Nazareth n. 4 – 2015 – ottobre – novembre – dicembre
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Nazareth n. 4 – 2015 – ottobre – novembre – dicembre
Periodico di educazione cristiana n. 4, ottobre, novembre, dicembre 2015 - Anno CIX - Poste Italiane spa - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2, DCB VERONA anno della vita consacrata Sommario n. 4/2015 A cura delle «Piccole Suore della Sacra Famiglia» ottobre, novembre, dicembre n. 4 - 2015 Anno CIX - Trimestrale Direttore responsabile: Sr. Maria Angelica Cavallon Direzione e Amministrazione: Istituto Piccole Suore della Sacra Famiglia 37010 Castelletto di Brenzone (VR) Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2, DCB VERONA Autorizzazione Tribunale di Verona n. 29, 8 febbraio 1960 COMITATO DI REDAZIONE: 37138 Verona Via G. Nascimbeni, 10 www.pssf.it - e-mail: [email protected] Sr. Maria Angelica Cavallon, Sr. Maria Romana Bombo, Sr. Umberta Maria Bettega La rivoluzione della tenerezza.............. 1 LETTERA DELLA MADRE Oltre l’efficienza verso l’accoglienza.... 1 FORMAZIONE Prendersi cura di Dio............................ 3 L’essere generati!................................... 4 Beati i miti............................................. 5 MAGISTERO La Parola efficace.................................. 7 LETTERATURA - CINEMA La figura di Francesco d’Assisi.............. 9 SCUOLA E VITA “Voi stessi date loro da mangiare”: condivisione e “con-passione”............ 11 BIBLIOTECA Letture di qualità per l’infanzia........... 13 SPIRITUALITÀ CONDIVISA Aurora e vita consacrata..................... 15 Il volto di Gesù Crocifisso.................. 16 VOCE GIOVANI - ARTE La Natività............................................ 17 Iva assolta dall’Editore ex art. 74 D.P.R. 633/72 VITA DELLE PSSF “Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me...”............ 19 “... chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato” (Mc 9,37).............................................. 20 “Svegliate il mondo” Incontro mondiale per giovani consacrati e consacrate Roma, 15-19 settembre 2015............... 21 Angolo francescano............................. 22 La pubblicazione è curata da Editoriale Della Scala Povegliano Veronese VOCE GIOVANI Essere figli: una sfida, un’avventura....................... 23 COLLABORATORI DI QUESTO NUMERO: Andrea Cornale, Anna Pia Viola, Giulio Biondi, Katia Scabello Garbin, Maria Laura Rosi, Suor Erica Benetton. Stampa: Grafiche Piave s.r.l. Via Spagna, 16 37069 Villafranca (VR) Tel. 045/6301555 Fax 045/6301789 VOCE DEL FONDATORE – CARISMA Le nostre regole: IERI...OGGI............. 24 ANNO DELLA VITA CONSACRATA Alcune attese del Papa: oltre l’efficienza la gioia...................... 25 CEI - ORIENTAMENTI PASTORALI L’efficacia del Vangelo: può trasformare il cuore..................... 26 TESTIMONIANZE Un amore profondo per la vita.......... 27 Cinquant’anni insieme......................... 28 Sono entrate nella pienezza della vita.............................................. 28 Camminare... ...................................... 29 LE PSSF IN MISSIONE “Missione Albania”.............................. 30 Oggi siamo in festa!............................. 31 Progetto Missione-Giovani.................. 32 CONTINUA IL GRANDE ABBRACCIO Il Papa a Cuba e negli USA................ 34 Incontro mondiale con le famiglie..... 35 V CONVEGNO NAZIONALE A FIRENZE Per un nuovo umanesimo.................. 37 IN RENDIMENTO DI GRAZIE Un viaggio a tre profili........................ 38 Beati i misericordiosi perchè troveranno misericordia 2015-2016............................................. 39 MEDICINA L’efficacia di una terapia..................... 40 è NATO PER NOI IL SALVATORE! Auguri.................................................. 41 Ricordiamo ai gentili Lettori il rinnovo dell’abbonamento per il 2016: € 15,00 per l’Italia € 20,00 per l’estero sul c/c postale n. 14875371 intestato a: Istituto Piccole Suore della S. Famiglia, via Nascimbeni, 6 37010 Castelletto (VR) C La RIVOLUZIONE della tenerezza G enerazione dopo generazione, giorno dopo giorno, siamo invitati a rinnovare la nostra fede. Siamo invitati a vivere la rivoluzione della tenerezza come Maria, Madre della Carità. Siamo invitati a “uscire di casa”, a tenere gli occhi e il cuore aperti agli altri. La nostra rivoluzione passa attraverso la tenerezza, attraverso la gioia che diventa sempre prossimità, che si fa sempre compassione – che non è pietismo, è patire-con, per liberare – e ci porta a coinvolgerci, per servire, nella vita degli altri. (Dall’Omelia di Papa Francesco, Santuario della “Vergine della carità del cuore” Cuba, martedì 22 settembre 2015) NAZARETH 4 2015 oncludendo il nostro percorso annuale che ci ha portato a riflettere su alcuni aspetti della realtà sociale, alla luce del Vangelo e del nostro carisma, ci soffermiamo in questo numero su un binomio ricorrente nel linguaggio contemporaneo: “efficacia-efficienza”. Non si tratta di due sinonimi ma di termini correlati che presentano significati differenti. L’efficacia indica la capacità di raggiungere l’obiettivo prefissato, mentre l’efficienza valuta l’abilità di farlo impiegando le risorse minime indispensabili. Riflettendo sul diverso significato dei termini, sono stata riportata alle immagini che quasi quotidianamente i mass-media ci propongono sui migranti che fuggono dalle loro terre martoriate verso l’Europa. Si tratta di un evento epocale e drammatico, per le proporzioni numeriche e per il modo in cui si sta sviluppando. Affrontare questo fenomeno con intelligenza e sapienza evangelica significa seguire il criterio dell’efficienza o dell’efficacia? Significa cioè essere preoccupati soprattutto di “come fare” a gestire l’emergenza, oppure vuol dire iscrivere ogni scelta dentro un orizzonte di senso che dà significato e valore a quanto si fa? In altri termini, si tratta di capire se intendiamo semplicemente cercare di “risolvere” il problema nel più breve tempo possibile, impiegando il minimo indispensabile di energie e risorse, oppure se c’è una visione strategica, di fondo, volta a integrare in modo effettivo e, appunto, efficace, coloro che provengono da un’altra storia, cultura, religione. Quale idea di umanità ci guida? Quale uomo vogliamo educare per una convivenza pacifica e fruttuosa tra i popoli? Come cristiani non possiamo evitare di porci queste domande. Infatti la Chiesa italiana, che si è riunita a Firenze per il 5° Convegno Ecclesiale Nazionale (9-13 novembre), ha scelto come 1 LETTERA DELLA MADRE Oltre l’efficienza verso l’accoglienza Foto di Manuela Petino LETTERA DELLA MADRE tema: “In Gesù Cristo il nuovo umanesimo”. È Cristo il criterio da seguire per rendere la vita più umana e donare speranza a chi proviene da storie di ingiustizia e violenza. Ci è chiesto di passare dalla logica della pura efficienza a quello della efficacia, avendo come obiettivo l’annuncio di una umanità amata e benedetta dal Dio della misericordia. Una umanità capace di vivere in pace, accogliere il diverso, scegliere la mitezza e l’umiltà come ci ha testimoniato il Signore Gesù. Le nostre comunità cristiane e religiose devono essere seme di una umanità nuova, che non cerca per prima cosa il profitto e l’efficienza, ma cura l’umanità, le relazioni, riconosce e promuove la dignità di ciascuno. Papa Francesco ha chiesto e promosso in prima persona una serie di azioni concrete per accogliere i migranti, perché come cristiani riconosciamo che sono nostri fratelli e sorelle, figli e figlie dello stesso Padre, creature fatte a sua immagine e rivestite di una dignità infinita e indelebile. Il nostro carisma di Piccole Suore della Sacra Famiglia ci orienta verso il servizio ai piccoli e ai poveri. Come “piccole”, coloro che ricevono tutto da Dio, Sommo e unico Bene, siamo mandate ai “piccoli”, coloro che hanno bisogno di scoprire che Dio si prende cura della loro vita, perché li ama. Ci sentiamo chiamate a testimoniare il primato di Dio a garanzia del valore della persona, in una società nella quale spesso chi non 2 è più efficiente, a causa dell’età o della malattia, viene considerato uno “scarto” perché non più utile, e perciò viene marginalizzato. Il Papa ci invita a rifiutare questa logica per abbracciare con tenerezza chi è rifiutato da tutti. Ci è chiesto di partire dall’esperienza quotidiana, dai piccoli gesti, con lo sguardo rivolto a Gesù Maria e Giuseppe. Nella Famiglia di Nazareth la vita di ogni membro è stata promossa, custodita, arricchita in umanità nello sviluppo di un fecondo e incessante rapporto con Dio Padre e nell’accoglienza del suo piano di salvezza. La promozione di ogni persona, soprattutto dei più deboli e indifesi, è segno del Regno, della presenza di Dio in mezzo a noi, del suo agire a nostro favore. Il Fondatore, don Giuseppe Nascimbeni, animato da una vibrante passione per l’uomo, ripeteva che avrebbe speso volentieri la vita “anche per un’anima sola”, perché ogni persona ha un valore infinito. Raccogliamo allora l’invito, ognuno secondo le proprie possibilità, a farci spazio accogliente per tutti quelli che bussano alla nostra porta, soprattutto i più poveri, promuovendo una cultura che include e accoglie anziché escludere, una cultura non basata sul criterio dell’efficienza ma sull’amore di Dio che non fa distinzione tra le sue creature. Suor Angela Merici Pattaro Superiora generale NAZARETH 4 2015 Dio FORMAZIONE Prendersi cura di Essere spazio accogliente C ’è un libro, il Diario di Etty Hillesum, che negli ultimi anni è stato riscoperto e valorizzato per alcune intuizioni profonde di carattere spirituale. Attraverso la vicenda dolorosa della deportazione nei campi di concentramento, dove poi morirà giovanissima, Etty comincia ad ascoltare qualcosa dentro di sé. Lei, non credente e affascinata più dalle pratiche della psicoterapia e dalla letteratura che dalla religione, scopre di poter essere uno spazio accogliente per quanti soffrono nella sua stessa situazione. Ma soprattutto, cosa paradossale, sente di poter e dover essere spazio accogliente per Dio stesso. Siamo abituati a rivolgerci a Dio come l’Onnipotente, il Misericordioso, il Padre provvidente che ascolta la preghiera dei suoi figli. Anche se la nostra preghiera sembra non essere efficace in quanto non viene esaudita secondo le nostre modalità, tuttavia abbiamo l’immagine e il pensiero che sia Dio a dover prendersi cura di noi. E se a volte dovesse capitare il contrario? Se dovessimo essere noi a prenderci cura di Dio in certi momenti della storia collettiva e personale in cui a smarrirsi sembra essere proprio il Signore? Se fosse Dio a temere di perdere “la faccia” con noi? E dire che proprio per questo il Figlio si è fatto uomo: per metterci la faccia, nella sofferenza umana. La tragedia dell’Olocausto ci ha messi davanti al silenzio di Dio, alla sua “impotenza” di fronte alla malvagità umana. Una tragedia che fa sentire tutto il suo orrore in ogni persona che oggi viene maltrattata, privata della propria libertà e dignità. In questo flusso inarrestabile di migranti che sfidano la morte per avere una possibilità di vita, dov’è Dio? Perché Dio non si prende cura di questi bambini e non ferma questo orrore? Oggi si formulano le stesse domande che furono fatte 70 anni NAZARETH 4 2015 fa. E dietro questa morte sembra avanzarne un’altra: la morte stessa della fede in Dio, la morte della speranza, la morte della fiducia nell’uomo. Persone concrete muoiono nei nostri mari e sulla nostra terra, ma a morire lentamente è lo stesso cuore dell’uomo che non crede più di essere fatto per cose grandi, di essere fatto per Dio stesso. Dov’è Dio? Occorre prendersi cura di Lui. Occorre far sì che Egli venga riconosciuto anche nel silenzio e lasciare che il nostro cuore non si chiuda, non si inaridisca di fronte alla malvagità. Credere in Dio in questi momenti non significa aspettare il suo intervento miracolistico, ma continuare a dargli fiducia credendo comunque nella sua presenza. Come si fa a permettere a Dio di essere libero di essere Dio e non un fantoccio nelle nostre mani? Si può cominciare con il guardarci dentro e chiederci con grande onestà cosa veramente riteniamo importante nella nostra vita. Stiamo sacrificando bellezza, amore, avventura, creatività in nome di un successo e un egoismo che ci lascia inquieti. Se riuscissimo a dare libero sfogo al nostro desiderio, se permettessimo al nostro cuore di donne di parlare di attenzione, cura, grazia e non per forza di efficienza, successo, giovinezza. Se potessimo liberarci di falsi sogni che hanno soffocato la nostra naturale bellezza, allora potremmo davvero prenderci cura di Dio stesso. Potremmo accoglierlo fra le braccia, cullarlo, accarezzarlo, rassicurandolo del fatto che una donna può scegliere nella sua vita di ascoltare Dio lasciando che Egli sia se stesso. Questo è il mistero dell’essere donne: prendersi cura di Dio come di una persona con le sue difficoltà. Questo permetterà a Dio di nascere sempre, di nuovo, dal cuore di una donna per essere la speranza di ogni uomo. Anna Pia Viola 3 FORMAZIONE essere generati! L’ Riconoscersi figli 4 tiva più grande e profonda, più autentica, ad un modo diverso di intendere il nostro essere uomini: la vita di ogni uomo è in relazione all’amore del mistero di Dio, è radicata nel suo dono, è sostenuta dalla sua dedizione. Tutta la vita di Gesù è un invito a riconoscerci come figli ‘amati’, a scoprire il fondamento della propria esistenza nel rapporto con Dio Padre, amante degli uomini e della vita, accogliente, misericordioso, che è alla ‘ricerca’ di coloro che sono perduti. L’uomo che si apre alla fede scopre che all’origine del suo vivere sta la dedizione amorevole del Padre che non cessa di rivolgersi ai figli, di attendere una loro risposta d’amore, di suscitare in loro il desiderio di bellezza, bontà, verità, giustizia. Questa prospettiva dà una luce nuova alle nostra umanità, con le sue risorse e le sue fragilità; al nostro cuore che è abitato da tensioni, da grandi slanci e meschinità, da generosità ed egoismo; alla nostra libertà, non più intesa come semplice ‘possesso di sé’, che può portare alla chiusura in se stessi e all’autoreferenzialità, ma come risposta personale e originale ad una dono ricevuto. Libertà perciò che diventa incontro, attenzione, cura, responsabilità, ricerca del bene, dilatazione del proprio cuore. Le parole e gesti di Gesù sono un richiamo costante ad incontrare autenticamente l’altro, ad accogliere ogni uomo come fratello al di là dei legami naturali e al di là della qualità delle azioni compiute. Nessuno è escluso dalla fraternità tra gli uomini, perché non c’è nessuno per Gesù che sia escluso dallo sguardo amorevole del Padre, che non possa essere toccato dall’annuncio del Vangelo. Per questo Gesù ci invita, proprio perché figli e fratelli, a dilatare la misura delle nostre relazioni fino ad abbracciare tutti. (tratto da www.firenze.2015.it) NAZARETH 4 2015 Foto di Federico Beghini “I nvito ogni cristiano, in qualsiasi luogo e situazioni si trovi, a rinnovare oggi stesso il suo incontro personale con Gesù Cristo, o, almeno, a prendere la decisione di lasciarsi incontrare da Lui, di cercarlo ogni giorno senza sosta. Non c’è motivo per cui qualcuno possa pensare che questo invito non è per lui, perché «nessuno è escluso dalla gioia portata dal Signore» (Paolo VI). Chi rischia, il Signore non lo delude, e quando qualcuno fa un piccolo passo verso Gesù, scopre che Lui già aspettava il suo arrivo a braccia aperte” (Papa Francesco, Evangelii gaudium n. 3). “La relazione non si aggiunge dall’esterno a ciò che siamo: noi siamo, di fatto, relazione. Lo siamo prima ancora di sceglierlo o di rigettarlo consapevolmente, perché non veniamo da noi stessi, ma ci riceviamo da altri, non solo all’origine della nostra vita, ma in tutto ciò che siamo e abbiamo. Il nostro esistere è un ‘esistere con’ e un ‘esistere da’: impensabile, impossibile senza l’altro. L’essere generati è al fondo di ogni nostra possibile e necessaria autonomia. Non c’è autonomia e responsabilità autentica, senza riconoscere questa dimensione relazionale, vera matrice della nostra libertà. La difficoltà a vivere le relazioni è determinata dalla difficoltà a riconoscerci come “donati a se stessi”. Una vera relazione s’intesse a partire dal riconoscersi generati, cioè figli, cifra più propria della nostra umanità. D’altronde, al cuore del senso dell’umano rivelato in Gesù Cristo non sta il nostro essere figli? Non comprenderemmo nulla di Gesù – il senso delle sue parole, dei suoi gesti, il suo modo di vivere le relazioni, la sua libertà – fuori dal rapporto che egli ha con il Padre, cioè il suo essere figlio, il Figlio, “Tutto mi è stato dato dal Padre” (Mt 11,27); “Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10, 30). Nel Figlio incarnato è svelata la verità del nostro essere” (In Gesù Cristo il nuovo umanesimo. Una traccia per il cammino verso il 5° Convegno Ecclesiale Nazionale). Anche noi oggi quando ci lasciamo davvero incontrare dal Signore ci stupiamo, come coloro che frequentavano la sinagoga di Cafarnao, del suo insegnamento e vediamo sorgere in noi degli interrogativi. Gesù infatti ci pone sempre di fronte ad una prospet- FORMAZIONE Foto di Daniele Beccari Arturo Paoli in dialogo con giovane. Dec. a 102 anni quest’anno. Beati i miti Avranno in eredità la terra (Mt 5,5) L a ragazza era “esile, una biondina di mezza statura (…) sempre in silenzio. Gli altri discutono, pregano, mercanteggiano perché sia loro dato di più; lei niente, quel che le veniva dato…”. Il marito così la descrisse, ma non comprese mai il motivo della sua morte, cercata e trovata. La ragazza, all’apparenza mite, a ben vedere non era affatto remissiva. Non di rado infatti ella era capace di ribellione, anche se poi si rifugiava in un cupo e inquieto silenzio. Era mite? Non lo era? Probabilmente il personaggio dell’opera di Dostoevskij era semplicemente un’adolescente: non più bambina, non ancora donna, ma già, e troppo presto, moglie. Quell’uomo invece era riservato, la sua espressione dolce e umana, il suo fisico fragile. Egli parlava alla folla, scaldava i cuori degli astanti e smuoveva le loro coscienze. Era senza alcun dubbio mite, era forte, era un leader. Mai un discorso scomposto, sempre autorevole. Era NAZARETH 4 2015 mite e, non desiderandolo, diventò per molte generazioni un mito. Forse questo fu lo sbaglio di molti che lo misero e lo lasciarono poi sul piedistallo, che videro il dito e non la luna, che si fermarono alla superficie e non andarono alla sostanza, che preferirono venerarlo anziché trarre ispirazione dal suo buon esempio. Fu un uomo di potere, nel senso che si trovò nella condizione di poter operare, di mettersi al servizio di una causa comune. In verità, non poté mai cimentarsi con il potere della maggioranza, non fu mai nella stanza dei bottoni, ma fu influente tanto da condizionare quelli che armeggiavano con il potere dalla “p” maiuscola. Quando si pensa ad una persona tranquilla, mite, non sono pochi quelli che la immaginano debole, paziente nel sopportare, disponibile a subire, orientata all’abnegazione. Spesso si associa la forza all’arroganza, alla voce stentorea, ai toni alti. Forse qualcuno ritiene che solo con 5 FORMAZIONE sono qui per lavorare. Per lavorare. Posso sbagliare e rimediare, ma quella aggressione è inaccettabile. Hai capito ora?”. Per la moglie giovane, per l’uomo mite, per il capo popolo, per l’operaia qualificata e per la collega che si arrischia a rispondere e quindi a perdere il lavoro, non c’è nome: ciascuno per tutte o per una di queste descrizioni può attribuirvi un volto, una storia. Non ci si inganni: la persona che si mostra mite, può rivelarsi un tiranno, quella dal temperamento più energico e all’apparenza prepotente, può nascondere una magnanimità impareggiabile. Tuttavia, la forza della mitezza sta in un atteggiamento dimesso, umile, non violento. Non sono forse i miti che erediteranno la terrà? Quella dei miti, nel senso di previlegiati e adorati, è una dimensione trasfigurata. Quella dei miti, nel senso di tranquilli e umani, è la realtà del fiume carsico che scorre sotterraneo per riaffiorare con forza in superficie. Al mito toccherà forse l’evanescente venerazione; al mite, beato, toccherà forse la terra. Michela Faccioli Foto di Manuela Petino un piglio autoritario si possa ottenere rispetto o conseguire più facilmente un risultato lavorativo o essere ricordati. Quel capo popolo in effetti era insolente, cinico; convinceva i molti convenuti con poche e ben assestate parole; parlava alla pancia e non alla testa. Coloro che lo ascoltavano non erano commossi, anzi, più il monologo procedeva, più questi si incattivivano. Il discorso sembrava pragmatico. La realtà era: poter entrare prepotentemente sulla scena. Non c’era spazio per gli ideali. “Gli ideali… che sono? Con gli ideali non si mangia”. Entra nel reparto la donna: gode del rispetto dei titolari dell’azienda, che dopo molti anni trascorsi a lavorare con loro, le affidarono mansioni di una certa responsabilità. Ella ha modi rudi con le colleghe, soprattutto con le più giovani, perché il prodotto non può attendere, la velocità del nastro trasportatore e delle manovre per l’impacchettamento deve aumentare. Se la prende in particolare con una appena assunta, la quale, impassibile, ammette lo sbaglio ma le suggerisce anche di cambiare atteggiamento. “Cosa? Come ti permetti?”. “Mi permetto perché 6 NAZARETH 4 2015 Parola efficace MAGISTERO La Le parole vere si forgiano nel silenzio L ’abate Arsenio diceva d’essersi pentito spesso d’aver parlato, e mai d’aver taciuto. Intendeva che il silenzio è una disciplina interiore alla quale va prestata attenzione... Infatti la troppa loquacità indica sempre una certa mancanza di lavoro, un ozio cattivo. San Paolo lo ricorda a proposito delle vedove giovani: «Non avendo nulla da fare, si abituano a girare qua e là per le case e sono non soltanto oziose, ma pettegole e curiose, parlando di ciò che non conviene» (1Tm 5,13). I mezzi di comunicazione di massa ci sottopongono a quella che potremmo chiamare un’«alluvione di parole». Mi domando: «Sono capace di vivere senza la radio? Per quanti giorni?». Esiste un consumismo di parole: parole dolci, seduttive, oggettive, colleriche… di ogni tipo. Parole che cercano di entrarci rumorosamente nel cuore e non apportano niente alla verità. La Parola ha creato l’universo, la Parola di Dio, che ha detto e tutto fu fatto. La parola che usiamo è stata depotenziata della sua potenza creativa. E noi infatti lo sappiamo, perché istintivamente diffidiamo delle parole che ci vengono dette, non vi prestiamo fede, diciamo: «Non sono altro che parole… Non hanno niente a che vedere con la verità». Eppure, quanto ci piace ascoltarle! E quando dobbiamo esprimere un sentimento, siccome le parole sono così consumate, a volte non sappiamo come farlo; e allora ricorriamo a una serie di artifizi, anch’essi menzogneri, che prostituiscono il sentimento: la «formalità», la «provocazione», la parola «sdolcinata» dell’intimista. Ma il sentimento resta dentro e non sappiamo come esprimerlo nella verità, come esprimerlo in solitudine. Ecco il cuore del problema: se non c’è solitudine non c’è silenzio, e senza entrambi non c’è verità. Il silenzio è l’espressione più alta della solitudine del cuore. Il silenzio trasforma la solitudine in realtà. E quando non cediamo al prurito di ascoltare noi stessi, cioè alla vanità dell’anti-silenzio, sfuggiamo alla solitudine di quelle innumerevoli maniere formali, provocatorie, intimistiche, massificanti… Tutte parole che non danno vita, NAZARETH 4 2015 che non nascono da un cuore passato attraverso il crogiolo della solitudine, nella costanza e nell’affetto. Non nascono – in sostanza – da un cuore fecondo. Le parole vere si forgiano nel silenzio. Più ancora: il nucleo stesso della parola dev’essere silenzioso. Se la parola è vera, nel suo cuore si annida il silenzio. E la parola, una volta pronunciata, torna al silenzio abissale e fecondo da cui proveniva. La parola muore per fare posto all’amore, alla bellezza, alla verità, che proprio essa ha portato... La nostra parola, il nostro parlare, che nasce dal silenzio, dev’essere contenta di morire tornando al silenzio da cui era uscita. Il silenzio c’insegna a parlare, dà forza alla parola, la quale – per questo silenzio che racchiude – non è mero rumore (cfr. 1Cor 13,1). Il silenzio c’insegna a parlare perché mantiene nel nostro intimo il fervore religioso, l’attenzione allo Spirito Santo. Il silenzio alleva la vita dello Spirito Santo in noi... I Padri del deserto riferivano al silenzio la nostra vita di pellegrini. Dicevano: Peregrinatio est tacere («Il pellegrinaggio consiste nel tacere»). Questo Norvegia - Sole di mezzanotte Foto di Alessandro Gabbana 7 MAGISTERO «peregrinare» è «essere alla ricerca di una patria» (Eb 11,14) senza lasciarsi irretire da questa patria terrena... Le parole c’intrattengono e ci fanno scordare che siamo pellegrini. È proprio il silenzio a mantenerci nella nostra condizione di pellegrini. «Vigilerò sulla mia condotta per non peccare con la mia lingua; metterò il morso alla mia bocca finché [poiché sono pellegrino] ho davanti il malvagio» (Sal 39,2). Sant’Ignazio, quando si riferisce al silenzio, parla volentieri di «tranquillità» e «modestia» dell’anima... Parla del silenzio l’apostolo Giacomo quando scrive: «Ma se avete nel vostro cuore gelosia amara e spirito di contesa, non vantatevi e non dite menzogne contro la verità» (3,14). Quando nel tuo cuore non c’è silenzio, quando c’è un rumore cattivo, non esprimerlo sotto le mille forme della vanagloria: il sarcasmo, la vanità, l’intimismo, la fatuità, il pettegolezzo, il fare contrariato e tormentato, il bisogno di avere sempre qualcosa da ridire. Amarezze, affetti disordinati, risentimenti, il cullarsi nel proprio egoismo… tutte queste cose sono mancanza di silenzio interiore e corrompono la verità. Infine, il silenzio è l’espressione più alta e più quotidiana della dignità. Tanto più nei momenti di prova e di crocifissione, quando la carne vorrebbe giustificarsi e sottrarsi alla croce. Nel momento supremo dell’ingiustizia, «Gesù tace- 8 va» (Mt 26,63; cfr. anche Is 53,7; At 8,32). Non è stato al gioco del rispondere a quanti gli dicevano di scendere dalla croce. Tutta la pazienza di Dio, la pazienza di secoli, e anche il suo affetto, emergono qui, in questo silenzio del Cristo umiliato. Nella storia degli uomini fanno irruzione il silenzio eterno della Parola, la «contemplatività» amorosa del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, tutta la comunione trinitaria dal silenzio dei secoli. È Parola, ma Parola che – nell’ora dell’annientamento provocato dall’ingiustizia – si fa silenzio. Iesus autem tacebat. Contempliamo tutto il «viaggio» della Parola di Dio (cfr. Gv 1,1; 14,2-3; 14,10; 16,28); come si fa tenerezza nel seno di una Madre. Questa Madre «custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19.51). Nel cuore silenzioso di Maria ha sede la memoria della Chiesa. Il silenzio «incarnato» del Verbo si esprime in quel momento d’ingiustizia, di umiliazione, di annientamento, nell’ora del potere delle tenebre. Quella è la dignità di Gesù, ed è anche la nostra. Riflessione sul silenzio tratta dal libretto di Jorge Mario Bergoglio-Papa Francesco intitolato “La forza del presepe”, che contiene alcune riflessioni del 1987 dell’allora padre gesuita, dedicate alla festa del Natale (ora edite dalla Emi). NAZARETH 4 2015 Francesco d’Assisi Dante coglie ed evidenzia quello che appare come il testamento spirituale di Francesco, il cui punto focale è la povertà. I registi: Liliana Cavani, Franco Zeffirelli e Roberto Rossellini non si lasciano sfuggire questo Soggetto affascinante superando, con modalità diversificate, potenziali banalità agiografiche Q uando si parla di mitezza e di umiltà, di spiritualità e di esistenza serena, di efficacia piuttosto che di efficienza, è quasi inevitabile pensare alla vita di san Francesco. Vita che, ancor prima della morte del Santo e subito dopo di essa, fu considerata “straordinaria” dai contemporanei, nell’accezione etimologica del termine di “fuori dell’ordinario”. Se facciamo attenzione alle date, ed in particolare mettiamo in relazione quella della morte di Francesco (1226) con gli anni della composizione della Divina Commedia (1304-1320), vediamo come tra questi ultimi e la prima non intercorresse poi tanto tempo, testimonianza inequivocabile del segno profondo che l’esperienza francescana aveva lasciato negli uomini del secolo XIII. Ed è appunto di come Dante presenta Francesco che vorrei parlare in quest’articolo, pur sapendo che a molti lettori l’argomento non riuscirà affatto nuovo. Siamo dunque nel Paradiso, canto XI, cielo del Sole, tra gli spiriti sapienti. Dante e Beatrice vi incontrano Tommaso d’Aquino, domenicano, al quale il poeta affida l’elogio di san Francesco. Nel canto successivo, san Bonaventura da Bagnoregio, francescano, tesserà le lodi di san Domenico. Ai domenicani e ai francescani, secondo Dante, la Provvidenza divina aveva assegnato il compito di sostenere la Chiesa in momenti storicamente molto difficili. Fin dall’inizio del suo discorso Tommaso, ricordando che Assisi è situata ad est di Perugia, instaura un parallelo tra Francesco, “nacque al mondo un sole”, e Cristo, comunemente definito“sol oriens”, ricorrendo alla metafora del sole che NAZARETH 4 2015 Beato Angelico, Incontro tra san Francesco e san Domenico, 1429, Museo di Berlino. sorge ad oriente, molto diffusa al tempo e che ai contemporanei suggeriva immediatamente il motivo della cosiddetta “imitazione di Cristo”. Fondamentalmente è questo l’argomento che viene svolto nel panegirico di Tommaso, ma ancor più in particolare vi viene sviluppato il tema della vita in povertà, anzi delle “nozze” con la Povertà. Parlando di quest’ultima sotto forma di estesa metafora, Tommaso la presenta come una donna universalmente disprezzata e rifuggita, alla quale Francesco, “giovinetto”, pur entrando in conflitto con il padre, si unì davanti a tutti e che amò sempre più, di giorno in giorno, fino alla morte. Già Cristo, continua Tommaso, l’aveva presa in sposa, ma dopo il suo ritorno al Padre nessun altro l’aveva più considerata e ama- 9 letteratura - cinema La figura di letteratura - cinema Mickey Rourke nel film Francesco (1989) ta. Dopo aver finalmente rivelato che la donna di cui si sta parlando è la Povertà, Tommaso aggiunge che la felicità di quell’unione indusse altri a cercare di raggiungere la stessa concordia e la stessa pace, finché si formò una vera e propria “famiglia”, contraddistinta dalla semplice corda (“l’umile capestro”) che cingeva il saio dei frati ai loro fianchi. Citati brevemente dapprima le approvazioni papali della “regola” francescana e poi il tentativo del Santo di convertire il sultano d’Egitto nel corso di una missione in Terra Santa, Tommaso giunge alla conclusione del suo racconto ricordando il miracolo delle stimmate, con le quali Cristo volle riconoscere la vicinanza, la conformità di Francesco a se stesso, ma soprattutto il momento in cui Francesco “raccomandò la donna sua più cara” ai suoi frati, come a legittimi eredi, e “comandò che l’amassero a fede (fedelmente)”. Il fatto che Francesco non avesse voluto nessun’altra bara per il suo corpo se non la nuda terra viene narrato da Tommaso con un’immagine particolarmente significativa: quella dell’anima luminosa del Santo che torna in Cielo staccandosi dal grembo della Povertà, come se quest’ultima lo avesse tenuto in braccio fino all’ultimo respiro. Come si può notare, nel testo di Dante non compaiono i vari miracoli della tradizione francescana, divenuti ormai canonici e che Giotto aveva già dipinto nella basilica superiore di Assisi. Dante coglie ed evidenzia quello che appare come il testamento spirituale di Francesco, il cui punto focale è la povertà: la “donna” di cui si innamora giovanetto, alla quale si unisce in un matrimonio mistico – così come aveva fatto Cristo, che aveva voluto essere povero per arricchire tutta 10 l’umanità con la sua incarnazione – e che raccomanda ai suoi fratelli in punto di morte. C’è una polemica, neppure tanto velata, nelle parole di Dante, contro la Chiesa sfarzosa e corrotta del tempo, che aveva dedicato a Francesco una basilica sontuosa in forte contrasto con lo spirito della sua predicazione: Francesco di sicuro avrebbe destinato l’enorme quantità di denaro speso per la sua costruzione ed il suo abbellimento a scopi diversi… Il cinema, dal canto suo, non poteva lasciarsi sfuggire un soggetto affascinante come la vicenda del Santo di Assisi, che interessò infatti molti registi. Tra i più grandi, Liliana Cavani, Franco Zeffirelli e Roberto Rossellini. La Cavani realizzò addirittura due film sullo stesso argomento, a distanza di ventitré anni l’uno dall’altro. Il primo, Francesco d’Assisi del 1966, interpretato da Lou Castel, costituisce l’esordio della regista ed anticipa da un lato le idealità rivoluzionarie che avrebbero ispirato di lì a poco il Sessantotto, dall’altro il dissenso cattolico, di cui la regista era esponente. Il secondo, Francesco del 1989, vede come protagonisti Mickey Rourke ed Helena Bonham Carter, nella parte di Chiara, cui è affidato il racconto della vita del Santo. Senza concedere nulla all’agiografia tradizionale, la Cavani rappresenta un Francesco molto simile a Cristo quando quest’ultimo “dà scandalo”, rompe gli schemi, in rapporto alle consuetudini radicate, e non disdegna l’azione accanto alla contemplazione. Del 1972 è invece Fratello Sole, Sorella Luna di Franco Zeffirelli, in cui il protagonista è Graham Faulkner. è un film tipicamente “zeffirelliano”, molto attento, cioè alla bellezza delle immagini, dei paesaggi, degli ambienti, dei costumi… La colonna sonora, altrettanto gradevole, è firmata da Riz Ortolani e da un giovanissimo Claudio Baglioni. Il film risente molto della contestazione giovanile di quegli anni e non si può fare a meno, vedendolo, di andare con il pensiero agli hippies di Hair ed agli attori di Jesus Christ Superstar. Sul versante opposto, rispetto alla concezione cinematografica cara a Zeffirelli, è Francesco giullare di Dio, girato nel 1950 da Roberto Rossellini. Costituito da undici episodi tratti dai Fioretti e dalla Vita di frate Ginepro. Il film racconta la vita del Santo e dei suoi compagni impegnati a predicare l’amore per ogni piccola cosa terrena e disposti a sopportare qualsia- NAZARETH 4 2015 estetico per lasciar parlare i fatti, sempre legati alla quotidianità, tanto che, anche se si parla di vicende risalenti al tardo medioevo, si può senz’altro dire che il film rappresenta uno dei vertici del neorealismo italiano. Maria Laura Rosi Castelletto Gruppo di figli impegnato mentre i genitori si incontrano per la formazione «Voi stessi date loro da mangiare»: e condivisione “Con-PASSIONE” Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta». Gesù disse loro: «Voi stessi date loro da mangiare». (Luca 9, 12-13) E fficienza ed efficacia. Si pensa spesso, superficialmente, che i due concetti sia sinonimi, che dalla prima scaturisca quasi meccanicamente la seconda. Non è sempre così però, e lo splendido dialogo evangelico fra i dodici e il loro Maestro racconta questa differenza NAZARETH 4 2015 in modo magnifico. Gli apostoli sono un ottimo esempio di efficienza: osservano ciò che hanno intorno, fanno i loro calcoli e danno a Gesù un suggerimento che sembra più un ordine necessario, una conseguenza scontata ed automatica rispetto alla situazione 11 SCUOLa E VITA si tipo di umiliazione. Nella sceneggiatura (cui prese parte Federico Fellini) gli aneddoti sono cuciti con il filo della “santità”, intesa come anticonformismo, sincerità, ribellione e, talora, anche follia. Rossellini, andando controcorrente come spesso gli accade, rifugge dalle potenziali banalità dell’agiografia e da qualunque artificio SCUOLa E VITA circostante. Il loro sguardo è stato senza dubbio oggettivo: siamo nel deserto, la gente è stanca e affamata, lasciamola quindi andare perché provveda a se stessa. Gesù invece vede oltre ciò che sta davanti a lui e ai dodici. O meglio, vede nel profondo e supera la facile soluzione dei suoi seguaci per trovarne una quasi “rivoluzionaria” nella sua semplicità, al di là di ciò che segue (simbolicamente o meno) nel brano del Vangelo, ovvero la moltiplicazione dei pani e dei pesci. Cosa ci insegna – a noi, discepoli di Gesù – quel «Voi stessi date loro da mangiare»? Cosa insegna a noi che ci occupiamo di educazione, che abbiamo a che fare tutti i giorni con i bisogni dei “piccoli”? In fondo quello che Cristo dà ai suoi è un invito all’amore: a mettersi davvero nei panni degli altri, a non attendere che sia qualcun altro a risolvere i problemi, a mettersi al servizio, a rinunciare ad ogni remora di superbia o individualismo per donare e donarsi, a non perdere tempo e mettersi in discussione, ad essere umili quanto gli umili. Davanti ai problemi del mondo siamo in fondo come i dodici nel deserto: li vediamo da una posizione spesso sopraelevata e distante. Siamo colpiti e dispiaciuti e ci viene facile dire “bisognerebbe fare così”, oppure “perché chi di dovere non risolve la situazione”. Gesù non dà questo tipo di risposta, piuttosto esorta: “vedi tu, in prima persona, ciò che puoi fare”. Al di là di ogni volontarismo, ciò che Cristo chiede è prima di tutto di 12 mettersi sullo stesso piano di chi abbiamo davanti, di comprendere ciò di cui ha davvero bisogno e di fare subito quanto ci è possibile per alleviare ed aiutare, senza delegare e senza rimandare. Chi lavora con i ragazzi nelle scuole ha senz’altro molto da imparare dall’efficacia umile e sollecita di Gesù, che è in fondo lo stesso atteggiamento di concreto servizio che il Beato Giuseppe Nascimbeni chiamava “zac tac”. Nessun educatore può dire “non mi interessa” davanti ad un’esigenza di chi ha davanti. Così come nessun insegnante può scrollare le spalle e rispondere “non è in programma” se i suoi allievi gli chiedono di parlare di una importante questione di attualità. Quel «Voi stessi date loro da mangiare» invita ad un’apertura verso gli altri e verso il mondo non momentanea e superficiale (e nemmeno volontaristica e solipsistica) ma reale, tangibile. Un’apertura capace di farsi con-passione, il che non significa – come spesso si crede – avere pietà (e quindi sentirsi in fondo superiori) ma “patire con”, cioè mettersi nei panni dell’altro e cercare di capire ciò che prova, ciò di cui necessita, ciò che domanda. Un educatore non è un “filantropo” che elargisce aiuti senza nemmeno guardare negli occhi le persone, ma è una persona in mezzo alle persone, che condivide con esse lo stare assieme e progetta un cammino con e per loro. Andrea Cornale NAZARETH 4 2015 BIBLIOTECA LETTURe di qualità per l’infanzia Parole, colori, immagini che profumano di vita e di speranza D ino Buzzati (scrittore, giornalista, drammaturgo, poeta, librettista e pittore italiano) diceva che «Scrivere per ragazzi è come scrivere per adulti, solo più difficile». Talvolta circola l’idea che scrivere ed illustrare libri per bambini e ragazzi sia cosa facile, alla portata di molti; in realtà è molto più difficile, perché richiede capacità di cogliere il mondo dal loro punto di vista, rispettando pienamente la verità psicologica della prospettiva dei giovani protagonisti. Aveva, e continua ad avere, ragione Buzzati! Per questo è importante offrire ai bambini ed ai ragazzi letture di alta qualità, come molto spesso abbiamo ripetuto fra le righe di questo spazio dedicato alla letteratura per l’infanzia: letture di qualità in grado di aprire la mente, di alimentare la fantasia, di ampliare i punti di vista sul mondo grazie all’originalità di parole ed immagini. Parole ed immagini che devono essere capaci di aprire i più giovani ad un senso del bello verso la vita, ad un atteggiamento di speranza verso il futuro, ad un desiderio di partecipazione e condivisione. Fra i migliori artisti presenti oggi nel panorama editoriale mondiale, merita una nota particolare Jimmy Liao, nato a Taipei nel 1958 e che dal 1998 ha pubblicato più di trenta libri illustrati, tradotti NAZARETH 4 2015 in tutto il mondo. Lo stile poetico di Liao pervade, con straordinaria bellezza, il testo e le immagini, in un’alternanza e in una reciprocità dei due codici narrativi riscontrabili solo in pochi altri artisti. Ciò che colpisce di questo autore asiatico è la capacità di raccontare storie che scendono nella profondità dell’anima, senza tradire la leggerezza che caratterizza ogni sua narrazione. Conoscendo la sua biografia, scopriamo che è stato al termine di una grave malattia che Liao ha deciso di dedicarsi con maggior intensità alla scrittura per bambini e ragazzi. È lui stesso ad affermare che: “Dopo le cure, pennello alla mano, compresi che la mia attitudine al disegno era profondamente cambiata. La malattia mi aveva offerto la possibilità di osservare la vita da un differente punto di vista”. Sceglie, perciò, di affrontare temi importanti, da lui stesso fortemente sperimentati come la solitudine, la diversità, la ricerca di se stessi attraverso la metafora del viaggio, l’amicizia, l’abbandono, nella consapevolezza che i giovani lettori possono trovare rispecchiati quei sentimenti che a loro appartengono, legittimati fra le pagine dei suoi racconti. Ciò che ulteriormente stupisce è che i protagonisti delle storie di Liao sono fragili: per carattere, per relazioni genitoriali, per 13 BIBLIOTECA problematiche fisiche o altro. E, cosa ancor più straordinaria, fra le pagine dei suoi libri, troviamo bambini e ragazzi capaci di esprimere virtù fragili e desuete come la gentilezza, la mansuetudine, la mitezza, la tenerezza. In Italia, ad oggi, solo quattro libri sono stati tradotti e pubblicati dalla casa editrice Gruppo Abele: quattro splendidi albi illustrati. Il più fresco di pubblicazione è Abbracci (ottobre 2014): quanti tipi diversi di abbracci possiamo immaginare? Ce lo racconta questo libro, intriso di una tenerezza infinita, che ammonisce come “nessun abbraccio deve essere dimenticato”. Il valore terapeutico dell’abbraccio, talvolta, lo dimentichiamo. L’effetto rasserenante, protettivo, rilassante, incoraggiante di un abbraccio può essere solo sperimentato. Liao riesce in questa impresa, senza facili edulcorazioni, recuperando la bellezza di un gesto “necessario come il pane” (dalla prefazione di Antonio Ferrara). Un libro che dovremmo regalare alle persone che amiamo, insieme con un abbraccio che apre il cuore, che conferma un legame, che rafforza la fiducia reciproca, che infonde speranza di poter contare sempre su qualcuno. Così come è successo alla giovane protagonista di Una splendida notte stellata (racconto pubblicato dalle Edizioni Gruppo Abele nel 2013) che, dopo la perdita del nonno, trova in una nuova amicizia linfa per apprezzare la bellezza della pioggia, del sole, delle stelle. Liao, in questo racconto, non offre un lieto fine nei canoni che conosciamo, bensì dona alla giovane protagonista una speranza rinnovata nei confronti della vita, sì difficile, quanto altrettanto degna di essere vissuta in pienezza, nonostante tutto. In questo secondo albo fanno capolino con evidenza opere di Van Gogh e Magritte insieme ad altre contaminazioni artistiche che richiama- 14 no Paul Klee. L’arte, dunque, che esce dai musei ed entra nelle pagine dei libri di Liao, tessendo trame con le emozioni e vissuti raccontati: un’esperienza estetica che Liao riesce a costruire con efficace maestria. Molto più fantasioso, invece, il racconto La luna e il bambino (del 2012), in cui la luna si perde e con questo spariscono tutti i suoi benefici: le notti sono buie, il mare rimane privo di maree, le astronavi si perdono nello spazio e si diffonde, ovunque, un senso di solitudine e quiete. Se le lune fabbricate dall’ingegno umano pare leniscano tale vuoto, sarà la generosità di un bambino a salvare la situazione: lui che la vera luna ha trovato e con cui ha costruito una bellissima amicizia, capirà che dovrà separarsi da questa amica speciale, serbando, tuttavia, un ricordo profondo, indelebile, unico, che lo accompagnerà per tutta la vita. Un racconto del tutto immaginifico, seppur pieno di emozioni reali. Il quarto libro di Liao che possiamo incontrare nelle librerie gode di una particolarità che lo rende unico: la giovanissima protagonista racconta il suo vagare attraverso una metropolitana. Nulla di particolare, se non fosse che si tratta di una ragazzina diventata cieca che, amplificando i suoi recettori percettivi, vede oltre l’invisibile. Le illustrazioni, dunque, diventano espressione del suo “immaginare”, in un miscuglio di sogno e realtà, percepito e desiderato, riconosciuto ed immaginato. Un inno ai colori della vita, ai colori delle emozioni e delle sensazioni che non si fermano al buio della cecità, ma si aprono a nuove dimensioni. Un chiaro invito a non fermarsi di fronte a qualsivoglia ostacolo, a trovare inedite vie per amare la vita e per viverla sempre con rinnovata speranza. Il messaggio che fa capolino in questo libro, dal titolo La voce dei colori (settembre 2011), è racchiuso in una chiara espressione dello stesso autore che afferma: “Se cercate bene c’è sempre una via d’uscita”. Un messaggio di speranza, dunque, che ci invita a non sprecare il tempo, bensì, soprattutto nei momenti più difficili, ad aguzzare i sensi, la mente, il cuore. Katia Scabello Garbin NAZARETH 4 2015 M entre la corriera al mattino presto percorre la Gardesana Orientale in direzione sud, osservo con stupore lo stagliarsi nitido del profilo dei monti contro il graduale incedere del giorno. L’aurora avanza inebriando di luce le cime dei cipressi, le fronde degli ulivi, le vele gonfie per il vento favorevole. Tutto si risveglia all’inizio di un nuovo giorno. La poesia della vita afferra l’animo e fuga ogni altro pensiero. Pian piano l’intimo si riappacifica con se stesso e con gli altri e, soprattutto con l’Altro, riconosciuto come l’Autore di meravigliosi prodigi. Associo all’aurora di un giorno nuovo il sorgere della vocazione delle due carissime aspiranti Melissa e Rita. La loro esperienza comunitaria in Casa Gioiosa a Castelletto, nella struttura recettiva e nella scuola, ha il sapore inconfondibile del pane fresco appena sfornato. Queste sorelle hanno consegnato a Dio la loro esistenza perché fosse Lui a far lievitare la gioia dell’incontro, il coraggio della risposta, lo stupore del cammino. Hanno attinto dalla Parola meditata e assimilata il quotidiano imprevedibile spendersi: si sono donate presso l’infermeria, il Centro di spiritualità e formazione, la Casa di Riposo, la Scuola “S. Famiglia”, e hanno offerto ai fratelli incontrati un germoglio di speranza. Hanno animato la liturgia con il suono, con il canto, con la genuina giovanile vitalità. Hanno comunicato la loro spensieratezza nei momenti conviviali fraterni e con gli scherzi faceti. Abbiamo ammirato la loro capacità di cogliere il positivo di ogni sorella, di valorizzare ogni dono ricevuto, di comunicare con libertà il proprio pensiero. Come il lievito fa lievitare il pane, così la vocazione di Melissa e di Rita ha trovato nella Parola di Dio l’agente trasformatore dell’esistenza. Non sono mancate le prove inevitabili che hanno, però, provvidenzialmente consolidato le motivazioni più NAZARETH 4 2015 profonde per intraprendere un cammino di sequela Christi. “Beato chi trova in te la sua forza e decide nel suo cuore il santo viaggio”. Lo stupore di sentirsi chiamato per nome, guardato, scelto con tenerezza di predilezione pone il chiamato nella condizione di assaporare la benevolenza di Dio, da cui scaturisce il desiderio di diffondere verso gli altri la gioia incontenibile di appartenere all’Eterno, di essere presenza visibile delle realtà invisibili. L’incontro con Dio nella preghiera, nella Parola, nei sacramenti, nella solitudine rende possibile la realizzazione del Suo progetto d’amore che vuole raggiungere ogni uomo e ogni donna di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Solo se esclusivamente innamorato di Dio, il consacrato può procedere nella via di consacrazione particolare al Regno di Dio, donandosi ai fratelli in una particolare famiglia religiosa, con i suoi carismi e i suoi servizi. È Dio che, per mezzo del suo consacrato, asciuga le lacrime degli afflitti, solleva i dolori dei malati, educa chi è in formazione, avvicina il carcerato, accoglie l’immigrato, addita la speranza a chi l’ha perduta, abbatte le barriere dell’odio e della incomunicabilità. Quanto bisogno c’è di consacrati che servano con amore i fratelli vedendo in loro Cristo stesso che ha detto: “Qualunque cosa avete fatto al più piccolo dei miei fratelli l’avete fatto a me”. Ringraziamo Melissa e Rita che hanno accettato la sfida di mettere a disposizione di Dio le loro giovani energie, il loro entusiasmo, accettando le fatiche di un cammino formativo ancora lungo, ma sorretto dalla fedeltà di Dio. A noi che abbiamo ricevuto il grande dono della loro presenza resta la gratitudine al Signore della vita per quanto giorno dopo giorno ha operato in loro. Le consegniamo alla comunità di Viterbo dove vivranno il loro postulandato. Siamo grate ai Fondatori che ci hanno ottenuto di renderci strumento della formazione di Melissa e Rita e attendiamo con ferma speranza altre giovani che seguano il loro esempio e che vengano a condividere con noi un tratto di strada. Suor Emanuela Biasiolo e comunità 15 spiritualità condivisa Aurora e vita consacrata spiritualità condivisa Il volto di Gesù Crocifisso Nell’interpretazione di fr. Mario Venzo, gesuita S offermiamoci ad osservare come fr. Mario Venzo (19001989) nella sua opera “Volto di Gesù Crocifisso” abbia voluto fermare l’attimo in cui Gesù muore sulla croce. Nel quadro è riportato solo il particolare del volto reclinato sulla spalla destra, parte del braccio destro e del torace; solo un accenno allo strumento del supplizio: la croce. Qui non siamo di fronte ad un “compianto”, dove Gesù è di solito disteso su un sudario con i dolenti intorno: sua Madre, la Maddalena ed altri; qui Cristo ha appena esalato l’ultimo respiro, è ancora appeso alla croce ed il pittore ferma come in un fotogramma il passaggio dalla vita alla morte. La scelta dei colori esprime tutto il dramma che si sta svolgendo e l’artista accosta colori complementari, che si fondono poi in un colore freddo, verdastro, dando forma ad un corpo oramai esangue. I colori, molto accesi, feriscono, sono inquietanti e nel loro contrasto sembrano suggerire e sottolineare insieme l’ultimo scontro tra vita e morte. Tecnicamente, accostamenti molto riusciti, secondo la regola che due colori complementari messi vicini si esaltano vicendevolmente. Ma qui dobbiamo andare oltre gli schemi pittorici: siamo di fronte a Gesù - uomo che affronta la morte… “e la morte di Croce”, con tutte le sofferenze del martirio addosso. Il vibrare dei colori, le luci fredde, il rosso della corona di spine, della Croce accennata e del fondo ricordano quali terribili momenti Cristo ha passato con il suo sacrificio: le ferite bruciano come “soli” tutto intorno... è agonia. Anche il cielo si tinge di nero mentre il sangue di Gesù, sparso sulla croce, illumina e si rovescia sopra una folla assetata di odio, inondandola di… Perdono. Ed è questo tema, il Perdono, che fr. Venzo esprime nel suo quadro, conferendo al volto di Gesù, con pochi e 16 sicuri tratti, tutta la compostezza e la serenità con cui il Figlio di Dio accetta il Sacrificio, offrendosi vittima per la nostra salvezza. La morte qui non è l’ultima inappellabile parola, che fa calare il sipario della nostra esistenza: essa è e rimane penultima, perché alla fine c’è la Resurrezione di Gesù, che è, in certo modo, anticipata in quell’azzurro-turchese riflesso sulla parte reclinata del volto del Figlio di Dio e avvolge, rivela e nasconde la ferita del costato. In questo Cristo Crocifisso c’è già la manifestazione dell’incontro certo e definitivo con la misericordia di Dio Padre. Italo Forieri Annotazioni sul quadro - Fr. Venzo non l’ho incontrato. Ho il quadro perché una Signora anziana, di cui non conosco il nome, a me presentata da suor Cristofora, è venuta nella chiesa di S. Francesco, a Bassano del Grappa (VI), e mi ha detto: “Possiedo un quadro di Fr. Venzo, con il Volto di Gesù in croce. Frequentavo villa “S. Giuseppe”, e un giorno nello studio del gesuita ho visto il dipinto e gli ho chiesto di regalarmelo. Di fronte alle mie insistenze egli finì col donarmelo. Adesso sono anziana, se lo accetta, glielo regalo”. Senza averlo visto, le ho risposto: “Ben volentieri. E visto che tra poco andrò a Vicenza, come rettore del seminario teologico, lo appenderò nel mio studio e quindi i giovani seminaristi lo vedranno e, senza parole, parlerà loro. Grazie immense!”. Evidentemente da allora lo porto sempre con me, ora attorniato da altri volti di Gesù, ma di autori meno famosi. Ecco le semplici informazioni sul come è arrivato questo quadro “prezioso” a don Gianfranco Cavallon. NAZARETH 4 2015 Natività L’“efficacia” dell’arte nell’analisi delle varianti di uno stesso Soggetto Gentile da Fabriano P ersonalmente vedo il nesso efficacia-arte un po’ confuso, tuttavia si può cercare di dire qualcosa circa l’efficacia o meno di un’opera d’arte se per il binomio arte-efficacia si precisa un po’ meglio di quale genere di arte si parla. Nel caso dell’arte sacra devozionale, non si può negare che affreschi, mosaici, bassorilievi, vetrate istoriate, tarsie lignee e ceramiche siano state la “Bibbia dei poveri”, specie nei momenti forti di evangelizzazione del cristianesimo o nei momenti scismatici come lo sono stati i secoli centrali del Medioevo e il periodo della Riforma e Controriforma, a proposito dei quali molti studiosi si sono trovati concordi nel riconoscere un certo “potere delle immagini” assai efficace nel diffondere il messaggio cristiano. Detto ciò, qualche considerazione è forse possibile farla. Prendendo come tema generale l’Incarnazione, una pista per valutare la sua riproposizione in maniera più o meno aderente e dunque efficace in campo artistico potrebbe essere quella di mettere a confronto l’immagine che vari pittori hanno dato di un medesimo brano come quello della Natività (Lc 2, 1-21). Essendo una scena di genere nota a tutti, non mi dilungherò sulla descrizione dei singoli quadri che andrò a menzionare, quanto semmai a mettere in luce le similitudini, i punti di distacco e alcune specifiche proprie dei singoli manufatti. La scarna carrellata di natività che propongo si compone di tre versioni del Quattrocento Italiano, ovvero quelle di Gentile da Fabriano, Beato Angelico e Bartolomeo Suardi detto Bramantino. Il primo è autore del pannello sinistro della predella (cornice a mo’ di basamento) della Pala dell’adorazione dei Magi eseguita nel 1423: si tratta di NAZARETH 4 2015 una tempera su tavola, conservata agli Uffizi di Firenze che è forse uno dei più affascinanti e meglio eseguiti notturni della storia dell’arte. È invece di pochi anni dopo, nel 1438 per la precisione, che l’Angelico affrescando la chiesa fiorentina di S. Marco si cimenta con il soggetto della natività, ora conservato al Museo di S. Marco in Firenze. Per la seconda metà del Quattrocento, esemplare è la tempera su tavola datata 1495 eseguita da Bramantino e oggi conservata a Milano nella Pinacoteca Ambrosiana. Al di là delle tecniche esecutorie e della attuale collocazione, per condurre una analisi che non sia troppo vaga, si valuteranno questi tre parametri: impostazione e gestione dello spazio, personaggi e loro caratterizzazione, ambientazione. Nel XV secolo per quanto riguarda la costruzione dello spazio, si possono individuare alcuni tratti distintivi: se Gentile da Fabriano e Beato Angelico optano per impostazioni semplici e geometricamente ben definite, Bramantino sceglie soluzioni più originali collocando il punto di fuga della rappresentazione in maniera centrifuga o policentrica. Nello specifico, la predella lignea di Gentile è così composta: a sinistra, al riparo di un edificio, due donne delle quali una assopita o pensierosa dà le spalle allo spettatore, mentre l’altra fissa il centro della scena atteggiandosi con una posa che, come uno specchio riflettente, ricalca - ma al contrario - la postura di S. Giuseppe; la Madonna in manto blu e veste rossa occupa la parte centrale assieme al bambino deposto sulla paglia, vicino al bue e all’asino che a stento riesce a trovare riparo nella angusta grotta; a sinistra S. Giuseppe in veste blu e mantello dorato è assorto appoggiato a un esile alberello che, in coppia con l’altro tronco rinsecchito in secondo piano, è l’unico elemento fitomorfo della rappresentazione. Completano la scena due pastori stesi sulla collina di destra, abbagliati dalla luce divina emanata questa volta non dalla cometa, qui assente, ma dalla figura di un angelo. L’ambientazione è molto semplice: una casa diroccata, due alberi, una grotta modesta, dolci colline all’orizzonte, il tutto coperto da un bellissimo cielo stellato. Questa semplicità compositiva, rinvia per 17 voce giovani - ar te La voce giovani - ar te analogia alla Natività dell’Angelico. La staticità che ricorda le statuine del presepe, è percepibile nelle pose speculari, così come lo sono i colori delle loro vesti, dei quattro angeli oranti sul tetto della capanna; nei profili del bue e dell’asino, i corpi dei quali sono come celati da una specie di separé di un improbabile colore turchino; nelle figure disposte in diagonale di Bramantino Caterina d’Alessandria con corona in testa e di Pietro martire visto di spalle; e ovviamente nella Sacra Famiglia, che veste colori insoliti da un punto di vista iconografico: abito rosso e mantello viola doppiato ocra la Vergine, così come di viola e ocra si compone in pendant la mise di S. Giuseppe. Acuisce il senso di staticità il fatto che tutti i figuranti, anche se visti da diverse angolazioni, sono tutti tratteggiati nella medesima posa in ginocchio, capo lievemente reclinato e mani giunte. I colori freddi degli abiti, il cielo plumbeo, l’assoluta mancanza di vegetazione a favore di un paesaggio roccioso e nulla più, conferiscono alla Natività un tono freddo, distaccato. Conclude la serie di esempi la posposta del Bramantino la quale, come accennato, si discosta da tutte quelle sin qui osservate per la sua impostazione policentrica e pure teatrale. Il fatto che sia una scena policentrica fa presupporre che sia costruita attorno a più gruppi collazionati in un unico brano, e infatti: la Madonna e il bambino deposto su un telo bianco che guarda verso sinistra formano un primo gruppo, un secondo è dato dai musici appoggiati alla colonna in secondo piano, al di sotto dei quali tre frati in ginocchio tutti con capo chino ma tutti diversi circa la gestualità costituiscono un ennesimo gruppetto, così come la coppia formata dall’anziano barbuto e la giovane ragazza in abito scuro dietro la Madonna e infine, seppur distanti ma uniti da una immaginaria linea diagonale, formano l’ultimo gruppo la ragazza dai capelli rossi a destra e l’uomo con corona d’alloro e veste nera così come nera è la veste della ragazza. Altri aspetti da notare sono: l’abbigliamenBeato Angelico to della Madonna che si disco- 18 sta da quello sin qui visto e si compone di una veste rossa, di un insolito mantello di seta cangiante marrone e di una cuffia di veli che trattiene i capelli; grande assente di questo brano è S. Giuseppe; interessanti anche le pose aggraziate dei musici che ricordano quelle botticelliane della Primavera o del ciclo di Nastagio degli Onesti. Di rilievo l’imponente elemento architettonico che è dato dal fornice voltato a botte e decorato internamente con geometriche modanature ed esternamente con capitelli classicheggianti; ritorna la quasi assenza di motivi fitomorfi, fatta eccezione per un ramo di rovi a sinistra e un groviglio di tralci verdi che pende dall’alto a mo’ di lampadario sulla destra; infine, un cielo incolore, rende l’atmosfera rarefatta e sospesa. Qui si conclude la carrellata delle varianti sul medesimo tema della Natività. Che dire? Elementi simili e differenti tra un’opera e l’altra sono stati messi in luce, questo basta per dire qualcosa circa la maggiore efficacia di un opera piuttosto che un’altra? Credo di no: l’aver ritratto la Vergine a capo velato o con i capelli sciolti, la presenza orante di S. Giuseppe o la sua totale assenza, il numero di angeli presenti a contorno del brano e altri simili particolari, a mio avviso interessantissimi, nel valutare o meno l’efficacia della traduzione pittorica di un brano biblico credo che abbiano una influenza irrisoria in termini di efficacia. Nel caso delle natività viste: perché la sua riproposizione artistica sia efficace basta che sia presente Gesù, della cui Natività si vuole informare lo spettatore, tutti gli elementi di a latere, il fatto che questi sia attorniato solo dalla Madonna piuttosto che da Maria e Giuseppe insieme, da uno, due o più pastori e angeli, oppure l’ambientazione è cosa irrilevante, a mio avviso, nel decretare l’efficacia del quadro. Si può fare un discorso di differenti stili e rese pittoriche, di diverse sensibilità e contesti storico-artistici ma non credo di efficacia. Giulio Biondi NAZARETH 4 2015