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LA SOFFITTA DI CARTA
a cura di
asterischi.it
7 BESTIARIO
un progetto di
rosario
battiato
e agata
“I mostri nascono per combinazione d’elementi d’esseri reali, e che le
possibilità dell’arte combinatoria sono quasi infinite”. Jorge Luis Borges e
sapienza
Margarita Guerrero, Manuale di zoologia fantastica
La lunga processione di creature
fantastiche che ha affollato la nostra
adolescenza ci insegna che non ci
sono creazioni assolutamente originali.
Ogni creatura è, in realtà, un piccolo
mostro composito dove si affollano
pezzi di animali quotidiani e conosciuti.
Il terrore, insomma, si insinua nell’ovvio,
nelle morbosità più ricorrenti, in una
“rosa che canta”, come scriveva
il vecchio Arthur Machen. I mostri,
insomma, non fanno paura solo
perché sono brutti e schifosi, ma anche
perché si manifestano a noi mentre
in realtà non esistono per tutti gli altri.
E chi alle mancuspie di invenzione
cortazariana preferisce il «Nevermore»
del Corvo di Poe o l’asino che trova le
rime a ogni calcio del padrone delle
Favole della dittatura di Sciascia o
ancora il cane veggente della piccola
Margherita dolcevita di Benni, si fermi
alla parte che si concentra su animali
realmente esistenti che si comportano
un po’ come vogliono, o come vuole
chi li mette su carta. Ma attenzione,
alcuni animali fanno paura proprio
perché reali e facilmente immaginabili
da tutti, e se è vero che nessuno
sogna di essere attaccato dal mostro
invisibile di Maupassant, è certo allo
stesso modo che nessuno vuole essere
invaso da impertinenti scarafaggi, né
tantomeno trasformarsi in uno di loro.
Rosario Battiato, Agata Sapienza
Baustelle - Il Corvo Joe
In ‘La canzone del parco’ i Baustelle
davano voce a una cinica villetta
comunale. Stavolta tocca a un corvo
non meno disilluso nel descrivere la
vita di noi esseri umani.
Brunori S.a.s. – La mosca
Come il grande poeta Machado, il
cantautore calabrese mette al centro
di un suo testo la mosca e i suoi ronzii.
Lucio Battisti – Il leone e la gallina
Il leone conquistatore crede di aver
trovato una facile preda nella gallina
ma, almeno nel tempo narrativo
della canzone, l’uccello continua
inevitabilmente a sfuggirgli.
Gino Paoli – La gatta
La gatta sul tetto di fronte a una
stanzetta occupata in passato diventa
il simbolo di un bel periodo ormai
giunto al termine.
Edoardo Bennato – Il Gatto e la
Volpe
Il cantautore partenopeo gioca con
due animali fiabeschi, metafora di
arraffoni e truffatori che popolano il
nostro mondo.
Loris Magro
«Pensate un momento a un mondo
senza animali; sarebbe un mondo
deserto [...] un mondo in cui la noia
la farebbe da padrone». Così scrive
Augusto Monterroso, guatemalteco,
in uno dei numerosi pezzi dedicati
alla fauna che opera e pensa
nella società. E proprio questa è la
caratteristica degli animali dei suoi
racconti: la Scimmia vuole fare lo
scrittore satirico ed è amata da tutti
coloro che vogliono mettersi al riparo
dalle critiche, la Mosca sogna di
essere un’Aquila ma poi si rende conto
che le piace essere una Mosca e poi
cambia idea e di nuovo ci ripensa e
così all’infinito, il Gufo vuole salvare
l’umanità ma finisce solo per non
mangiare e non essere mangiato, il
Camaleonte non sa più quale colore
assumere in base ai cambiamenti
politici e sociali, il Cavallo pensa
che se fosse capace di immaginare
Dio sarebbe sicuramente a forma di
fantino, il Cane si allena per diventare
uomo ma si accorge di non mordere
come lui, il Leone è sempre il Re della
giungla ma cede volentieri la corona
alla Scimmia per farle capire cosa vuol
dire avere il potere, e via dicendo. E
se questi animali sembrano solo una
nuova interpretazione dell’uomo, dei
nuovi personaggi di Esopo, pensate
alla povera Vacca che giace morta
sul ciglio della strada senza nessuno
che la seppellisca o che le canti le lodi
per il buon latte e per il duro lavoro.
Agata Sapienza
Ci sono animali che nel tempo sono diventati
più famosi di altri. Nel 1956 Virgilio Piñera
inserisce nella sua raccolta Cuentos fríos la
contingenza, chiaramente autobiografica,
che mette in relazione il suo personaggio
e gli scarafaggi. Dopo anni, questo già
fortunatissimo animale, che deve tutto
il suo splendore a Kafka, riceve ulteriori
attenzioni in lingua spagnola. Questa volta
però la metamorfosi è più sottile e diluita
nel tempo. Infatti in Cómo viví y cómo morí
gli scarafaggi infestano la casa modesta e
sporca del protagonista e con l’andare del
tempo diventano parte della sua vita. La
sua rassegnazione alla loro presenza non è
marcatamente negativa: loro sono i muti
testimoni delle sue pene, l’unica realtà della
sua esistenza fatta di pura apparenza. Allo
stesso tempo la loro presenza continua a
turbarlo. Ha addirittura l’impressione di vedere
scarafaggi dappertutto, che la gente per
strada abbia zampe e ali di scarafaggio. Nel
momento in cui un signore, inavvertitamente,
lo chiama “scarafaggio” si compie la rottura
col resto del mondo: la sua ossessione si fa
realtà e la gente finisce per accorgersene.
Decide quindi di rinchiudersi nella sua stanza
e non uscire mai più. Dopo pochi giorni sta per
morire, ma niente è cambiato, gli scarafaggi
continuano a regnare e cominciano a posarsi
pure su di lui. Da qui alla metamorfosi non c’è
molta strada... e ci sembra di sentire lo stesso
stupore del suo famoso collega Gregor Samsa
quando si rende conto di cosa gli è successo
svegliandosi da sogni inquieti. Del resto è
risaputo che Virgilio ami Kafka e che molti dei
suoi racconti sottolineino questa ammirazione.
Ma qui la scelta dello scarafaggio non vuole
solo essere un omaggio allo scrittore ceco, ma
un modo per mettere in scena la sua piccola
grande Cuba, isola in cui gli scarafaggi sono
molto diffusi. L’inferno quotidiano diventa la
scelta del protagonista, perché lottare per la
salvezza è inutile quanto cercare di scacciare
gli scarafaggi da casa.
Agata Sapienza
asterischi.it
a cura di
Rosario Battiato, Agata Sapienza
La lunga processione di creature
fantastiche che ha affollato la nostra
adolescenza ci insegna che non ci
sono creazioni assolutamente originali.
Ogni creatura è, in realtà, un piccolo
mostro composito dove si affollano
pezzi di animali quotidiani e conosciuti.
Il terrore, insomma, si insinua nell’ovvio,
nelle morbosità più ricorrenti, in una
“rosa che canta”, come scriveva
il vecchio Arthur Machen. I mostri,
insomma, non fanno paura solo
perché sono brutti e schifosi, ma anche
perché si manifestano a noi mentre
in realtà non esistono per tutti gli altri.
E chi alle mancuspie di invenzione
cortazariana preferisce il «Nevermore»
del Corvo di Poe o l’asino che trova le
rime a ogni calcio del padrone delle
Favole della dittatura di Sciascia o
ancora il cane veggente della piccola
Margherita dolcevita di Benni, si fermi
alla parte che si concentra su animali
realmente esistenti che si comportano
un po’ come vogliono, o come vuole
chi li mette su carta. Ma attenzione,
alcuni animali fanno paura proprio
perché reali e facilmente immaginabili
da tutti, e se è vero che nessuno
sogna di essere attaccato dal mostro
invisibile di Maupassant, è certo allo
stesso modo che nessuno vuole essere
invaso da impertinenti scarafaggi, né
tantomeno trasformarsi in uno di loro.
Loris Magro
Edoardo Bennato – Il Gatto e la
Volpe
Il cantautore partenopeo gioca con
due animali fiabeschi, metafora di
arraffoni e truffatori che popolano il
nostro mondo.
Gino Paoli – La gatta
La gatta sul tetto di fronte a una
stanzetta occupata in passato diventa
il simbolo di un bel periodo ormai
giunto al termine.
Lucio Battisti – Il leone e la gallina
Il leone conquistatore crede di aver
trovato una facile preda nella gallina
ma, almeno nel tempo narrativo
della canzone, l’uccello continua
inevitabilmente a sfuggirgli.
Brunori S.a.s. – La mosca
Come il grande poeta Machado, il
cantautore calabrese mette al centro
di un suo testo la mosca e i suoi ronzii.
Baustelle - Il Corvo Joe
In ‘La canzone del parco’ i Baustelle
davano voce a una cinica villetta
comunale. Stavolta tocca a un corvo
non meno disilluso nel descrivere la
vita di noi esseri umani.
Margarita Guerrero, Manuale di zoologia fantastica
Agata Sapienza
«Pensate un momento a un mondo
senza animali; sarebbe un mondo
deserto [...] un mondo in cui la noia
la farebbe da padrone». Così scrive
Augusto Monterroso, guatemalteco,
in uno dei numerosi pezzi dedicati
alla fauna che opera e pensa
nella società. E proprio questa è la
caratteristica degli animali dei suoi
racconti: la Scimmia vuole fare lo
scrittore satirico ed è amata da tutti
coloro che vogliono mettersi al riparo
dalle critiche, la Mosca sogna di
essere un’Aquila ma poi si rende conto
che le piace essere una Mosca e poi
cambia idea e di nuovo ci ripensa e
così all’infinito, il Gufo vuole salvare
l’umanità ma finisce solo per non
mangiare e non essere mangiato, il
Camaleonte non sa più quale colore
assumere in base ai cambiamenti
politici e sociali, il Cavallo pensa
che se fosse capace di immaginare
Dio sarebbe sicuramente a forma di
fantino, il Cane si allena per diventare
uomo ma si accorge di non mordere
come lui, il Leone è sempre il Re della
giungla ma cede volentieri la corona
alla Scimmia per farle capire cosa vuol
dire avere il potere, e via dicendo. E
se questi animali sembrano solo una
nuova interpretazione dell’uomo, dei
nuovi personaggi di Esopo, pensate
alla povera Vacca che giace morta
sul ciglio della strada senza nessuno
che la seppellisca o che le canti le lodi
per il buon latte e per il duro lavoro.
un progetto di
rosario
battiato
e agata
“I mostri nascono per combinazione d’elementi d’esseri reali, e che le
possibilità dell’arte combinatoria sono quasi infinite”. Jorge Luis Borges e
sapienza
7 BESTIARIO
LA SOFFITTA DI CARTA
Ci sono animali che nel tempo sono diventati
più famosi di altri. Nel 1956 Virgilio Piñera
inserisce nella sua raccolta Cuentos fríos la
contingenza, chiaramente autobiografica,
che mette in relazione il suo personaggio
e gli scarafaggi. Dopo anni, questo già
fortunatissimo animale, che deve tutto
il suo splendore a Kafka, riceve ulteriori
attenzioni in lingua spagnola. Questa volta
però la metamorfosi è più sottile e diluita
nel tempo. Infatti in Cómo viví y cómo morí
gli scarafaggi infestano la casa modesta e
sporca del protagonista e con l’andare del
tempo diventano parte della sua vita. La
sua rassegnazione alla loro presenza non è
marcatamente negativa: loro sono i muti
testimoni delle sue pene, l’unica realtà della
sua esistenza fatta di pura apparenza. Allo
stesso tempo la loro presenza continua a
turbarlo. Ha addirittura l’impressione di vedere
scarafaggi dappertutto, che la gente per
strada abbia zampe e ali di scarafaggio. Nel
momento in cui un signore, inavvertitamente,
lo chiama “scarafaggio” si compie la rottura
col resto del mondo: la sua ossessione si fa
realtà e la gente finisce per accorgersene.
Decide quindi di rinchiudersi nella sua stanza
e non uscire mai più. Dopo pochi giorni sta per
morire, ma niente è cambiato, gli scarafaggi
continuano a regnare e cominciano a posarsi
pure su di lui. Da qui alla metamorfosi non c’è
molta strada... e ci sembra di sentire lo stesso
stupore del suo famoso collega Gregor Samsa
quando si rende conto di cosa gli è successo
svegliandosi da sogni inquieti. Del resto è
risaputo che Virgilio ami Kafka e che molti dei
suoi racconti sottolineino questa ammirazione.
Ma qui la scelta dello scarafaggio non vuole
solo essere un omaggio allo scrittore ceco, ma
un modo per mettere in scena la sua piccola
grande Cuba, isola in cui gli scarafaggi sono
molto diffusi. L’inferno quotidiano diventa la
scelta del protagonista, perché lottare per la
salvezza è inutile quanto cercare di scacciare
gli scarafaggi da casa.
Agata Sapienza
hanno scritto:
rosario battiato
filippo grasso
loris magro
agata sapienza
grafica:
stefania rifuggiato
foto:
claudia rifuggiato
logo di asterischi:
sandra verkulent sedlecká
Filippo Grasso
C’è un Maupassant che non ti aspetti.
Il maestro del racconto moderno,
irriverente accusatore della società
borghese, fu l’ideatore di una creatura
tra malattia mentale e presenza
soprannaturale. Le Horla (Le Horla e altri
racconti dell’orrore, Newton, Tascabili
Economici 100 Pagine 1000 lire, numero
140) è un mostro che si presenta in
punta di piedi. Dapprincipio sembra
un “innocuo” disturbo mentale, uno
di quelli che ti fa vedere e udire coseche-non-dovresti-vedere-e-udire. Poi il
fastidio comincia a diventare ossessione.
Il confine tra l’organico del cervello e
l’altro del soprannaturale si assottiglia.
Forse cosciente di questa duplice
interpretazione, che poi è un topos di
tanta letteratura fantastica, Maupassant
realizza almeno due versione del
racconto. La seconda è quella che
scansa e accoltella, senza mai ucciderla
definitivamente,
la
spiegazione
psichica. Si tratta, in definitiva, di
un essere antico, che esisteva già
prima dell’uomo, e che ha deciso di
perseguitare il malcapitato protagonista.
Ecco cosa scrive ad un certo punto.
«È venuto, Colui che prevedevano i
primi terrori dei popoli primitivi, Colui
che esorcizzavano i sacerdoti inquieti,
che gli stregoni evocavano nelle notti
scure, senza vederlo apparire ancora,
a cui i presentimenti dei padroni effimeri
del mondo prestarono tutte le forme
mostruose o graziose degli gnomi, degli
spiriti, dei geni, delle fate, dei folletti». Poi
cita i classici riferimenti dell’epoca come
Mesmer (anche Poe si ispirò alle opere del
medico austriaco per scrivere splendide
cose come Rivelazione mesmerica e
La verità sul caso di Mr. Valdemar) per
lasciarci senza soluzione perché «Lui è
venuto, il… il… come si chiama… mi
sembra che mi gridi il suo nome, ma io
non lo sento…». Anche sul nome della
creatura, praticamente intraducibile, ci
sono state differenti interpretazioni tra cui
Ce Horla come anagramma di cholera,
anche se l’interpretazione più semplice
è Hors La, nel senso di espulsione del
corpo estraneo. Una concezione che
non stupisce perché il francese viveva in
una realtà dove l’uomo era schiacciato
da entità più o meno consistenti e reali.
Al cinema bisognerà attendere il 1963
per vedere trasposto il racconto in Horla
– Diario Segreto di un pazzo di Reginald
Le Borg. Mai attesa fu più vana perché
il film, che mette dentro la storia anche
un altro racconto di Maupassant che si
chiama Diario di un magistrato, non si
stacca dalla mediocrità complessiva,
nonostante la presenza di Vincent Price.
Scrive Borges nel Manuale di Zoologia
fantastica
(traduzione
di
Franco
Lucentini, Einaudi, 2010) che «Golem
si chiamò l’uomo creato tramite
combinazioni di lettere; letteralmente la
parola significa “una materia amorfa o
senza vita”». I saccheggi operati dalla
letteratura e dal cinema nei confronti
delle religioni del libro, inutile ricordarlo,
sono stati numerosi, anche se alcuni
commessi con estrema abilità. Tra
questi c’è sicuramente il caso di Gustav
Meyrink, scrittore ed esoterista austriaco,
che riprende la vecchia leggenda
praghese del Golem per offrirla ai
posteri in una chiave meno tradizionale,
mascherandola, al contempo, da
romanzo fantastico. La cabala ricopre
un ruolo notevole in questa vicenda,
ma meglio non imbattersi in questa
strada contorta e pericolosa. Basterà
dire che la leggenda praghese, da cui
poi prenderà spunto Meyrink, affonda la
sua origine nel IV secolo a.C. Il Golem è
un colosso che dovrebbe proteggere
gli ebrei dai popoli stranieri. La creatura,
però, ha una vitalità “sorda e vegetativa”,
scrive l’austriaco. Si attiva, secondo la
tradizione, quando sulla fronte accanto
al nome di dio si scrive verità (Emet), e
si spegne quando, cancellando l’aleph,
muta in morto (met). Il Golem di Meyrink
riprende la leggenda fondendo assieme
letteratura fantastica, cabala e terrore,
in un viaggio delirante nella Praga di
primo Novecento. Ne è entusiasta
lettore persino Borges (sul Golem scriverà
anche una poesia) che sarà un grande
ammiratore di Meyrink al punto da
promuoverne la diffusione in Argentina.
La cultura popolare del Novecento si
appropria del mito del Golem. Così lo
immaginiamo in buona compagnia tra
il mostro del dottor Frankeinstein (James
Whale si ispirò al mostro di Wegener per
girare Frankenstein nel 1931), e poi, in
uno scorrimento sempre più veloce,
con i primi robot della fantascienza
fino agli androidi dickiani. Una galleria
che, verosimilmente, perde un po’ di
magia ad ogni decennio che passa,
ma rinnova, ad ogni generazione, le
medesime domande.
Filippo Grasso
Secondo Herbert George Wells nell’anno
802701 i discendenti dei lavoratori del
secolo scorso vivranno nel sottosuolo
e saranno brutti, rozzi e schifosi. Si
chiameranno Morlock e sopravviveranno
cibandosi degli Eloi, creature innocue
allevate per essere carne da macello.
Wells, il progressista, non doveva farsi
molte illusioni sul futuro dell’umanità.
Nel suo capolavoro La macchina del
tempo il protagonista scopre a proprie
spese che il passare degli anni non
sottinende necessariamente lo sviluppo
dell’umanità, ma, al contrario, ne
suggerisce la deformità slabbrando e
confondendo i confini dell’umano. La
razza dei Morlock, la traduzione italiana
riporta una buffa variante in Morlocchi,
rappresenta la curva discendente
del sistema sociale dell’età vittoriana
che si perde in un delirio di deformità
e antropofagia. La ripugnanza del
viaggiatore del tempo non è solo
estetica, ma, probabilmente, nasconde
un senso di scoramento per quello che
sarebbe toccato ai suoi discendenti.
Mostri deformi come i Morlock oppure
gentili bestioline da macello come gli
Eloi. La descrizione di Wells lascia poco al
caso. «Difficilmente potete immaginare
il loro aspetto inumano e nauseabondo;
avevano il volto pallido senza mento,
gli occhi grigio-rossastri senza ciglia, e
mi fissavano spaventati e accecati.
Non mi fermai a osservarli, ve lo giuro».
Lo sguardo di questa povera umanità
futura, costretta a vivere nei bassifondi
perché inadatta alla luce solare, è il
triste epilogo di un’umanità che si è fatta
creatura ferale destinata a sfuggire alla
stessa luce dell’esistenza. «Mi liberai dalla
stretta dei Morlocchi, mi arrampicai in
fretta sulle pareti del pozzo, mentre essi,
dal fondo, mi fissavano strizzando gli
occhi; soltanto un piccolo miserabile mi
seguì per un po’, impadronendosi quasi
della mia scarpa come di un trofeo». Il
cinema, che difficilmente ha resistito al
fascino delle opere di Herbert George
Wells, ha realizzato diversi adattamenti
più o meno ispirati al romanzo, tra cui
spicca certamente il notissimo L’uomo
che visse nel futuro (1960) di George Pal.
Ma il futuro gioca un ruolo decisivo in
questa partita. Quarantadue anni dopo
il remake The time machine (2002) sarà
diretto da Simon Wells, pronipote di H. G.
Wells.
Rosario Battiato
Filippo Grasso
Scrive Borges nel Manuale di Zoologia
fantastica
(traduzione
di
Franco
Lucentini, Einaudi, 2010) che «Golem
si chiamò l’uomo creato tramite
combinazioni di lettere; letteralmente la
parola significa “una materia amorfa o
senza vita”». I saccheggi operati dalla
letteratura e dal cinema nei confronti
delle religioni del libro, inutile ricordarlo,
sono stati numerosi, anche se alcuni
commessi con estrema abilità. Tra
questi c’è sicuramente il caso di Gustav
Meyrink, scrittore ed esoterista austriaco,
che riprende la vecchia leggenda
praghese del Golem per offrirla ai
posteri in una chiave meno tradizionale,
mascherandola, al contempo, da
romanzo fantastico. La cabala ricopre
un ruolo notevole in questa vicenda,
ma meglio non imbattersi in questa
strada contorta e pericolosa. Basterà
dire che la leggenda praghese, da cui
poi prenderà spunto Meyrink, affonda la
sua origine nel IV secolo a.C. Il Golem è
un colosso che dovrebbe proteggere
gli ebrei dai popoli stranieri. La creatura,
però, ha una vitalità “sorda e vegetativa”,
scrive l’austriaco. Si attiva, secondo la
tradizione, quando sulla fronte accanto
al nome di dio si scrive verità (Emet), e
si spegne quando, cancellando l’aleph,
muta in morto (met). Il Golem di Meyrink
riprende la leggenda fondendo assieme
letteratura fantastica, cabala e terrore,
in un viaggio delirante nella Praga di
primo Novecento. Ne è entusiasta
lettore persino Borges (sul Golem scriverà
anche una poesia) che sarà un grande
ammiratore di Meyrink al punto da
promuoverne la diffusione in Argentina.
La cultura popolare del Novecento si
appropria del mito del Golem. Così lo
immaginiamo in buona compagnia tra
il mostro del dottor Frankeinstein (James
Whale si ispirò al mostro di Wegener per
girare Frankenstein nel 1931), e poi, in
uno scorrimento sempre più veloce,
con i primi robot della fantascienza
fino agli androidi dickiani. Una galleria
che, verosimilmente, perde un po’ di
magia ad ogni decennio che passa,
ma rinnova, ad ogni generazione, le
medesime domande.
Filippo Grasso
hanno scritto:
rosario battiato
filippo grasso
loris magro
agata sapienza
grafica:
stefania rifuggiato
foto:
claudia rifuggiato
logo di asterischi:
sandra verkulent sedlecká
C’è un Maupassant che non ti aspetti.
Il maestro del racconto moderno,
irriverente accusatore della società
borghese, fu l’ideatore di una creatura
tra malattia mentale e presenza
soprannaturale. Le Horla (Le Horla e altri
racconti dell’orrore, Newton, Tascabili
Economici 100 Pagine 1000 lire, numero
140) è un mostro che si presenta in
punta di piedi. Dapprincipio sembra
un “innocuo” disturbo mentale, uno
di quelli che ti fa vedere e udire coseche-non-dovresti-vedere-e-udire. Poi il
fastidio comincia a diventare ossessione.
Il confine tra l’organico del cervello e
l’altro del soprannaturale si assottiglia.
Forse cosciente di questa duplice
interpretazione, che poi è un topos di
tanta letteratura fantastica, Maupassant
realizza almeno due versione del
racconto. La seconda è quella che
scansa e accoltella, senza mai ucciderla
definitivamente,
la
spiegazione
psichica. Si tratta, in definitiva, di
un essere antico, che esisteva già
prima dell’uomo, e che ha deciso di
perseguitare il malcapitato protagonista.
Ecco cosa scrive ad un certo punto.
«È venuto, Colui che prevedevano i
primi terrori dei popoli primitivi, Colui
che esorcizzavano i sacerdoti inquieti,
che gli stregoni evocavano nelle notti
scure, senza vederlo apparire ancora,
a cui i presentimenti dei padroni effimeri
del mondo prestarono tutte le forme
mostruose o graziose degli gnomi, degli
spiriti, dei geni, delle fate, dei folletti». Poi
cita i classici riferimenti dell’epoca come
Mesmer (anche Poe si ispirò alle opere del
medico austriaco per scrivere splendide
cose come Rivelazione mesmerica e
La verità sul caso di Mr. Valdemar) per
lasciarci senza soluzione perché «Lui è
venuto, il… il… come si chiama… mi
sembra che mi gridi il suo nome, ma io
non lo sento…». Anche sul nome della
creatura, praticamente intraducibile, ci
sono state differenti interpretazioni tra cui
Ce Horla come anagramma di cholera,
anche se l’interpretazione più semplice
è Hors La, nel senso di espulsione del
corpo estraneo. Una concezione che
non stupisce perché il francese viveva in
una realtà dove l’uomo era schiacciato
da entità più o meno consistenti e reali.
Al cinema bisognerà attendere il 1963
per vedere trasposto il racconto in Horla
– Diario Segreto di un pazzo di Reginald
Le Borg. Mai attesa fu più vana perché
il film, che mette dentro la storia anche
un altro racconto di Maupassant che si
chiama Diario di un magistrato, non si
stacca dalla mediocrità complessiva,
nonostante la presenza di Vincent Price.
Secondo Herbert George Wells nell’anno
802701 i discendenti dei lavoratori del
secolo scorso vivranno nel sottosuolo
e saranno brutti, rozzi e schifosi. Si
chiameranno Morlock e sopravviveranno
cibandosi degli Eloi, creature innocue
allevate per essere carne da macello.
Wells, il progressista, non doveva farsi
molte illusioni sul futuro dell’umanità.
Nel suo capolavoro La macchina del
tempo il protagonista scopre a proprie
spese che il passare degli anni non
sottinende necessariamente lo sviluppo
dell’umanità, ma, al contrario, ne
suggerisce la deformità slabbrando e
confondendo i confini dell’umano. La
razza dei Morlock, la traduzione italiana
riporta una buffa variante in Morlocchi,
rappresenta la curva discendente
del sistema sociale dell’età vittoriana
che si perde in un delirio di deformità
e antropofagia. La ripugnanza del
viaggiatore del tempo non è solo
estetica, ma, probabilmente, nasconde
un senso di scoramento per quello che
sarebbe toccato ai suoi discendenti.
Mostri deformi come i Morlock oppure
gentili bestioline da macello come gli
Eloi. La descrizione di Wells lascia poco al
caso. «Difficilmente potete immaginare
il loro aspetto inumano e nauseabondo;
avevano il volto pallido senza mento,
gli occhi grigio-rossastri senza ciglia, e
mi fissavano spaventati e accecati.
Non mi fermai a osservarli, ve lo giuro».
Lo sguardo di questa povera umanità
futura, costretta a vivere nei bassifondi
perché inadatta alla luce solare, è il
triste epilogo di un’umanità che si è fatta
creatura ferale destinata a sfuggire alla
stessa luce dell’esistenza. «Mi liberai dalla
stretta dei Morlocchi, mi arrampicai in
fretta sulle pareti del pozzo, mentre essi,
dal fondo, mi fissavano strizzando gli
occhi; soltanto un piccolo miserabile mi
seguì per un po’, impadronendosi quasi
della mia scarpa come di un trofeo». Il
cinema, che difficilmente ha resistito al
fascino delle opere di Herbert George
Wells, ha realizzato diversi adattamenti
più o meno ispirati al romanzo, tra cui
spicca certamente il notissimo L’uomo
che visse nel futuro (1960) di George Pal.
Ma il futuro gioca un ruolo decisivo in
questa partita. Quarantadue anni dopo
il remake The time machine (2002) sarà
diretto da Simon Wells, pronipote di H. G.
Wells.
Rosario Battiato