamento.
Storicamente la Bolivia è il paese più indio di tutta l’America latina. L’unico a
maggioranza indigena, con una varietà di lingue straordinaria e una forte
persistenza di riti, musiche, costumi precoloniali. Ma è certo anche il paese più
povero e in cui sono evidenti le contraddizioni e le ingiustizie sociali.
Saltano alla vista due popolazioni. Quella nativa abita le comunità rurali
lontane dai centri abitati, isolate e abbracciate da un atavico silenzio (…)
L’altra parte sociale è più o meno concentrata nelle città e nei pueblos (…)
Comprende i creoli e i meticci ma anche il mondo dei bianchi, che è lontano
e altro: loro occupano il posto dell’amministrazione e dell’istituzione e sono
concentrati nelle zone residenziali delle città20.
17 F. RIGLIANI, Op. cit., p. 14.
18 F. MARCHIORI, Op. cit., p. 61.
19 C. BRIE, Autobiografia in Fernando Marchiori, Op. cit., p. 60
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20 F. RIGLIANI, Op. cit., p. 12.
Nel diario di viaggio entra un elemento tipicamente boliviano: la danza. Per la
Rigliani il ballo diventa un'occasione per entrare in contatto con la dimensione
magica che caratterizza la concezione andina del mondo. Per l’indigeno è un
momento di preghiera e di ringraziamento ma anche di trasgressione collettiva in
cui è concesso ubriacarsi e svagarsi.
La danza boliviana per eccellenza è il Tinku e Fedequerinda ne rimane ammaliata.
Originatosi nell’altopiano a Nord di Potosì, il ballo “mima una lotta antica ed
esprime una forza a dir poco efferata: al vincitore viene riconosciuto il predominio
del più forte nella contesa della terra di confine tra due comunità”21.
Nel romanzo la scoperta di nuovi luoghi e di nuove culture si allaccia sempre ad
una pluralità di voci, con le quali l’autrice dialoga, tanto da scoprire che, nei
giorni precedenti il rito, le popolazioni andine bevono chicha e masticano foglie di
coca. Mentre “la chicha è una bevanda ricavata dal mais masticato e risputato in
secchi in cui si lascia fermentare”22, la foglia della coca per la sua capacità di
aumentare le facoltà percettive è stata da sempre considerata intermediaria fra gli
uomini e la divinità. Un tempo i nobili e i sacerdoti la utilizzavano sia a scopo
curativo che a scopo cerimoniale con altre piante allucinogene come il cactus
Sanpedro. Il risultato era l’ingresso in stati di trance che consentivano di entrare in
contatto con gli spiriti. Oggi ogni comunero23 gode di un rapporto privilegiato con
queste sostanze che “rappresentano ancora le offerte più grandi, le più preziose”24.
Ma la danza più nota ed entusiasmante è sicuramente la Diablada del carnevale di
Oruro, città mineraria sull’altopiano boliviano.
La Rigliani assiste in prima persona alla cerimonia e le pagine dedicate al
carnevale sono quelle più eccitanti.
Nato come ribellione dei minatori che attraverso il ballo potevano esprimere la
loro voglia di libertà, il carnevale di Oruro è un esplosione di colori, di musica, di
danze. “Ad aprire l’entrata”, osserva la scrittrice, “sono tradizionalmente i diavoli.
La prima comparsa, infatti, è la Diablada, guidata da Lucifero, due Satanassi e
cinque diavolesse chiamate China Supay”25. Il corteo si arricchisce via via di
costumi e di maschere mostruose. La seconda entrata è quella degli Incas. Poi
arrivano i Los tobas seguiti dai Llameros, dagli Inti Raymi e, per finire, i
21 Ivi, p. 21.
22 Ivi, p. 22.
23 La parola “comunero” significa “abitante”.
24 F. RIGLIANI, Op. cit., p. 22.
25 Ivi, p. 104.
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Caporales.
Sebbene utilizzi un registro linguistico medio, non scevro di colloquialismi, la
Rigliani risulta in grado di offrire al lettore una fotografia esaustiva della realtà
boliviana.
A fare da sfondo al racconto, ricco di storie e di impressioni, risuonano gli stati
d’animo di Fedequerinda e dell’amica Amalia. Da un luogo fisicamente collocato
si passa, quindi, ad uno spazio interiore che lentamente si mette a nudo. L’uno si
identifica inevitabilmente con l’altro.
La perfetta sintonia dell’anima con i luoghi visitati si evince dal bisogno di
maternità che Fedequerinda confida ad Amalia in una delle sue mail: “forse non te
l’avevo mai detto ma ho pensato a un figlio sempre da lontano”26. Poi arriva la
Bolivia. Arriva Alex e la possibilità di adottare un figlio aumenta. Il mese
successivo giunge, invece, l'amara notizia: il sogno sembra destinato a svanire.
“Dopodomani andrò a Sucre a salutare Alex: alla fine di gennaio si trasferirà a
Tarajia con la sua famiglia. Era la cosa più giusta”, scrive Fedequerinda, “forse
sarà, di volta in volta, una voce al telefono o un sorriso che squarcerà il mio
pensiero ricordandomi quanto questo bambino abbia scavato dentro di me”27.
La mia Bolivia esiste, sussurra l’autrice.
26 Ivi, p. 76
27 Ivi, p. 91
7
Bibliografia
Che Guevara, E., Diario di Bolivia. A cura di Roberto Massari, Editora Pòlitica, La Habana, 1987.
Marchiori, F., César Brie e il Teatro de Los Andes, Ubulibri, Milano, 2003.
Rigliani, F., La mia Bolivia esiste, Tracce, Pescara, 2009.
Sitografia
http://www.sudamerica.it/portali/bolivia/index.php, Portale Bolivia, 03.01.2011
Rigliani, Federica, http://www.fedequerida.net/, Fedequerinda,, 20.12.2010
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