Crampi muscolari in agguato per gli atleti
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Crampi muscolari in agguato per gli atleti
2 FOCUS ON Crampi muscolari in agguato per gli atleti Quali le cause di questi episodi? Come prevenirli? I crampi muscolari sono una delle condizioni per cui più frequentemente l’atleta si rivolge al medico in seguito o durante la partecipazione ad eventi sportivi. In maniera particolare sono assai frequenti in chi pratica triathlon (nuoto, ciclismo e corsa) o nel maratoneta. Nonostante la grande diffusione del problema, i fattori determinanti per tale condizione non sono così ben chiari. La prima cosa essenziale è escludere che la causa dei crampi sia un problema medico misconosciuto di natura familiare-ereditaria, dis-metabolica muscolare, legato a squilibri idro-elettrolitici o disturbi endocrini. Esula dalle finalità di questo articolo analizzare nel dettaglio ognuna di queste condizioni. Ci limitiamo quindi a considerare quelle contrazioni spasmodiche e involontarie del muscolo scheletrico che avvengono durante o immediatamente dopo l’attività sportiva e che vengono nella letteratura internazionale definite come Exercise Associated Muscle Cramping (EAMC). Ipotesi eziologiche del crampo L’ipotesi eziologica più tradizionale si fonda su supposti squilibri idroelettrolitici e metabolici oltre che su fattori ambientali, anche se la validità scientifica si basa fondamentalmente su osservazioni anedottiche o su casi clinici isolati. In contrasto con questi dati, uno studio prospettico su corridori e atleti di triathlon indica che nessun cambiamento dello stato elettrolitico è stato notato negli atleti che sviluppano EAMC (Sulzer NU, et al. Med Sci Sports Exerc 2005;37(7):1081–5; Schwellnus MP et al. Br J Sports Med 2004;38(4):488–92). Sulla base di queste acquisizioni una nuova ipotesi eziologica è stata formulata, la quale invoca una perdita del controllo neuromuscolare come risultato dell’affaticamento muscolare. Questa ipotesi è stata confermata in studi su animali e recentemente riformulata. Attualmente la comunità scientifica sembra concorde nell’accettare il princi- pio della fatica muscolare come importante fattore nello sviluppo degli EAMC (Schwellnus MP. Sports Med 2007;37(4–5):364–7). Secondo i criteri della medicina basata sull’evidenza, si è cercato di inquadrare una serie di fattori di rischio per lo sviluppo di EAMC. Il fattore principale è la storia Escludere eventuali patologie Il trattamento immediato degli EAMC è l’interruzione dell’esercizio e l’allungamento passivo del muscolo coinvolto. L’allungamento passivo produce lo stimolo degli organi di Golgi che inducono un rilasciamento muscolare. La stessa efficacia di questa manovra • I crampi si associano con altri sintomi come parestesie, iposensibilità, grave debolezza muscolare? • I crampi si manifestano durante ogni picco di esercizio? • L’allungamento passivo del muscolo aggrava piuttosto che migliorare il crampo? • C’è una storia familiare di crampi? IL MONDIALE DEI CRAMPI "Le gambe sono appesantite dal clima caldo e umido, poco spettacolo in campo, molti crampi..." Queste le parole di un cronista che commentava una delle tante partite del Mondiale di calcio del 1994, giocato negli USA. Il forte caldo (davvero un'estate torrida) e la decisione di giocare le partite nel primo pomeriggio, a ridosso dell’ora di pranzo, per garantire la visione in Europa a un’orario “accettabile”, penalizzarono molto le prestazioni fisiche di tutti i giocatori, e di conseguenza lo spettacolo offerto dalla manifestazione nel suo complesso. Proprio il clima caldo-umido e la condizione fisica non ottimale di alcuni giocatori, che a causa di alcuni infortuni non avevano potuto allenarsi con grande regolarità durante la stagione calcistica, sono da considerarsi i principali fattori alla base dei crampi che, in alcune partite, videro protagonisti gli azzurri. Su tutti Roberto Mussi, Dino Baggio, Nicola Berti, Giuseppe Signori. Come aveva dichiarato in quei giorni del luglio 1994 il CT Arrigo Sacchi "I più soggetti ai crampi sono stati i giocatori vittime di infortuni durante la stagione e che, quindi, hanno avuto meno opportunità di allenarsi". ni di crampi. Problematiche croniche che non si risolvono con questo approccio devono essere indagate per miopatie con una biopsia muscolare. clinica positiva per crampi e l’esecuzione di esercizi di durata e intensità superiore a quelli eseguiti durante un normale allenamento. Il fattore ambientale più importante è invece il clima caldoumido. Vi è invece una chiara evidenza che nè la disidratazione nè gli squilibri elettrolitici sono causa di EAMC. La tipica presentazione clinica è costituita dal manifestarsi dei crampi durante esercizio intenso in clima caldo-umido in atleti in condizioni di allenamento sub-ottimale, precedute da fascicolazioni muscolari, e che si risolvono con il cessare dell’attività e l’allungamento passivo del muscolo. Il crampo può essere precipitato dalla contrazione muscolare con muscolo accorciato. I muscoli più frequentemente coinvolti sono il polpaccio e il quadricipite femorale. Ovviamente il medico deve escludere la presenza di crampi generalizzati anche in muscoli non sottoposti a fatica e la confusione mentale (stato semi-comatoso o comatoso) che devono essere sempre trattati come emergenze cliniche, dato che in tal caso si tratta sicuramente di una patologia sistemica solitamente di tipo metabolico. Prevenire con l'allenamento La prevenzione dei crampi si basa sulla protezione del muscolo da un prematuro affaticamento. Si tratta quindi di ridurre l’intensità e la durata dello sforzo, evitare l’esercizio in ambiente caldo-umido, allenarsi regolarmente ed adeguatamente prima degli eventi sportivi, eseguire regolarmente stretching dei muscoli più fre- sostiene la tesi di un’anomala attività spinale riflessa più che di uno squilibrio idro-elettrolitico. Utile anche porre l’atleta in un ambiente a temperatura confortevole. Infine tutti gli atleti con crampi acuti devono essere informati che se nelle successive 24 ore rimanessero anurici o avessero urine molto scure devono rivolgersi ad un medico. L’atleta che viene a visita lamentando un problema di crampi ricorrenti deve essere innanzitutto interrogato per escludere una patologia medica sottostante. Le domande più importanti a tale scopo sono le seguenti: • I crampi avvengono durante esercizio leggero e di breve durata? • Ha dei crampi a riposo? • Fa uso di qualche farmaco? • I crampi sono associati ad urine scure? Se la storia clinica è positiva per qualcuno di questi fattori bisogna eseguire un percorso diagnostico completo perchè è probabile che vi sia una condizione medica sottostante. In genere è opportuno richiedere esami ematici di base con emocromo, elettroliti, creatinkinasi, TSH. Può essere utile una valutazione delle abitudini alimentari del paziente. Escluse le cause sistemiche, l’atleta può essere indirizzato ad uno specifico programma di allenamento prima del rientro allo sport e gli va suggerito di tenere un diario dove annotare l’attività sportiva e le manifestazio- quentemente coinvolti, curare l’alimentazione con un adeguato apporto soprattutto di carboidrati. Un approccio multidisciplinare è quindi la migliore risposta ad un problema così frequente. Semplici norme possono aiutare lo sportivo soggetto a crampi durante l’esercizio. L’attenzione del medico deve essere sempre tesa ad individuare anamnesticamente quelle forme di crampo che possono sottendere una problematica medica importante, indirizzando questa categoria di persone ad accertamenti più approfonditi. Lorenzo Castellani Matteo Laccisaglia 3 FOCUS ON Il danno cartilagineo nello sportivo A che punto siamo nel trattamento di questa patologia? Ecco una rassegna degli approcci terapeutici a disposizione I l danno condrale nel soggetto sportivo è a tutt’oggi un grosso problema gestionale, dato che le possibilità terapeutiche, pur essendo molto varie, non sono sempre così accessibili nella pratica comune per problemi di costi e di organizzazione. Inoltre ad oggi non esiste una sicura validazione scientifica dei risultati, cosa che limita di molto l’utilizzo di tali procedure in contesti non istituzionalmente dediti alla ricerca clinica. Cartilagine sotto stress La storia naturale delle lesioni condrali nell’atleta è ben documentata. La potenzialità riparativa della cartilagine è assai scarsa, dal momento che si tratta di un tessuto non vascolarizzato. In più un tessuto cartilagineo lesionato sottoposto ad un carico continuo legato allo sport come stress rotazionali e impatti, produce una progressiva degenerazione con generazione di citochine ed enzimi degradativi che non fanno che peggiorare progressivamente il danno. Questi cambiamenti del micro-ambiente articolare sono in tutto simili a quelli del ginocchio artrosico iniziale dell’anziano. Un po’ di ricerca Uno studio svedese a lungo termine ha dimo- strato una progressione del danno a 14 anni dalla lesione iniziale tale da determinare l’abbandono o la drastica riduzione dell’attività sportiva con un quadro radiografico di artrosi franca nel 57% dei casi (Maletius W et al. Acta Orthop Scand 1996; 165–8). Il quadro peggiora drammaticamente quando alla lesione condrale si associa un’instabilità articolare. Il National Institute of Health americano e una serie di altri studi indipendenti mostrano un incremento del rischio relativo di artrosi di 4-5 volte maggiore rispetto alla popolazione generale per lo sportivo di alto livello (Felson DT. Ann Intern Med 2000; 133:635–46). Ma lo sport non è poi in assoluto un male per le nostre articolazioni. Infatti la stimolazione correlata al carico sportivo negli atleti adolescenti ha dimostrato un incremento dello spessore e del trofismo delle cartilagini. Esiste pertanto una correlazione lineare dose-risposta tra il carico e la funzione della cartilagine articolare (Jones G, et al. Br J Sports Med 2003;37:382–3). Qui finisce il “bello” in quanto altri studi dimostrano l’esistenza di una soglia di stimolazione che non viene più tollerata: si passa quindi in una situazione di scompenso da stress che produce nel tempo un danno (Kiviranta I, et Al. Clin Orthop Rel Res 1992;283:302–8). Chiaramente una cartilagine scompensata che va incotro a rarefazione per apoptosi dei condrociti, risponde malamente alle ulteriori stimolazioni dovute al carico di lavoro. Se in più sono presenti altre alterazioni concomitanti come instabilità, malallineamenti o lesioni meniscali la cascata del danno viene vorticosamente alimentata. Trattamenti a confronto Che cosa abbiamo a disposizione per cercare di rallentare o bloccare l’evoluzione del danno? Da sempre il trattamento del danno condrale è stato un obiettivo assai ambizioso e tecnicamente complesso. Certamente lo sviluppo della ricerca scientifica ha creato grande entusiasmo verso le nuove possibilità terapeutiche. Si tratta molto schematicamente di tre tipologie di trattamento: tecniche di stimolazione midollare; tecniche di trapianto osteocondrale; tecniche di riparazione cellulare. Nonostante il comprensibile entusiasmo ricordiamo che risultati clinici prospettici sono tuttora assai limitati per queste procedure. Qui a fianco vediamo brevemente in cosa consistono tali tecniche. Nuove soluzioni al vaglio della ricerca Nel frattempo la ricerca ha sviluppato la possibilità di associare il trapianto condrocitario a degli scaffold in cui le cellule vengono fatte crescere. Si parla pertanto di tecniche di seconda generazione. In pratica questi scaffold biodegradabili supportano temporaneamente i condrociti fino alla loro completa integrazione. Ma la ricerca si sta spingendo ancora oltre. Lo sviluppo di “bio-reattori” permette in laboratorio non solo lo sviluppo dei condrociti, ma anche della matrice extracellulare e non solo bi-dimensionalmente, ma anche in 3D. Il risultato è la formazione di una neo-cartlagine spongiosa con condrociti attivi e matrice extracellulare (NeoCart, Histogenics, Waltham, MA). I primi risultati clinici sono incoraggianti a 2 anni di FU e uno studio prospettico è in corso di completamento. La frontiera emergente è la terapia genica e l’uso di cellule staminali. L’una è in grado di produrre condrociti più efficienti nella produzione di matrice extracellulare e più differenziati, le cellule staminali invece possono essere usate da sole o in combinazione ad altre tecniche per stimolare l’efficacia riparativa del tessuto da rigenerare. In conclusione è importante a nostro parere seguire da vicino l’evoluzione delle nuove possibilità per trattare un problema assai comune quale la lesione osteocondrale nello sportivo. Auspichiamo che ben presto la conclusione di studi prospettici in corso possa aiutare a standardizzare un po’ meglio i percorsi terapeutici per tale patologia. Lorenzo Castellani Matteo Laccisaglia LA STIMOLAZIONE MIDOLLARE La stimolazione midollare è la conosciutissima tecnica delle microfratture, che resta una metodica molto diffusa per la bassa morbidità, invasività, costi e per il relativamente breve recupero post-operatorio. Si tratta di perforare l’osso sub-condrale determinando un sanguinamento che riempie il difetto condrale con un coagulo ricco di cellule mesenchimali. Tale coagulo produce nel tempo un tessuto riparativo ricco in collagene tipo 2. In letteratura sono descritti risultati variabili per questa procedura. Influenzano positivamente il risulta- I TRAPIANTI OSTEOCONDRALI I trapianti osteocondrali prevedono invece una riparazione con cartilagine ialina prelevata da altre sedi. Si parla quindi di autograft quando il sito donatore fa parte dell’individuo stesso, di allograft quando il trapianto viene prelevato da un donatore cadavere. Il prelievo di autograft viene eseguito in zone articolari a basso carico e vengono impiantati nel difetto con tecniche press-fit. Il problema tecnico maggiore è il mantenimento della concavità/convessità del sito ricevente. Un’incongruità dimensionale o di curvatura determina un drastico aumento delle forze di contatto e può essere di per sè artrogeno. Inoltre la presenza di un sito di prelievo può determinare una malattia in un’altra sede. In que- LA RIPARAZIONE CELLULARE Le tecniche di riparazione cellulare si sono sviluppate con diverse tecnologie. Il trapianto di condrociti autologhi prevede l’estrazione di tali cellule dalla cartilagine prelevata in zone articolari a basso carico. Le cellule estratte vengono moltiplicate in vitro prima del reimpianto. Due recenti studi multicentrici hanno valutato l’efficacia di queste tecniche riparative negli atleti (Mithofer K et al. Am J Sports Med 2005; 33:1639–46; Mithofer K et al. Am J Sports Med 2005; 33:1147–53): i risultati sono stati buoni o eccellenti in una percen- to il trattamento in acuto, l’età del paziente sotto i 40 anni, una dimensione ridotta della lesione (minore di 200 mm3). Il rovescio della medaglia è probabilmente correlato ad una non completa integrazione con la cartilagine circostante e ad una progressiva riduzione di spessore che determina un deterioramento del risultato nel tempo. L’evoluzione di questa tecnica vede attualmente l’uso di fattori di crescita locali aggiuntivi o l’uso di scaffold che favoriscono la permanenza in sede del coagulo dopo le microperforazioni. Il risultato di queste tecniche modificate è ancora in studio. sto senso e per il trattamento di difetti osteocondrali estesi può essere utile il ricorso all’allograft. I limiti di questa procedura risiedono nella disponibilità del pezzo anatomico e, se si intende usare un trapianto fresco, nella necessità di un breve periodo trascorso tra il prelievo dal donatore e l’impianto sul ricevente. Le tecniche di congelamento infatti sembrano ridurre enormemente la vitalità dei condrociti e la composizione della matrice. La terza possibilità è il ricorso a sostituti osteocondrali costituiti da scaffold riassorbibili che sono studiati per indurre la crescita di cellule ossee e cartilaginee al loro interno. Tali sostituti possono alternativamente essere utilizzati per riempire i difetti dovuti al prelievo osteocondrale nelle tecniche che prevedono l’utilizzo di autograft. tuale variabile tra il 72 e il 96%. I migliori risultati si ottengono per le lesioni isolate del condilo femorale mediale. Le limitazioni di questa tecnica includono l’invasività (necessità di doppio intervento), la lunga riabilitazione post-operatoria e l’ipertrofia periostale. Inoltre la coltura in vitro delle cellule condrocitarie provocano una tendenza alla de-differenziazione verso la fibrocartilagine riparativa di tipo II. Un’evoluzione della tecnica prevede infatti la caratterizzazione dei condrociti e lo sviluppo selettivo di linee cellulari capaci di produrre cartilagine ialina. Mancano ancora dati a lungo termine sui risultati di questa tecnica.