Nazareth n. 4 – 2015 – ottobre – novembre – dicembre

Transcript

Nazareth n. 4 – 2015 – ottobre – novembre – dicembre
Periodico di educazione cristiana n. 4, ottobre, novembre, dicembre 2015 - Anno CIX - Poste Italiane spa - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2, DCB VERONA
anno della
vita consacrata
Sommario n. 4/2015
A cura delle
«Piccole Suore della Sacra Famiglia»
ottobre, novembre, dicembre
n. 4 - 2015 Anno CIX - Trimestrale
Direttore responsabile:
Sr. Maria Angelica Cavallon
Direzione e Amministrazione:
Istituto Piccole Suore
della Sacra Famiglia
37010 Castelletto di Brenzone (VR)
Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003
(conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2,
DCB VERONA
Autorizzazione Tribunale
di Verona n. 29, 8 febbraio 1960
COMITATO DI REDAZIONE:
37138 Verona
Via G. Nascimbeni, 10
www.pssf.it - e-mail: [email protected]
Sr. Maria Angelica Cavallon,
Sr. Maria Romana Bombo,
Sr. Umberta Maria Bettega
La rivoluzione della tenerezza.............. 1
LETTERA DELLA MADRE
Oltre l’efficienza verso l’accoglienza.... 1
FORMAZIONE
Prendersi cura di Dio............................ 3
L’essere generati!................................... 4
Beati i miti............................................. 5
MAGISTERO
La Parola efficace.................................. 7
LETTERATURA - CINEMA
La figura di Francesco d’Assisi.............. 9
SCUOLA E VITA
“Voi stessi date loro da mangiare”:
condivisione e “con-passione”............ 11
BIBLIOTECA
Letture di qualità per l’infanzia........... 13
SPIRITUALITÀ CONDIVISA
Aurora e vita consacrata..................... 15
Il volto di Gesù Crocifisso.................. 16
VOCE GIOVANI - ARTE
La Natività............................................ 17
Iva assolta dall’Editore
ex art. 74 D.P.R. 633/72
VITA DELLE PSSF
“Chi accoglie uno di questi bambini
nel mio nome, accoglie me...”............ 19
“... chi accoglie me, non accoglie
me, ma colui che mi ha mandato”
(Mc 9,37).............................................. 20
“Svegliate il mondo”
Incontro mondiale per giovani
consacrati e consacrate
Roma, 15-19 settembre 2015............... 21
Angolo francescano............................. 22
La pubblicazione è curata
da Editoriale Della Scala
Povegliano Veronese
VOCE GIOVANI
Essere figli:
una sfida, un’avventura....................... 23
COLLABORATORI DI QUESTO NUMERO:
Andrea Cornale, Anna Pia Viola,
Giulio Biondi, Katia Scabello Garbin,
Maria Laura Rosi, Suor Erica Benetton.
Stampa: Grafiche Piave s.r.l.
Via Spagna, 16
37069 Villafranca (VR)
Tel. 045/6301555
Fax 045/6301789
VOCE DEL FONDATORE – CARISMA
Le nostre regole: IERI...OGGI............. 24
ANNO DELLA VITA CONSACRATA
Alcune attese del Papa:
oltre l’efficienza la gioia...................... 25
CEI - ORIENTAMENTI PASTORALI
L’efficacia del Vangelo:
può trasformare il cuore..................... 26
TESTIMONIANZE
Un amore profondo per la vita.......... 27
Cinquant’anni insieme......................... 28
Sono entrate nella pienezza
della vita.............................................. 28
Camminare... ...................................... 29
LE PSSF IN MISSIONE
“Missione Albania”.............................. 30
Oggi siamo in festa!............................. 31
Progetto Missione-Giovani.................. 32
CONTINUA IL GRANDE ABBRACCIO
Il Papa a Cuba e negli USA................ 34
Incontro mondiale con le famiglie..... 35
V CONVEGNO NAZIONALE A FIRENZE
Per un nuovo umanesimo.................. 37
IN RENDIMENTO DI GRAZIE
Un viaggio a tre profili........................ 38
Beati i misericordiosi perchè
troveranno misericordia
2015-2016............................................. 39
MEDICINA
L’efficacia di una terapia..................... 40
è NATO PER NOI IL SALVATORE!
Auguri.................................................. 41
Ricordiamo ai gentili Lettori
il rinnovo dell’abbonamento
per il 2016:
€ 15,00 per l’Italia
€ 20,00 per l’estero
sul c/c postale n. 14875371
intestato a:
Istituto Piccole Suore
della S. Famiglia,
via Nascimbeni, 6
37010 Castelletto (VR)
C
La
RIVOLUZIONE
della
tenerezza
G
enerazione dopo generazione,
giorno dopo giorno,
siamo invitati a rinnovare la nostra fede.
Siamo invitati a vivere
la rivoluzione della tenerezza
come Maria, Madre della Carità.
Siamo invitati a “uscire di casa”,
a tenere gli occhi e il cuore
aperti agli altri.
La nostra rivoluzione
passa attraverso la tenerezza,
attraverso la gioia
che diventa sempre prossimità,
che si fa sempre compassione
– che non è pietismo,
è patire-con, per liberare –
e ci porta a coinvolgerci, per servire,
nella vita degli altri.
(Dall’Omelia di Papa Francesco,
Santuario della “Vergine della carità del cuore”
Cuba, martedì 22 settembre 2015)
NAZARETH 4 2015
oncludendo il nostro percorso annuale che ci ha portato a riflettere su alcuni
aspetti della realtà sociale, alla luce del
Vangelo e del nostro carisma, ci soffermiamo
in questo numero su un binomio ricorrente nel
linguaggio contemporaneo: “efficacia-efficienza”. Non si tratta di due sinonimi ma di termini correlati che presentano significati differenti. L’efficacia indica la capacità di raggiungere
l’obiettivo prefissato, mentre l’efficienza valuta
l’abilità di farlo impiegando le risorse minime
indispensabili.
Riflettendo sul diverso significato dei termini,
sono stata riportata alle immagini che quasi
quotidianamente i mass-media ci propongono
sui migranti che fuggono dalle loro terre martoriate verso l’Europa. Si tratta di un evento
epocale e drammatico, per le proporzioni numeriche e per il modo in cui si sta sviluppando.
Affrontare questo fenomeno con intelligenza e
sapienza evangelica significa seguire il criterio
dell’efficienza o dell’efficacia? Significa cioè essere preoccupati soprattutto di “come fare” a
gestire l’emergenza, oppure vuol dire iscrivere
ogni scelta dentro un orizzonte di senso che dà
significato e valore a quanto si fa?
In altri termini, si tratta di capire se intendiamo
semplicemente cercare di “risolvere” il problema nel più breve tempo possibile, impiegando
il minimo indispensabile di energie e risorse,
oppure se c’è una visione strategica, di fondo,
volta a integrare in modo effettivo e, appunto, efficace, coloro che provengono da un’altra
storia, cultura, religione. Quale idea di umanità ci guida? Quale uomo vogliamo educare per
una convivenza pacifica e fruttuosa tra i popoli? Come cristiani non possiamo evitare di porci
queste domande. Infatti la Chiesa italiana, che si
è riunita a Firenze per il 5° Convegno Ecclesiale Nazionale (9-13 novembre), ha scelto come
1
LETTERA DELLA MADRE
Oltre
l’efficienza
verso
l’accoglienza
Foto di Manuela Petino
LETTERA DELLA MADRE
tema: “In Gesù Cristo il nuovo umanesimo”. È
Cristo il criterio da seguire per rendere la vita
più umana e donare speranza a chi proviene da
storie di ingiustizia e violenza.
Ci è chiesto di passare dalla logica della pura
efficienza a quello della efficacia, avendo come
obiettivo l’annuncio di una umanità amata e benedetta dal Dio della misericordia. Una umanità
capace di vivere in pace, accogliere il diverso,
scegliere la mitezza e l’umiltà come ci ha testimoniato il Signore Gesù. Le nostre comunità
cristiane e religiose devono essere seme di una
umanità nuova, che non cerca per prima cosa il
profitto e l’efficienza, ma cura l’umanità, le relazioni, riconosce e promuove la dignità di ciascuno. Papa Francesco ha chiesto e promosso
in prima persona una serie di azioni concrete
per accogliere i migranti, perché come cristiani
riconosciamo che sono nostri fratelli e sorelle,
figli e figlie dello stesso Padre, creature fatte a
sua immagine e rivestite di una dignità infinita
e indelebile.
Il nostro carisma di Piccole Suore della Sacra
Famiglia ci orienta verso il servizio ai piccoli e ai
poveri. Come “piccole”, coloro che ricevono tutto da Dio, Sommo e unico Bene, siamo mandate
ai “piccoli”, coloro che hanno bisogno di scoprire che Dio si prende cura della loro vita, perché
li ama. Ci sentiamo chiamate a testimoniare il
primato di Dio a garanzia del valore della persona, in una società nella quale spesso chi non
2
è più efficiente, a causa dell’età o della malattia,
viene considerato uno “scarto” perché non più
utile, e perciò viene marginalizzato. Il Papa ci
invita a rifiutare questa logica per abbracciare
con tenerezza chi è rifiutato da tutti.
Ci è chiesto di partire dall’esperienza quotidiana, dai piccoli gesti, con lo sguardo rivolto a
Gesù Maria e Giuseppe. Nella Famiglia di Nazareth la vita di ogni membro è stata promossa,
custodita, arricchita in umanità nello sviluppo di
un fecondo e incessante rapporto con Dio Padre e nell’accoglienza del suo piano di salvezza.
La promozione di ogni persona, soprattutto dei
più deboli e indifesi, è segno del Regno, della
presenza di Dio in mezzo a noi, del suo agire a
nostro favore. Il Fondatore, don Giuseppe Nascimbeni, animato da una vibrante passione per
l’uomo, ripeteva che avrebbe speso volentieri
la vita “anche per un’anima sola”, perché ogni
persona ha un valore infinito.
Raccogliamo allora l’invito, ognuno secondo le
proprie possibilità, a farci spazio accogliente
per tutti quelli che bussano alla nostra porta, soprattutto i più poveri, promuovendo una cultura
che include e accoglie anziché escludere, una
cultura non basata sul criterio dell’efficienza ma
sull’amore di Dio che non fa distinzione tra le
sue creature.
Suor Angela Merici Pattaro
Superiora generale
NAZARETH 4 2015
Dio
FORMAZIONE
Prendersi cura di
Essere spazio accogliente
C
’è un libro, il Diario di Etty Hillesum, che
negli ultimi anni è stato riscoperto e valorizzato per alcune intuizioni profonde di
carattere spirituale. Attraverso la vicenda dolorosa
della deportazione nei campi di concentramento,
dove poi morirà giovanissima, Etty comincia ad
ascoltare qualcosa dentro di sé.
Lei, non credente e affascinata più dalle pratiche
della psicoterapia e dalla letteratura che dalla religione, scopre di poter essere uno spazio accogliente per quanti soffrono nella sua stessa situazione. Ma soprattutto, cosa paradossale, sente di
poter e dover essere spazio accogliente per Dio
stesso.
Siamo abituati a rivolgerci a Dio come l’Onnipotente, il Misericordioso, il Padre provvidente
che ascolta la preghiera dei suoi figli. Anche se
la nostra preghiera sembra non essere efficace in
quanto non viene esaudita secondo le nostre modalità, tuttavia abbiamo l’immagine e il pensiero
che sia Dio a dover prendersi cura di noi.
E se a volte dovesse capitare il contrario? Se dovessimo essere noi a prenderci cura di Dio in certi
momenti della storia collettiva e personale in cui
a smarrirsi sembra essere proprio il Signore? Se
fosse Dio a temere di perdere “la faccia” con noi?
E dire che proprio per questo il Figlio si è fatto uomo: per metterci la faccia,
nella sofferenza umana. La tragedia dell’Olocausto ci ha messi
davanti al silenzio di Dio, alla sua
“impotenza” di fronte alla malvagità umana. Una tragedia che fa
sentire tutto il suo orrore in ogni
persona che oggi viene maltrattata, privata della propria libertà
e dignità.
In questo flusso inarrestabile di
migranti che sfidano la morte
per avere una possibilità di vita,
dov’è Dio? Perché Dio non si
prende cura di questi bambini e
non ferma questo orrore?
Oggi si formulano le stesse domande che furono fatte 70 anni
NAZARETH 4 2015
fa. E dietro questa morte sembra avanzarne un’altra: la morte stessa della fede in Dio, la morte
della speranza, la morte della fiducia nell’uomo.
Persone concrete muoiono nei nostri mari e sulla
nostra terra, ma a morire lentamente è lo stesso
cuore dell’uomo che non crede più di essere fatto
per cose grandi, di essere fatto per Dio stesso.
Dov’è Dio? Occorre prendersi cura di Lui. Occorre far sì che Egli venga riconosciuto anche nel silenzio e lasciare che il nostro cuore non si chiuda,
non si inaridisca di fronte alla malvagità. Credere
in Dio in questi momenti non significa aspettare
il suo intervento miracolistico, ma continuare a
dargli fiducia credendo comunque nella sua presenza.
Come si fa a permettere a Dio di essere libero di
essere Dio e non un fantoccio nelle nostre mani?
Si può cominciare con il guardarci dentro e chiederci con grande onestà cosa veramente riteniamo importante nella nostra vita. Stiamo sacrificando bellezza, amore, avventura, creatività in nome
di un successo e un egoismo che ci lascia inquieti.
Se riuscissimo a dare libero sfogo al nostro desiderio, se permettessimo al nostro cuore di donne
di parlare di attenzione, cura, grazia e non per
forza di efficienza, successo, giovinezza.
Se potessimo liberarci di falsi sogni che hanno
soffocato la nostra naturale bellezza, allora potremmo davvero
prenderci cura di Dio stesso. Potremmo accoglierlo fra le braccia,
cullarlo, accarezzarlo, rassicurandolo del fatto che una donna
può scegliere nella sua vita di
ascoltare Dio lasciando che Egli
sia se stesso.
Questo è il mistero dell’essere
donne: prendersi cura di Dio
come di una persona con le sue
difficoltà. Questo permetterà a
Dio di nascere sempre, di nuovo,
dal cuore di una donna per essere la speranza di ogni uomo.
Anna Pia Viola
3
FORMAZIONE
essere generati!
L’
Riconoscersi figli
4
tiva più grande e profonda, più autentica, ad un
modo diverso di intendere il nostro essere uomini:
la vita di ogni uomo è in relazione all’amore del
mistero di Dio, è radicata nel suo dono, è sostenuta dalla sua dedizione. Tutta la vita di Gesù è un
invito a riconoscerci come figli ‘amati’, a scoprire
il fondamento della propria esistenza nel rapporto
con Dio Padre, amante degli uomini e della vita,
accogliente, misericordioso, che è alla ‘ricerca’ di
coloro che sono perduti. L’uomo che si apre alla
fede scopre che all’origine del suo vivere sta la
dedizione amorevole del Padre che non cessa di
rivolgersi ai figli, di attendere una loro risposta d’amore, di suscitare in loro il desiderio di bellezza,
bontà, verità, giustizia. Questa prospettiva dà una
luce nuova alle nostra umanità, con le sue risorse
e le sue fragilità; al nostro cuore che è abitato da
tensioni, da grandi slanci e meschinità, da generosità ed egoismo; alla nostra libertà, non più intesa
come semplice ‘possesso di sé’, che può portare
alla chiusura in se stessi e all’autoreferenzialità, ma
come risposta personale e originale ad una dono
ricevuto. Libertà perciò che diventa incontro, attenzione, cura, responsabilità, ricerca del bene,
dilatazione del proprio cuore.
Le parole e gesti di Gesù sono un richiamo costante ad incontrare autenticamente l’altro, ad
accogliere ogni uomo come fratello al di là dei
legami naturali e al di là della qualità delle azioni
compiute. Nessuno è escluso dalla fraternità tra gli
uomini, perché non c’è nessuno per Gesù che sia
escluso dallo sguardo amorevole del Padre, che
non possa essere toccato dall’annuncio del Vangelo. Per questo Gesù ci invita, proprio perché figli
e fratelli, a dilatare la misura delle nostre relazioni
fino ad abbracciare tutti.
(tratto da www.firenze.2015.it)
NAZARETH 4 2015
Foto di Federico Beghini
“I
nvito ogni cristiano, in qualsiasi luogo e
situazioni si trovi, a rinnovare oggi stesso il suo incontro personale con Gesù
Cristo, o, almeno, a prendere la decisione di lasciarsi incontrare da Lui, di cercarlo ogni giorno
senza sosta. Non c’è motivo per cui qualcuno
possa pensare che questo invito non è per lui,
perché «nessuno è escluso dalla gioia portata dal
Signore» (Paolo VI). Chi rischia, il Signore non lo
delude, e quando qualcuno fa un piccolo passo
verso Gesù, scopre che Lui già aspettava il suo
arrivo a braccia aperte” (Papa Francesco, Evangelii gaudium n. 3).
“La relazione non si aggiunge dall’esterno a ciò
che siamo: noi siamo, di fatto, relazione. Lo siamo
prima ancora di sceglierlo o di rigettarlo consapevolmente, perché non veniamo da noi stessi,
ma ci riceviamo da altri, non solo all’origine della
nostra vita, ma in tutto ciò che siamo e abbiamo.
Il nostro esistere è un ‘esistere con’ e un ‘esistere
da’: impensabile, impossibile senza l’altro. L’essere generati è al fondo di ogni nostra possibile e
necessaria autonomia. Non c’è autonomia e responsabilità autentica, senza riconoscere questa
dimensione relazionale, vera matrice della nostra
libertà. La difficoltà a vivere le relazioni è determinata dalla difficoltà a riconoscerci come “donati
a se stessi”. Una vera relazione s’intesse a partire
dal riconoscersi generati, cioè figli, cifra più propria della nostra umanità. D’altronde, al cuore del
senso dell’umano rivelato in Gesù Cristo non sta
il nostro essere figli? Non comprenderemmo nulla
di Gesù – il senso delle sue parole, dei suoi gesti,
il suo modo di vivere le relazioni, la sua libertà –
fuori dal rapporto che egli ha con il Padre, cioè il
suo essere figlio, il Figlio, “Tutto mi è stato dato dal
Padre” (Mt 11,27); “Io e il Padre siamo una cosa
sola” (Gv 10, 30). Nel Figlio incarnato è svelata la
verità del nostro essere” (In Gesù Cristo il nuovo
umanesimo. Una traccia per il cammino verso il 5°
Convegno Ecclesiale Nazionale). Anche noi oggi
quando ci lasciamo davvero incontrare dal Signore ci stupiamo, come coloro che frequentavano
la sinagoga di Cafarnao, del suo insegnamento e
vediamo sorgere in noi degli interrogativi. Gesù
infatti ci pone sempre di fronte ad una prospet-
FORMAZIONE
Foto di Daniele Beccari
Arturo Paoli in dialogo con giovane. Dec. a 102 anni quest’anno.
Beati i miti
Avranno in eredità la terra (Mt 5,5)
L
a ragazza era “esile, una biondina di mezza statura (…) sempre in silenzio. Gli altri
discutono, pregano, mercanteggiano perché sia loro dato di più; lei niente, quel che
le veniva dato…”. Il marito così la descrisse,
ma non comprese mai il motivo della sua morte, cercata e trovata. La ragazza, all’apparenza
mite, a ben vedere non era affatto remissiva.
Non di rado infatti ella era capace di ribellione,
anche se poi si rifugiava in un cupo e inquieto
silenzio. Era mite? Non lo era? Probabilmente il
personaggio dell’opera di Dostoevskij era semplicemente un’adolescente: non più bambina,
non ancora donna, ma già, e troppo presto,
moglie.
Quell’uomo invece era riservato, la sua espressione dolce e umana, il suo fisico fragile. Egli
parlava alla folla, scaldava i cuori degli astanti
e smuoveva le loro coscienze. Era senza alcun
dubbio mite, era forte, era un leader. Mai un
discorso scomposto, sempre autorevole. Era
NAZARETH 4 2015
mite e, non desiderandolo, diventò per molte
generazioni un mito. Forse questo fu lo sbaglio
di molti che lo misero e lo lasciarono poi sul
piedistallo, che videro il dito e non la luna, che
si fermarono alla superficie e non andarono
alla sostanza, che preferirono venerarlo anziché trarre ispirazione dal suo buon esempio.
Fu un uomo di potere, nel senso che si trovò
nella condizione di poter operare, di mettersi
al servizio di una causa comune. In verità, non
poté mai cimentarsi con il potere della maggioranza, non fu mai nella stanza dei bottoni,
ma fu influente tanto da condizionare quelli
che armeggiavano con il potere dalla “p” maiuscola.
Quando si pensa ad una persona tranquilla,
mite, non sono pochi quelli che la immaginano
debole, paziente nel sopportare, disponibile a
subire, orientata all’abnegazione. Spesso si associa la forza all’arroganza, alla voce stentorea,
ai toni alti. Forse qualcuno ritiene che solo con
5
FORMAZIONE
sono qui per lavorare. Per lavorare. Posso sbagliare e rimediare, ma quella aggressione è inaccettabile. Hai capito ora?”.
Per la moglie giovane, per l’uomo mite, per il
capo popolo, per l’operaia qualificata e per la
collega che si arrischia a rispondere e quindi a
perdere il lavoro, non c’è nome: ciascuno per
tutte o per una di queste descrizioni può attribuirvi un volto, una storia. Non ci si inganni: la
persona che si mostra mite, può rivelarsi un tiranno, quella dal temperamento più energico e
all’apparenza prepotente, può nascondere una
magnanimità impareggiabile. Tuttavia, la forza
della mitezza sta in un atteggiamento dimesso,
umile, non violento. Non sono forse i miti che
erediteranno la terrà? Quella dei miti, nel senso di previlegiati e adorati, è una dimensione
trasfigurata. Quella dei miti, nel senso di tranquilli e umani, è la realtà del fiume carsico che
scorre sotterraneo per riaffiorare con forza in
superficie. Al mito toccherà forse l’evanescente
venerazione; al mite, beato, toccherà forse la
terra.
Michela Faccioli
Foto di Manuela Petino
un piglio autoritario si possa ottenere rispetto o
conseguire più facilmente un risultato lavorativo
o essere ricordati.
Quel capo popolo in effetti era insolente, cinico; convinceva i molti convenuti con poche e
ben assestate parole; parlava alla pancia e non
alla testa. Coloro che lo ascoltavano non erano commossi, anzi, più il monologo procedeva,
più questi si incattivivano. Il discorso sembrava
pragmatico. La realtà era: poter entrare prepotentemente sulla scena. Non c’era spazio per gli
ideali. “Gli ideali… che sono? Con gli ideali non
si mangia”.
Entra nel reparto la donna: gode del rispetto
dei titolari dell’azienda, che dopo molti anni trascorsi a lavorare con loro, le affidarono mansioni di una certa responsabilità. Ella ha modi
rudi con le colleghe, soprattutto con le più giovani, perché il prodotto non può attendere, la
velocità del nastro trasportatore e delle manovre
per l’impacchettamento deve aumentare. Se la
prende in particolare con una appena assunta,
la quale, impassibile, ammette lo sbaglio ma le
suggerisce anche di cambiare atteggiamento.
“Cosa? Come ti permetti?”. “Mi permetto perché
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NAZARETH 4 2015
Parola efficace
MAGISTERO
La
Le parole vere si forgiano nel silenzio
L
’abate Arsenio diceva d’essersi pentito
spesso d’aver parlato, e mai d’aver taciuto. Intendeva che il silenzio è una disciplina interiore alla quale va prestata attenzione...
Infatti la troppa loquacità indica sempre una
certa mancanza di lavoro, un ozio cattivo. San
Paolo lo ricorda a proposito delle vedove giovani: «Non avendo nulla da fare, si abituano
a girare qua e là per le case e sono non soltanto oziose, ma pettegole e curiose, parlando
di ciò che non conviene» (1Tm 5,13). I mezzi
di comunicazione di massa ci sottopongono a
quella che potremmo chiamare un’«alluvione di
parole». Mi domando: «Sono capace di vivere
senza la radio? Per quanti giorni?». Esiste un
consumismo di parole: parole dolci, seduttive,
oggettive, colleriche… di ogni tipo. Parole che
cercano di entrarci rumorosamente nel cuore e
non apportano niente alla verità. La Parola ha
creato l’universo, la Parola di Dio, che ha detto
e tutto fu fatto. La parola che usiamo è stata
depotenziata della sua potenza creativa. E noi
infatti lo sappiamo, perché istintivamente diffidiamo delle parole che ci vengono dette, non
vi prestiamo fede, diciamo: «Non sono altro che
parole… Non hanno niente a che vedere con
la verità». Eppure, quanto ci piace ascoltarle!
E quando dobbiamo esprimere un sentimento,
siccome le parole sono così consumate, a volte
non sappiamo come farlo; e allora ricorriamo a
una serie di artifizi, anch’essi menzogneri, che
prostituiscono il sentimento: la «formalità», la
«provocazione», la parola «sdolcinata» dell’intimista. Ma il sentimento resta dentro e non
sappiamo come esprimerlo nella verità, come
esprimerlo in solitudine. Ecco il cuore del problema: se non c’è solitudine non c’è silenzio,
e senza entrambi non c’è verità. Il silenzio è
l’espressione più alta della solitudine del cuore. Il silenzio trasforma la solitudine in realtà. E
quando non cediamo al prurito di ascoltare noi
stessi, cioè alla vanità dell’anti-silenzio, sfuggiamo alla solitudine di quelle innumerevoli maniere formali, provocatorie, intimistiche,
massificanti… Tutte parole che non danno vita,
NAZARETH 4 2015
che non nascono da un cuore passato attraverso il crogiolo della solitudine, nella costanza e
nell’affetto. Non nascono – in sostanza – da un
cuore fecondo. Le parole vere si forgiano nel
silenzio. Più ancora: il nucleo stesso della parola dev’essere silenzioso. Se la parola è vera, nel
suo cuore si annida il silenzio. E la parola, una
volta pronunciata, torna al silenzio abissale e
fecondo da cui proveniva. La parola muore per
fare posto all’amore, alla bellezza, alla verità,
che proprio essa ha portato... La nostra parola,
il nostro parlare, che nasce dal silenzio, dev’essere contenta di morire tornando al silenzio da
cui era uscita. Il silenzio c’insegna a parlare, dà
forza alla parola, la quale – per questo silenzio che racchiude – non è mero rumore (cfr.
1Cor 13,1). Il silenzio c’insegna a parlare perché mantiene nel nostro intimo il fervore religioso, l’attenzione allo Spirito Santo. Il silenzio
alleva la vita dello Spirito Santo in noi... I Padri
del deserto riferivano al silenzio la nostra vita
di pellegrini. Dicevano: Peregrinatio est tacere
(«Il pellegrinaggio consiste nel tacere»). Questo
Norvegia - Sole di mezzanotte
Foto di Alessandro Gabbana
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MAGISTERO
«peregrinare» è «essere alla ricerca di una patria» (Eb 11,14) senza lasciarsi irretire da questa
patria terrena... Le parole c’intrattengono e ci
fanno scordare che siamo pellegrini. È proprio
il silenzio a mantenerci nella nostra condizione
di pellegrini. «Vigilerò sulla mia condotta per
non peccare con la mia lingua; metterò il morso
alla mia bocca finché [poiché sono pellegrino]
ho davanti il malvagio» (Sal 39,2). Sant’Ignazio, quando si riferisce al silenzio, parla volentieri di «tranquillità» e «modestia» dell’anima...
Parla del silenzio l’apostolo Giacomo quando
scrive: «Ma se avete nel vostro cuore gelosia
amara e spirito di contesa, non vantatevi e non
dite menzogne contro la verità» (3,14). Quando
nel tuo cuore non c’è silenzio, quando c’è un
rumore cattivo, non esprimerlo sotto le mille
forme della vanagloria: il sarcasmo, la vanità,
l’intimismo, la fatuità, il pettegolezzo, il fare
contrariato e tormentato, il bisogno di avere
sempre qualcosa da ridire. Amarezze, affetti
disordinati, risentimenti, il cullarsi nel proprio
egoismo… tutte queste cose sono mancanza di
silenzio interiore e corrompono la verità. Infine, il silenzio è l’espressione più alta e più
quotidiana della dignità. Tanto più nei momenti di prova e di crocifissione, quando la carne
vorrebbe giustificarsi e sottrarsi alla croce. Nel
momento supremo dell’ingiustizia, «Gesù tace-
8
va» (Mt 26,63; cfr. anche Is 53,7; At 8,32). Non è
stato al gioco del rispondere a quanti gli dicevano di scendere dalla croce. Tutta la pazienza
di Dio, la pazienza di secoli, e anche il suo
affetto, emergono qui, in questo silenzio del
Cristo umiliato. Nella storia degli uomini fanno
irruzione il silenzio eterno della Parola, la «contemplatività» amorosa del Padre e del Figlio e
dello Spirito Santo, tutta la comunione trinitaria
dal silenzio dei secoli. È Parola, ma Parola che
– nell’ora dell’annientamento provocato dall’ingiustizia – si fa silenzio. Iesus autem tacebat.
Contempliamo tutto il «viaggio» della Parola di
Dio (cfr. Gv 1,1; 14,2-3; 14,10; 16,28); come
si fa tenerezza nel seno di una Madre. Questa
Madre «custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19.51). Nel cuore silenzioso di Maria ha sede la memoria della Chiesa.
Il silenzio «incarnato» del Verbo si esprime in
quel momento d’ingiustizia, di umiliazione, di
annientamento, nell’ora del potere delle tenebre. Quella è la dignità di Gesù, ed è anche la
nostra.
Riflessione sul silenzio tratta dal libretto di Jorge
Mario Bergoglio-Papa Francesco intitolato “La
forza del presepe”, che contiene alcune riflessioni del 1987 dell’allora padre gesuita, dedicate
alla festa del Natale (ora edite dalla Emi).
NAZARETH 4 2015
Francesco d’Assisi
Dante coglie ed evidenzia quello che appare come il
testamento spirituale di Francesco, il cui punto focale è la
povertà. I registi: Liliana Cavani, Franco Zeffirelli
e Roberto Rossellini non si lasciano sfuggire questo
Soggetto affascinante superando, con modalità diversificate,
potenziali banalità agiografiche
Q
uando si parla di mitezza e di umiltà, di
spiritualità e di esistenza serena, di efficacia piuttosto che di efficienza, è quasi
inevitabile pensare alla vita di san Francesco.
Vita che, ancor prima della morte del Santo e subito dopo di essa, fu considerata “straordinaria”
dai contemporanei, nell’accezione etimologica
del termine di “fuori dell’ordinario”. Se facciamo attenzione alle date, ed in particolare mettiamo in relazione quella della morte di Francesco
(1226) con gli anni della composizione della Divina Commedia (1304-1320), vediamo come tra
questi ultimi e la prima non intercorresse poi
tanto tempo, testimonianza inequivocabile del
segno profondo che l’esperienza francescana
aveva lasciato negli uomini del secolo XIII. Ed è
appunto di come Dante presenta Francesco che
vorrei parlare in quest’articolo, pur sapendo che
a molti lettori l’argomento non riuscirà affatto
nuovo. Siamo dunque nel Paradiso, canto XI,
cielo del Sole, tra gli spiriti sapienti. Dante e
Beatrice vi incontrano Tommaso d’Aquino, domenicano, al quale il poeta affida l’elogio di san
Francesco. Nel canto successivo, san Bonaventura da Bagnoregio, francescano, tesserà le lodi
di san Domenico. Ai domenicani e ai francescani, secondo Dante, la Provvidenza divina aveva
assegnato il compito di sostenere la Chiesa in
momenti storicamente molto difficili. Fin dall’inizio del suo discorso Tommaso, ricordando
che Assisi è situata ad est di Perugia, instaura
un parallelo tra Francesco, “nacque al mondo
un sole”, e Cristo, comunemente definito“sol
oriens”, ricorrendo alla metafora del sole che
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Beato Angelico, Incontro tra san Francesco e san Domenico, 1429, Museo di Berlino.
sorge ad oriente, molto diffusa al tempo e che
ai contemporanei suggeriva immediatamente il
motivo della cosiddetta “imitazione di Cristo”.
Fondamentalmente è questo l’argomento che
viene svolto nel panegirico di Tommaso, ma ancor più in particolare vi viene sviluppato il tema
della vita in povertà, anzi delle “nozze” con la
Povertà. Parlando di quest’ultima sotto forma di
estesa metafora, Tommaso la presenta come una
donna universalmente disprezzata e rifuggita,
alla quale Francesco, “giovinetto”, pur entrando
in conflitto con il padre, si unì davanti a tutti e
che amò sempre più, di giorno in giorno, fino
alla morte. Già Cristo, continua Tommaso, l’aveva presa in sposa, ma dopo il suo ritorno al Padre nessun altro l’aveva più considerata e ama-
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letteratura - cinema
La figura di
letteratura - cinema
Mickey Rourke nel film Francesco (1989)
ta. Dopo aver finalmente rivelato che la donna
di cui si sta parlando è la Povertà, Tommaso
aggiunge che la felicità di quell’unione indusse
altri a cercare di raggiungere la stessa concordia e la stessa pace, finché si formò una vera e
propria “famiglia”, contraddistinta dalla semplice corda (“l’umile capestro”) che cingeva il saio
dei frati ai loro fianchi. Citati brevemente dapprima le approvazioni papali della “regola” francescana e poi il tentativo del Santo di convertire
il sultano d’Egitto nel corso di una missione in
Terra Santa, Tommaso giunge alla conclusione
del suo racconto ricordando il miracolo delle
stimmate, con le quali Cristo volle riconoscere la
vicinanza, la conformità di Francesco a se stesso, ma soprattutto il momento in cui Francesco
“raccomandò la donna sua più cara” ai suoi frati,
come a legittimi eredi, e “comandò che l’amassero a fede (fedelmente)”. Il fatto che Francesco non avesse voluto nessun’altra bara per il
suo corpo se non la nuda terra viene narrato da
Tommaso con un’immagine particolarmente significativa: quella dell’anima luminosa del Santo
che torna in Cielo staccandosi dal grembo della
Povertà, come se quest’ultima lo avesse tenuto
in braccio fino all’ultimo respiro. Come si può
notare, nel testo di Dante non compaiono i vari
miracoli della tradizione francescana, divenuti
ormai canonici e che Giotto aveva già dipinto
nella basilica superiore di Assisi. Dante coglie
ed evidenzia quello che appare come il testamento spirituale di Francesco, il cui punto focale è la povertà: la “donna” di cui si innamora
giovanetto, alla quale si unisce in un matrimonio mistico – così come aveva fatto Cristo, che
aveva voluto essere povero per arricchire tutta
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l’umanità con la sua incarnazione – e che raccomanda ai suoi fratelli in punto di morte. C’è
una polemica, neppure tanto velata, nelle parole di Dante, contro la Chiesa sfarzosa e corrotta
del tempo, che aveva dedicato a Francesco una
basilica sontuosa in forte contrasto con lo spirito della sua predicazione: Francesco di sicuro
avrebbe destinato l’enorme quantità di denaro
speso per la sua costruzione ed il suo abbellimento a scopi diversi…
Il cinema, dal canto suo, non poteva lasciarsi
sfuggire un soggetto affascinante come la vicenda del Santo di Assisi, che interessò infatti molti
registi. Tra i più grandi, Liliana Cavani, Franco
Zeffirelli e Roberto Rossellini.
La Cavani realizzò addirittura due film sullo stesso argomento, a distanza di ventitré anni l’uno
dall’altro. Il primo, Francesco d’Assisi del 1966,
interpretato da Lou Castel, costituisce l’esordio
della regista ed anticipa da un lato le idealità rivoluzionarie che avrebbero ispirato di lì a poco
il Sessantotto, dall’altro il dissenso cattolico, di
cui la regista era esponente. Il secondo, Francesco del 1989, vede come protagonisti Mickey
Rourke ed Helena Bonham Carter, nella parte di
Chiara, cui è affidato il racconto della vita del
Santo. Senza concedere nulla all’agiografia tradizionale, la Cavani rappresenta un Francesco
molto simile a Cristo quando quest’ultimo “dà
scandalo”, rompe gli schemi, in rapporto alle
consuetudini radicate, e non disdegna l’azione
accanto alla contemplazione.
Del 1972 è invece Fratello Sole, Sorella Luna di
Franco Zeffirelli, in cui il protagonista è Graham
Faulkner. è un film tipicamente “zeffirelliano”,
molto attento, cioè alla bellezza delle immagini,
dei paesaggi, degli ambienti, dei costumi… La
colonna sonora, altrettanto gradevole, è firmata
da Riz Ortolani e da un giovanissimo Claudio
Baglioni. Il film risente molto della contestazione giovanile di quegli anni e non si può fare
a meno, vedendolo, di andare con il pensiero
agli hippies di Hair ed agli attori di Jesus Christ
Superstar.
Sul versante opposto, rispetto alla concezione cinematografica cara a Zeffirelli, è Francesco giullare di Dio, girato nel 1950 da Roberto Rossellini. Costituito da undici episodi tratti
dai Fioretti e dalla Vita di frate Ginepro. Il film
racconta la vita del Santo e dei suoi compagni
impegnati a predicare l’amore per ogni piccola cosa terrena e disposti a sopportare qualsia-
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estetico per lasciar parlare i fatti, sempre legati
alla quotidianità, tanto che, anche se si parla
di vicende risalenti al tardo medioevo, si può
senz’altro dire che il film rappresenta uno dei
vertici del neorealismo italiano.
Maria Laura Rosi
Castelletto Gruppo di figli impegnato mentre i genitori si incontrano per la formazione
«Voi stessi date loro da mangiare»:
e
condivisione
“Con-PASSIONE”
Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono
dicendo: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle
campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo:
qui siamo in una zona deserta». Gesù disse loro:
«Voi stessi date loro da mangiare». (Luca 9, 12-13)
E
fficienza ed efficacia. Si pensa spesso, superficialmente, che i due concetti sia sinonimi, che dalla prima scaturisca quasi
meccanicamente la seconda. Non è sempre così
però, e lo splendido dialogo evangelico fra i dodici e il loro Maestro racconta questa differenza
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in modo magnifico.
Gli apostoli sono un ottimo esempio di efficienza: osservano ciò che hanno intorno, fanno i loro
calcoli e danno a Gesù un suggerimento che sembra più un ordine necessario, una conseguenza
scontata ed automatica rispetto alla situazione
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SCUOLa E VITA
si tipo di umiliazione. Nella sceneggiatura (cui
prese parte Federico Fellini) gli aneddoti sono
cuciti con il filo della “santità”, intesa come anticonformismo, sincerità, ribellione e, talora, anche follia. Rossellini, andando controcorrente
come spesso gli accade, rifugge dalle potenziali
banalità dell’agiografia e da qualunque artificio
SCUOLa E VITA
circostante. Il loro sguardo è stato senza dubbio
oggettivo: siamo nel deserto, la gente è stanca e
affamata, lasciamola quindi andare perché provveda a se stessa. Gesù invece vede oltre ciò che
sta davanti a lui e ai dodici. O meglio, vede nel
profondo e supera la facile soluzione dei suoi seguaci per trovarne una quasi “rivoluzionaria” nella sua semplicità, al di là di ciò che segue (simbolicamente o meno) nel brano del Vangelo, ovvero
la moltiplicazione dei pani e dei pesci.
Cosa ci insegna – a noi, discepoli di Gesù – quel
«Voi stessi date loro da mangiare»? Cosa insegna
a noi che ci occupiamo di educazione, che abbiamo a che fare tutti i giorni con i bisogni dei
“piccoli”? In fondo quello che Cristo dà ai suoi è
un invito all’amore: a mettersi davvero nei panni
degli altri, a non attendere che sia qualcun altro
a risolvere i problemi, a mettersi al servizio, a rinunciare ad ogni remora di superbia o individualismo per donare e donarsi, a non perdere tempo
e mettersi in discussione, ad essere umili quanto
gli umili. Davanti ai problemi del mondo siamo
in fondo come i dodici nel deserto: li vediamo da
una posizione spesso sopraelevata e distante. Siamo colpiti e dispiaciuti e ci viene facile dire “bisognerebbe fare così”, oppure “perché chi di dovere
non risolve la situazione”. Gesù non dà questo
tipo di risposta, piuttosto esorta: “vedi tu, in prima
persona, ciò che puoi fare”. Al di là di ogni volontarismo, ciò che Cristo chiede è prima di tutto di
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mettersi sullo stesso piano di chi abbiamo davanti,
di comprendere ciò di cui ha davvero bisogno e
di fare subito quanto ci è possibile per alleviare
ed aiutare, senza delegare e senza rimandare.
Chi lavora con i ragazzi nelle scuole ha senz’altro
molto da imparare dall’efficacia umile e sollecita
di Gesù, che è in fondo lo stesso atteggiamento
di concreto servizio che il Beato Giuseppe Nascimbeni chiamava “zac tac”. Nessun educatore
può dire “non mi interessa” davanti ad un’esigenza di chi ha davanti. Così come nessun insegnante può scrollare le spalle e rispondere “non
è in programma” se i suoi allievi gli chiedono di
parlare di una importante questione di attualità.
Quel «Voi stessi date loro da mangiare» invita ad
un’apertura verso gli altri e verso il mondo non
momentanea e superficiale (e nemmeno volontaristica e solipsistica) ma reale, tangibile. Un’apertura capace di farsi con-passione, il che non
significa – come spesso si crede – avere pietà
(e quindi sentirsi in fondo superiori) ma “patire
con”, cioè mettersi nei panni dell’altro e cercare
di capire ciò che prova, ciò di cui necessita, ciò
che domanda. Un educatore non è un “filantropo” che elargisce aiuti senza nemmeno guardare
negli occhi le persone, ma è una persona in mezzo alle persone, che condivide con esse lo stare
assieme e progetta un cammino con e per loro.
Andrea Cornale
NAZARETH 4 2015
BIBLIOTECA
LETTURe di qualità
per l’infanzia
Parole, colori, immagini che profumano di vita e di speranza
D
ino Buzzati (scrittore, giornalista, drammaturgo, poeta, librettista e pittore italiano) diceva che «Scrivere per ragazzi è
come scrivere per adulti, solo più difficile». Talvolta circola l’idea che scrivere ed illustrare libri
per bambini e ragazzi sia cosa facile, alla portata
di molti; in realtà è molto più difficile, perché
richiede capacità di cogliere il mondo dal loro
punto di vista, rispettando pienamente la verità
psicologica della prospettiva dei giovani protagonisti. Aveva, e continua ad avere, ragione Buzzati!
Per questo è importante offrire ai bambini ed ai
ragazzi letture di alta qualità, come molto spesso
abbiamo ripetuto fra le righe di questo spazio
dedicato alla letteratura per l’infanzia: letture di
qualità in grado di aprire la mente, di alimentare
la fantasia, di ampliare i punti di vista sul mondo
grazie all’originalità di parole ed immagini. Parole
ed immagini che devono essere capaci di aprire
i più giovani ad un senso del bello verso la vita,
ad un atteggiamento di speranza verso il futuro,
ad un desiderio di partecipazione e condivisione.
Fra i migliori artisti presenti oggi nel panorama
editoriale mondiale, merita una nota particolare
Jimmy Liao, nato a Taipei nel 1958 e che dal 1998
ha pubblicato più di trenta libri illustrati, tradotti
NAZARETH 4 2015
in tutto il mondo. Lo stile poetico di Liao pervade,
con straordinaria bellezza, il testo e le immagini,
in un’alternanza e in una reciprocità dei due codici narrativi riscontrabili solo in pochi altri artisti.
Ciò che colpisce di questo autore asiatico è la
capacità di raccontare storie che scendono nella
profondità dell’anima, senza tradire la leggerezza
che caratterizza ogni sua narrazione. Conoscendo la sua biografia, scopriamo che è stato al termine di una grave malattia che Liao ha deciso di
dedicarsi con maggior intensità alla scrittura per
bambini e ragazzi. È lui stesso ad affermare che:
“Dopo le cure, pennello alla mano, compresi che
la mia attitudine al disegno era profondamente
cambiata. La malattia mi aveva offerto la possibilità di osservare la vita da un differente punto di
vista”. Sceglie, perciò, di affrontare temi importanti, da lui stesso fortemente sperimentati come
la solitudine, la diversità, la ricerca di se stessi
attraverso la metafora del viaggio, l’amicizia, l’abbandono, nella consapevolezza che i giovani lettori possono trovare rispecchiati quei sentimenti
che a loro appartengono, legittimati fra le pagine
dei suoi racconti. Ciò che ulteriormente stupisce
è che i protagonisti delle storie di Liao sono fragili: per carattere, per relazioni genitoriali, per
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BIBLIOTECA
problematiche fisiche o altro. E, cosa ancor più
straordinaria, fra le pagine dei suoi libri, troviamo
bambini e ragazzi capaci di esprimere virtù fragili
e desuete come la gentilezza, la mansuetudine,
la mitezza, la tenerezza. In Italia, ad oggi, solo
quattro libri sono stati tradotti e pubblicati dalla casa editrice Gruppo Abele: quattro splendidi
albi illustrati. Il più fresco di pubblicazione è Abbracci (ottobre 2014):
quanti tipi diversi di
abbracci
possiamo
immaginare? Ce lo
racconta questo libro,
intriso di una tenerezza infinita, che ammonisce come “nessun
abbraccio deve essere
dimenticato”. Il valore
terapeutico dell’abbraccio, talvolta, lo
dimentichiamo. L’effetto rasserenante, protettivo,
rilassante, incoraggiante di un abbraccio può essere solo sperimentato. Liao riesce in questa impresa, senza facili edulcorazioni, recuperando la
bellezza di un gesto “necessario come il pane”
(dalla prefazione di Antonio Ferrara). Un libro
che dovremmo regalare alle persone che amiamo, insieme con un abbraccio che apre il cuore,
che conferma un legame, che rafforza la fiducia
reciproca, che infonde speranza di poter contare sempre su qualcuno. Così come è successo
alla giovane protagonista di Una splendida notte stellata (racconto
pubblicato dalle Edizioni Gruppo Abele
nel 2013) che, dopo
la perdita del nonno,
trova in una nuova
amicizia linfa per apprezzare la bellezza
della pioggia, del sole,
delle stelle. Liao, in
questo racconto, non
offre un lieto fine nei
canoni che conosciamo, bensì dona alla
giovane protagonista una speranza rinnovata nei
confronti della vita, sì difficile, quanto altrettanto
degna di essere vissuta in pienezza, nonostante
tutto. In questo secondo albo fanno capolino con
evidenza opere di Van Gogh e Magritte insieme
ad altre contaminazioni artistiche che richiama-
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no Paul Klee. L’arte, dunque, che esce dai musei
ed entra nelle pagine dei libri di Liao, tessendo
trame con le emozioni e vissuti raccontati: un’esperienza estetica che Liao riesce a costruire con
efficace maestria. Molto più fantasioso, invece, il
racconto La luna e il bambino (del 2012), in cui
la luna si perde e con questo spariscono tutti i
suoi benefici: le notti sono buie, il mare rimane
privo di maree, le astronavi si perdono nello spazio e si diffonde, ovunque, un senso di solitudine
e quiete. Se le lune fabbricate dall’ingegno umano pare leniscano tale vuoto, sarà la generosità
di un bambino a salvare la situazione: lui che la
vera luna ha trovato e con cui ha costruito una
bellissima amicizia, capirà che dovrà separarsi da
questa amica speciale, serbando, tuttavia, un ricordo profondo, indelebile, unico, che lo accompagnerà per tutta la vita. Un racconto del tutto
immaginifico, seppur pieno di emozioni reali. Il
quarto libro di Liao che possiamo incontrare nelle librerie gode di una particolarità che lo rende
unico: la giovanissima protagonista racconta il
suo vagare attraverso una metropolitana. Nulla
di particolare, se non fosse che si tratta di una
ragazzina diventata cieca che, amplificando i suoi
recettori percettivi, vede oltre l’invisibile. Le illustrazioni, dunque, diventano espressione del suo
“immaginare”, in un miscuglio di sogno e realtà,
percepito e desiderato, riconosciuto ed immaginato. Un inno ai colori della vita, ai colori delle
emozioni e delle sensazioni che non si fermano
al buio della cecità, ma si aprono a nuove dimensioni. Un chiaro invito a non fermarsi di fronte
a qualsivoglia ostacolo, a trovare inedite vie per
amare la vita e per viverla sempre con rinnovata
speranza. Il messaggio che fa capolino in
questo libro, dal titolo La voce dei colori
(settembre 2011), è
racchiuso in una chiara espressione dello stesso autore che
afferma: “Se cercate
bene c’è sempre una
via d’uscita”. Un messaggio di speranza,
dunque, che ci invita a non sprecare il tempo,
bensì, soprattutto nei momenti più difficili, ad
aguzzare i sensi, la mente, il cuore.
Katia Scabello Garbin
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M
entre la corriera al mattino presto percorre la Gardesana Orientale in direzione
sud, osservo con stupore lo stagliarsi nitido del profilo dei monti contro il graduale incedere del giorno. L’aurora avanza inebriando di luce
le cime dei cipressi, le fronde degli ulivi, le vele
gonfie per il vento favorevole. Tutto si risveglia
all’inizio di un nuovo giorno. La poesia della vita
afferra l’animo e fuga ogni altro pensiero. Pian piano l’intimo si riappacifica con se stesso e con gli
altri e, soprattutto con l’Altro, riconosciuto come
l’Autore di meravigliosi prodigi.
Associo all’aurora di un giorno nuovo il sorgere
della vocazione delle due carissime aspiranti Melissa e Rita. La loro esperienza comunitaria in Casa
Gioiosa a Castelletto, nella struttura recettiva e
nella scuola, ha il sapore inconfondibile del pane
fresco appena sfornato. Queste sorelle hanno consegnato a Dio la loro esistenza perché fosse Lui a
far lievitare la gioia dell’incontro, il coraggio della
risposta, lo stupore del cammino. Hanno attinto
dalla Parola meditata e assimilata il quotidiano imprevedibile spendersi: si sono donate presso l’infermeria, il Centro di spiritualità e formazione, la
Casa di Riposo, la Scuola “S. Famiglia”, e hanno
offerto ai fratelli incontrati un germoglio di speranza. Hanno animato la liturgia con il suono, con
il canto, con la genuina giovanile vitalità. Hanno
comunicato la loro spensieratezza nei momenti
conviviali fraterni e con gli scherzi faceti. Abbiamo
ammirato la loro capacità di cogliere il positivo di
ogni sorella, di valorizzare ogni dono ricevuto, di
comunicare con libertà il proprio pensiero. Come
il lievito fa lievitare il pane, così la vocazione di
Melissa e di Rita ha trovato nella Parola di Dio l’agente trasformatore dell’esistenza. Non sono mancate le prove inevitabili che hanno, però, provvidenzialmente consolidato le motivazioni più
NAZARETH 4 2015
profonde per intraprendere un cammino di sequela Christi. “Beato chi trova in te la sua forza e decide nel suo cuore il santo viaggio”. Lo stupore di
sentirsi chiamato per nome, guardato, scelto con
tenerezza di predilezione pone il chiamato nella
condizione di assaporare la benevolenza di Dio,
da cui scaturisce il desiderio di diffondere verso gli
altri la gioia incontenibile di appartenere all’Eterno, di essere presenza visibile delle realtà invisibili. L’incontro con Dio nella preghiera, nella Parola,
nei sacramenti, nella solitudine rende possibile la
realizzazione del Suo progetto d’amore che vuole raggiungere ogni uomo e ogni donna di tutti i
tempi e di tutti i luoghi. Solo se esclusivamente
innamorato di Dio, il consacrato può procedere
nella via di consacrazione particolare al Regno di
Dio, donandosi ai fratelli in una particolare famiglia religiosa, con i suoi carismi e i suoi servizi. È
Dio che, per mezzo del suo consacrato, asciuga
le lacrime degli afflitti, solleva i dolori dei malati,
educa chi è in formazione, avvicina il carcerato,
accoglie l’immigrato, addita la speranza a chi l’ha
perduta, abbatte le barriere dell’odio e della incomunicabilità. Quanto bisogno c’è di consacrati che
servano con amore i fratelli vedendo in loro Cristo
stesso che ha detto: “Qualunque cosa avete fatto
al più piccolo dei miei fratelli l’avete fatto a me”.
Ringraziamo Melissa e Rita che hanno accettato la
sfida di mettere a disposizione di Dio le loro giovani energie, il loro entusiasmo, accettando le fatiche di un cammino formativo ancora lungo, ma
sorretto dalla fedeltà di Dio. A noi che abbiamo
ricevuto il grande dono della loro presenza resta la
gratitudine al Signore della vita per quanto giorno
dopo giorno ha operato in loro. Le consegniamo
alla comunità di Viterbo dove vivranno il loro postulandato. Siamo grate ai Fondatori che ci hanno
ottenuto di renderci strumento della formazione
di Melissa e Rita e attendiamo con ferma speranza
altre giovani che seguano il loro esempio e che
vengano a condividere con noi un tratto di strada.
Suor Emanuela Biasiolo e comunità
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spiritualità condivisa
Aurora e
vita
consacrata
spiritualità condivisa
Il
volto
di Gesù Crocifisso
Nell’interpretazione di fr. Mario Venzo, gesuita
S
offermiamoci ad osservare
come fr. Mario Venzo (19001989) nella sua opera “Volto
di Gesù Crocifisso” abbia voluto
fermare l’attimo in cui Gesù muore sulla croce. Nel quadro è riportato solo il particolare del volto
reclinato sulla spalla destra, parte
del braccio destro e del torace;
solo un accenno allo strumento
del supplizio: la croce. Qui non
siamo di fronte ad un “compianto”, dove Gesù è di solito disteso
su un sudario con i dolenti intorno: sua Madre, la Maddalena ed
altri; qui Cristo ha appena esalato
l’ultimo respiro, è ancora appeso
alla croce ed il pittore ferma come in un fotogramma il passaggio dalla vita alla morte.
La scelta dei colori esprime tutto il dramma che
si sta svolgendo e l’artista accosta colori complementari, che si fondono poi in un colore freddo, verdastro, dando forma ad un corpo oramai
esangue. I colori, molto accesi, feriscono, sono
inquietanti e nel loro contrasto sembrano suggerire e sottolineare insieme l’ultimo scontro tra
vita e morte. Tecnicamente, accostamenti molto
riusciti, secondo la regola che due colori complementari messi vicini si esaltano vicendevolmente.
Ma qui dobbiamo andare oltre gli schemi pittorici: siamo di fronte a Gesù - uomo che affronta la
morte… “e la morte di Croce”, con tutte le sofferenze del martirio addosso.
Il vibrare dei colori, le luci fredde, il rosso della corona di spine, della Croce accennata e del fondo
ricordano quali terribili momenti Cristo ha passato
con il suo sacrificio: le ferite bruciano come “soli”
tutto intorno... è agonia. Anche il cielo si tinge di
nero mentre il sangue di Gesù, sparso sulla croce, illumina e si rovescia sopra una folla assetata
di odio, inondandola di… Perdono. Ed è questo
tema, il Perdono, che fr. Venzo esprime nel suo
quadro, conferendo al volto di Gesù, con pochi e
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sicuri tratti, tutta la compostezza
e la serenità con cui il Figlio di
Dio accetta il Sacrificio, offrendosi vittima per la nostra salvezza.
La morte qui non è l’ultima inappellabile parola, che fa calare
il sipario della nostra esistenza:
essa è e rimane penultima, perché alla fine c’è la Resurrezione
di Gesù, che è, in certo modo,
anticipata in quell’azzurro-turchese riflesso sulla parte reclinata del volto del Figlio di Dio e
avvolge, rivela e nasconde la ferita del costato. In questo Cristo
Crocifisso c’è già la manifestazione dell’incontro certo e definitivo con la misericordia di Dio Padre.
Italo Forieri
Annotazioni sul quadro - Fr. Venzo non l’ho incontrato. Ho il quadro perché una Signora anziana, di cui non conosco il nome, a me presentata da suor Cristofora, è venuta nella chiesa di S.
Francesco, a Bassano del Grappa (VI), e mi ha
detto: “Possiedo un quadro di Fr. Venzo, con il
Volto di Gesù in croce. Frequentavo villa “S. Giuseppe”, e un giorno nello studio del gesuita ho
visto il dipinto e gli ho chiesto di regalarmelo. Di
fronte alle mie insistenze egli finì col donarmelo.
Adesso sono anziana, se lo accetta, glielo regalo”.
Senza averlo visto, le ho risposto: “Ben volentieri.
E visto che tra poco andrò a Vicenza, come rettore del seminario teologico, lo appenderò nel mio
studio e quindi i giovani seminaristi lo vedranno
e, senza parole, parlerà loro. Grazie immense!”.
Evidentemente da allora lo porto sempre con me,
ora attorniato da altri volti di Gesù, ma di autori
meno famosi.
Ecco le semplici informazioni sul come è arrivato
questo quadro “prezioso” a don Gianfranco Cavallon.
NAZARETH 4 2015
Natività
L’“efficacia” dell’arte nell’analisi delle varianti
di uno stesso Soggetto
Gentile da Fabriano
P
ersonalmente vedo il nesso efficacia-arte un
po’ confuso, tuttavia si può cercare di dire
qualcosa circa l’efficacia o meno di un’opera d’arte se per il binomio arte-efficacia si precisa
un po’ meglio di quale genere di arte si parla.
Nel caso dell’arte sacra devozionale, non si può
negare che affreschi, mosaici, bassorilievi, vetrate
istoriate, tarsie lignee e ceramiche siano state la
“Bibbia dei poveri”, specie nei momenti forti di
evangelizzazione del cristianesimo o nei momenti
scismatici come lo sono stati i secoli centrali del
Medioevo e il periodo della Riforma e Controriforma, a proposito dei quali molti studiosi si sono
trovati concordi nel riconoscere un certo “potere delle immagini” assai efficace nel diffondere il
messaggio cristiano. Detto ciò, qualche considerazione è forse possibile farla. Prendendo come
tema generale l’Incarnazione, una pista per valutare la sua riproposizione in maniera più o meno
aderente e dunque efficace in campo artistico potrebbe essere quella di mettere a confronto l’immagine che vari pittori hanno dato di un medesimo brano come quello della Natività (Lc 2, 1-21).
Essendo una scena di genere nota a tutti, non mi
dilungherò sulla descrizione dei singoli quadri che
andrò a menzionare, quanto semmai a mettere in
luce le similitudini, i punti di distacco e alcune
specifiche proprie dei singoli manufatti.
La scarna carrellata di natività che propongo si
compone di tre versioni del Quattrocento Italiano, ovvero quelle di Gentile da Fabriano, Beato
Angelico e Bartolomeo Suardi detto Bramantino. Il
primo è autore del pannello sinistro della predella (cornice a mo’ di basamento) della Pala dell’adorazione dei Magi eseguita nel 1423: si tratta di
NAZARETH 4 2015
una tempera su tavola, conservata agli Uffizi di
Firenze che è forse uno dei più affascinanti e meglio eseguiti notturni della storia dell’arte. È invece
di pochi anni dopo, nel 1438 per la precisione,
che l’Angelico affrescando la chiesa fiorentina di
S. Marco si cimenta con il soggetto della natività,
ora conservato al Museo di S. Marco in Firenze.
Per la seconda metà del Quattrocento, esemplare è la tempera su tavola datata 1495 eseguita da
Bramantino e oggi conservata a Milano nella Pinacoteca Ambrosiana. Al di là delle tecniche esecutorie e della attuale collocazione, per condurre
una analisi che non sia troppo vaga, si valuteranno questi tre parametri: impostazione e gestione
dello spazio, personaggi e loro caratterizzazione,
ambientazione.
Nel XV secolo per quanto riguarda la costruzione
dello spazio, si possono individuare alcuni tratti
distintivi: se Gentile da Fabriano e Beato Angelico
optano per impostazioni semplici e geometricamente ben definite, Bramantino sceglie soluzioni
più originali collocando il punto di fuga della rappresentazione in maniera centrifuga o policentrica.
Nello specifico, la predella lignea di Gentile è così
composta: a sinistra, al riparo di un edificio, due
donne delle quali una assopita o pensierosa dà le
spalle allo spettatore, mentre l’altra fissa il centro
della scena atteggiandosi con una posa che, come
uno specchio riflettente, ricalca - ma al contrario
- la postura di S. Giuseppe; la Madonna in manto
blu e veste rossa occupa la parte centrale assieme
al bambino deposto sulla paglia, vicino al bue e
all’asino che a stento riesce a trovare riparo nella
angusta grotta; a sinistra S. Giuseppe in veste blu e
mantello dorato è assorto appoggiato a un esile alberello che, in coppia con l’altro tronco rinsecchito in secondo piano, è l’unico elemento fitomorfo
della rappresentazione. Completano la scena due
pastori stesi sulla collina di destra, abbagliati dalla
luce divina emanata questa volta non dalla cometa, qui assente, ma dalla figura di un angelo.
L’ambientazione è molto semplice: una casa diroccata, due alberi, una grotta modesta, dolci colline
all’orizzonte, il tutto coperto da un bellissimo cielo
stellato. Questa semplicità compositiva, rinvia per
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voce giovani - ar te
La
voce giovani - ar te
analogia alla Natività dell’Angelico. La staticità che ricorda le
statuine del presepe, è percepibile nelle pose speculari, così
come lo sono i colori delle loro
vesti, dei quattro angeli oranti
sul tetto della capanna; nei profili del bue e dell’asino, i corpi
dei quali sono come celati da
una specie di separé di un improbabile colore turchino; nelle
figure disposte in diagonale di
Bramantino
Caterina d’Alessandria con corona in testa e di Pietro martire visto di spalle; e
ovviamente nella Sacra Famiglia, che veste colori
insoliti da un punto di vista iconografico: abito
rosso e mantello viola doppiato ocra la Vergine,
così come di viola e ocra si compone in pendant
la mise di S. Giuseppe. Acuisce il senso di staticità
il fatto che tutti i figuranti, anche se visti da diverse angolazioni, sono tutti tratteggiati nella medesima posa in ginocchio, capo lievemente reclinato
e mani giunte. I colori freddi degli abiti, il cielo
plumbeo, l’assoluta mancanza di vegetazione a
favore di un paesaggio roccioso e nulla più, conferiscono alla Natività un tono freddo, distaccato.
Conclude la serie di esempi la posposta del Bramantino la quale, come accennato, si discosta da
tutte quelle sin qui osservate per la sua impostazione policentrica e pure teatrale. Il fatto che
sia una scena policentrica fa presupporre che sia
costruita attorno a più gruppi collazionati in un
unico brano, e infatti: la Madonna e il bambino
deposto su un telo bianco che guarda verso sinistra formano un primo gruppo, un secondo è
dato dai musici appoggiati alla colonna in secondo piano, al di sotto dei quali tre frati in ginocchio
tutti con capo chino ma tutti diversi circa
la gestualità costituiscono un ennesimo gruppetto, così come la coppia
formata dall’anziano barbuto e
la giovane ragazza in abito scuro dietro la Madonna e infine,
seppur distanti ma uniti da una
immaginaria linea diagonale,
formano l’ultimo gruppo la ragazza dai capelli rossi a destra
e l’uomo con corona d’alloro e
veste nera così come nera è la
veste della ragazza. Altri aspetti
da notare sono: l’abbigliamenBeato Angelico
to della Madonna che si disco-
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sta da quello sin qui visto e si
compone di una veste rossa,
di un insolito mantello di seta
cangiante marrone e di una cuffia di veli che trattiene i capelli;
grande assente di questo brano
è S. Giuseppe; interessanti anche le pose aggraziate dei musici che ricordano quelle botticelliane della Primavera o del
ciclo di Nastagio degli Onesti.
Di rilievo l’imponente elemento architettonico che è dato dal
fornice voltato a botte e decorato internamente
con geometriche modanature ed esternamente
con capitelli classicheggianti; ritorna la quasi assenza di motivi fitomorfi, fatta eccezione per un
ramo di rovi a sinistra e un groviglio di tralci verdi che pende dall’alto a mo’ di lampadario sulla
destra; infine, un cielo incolore, rende l’atmosfera
rarefatta e sospesa.
Qui si conclude la carrellata delle varianti sul medesimo tema della Natività. Che dire? Elementi
simili e differenti tra un’opera e l’altra sono stati messi in luce, questo basta per dire qualcosa
circa la maggiore efficacia di un opera piuttosto
che un’altra? Credo di no: l’aver ritratto la Vergine
a capo velato o con i capelli sciolti, la presenza
orante di S. Giuseppe o la sua totale assenza, il
numero di angeli presenti a contorno del brano e
altri simili particolari, a mio avviso interessantissimi, nel valutare o meno l’efficacia della traduzione pittorica di un brano biblico credo che abbiano
una influenza irrisoria in termini di efficacia. Nel
caso delle natività viste: perché la sua riproposizione artistica sia efficace basta che sia presente Gesù, della cui Natività si vuole informare lo
spettatore, tutti gli elementi di a latere, il
fatto che questi sia attorniato solo dalla
Madonna piuttosto che da Maria e
Giuseppe insieme, da uno, due o
più pastori e angeli, oppure l’ambientazione è cosa irrilevante, a
mio avviso, nel decretare l’efficacia del quadro. Si può fare un
discorso di differenti stili e rese
pittoriche, di diverse sensibilità e contesti storico-artistici ma
non credo di efficacia.
Giulio Biondi
NAZARETH 4 2015