LA GARIBALDA, GI UNA TRADIZIONE

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LA GARIBALDA, GI UNA TRADIZIONE
LA GARIBALDA, GIÀ UNA TRADIZIONE
L'amico Giampaolo Fabris, sociologo, economista, sostiene che uno prende dimora, si sente a casa,
assume le tradizioni in qualunque parte, a prescindere dalle sue origini. È vero, non è vero? Io sono
piemontese, di origine, ma come cancellare la mia infanzia in Valle d'Imagna, la conoscenza della
natura, dei boschi, il sapore delle merende. E del pane. Mia moglie, che ancora non conoscevo, le
vacanze le faceva a Selvino. Ed è lì che da svariate estati mi ritiro con tutta la famiglia, ad agosto: a
scrivere, certo, ma anche a scrutare la gente, a carpire i valori che, come in pochissime altre terre,
sono ancora molto radicati. E fra questi valori ci metto pure quello del posto a tavola, della festa
della domenica con la polenta, di una certa moralità contadina che ancora è capace di prestare un
giudizio sulla modernità che avanza.
Il primo atto che ho fatto, che faccio, appena arrivato in un luogo, è andare a comprare il pane. Che
pane c'è nella Bergamasca? A Selvino ho conosciuto la tartaruga, ottimo pane per i salumi, ma
deficitario per accompagnare i formaggi. Ci voleva dunque un pane che avesse dentro i germi del
territorio e di una certa gestualità. È arrivato.
Ed è giunto con l'entusiasmo di enti, associazioni, panettieri e, sono certo, di consumatori. Il nome
evoca storia: la Garibalda. E per me sarà la Garibalda bergamasca: dizione opulenta, roboante,
come il suo formato bislungo che invoglia a quella gestualità patri-matriarcale di tagliare il pane, di
metterlo in un cesto, di distribuirlo, secondo il concetto del “cum panis”, radice della parola
compagnia e quindi del mangiare insieme. Ho tagliato così la mia Garibalda da 500 grammi, il
giorno dopo che me l'hanno offerta. Ed era fragrante, leggera ma, soprattutto, aveva un profumo
speziato di particolare intensità. È un pane, vivaddio! Un pane di semola rimacinata di grano duro
con altre tre farine: integrale, gialla “fumetto” e grano saraceno integrale.
È un pane tradizionale? Certo. Esattamente secondo la radice stessa della parola tradizione che
significa trarre dal passato valori ancora attuali oggi. E nelle stesse farine utilizzate ci sono elementi
di attualità alimentare d'oggi, dove anche il gusto non è secondario, anzi. C'è poi un valore, che
ritengo “morale”, ed è la biga di almeno 16 ore, impasto di sale, malto, lievito di birra, acqua,
zucchero, olio extravergine di oliva e pasta di riporto.
Con il medesimo impasto e con l'aggiunta di un supplemento di olio e di sale, sarà eccezionale
anche la focaccia. La Garibalda piccola, invece, il panino da 100 grammi che traccia una vela, è
ideale per una farcia gustosa. La fetta di Garibalda, invece, accompagna i formaggi, ne attenua
l'afrore e lo accompagna (uno Strachitunt? Un Taleggio?). Ma pensiamola anche solo come una
bruschetta, oppure per guarnire una zuppa.
La Garibalda: un pane tradizionale che è subito attuale, ma anche un pane che esce quasi come una
risposta al fiume di parole che nelle settimane passate hanno accompagnato lo sdegno per lo spreco
di un bene primario che ha persino un profondo significato religioso. Si spreca il pane in Italia, o
nella vicina Milano, ma chi sprecherebbe mai una fetta di Garibalda? No, il pane buono non si può
sprecare. E questo è un pane buono, che fa arrossire quelle composizioni che a fine giornata non
hanno neppure la masticabilità. Io credo - anche perché l'ho provato - che la Garibalda sia attuale
anche dopo 3 giorni. E questa è la prerogativa unica del pane morale, del pane ben fatto, secondo i
saperi di una tradizione che non cerca di uccidere il tempo, fattore di amalgama di ogni cosa ben
fatta.
Be', sono felice di essere testimone di questa rinascita, di un fatto che segna qualcosa che rimarrà
nella storia, anche perché non si vive soltanto di ciò che è stato fatto in passato: ci vuole un
presente, che diventerà un passato da ricordare, ancor più se questo pane vivrà tra la gente.
E idealmente lo voglio dedicare al maestro di tutti noi che, intorno ai cinquant'anni, scriviamo di
cibo e di vino: Luigi Veronelli. Lui abitava a Bergamo. “Ma sai Gino che Bergamo è una città
bellissima” - gli dissi pochi mesi prima che ci lasciasse, mentre salivamo sul palco di Barge a
prendere un premio per la condivisa battaglia in favore delle De.Co., le denominazioni comunali.
“Ma come non ci sei mai stato?”. “Tante volte Gino, ma l'altro giorno mi ha stupito ancora, come se
fosse nuova, come quando a Milano vedo il Duomo uscendo dalla metropolitana”. Ricordo che mi
guardò trasognato. Bergamo, in via Sudorno, era la sua casa. E sarebbe bello, giusto, riconoscente
che questo pane (il pane richiama con sé sempre il vino), diventasse una Denominazione Comunale.
Dedicata al maestro, per segnare, in un dato momento storico, oggi, che è stato attuato un tradere:
una tradizione.
Paolo Massobrio