UNA VOCE PER

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UNA VOCE PER
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UNA VOCE PER
EMOZ IONA R E
GREGORY PORTER è arrivato a imporsi sulla scena musicale internazionale
quando aveva ormai quasi quarant’anni. È considerato colui che ha ridato
nuova linfa vitale al jazz, un genere troppo spesso considerato ‘di nicchia’,
trovando una sua via per portarlo al grande pubblico, grazie anche
a un talento indiscutibile, a una ricca voce baritonale capace di esprimere
un’enorme varietà di sfumature, a un’irresistibile carica comunicativa
e a un’anima saldamente radicata nel crocevia della grande musica nera.
Ma non solo: Porter ha anche il dono di saper scrivere, con un’emozionante
immediatezza, canzoni toccanti basate sulle sue esperienze di vita.
DI MANUELA IMRE FOTOGRAFIE JÜRGEN FRANK
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HIGHLIGHTS
N
Signor Porter, dove si trova esattamente
‘il vicolo’ (‘alley’) in cui vuole che l’accompagniamo ascoltando il suo ultimo album?
A Bakersfield, in California, dove sono cresciuto
e dove mia madre lavorava come ministro di culto
della Chiesa Battista. Ho imparato molto sulla vita
nei vicoli del quartiere.
In che modo?
Mia madre era spesso in giro per il quartiere ad
aiutare gli altri. Vivevamo in una zona malfamata
della città e non di rado mi ritrovavo a cantare
inni per strada in mezzo a drogati e prostitute.
Un’esperienza che mi ha insegnato la compassione verso gli altri e a essere grati per ciò che si ha.
Già allora sognava di fare il cantante?
Da bambino adoravo cantare, amavo la musica
e avevo sempre in testa qualche motivetto.
Nella nostra chiesa, a tutti piaceva sentirmi
cantare. Ma da questo a farne una carriera …
All’epoca non c’era tempo per sogni impossibili.
Fu per questo che decise di dedicarsi
allo sport?
Sì, anche se nemmeno quella era una strada facile da percorrere: negli Stati Uniti, solo l’1% degli
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atleti di college diventano poi dei professionisti.
Giocare a football era un’opportunità per ottenere
un’istruzione universitaria, ovvero una borsa
di studio per il college. Stavo per raggiungere
il mio obiettivo …
… quando si infortunò a una spalla appena
prima di terminare l’high school: una sventura che oggi, guardandola in retrospettiva,
può essere vista come un colpo di fortuna.
Possiamo dire così. Ma all’epoca mi crollò
il mondo addosso. In ogni caso, passò molto
tempo prima che ritrovassi la strada per tornare
al mio primo amore, la musica.
Qual è stato il fattore decisivo?
Mia madre. Avevo circa vent’anni quando
si ammalò gravemente; parlammo molto prima
che morisse e un giorno mi disse: ‘Non dimenticare mai la musica’. Aveva cresciuto otto figli da
sola, nutrivo un grande rispetto e amore per lei;
dopo la sua morte caddi nella disperazione
più nera. Fu la musica a riportarmi alla vita.
GREGORY PORTER
Sulla soglia dei quarant’anni, la sua
vellutata voce baritonale lo ha proiettato
nell’olimpo del jazz, facendone una stella
della musica acclamata in tutto il mondo.
Il suo album di debutto, Water, è del
2010, a cui hanno fatto seguito Be Good
(2012) e Liquid Spirit (2013). L’ultimo
suo lavoro, Take Me To The Alley, è stato
pubblicato dalla leggendaria etichetta
Blue Note Records, per la quale hanno
inciso i più grandi musicisti jazz di tutti
i tempi, tra cui Miles Davis, John Coltrane
e Herbie Hancock. Nato a Sacramento,
in California, il 4 novembre 1971, si
distingue per una musica jazz arricchita
da contaminazioni con diversi generi
musicali, dal pop al soul, dall’hip-hop
al rhythm & blues. Attualmente vive
nel Golden State con la moglie e il figlio.
GREGORYPORTER.COM
RIFLESSIVO E INTENSO
Dalla lunga gavetta, Gregory Porter
ha imparato a padroneggiare con classe
e con intensità il soul, il gospel, il blues
e il jazz, riuscendo oggi a mettere
d’accordo pubblici assai diversi, tutti
affascinati dalla sua versatile voce
baritonale, capace di toccare le corde
più profonde dell’anima.
Ha pubblicato il suo album di debutto, Water,
nel 2010, a quasi 39 anni; non è piuttosto
tardi per lanciarsi in una carriera musicale?
In confronto alla maggior parte dei musicisti, è
così. Ma, il mio, è stato un processo che ha richiesto il suo tempo. D’altra parte, il jazz è un genere
che parla di maturità e di esperienze, degli alti
e dei bassi della vita. La vita devi averla vissuta
prima di poterla cantare.
Quali sono le esperienze che l’hanno
più segnata?
Più d’ogni altra il vuoto che l’abbandono di mio
padre mi ha lasciato dentro e che è stata una
costante della mia vita. Non l’ho mai conosciuto
veramente e i nostri rari incontri non ci hanno
in alcun modo avvicinato. Si potrebbe pensare
che, ora che sono un uomo adulto e affermato,
mi possa lasciare tutto questo alle spalle, ma
non è così semplice. Solo quando ho iniziato
a scrivere canzoni su questa e altre emozioni
che avevo dentro, la mia musica è diventata più
completa, autentica. Canzoni come Hey Laura
o Be Good parlano di fatti realmente accaduti.
Non invento mai nulla.
Dev’essere liberatorio, catartico.
Sì, lo è. Potrei dire che scrivere canzoni sia
per me terapeutico. La cosa più difficile di questa
terapia è il dovermi esibire in pubblico: sono
molto timido e, soprattutto all’inizio, salire sul
palco era un vero incubo.
È per questo che si nasconde dietro quel
grande berretto con paraorecchie che è ormai
diventato il suo ‘marchio di fabbrica’?
LOCATION FOTOGRAFICA R AINBOW ROOM ROCKEFELLER CENTER
essuna entrata in grande stile,
nessun entourage al seguito,
Gregory Porter arriva al ristorante Rainbow Room, al 65°
piano del Comcast Building al
Rockefeller Center di New York,
dove gli abbiamo dato appuntamento per quest’intervista, accompagnato soltanto dal suo grande e
caldo sorriso. Si scusa per i suoi 15 minuti di ritardo, che d’altra parte sono la norma per via del
traffico perennemente congestionato della Grande
Mela, e per prima cosa ci conduce alle ampie finestre ad ammirare lo skyline di Manhattan. Risulta
evidente che è un uomo al quale non si può mettere fretta. Ex giocatore di football americano, la
sua mole sembra riempire la stanza, ma il tipico
cappello con paraorecchie che indossa sempre, e
che è un po’ la sua ‘coperta di Linus’, lo fa apparire meno imponente e ne rivela in qualche modo
una certa timidezza e fragilità di fondo, restituendo l’immagine di un gigante sensibile e gentile.
45 anni a novembre, Porter è un uomo educato
e gioviale, dai modi piacevoli, ‘un vero signore’,
come si usa dire. Sei anni fa, ha preso d’assalto il
mondo della musica con la sua visione innovativa
del jazz, caratterizzata da uno stile interpretativo
‘liquido’, che si rifà a più generi, spaziando dal
funky al soul, dal gospel al rhythm & blues, poi
consacrato nell’album Liquid Spirit del 2013, vincitore del Grammy come ‘Miglior album jazz vocale’.
Intanto, il suo ultimo lavoro, Take Me To The Alley,
sembra destinato allo stesso successo.
[Ride] Forse. Tutti ne sono incuriositi e vorrebbero conoscere la storia dietro a questa mia mania.
In realtà, si tratta semplicemente di una mia
peculiarità, di una cosa che mi piace, non c’è
dietro nessuna storia.
Gli accadimenti a Ferguson, Baltimora e Dallas,
ma anche in tante altre città del Paese, hanno
ricordato al mondo che il razzismo è ancora ben
presente negli Stati Uniti, che questo problema
non è mai stato completamente risolto.
Il suo album Liquid Spirit del 2013 è stato un
successo, premiato con molti riconoscimenti,
tra cui un Grammy Award. Lei è considerato
il cantante che ha ridato nuova linfa al jazz.
La musica è in costante evoluzione, ma le basi su
cui si fonda il jazz rimangono ben evidenti anche
nei miei brani. Questo genere affonda le proprie
radici nel gospel, nel blues, nello spiritual.
I miei testi e melodie possono forse conferirgli
un taglio contemporaneo, tuttavia, anche a oltre
sessant’anni dal Movimento per i diritti civili
degli afroamericani, il jazz continua nella sua
‘missione’ di portavoce culturale e politico
di un popolo.
Lei ha mai percepito dell’ostilità nei suoi
confronti per via del colore della pelle?
Se c’è stata, era in una forma più subdola, ad
esempio in un atteggiamento o in uno sguardo.
Durante la mia infanzia e giovinezza, però, ho
visto accadere di tutto, incluse croci che venivano
date alle fiamme e l’uso contro afroamericani degli epiteti più feroci. Gli episodi razzisti accaduti
recentemente in molte città d’America hanno
riportato la questione allo scoperto: questo,
però, ci dà anche l’opportunità di operare un
cambiamento duraturo. Sono orgoglioso di essere
americano, ma noi americani dobbiamo parlare
apertamente, affrontando con chiarezza tutto ciò
che è accaduto nel passato. Non si può cancellarlo
o ignorarlo, bisogna essere onesti.
E, purtroppo, negli Stati Uniti continuano
anche a ripresentarsi le stesse questioni
di allora, come dimostrano i fatti di Ferguson,
Baltimora, Dallas …
Sfortunatamente sì. Gli afroamericani oggi si
stanno essenzialmente battendo per gli stessi
ideali per cui lottavano negli anni CinquantaSessanta: uguaglianza, rispetto, libertà. Adesso,
tuttavia, non sono solo le persone di colore a
dover affrontare queste battaglie: sono questioni
che riguardano anche le donne, i musulmani,
gli immigrati, gli omosessuali … La lista è lunga.
IL JAZZ,
ancora oggi, continua
nella sua ‘missione’
di portavoce culturale
e politico degli
afroamericani”
Quale ruolo può avere la musica in tutto
questo?
Il jazz era ed è ancora la più libera tra le forme
di espressione musicale. Per Abbey Lincoln, John
Coltrane o Max Roach il jazz era l’espressione
musicale di un popolo, un vero e proprio catalizzatore. Il jazz non si isola dal mondo, né a livello musicale né ideologico. L’elemento spirituale presente
nei brani jazz vuole raggiungere il cuore delle
persone, scuoterle, incitarle alla protesta.
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HIGHLIGHTS
dersi. Non voglio che sia statica, rigida, ancorata
su schemi fissi. Deve essere viva. Se collaborazioni con altri musicisti portano il ‘mio’ jazz a suoni
vicini a generi musicali più popolari, non ci vedo
niente di male. Contaminazioni hip-hop, soul,
classiche o pop costituiscono un arricchimento
al genere, anche se alcuni critici le considerano
una resa alle tendenze musicali più in voga
o addirittura un tradimento al jazz. Io credo
nel jazz e lo amo profondamente e voglio
soprattutto che le persone si rendano conto di ciò
che questa musica ha da offrire. Se, con l’aiuto
del pop o dell’hip-hop, posso rendere il jazz più
accessibile a un vasto pubblico, allora ben venga!
Grazie a quest’approccio, infatti, è riuscito a
suscitare una reazione sorprendente da parte
del pubblico, specialmente in Europa. Come
si spiega questo enorme successo nel Vecchio
Continente, mentre in America la sua musica
ha tardato un po’ di più a essere apprezzata?
Magari lo sapessi! Forse è perché di solito non
si riconosce l’importanza di qualcosa quando
ce l’abbiamo proprio sotto il naso? Spesso, infatti,
le cose si vedono più chiaramente guardandole
da lontano. Comunque, in generale il pubblico
europeo ha una mentalità più aperta, ama le
novità ed è più curioso; ad esempio, nel Regno
Unito Liquid Spirit raggiunse velocemente
la Top 10 della classifica. La storia della musica
ha dimostrato più volte in Europa quest’apertura
verso il nuovo, con l’affermazione del blues,
del rock and roll o del soul … da voi c’è semplicemente ‘un grande appetito’ di musica.
Nel suo ultimo album, Take Me To The Alley,
lei sembra fare esattamente questo attraverso
la canzone Fan The Flames.
Esatto; ‘Stand up on the seat with your dirty feet’,
‘Alzati sulla sedia con i tuoi piedi sporchi’, è un
invito a prendere coscienza e ad agire. Si ha il
diritto di protestare. I piedi sono sporchi perché
si è camminato attraverso le nefandezze e le
menzogne che i politici hanno lasciato dietro
di loro. Però, più avanti il testo dice anche ‘Put
your fist in the air, and be sweet’, cioè ‘Alza in aria
il tuo pugno di protesta e fallo con dolcezza’:
la resistenza attiva non violenta è fondamentale
per arrivare a una soluzione. Ciò che auspico
è una protesta giusta e un rispetto reciproco.
Lo scopo principale della sua musica, quindi,
è quello di scuotere le coscienze?
È uno degli intenti. Ci sono molte ragioni per
cui faccio musica, alcune sono legate alle mie
emozioni e al mio vissuto personale, altre sono
di stampo politico o ideologico. Soprattutto, però,
desidero intrattenere, interessare le persone
e avvicinarle al mondo del jazz. Non è un segreto
che questo genere abbia perso molti appassionati
nel corso degli anni e io voglio cambiare questa
tendenza. Mentre scrivo una canzone, penso
spesso al ventenne che crede che il jazz non
abbia niente da dirgli perché lo considera adatto
a persone più adulte, oppure al trentacinquenne
che ha ascoltato hip-hop per la maggior parte
della sua vita e che non riesce a vedere alcun
legame tra i due generi. Così, cerco di produrre
qualcosa che faccia cambiare loro idea.
È questa la ragione per cui i suoi ultimi album
sono vicini ai generi musicali attualmente
più in voga?
Quel che faccio è sempre jazz. Ma la mia musica
è duttile, ‘liquida’, i suoi confini possono espan18
LA VITA
devi averla vissuta
prima di poterla
cantare”
Mentre gli Stati Uniti sono ormai sazi?
In un certo senso, sì. Principalmente, però, da noi
ci si scontra con lo strapotere delle grandi majors
dell’industria musicale, che fanno il bello e il cattivo tempo. Parlo proprio di questo nel brano Liquid
Spirit, quando canto ‘Un re-route the rivers/Let the
dammed water be’, ‘Libera il corso dei fiumi/lascia
che l’acqua scorra senza restrizioni’. Ovvero, lasciamo che la musica faccia la sua strada, diamole
spazio, lasciamola libera; al contrario, sono spesso
le majors a decidere per tutti quale musica è o
deve essere di tendenza. E se il jazz, o un qualsiasi
altro genere, non è sulla lista, allora non viene trasmesso alla radio. Personalmente, però, non perdo
la speranza. Quest’anno, infatti, avrò più concerti
di sempre negli Stati Uniti e in Canada, quindi
vuol dire che qualcosa sta cambiando.
Lei sembra una persona così calma
e tranquilla ...
Se c’è qualcosa che ho imparato dalla vita,
è che un approccio aggressivo non porta da
nessuna parte e che spesso causa solo problemi.
Preferisco agire con cautela. Ma, quando si presenta un’occasione, non esito a coglierla.
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