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LA SOFFITTA DI CARTA a cura di asterischi.it 7 BESTIARIO un progetto di rosario battiato e agata “I mostri nascono per combinazione d’elementi d’esseri reali, e che le possibilità dell’arte combinatoria sono quasi infinite”. Jorge Luis Borges e sapienza Margarita Guerrero, Manuale di zoologia fantastica La lunga processione di creature fantastiche che ha affollato la nostra adolescenza ci insegna che non ci sono creazioni assolutamente originali. Ogni creatura è, in realtà, un piccolo mostro composito dove si affollano pezzi di animali quotidiani e conosciuti. Il terrore, insomma, si insinua nell’ovvio, nelle morbosità più ricorrenti, in una “rosa che canta”, come scriveva il vecchio Arthur Machen. I mostri, insomma, non fanno paura solo perché sono brutti e schifosi, ma anche perché si manifestano a noi mentre in realtà non esistono per tutti gli altri. E chi alle mancuspie di invenzione cortazariana preferisce il «Nevermore» del Corvo di Poe o l’asino che trova le rime a ogni calcio del padrone delle Favole della dittatura di Sciascia o ancora il cane veggente della piccola Margherita dolcevita di Benni, si fermi alla parte che si concentra su animali realmente esistenti che si comportano un po’ come vogliono, o come vuole chi li mette su carta. Ma attenzione, alcuni animali fanno paura proprio perché reali e facilmente immaginabili da tutti, e se è vero che nessuno sogna di essere attaccato dal mostro invisibile di Maupassant, è certo allo stesso modo che nessuno vuole essere invaso da impertinenti scarafaggi, né tantomeno trasformarsi in uno di loro. Rosario Battiato, Agata Sapienza Baustelle - Il Corvo Joe In ‘La canzone del parco’ i Baustelle davano voce a una cinica villetta comunale. Stavolta tocca a un corvo non meno disilluso nel descrivere la vita di noi esseri umani. Brunori S.a.s. – La mosca Come il grande poeta Machado, il cantautore calabrese mette al centro di un suo testo la mosca e i suoi ronzii. Lucio Battisti – Il leone e la gallina Il leone conquistatore crede di aver trovato una facile preda nella gallina ma, almeno nel tempo narrativo della canzone, l’uccello continua inevitabilmente a sfuggirgli. Gino Paoli – La gatta La gatta sul tetto di fronte a una stanzetta occupata in passato diventa il simbolo di un bel periodo ormai giunto al termine. Edoardo Bennato – Il Gatto e la Volpe Il cantautore partenopeo gioca con due animali fiabeschi, metafora di arraffoni e truffatori che popolano il nostro mondo. Loris Magro «Pensate un momento a un mondo senza animali; sarebbe un mondo deserto [...] un mondo in cui la noia la farebbe da padrone». Così scrive Augusto Monterroso, guatemalteco, in uno dei numerosi pezzi dedicati alla fauna che opera e pensa nella società. E proprio questa è la caratteristica degli animali dei suoi racconti: la Scimmia vuole fare lo scrittore satirico ed è amata da tutti coloro che vogliono mettersi al riparo dalle critiche, la Mosca sogna di essere un’Aquila ma poi si rende conto che le piace essere una Mosca e poi cambia idea e di nuovo ci ripensa e così all’infinito, il Gufo vuole salvare l’umanità ma finisce solo per non mangiare e non essere mangiato, il Camaleonte non sa più quale colore assumere in base ai cambiamenti politici e sociali, il Cavallo pensa che se fosse capace di immaginare Dio sarebbe sicuramente a forma di fantino, il Cane si allena per diventare uomo ma si accorge di non mordere come lui, il Leone è sempre il Re della giungla ma cede volentieri la corona alla Scimmia per farle capire cosa vuol dire avere il potere, e via dicendo. E se questi animali sembrano solo una nuova interpretazione dell’uomo, dei nuovi personaggi di Esopo, pensate alla povera Vacca che giace morta sul ciglio della strada senza nessuno che la seppellisca o che le canti le lodi per il buon latte e per il duro lavoro. Agata Sapienza Ci sono animali che nel tempo sono diventati più famosi di altri. Nel 1956 Virgilio Piñera inserisce nella sua raccolta Cuentos fríos la contingenza, chiaramente autobiografica, che mette in relazione il suo personaggio e gli scarafaggi. Dopo anni, questo già fortunatissimo animale, che deve tutto il suo splendore a Kafka, riceve ulteriori attenzioni in lingua spagnola. Questa volta però la metamorfosi è più sottile e diluita nel tempo. Infatti in Cómo viví y cómo morí gli scarafaggi infestano la casa modesta e sporca del protagonista e con l’andare del tempo diventano parte della sua vita. La sua rassegnazione alla loro presenza non è marcatamente negativa: loro sono i muti testimoni delle sue pene, l’unica realtà della sua esistenza fatta di pura apparenza. Allo stesso tempo la loro presenza continua a turbarlo. Ha addirittura l’impressione di vedere scarafaggi dappertutto, che la gente per strada abbia zampe e ali di scarafaggio. Nel momento in cui un signore, inavvertitamente, lo chiama “scarafaggio” si compie la rottura col resto del mondo: la sua ossessione si fa realtà e la gente finisce per accorgersene. Decide quindi di rinchiudersi nella sua stanza e non uscire mai più. Dopo pochi giorni sta per morire, ma niente è cambiato, gli scarafaggi continuano a regnare e cominciano a posarsi pure su di lui. Da qui alla metamorfosi non c’è molta strada... e ci sembra di sentire lo stesso stupore del suo famoso collega Gregor Samsa quando si rende conto di cosa gli è successo svegliandosi da sogni inquieti. Del resto è risaputo che Virgilio ami Kafka e che molti dei suoi racconti sottolineino questa ammirazione. Ma qui la scelta dello scarafaggio non vuole solo essere un omaggio allo scrittore ceco, ma un modo per mettere in scena la sua piccola grande Cuba, isola in cui gli scarafaggi sono molto diffusi. L’inferno quotidiano diventa la scelta del protagonista, perché lottare per la salvezza è inutile quanto cercare di scacciare gli scarafaggi da casa. Agata Sapienza asterischi.it a cura di Rosario Battiato, Agata Sapienza La lunga processione di creature fantastiche che ha affollato la nostra adolescenza ci insegna che non ci sono creazioni assolutamente originali. Ogni creatura è, in realtà, un piccolo mostro composito dove si affollano pezzi di animali quotidiani e conosciuti. Il terrore, insomma, si insinua nell’ovvio, nelle morbosità più ricorrenti, in una “rosa che canta”, come scriveva il vecchio Arthur Machen. I mostri, insomma, non fanno paura solo perché sono brutti e schifosi, ma anche perché si manifestano a noi mentre in realtà non esistono per tutti gli altri. E chi alle mancuspie di invenzione cortazariana preferisce il «Nevermore» del Corvo di Poe o l’asino che trova le rime a ogni calcio del padrone delle Favole della dittatura di Sciascia o ancora il cane veggente della piccola Margherita dolcevita di Benni, si fermi alla parte che si concentra su animali realmente esistenti che si comportano un po’ come vogliono, o come vuole chi li mette su carta. Ma attenzione, alcuni animali fanno paura proprio perché reali e facilmente immaginabili da tutti, e se è vero che nessuno sogna di essere attaccato dal mostro invisibile di Maupassant, è certo allo stesso modo che nessuno vuole essere invaso da impertinenti scarafaggi, né tantomeno trasformarsi in uno di loro. Loris Magro Edoardo Bennato – Il Gatto e la Volpe Il cantautore partenopeo gioca con due animali fiabeschi, metafora di arraffoni e truffatori che popolano il nostro mondo. Gino Paoli – La gatta La gatta sul tetto di fronte a una stanzetta occupata in passato diventa il simbolo di un bel periodo ormai giunto al termine. Lucio Battisti – Il leone e la gallina Il leone conquistatore crede di aver trovato una facile preda nella gallina ma, almeno nel tempo narrativo della canzone, l’uccello continua inevitabilmente a sfuggirgli. Brunori S.a.s. – La mosca Come il grande poeta Machado, il cantautore calabrese mette al centro di un suo testo la mosca e i suoi ronzii. Baustelle - Il Corvo Joe In ‘La canzone del parco’ i Baustelle davano voce a una cinica villetta comunale. Stavolta tocca a un corvo non meno disilluso nel descrivere la vita di noi esseri umani. Margarita Guerrero, Manuale di zoologia fantastica Agata Sapienza «Pensate un momento a un mondo senza animali; sarebbe un mondo deserto [...] un mondo in cui la noia la farebbe da padrone». Così scrive Augusto Monterroso, guatemalteco, in uno dei numerosi pezzi dedicati alla fauna che opera e pensa nella società. E proprio questa è la caratteristica degli animali dei suoi racconti: la Scimmia vuole fare lo scrittore satirico ed è amata da tutti coloro che vogliono mettersi al riparo dalle critiche, la Mosca sogna di essere un’Aquila ma poi si rende conto che le piace essere una Mosca e poi cambia idea e di nuovo ci ripensa e così all’infinito, il Gufo vuole salvare l’umanità ma finisce solo per non mangiare e non essere mangiato, il Camaleonte non sa più quale colore assumere in base ai cambiamenti politici e sociali, il Cavallo pensa che se fosse capace di immaginare Dio sarebbe sicuramente a forma di fantino, il Cane si allena per diventare uomo ma si accorge di non mordere come lui, il Leone è sempre il Re della giungla ma cede volentieri la corona alla Scimmia per farle capire cosa vuol dire avere il potere, e via dicendo. E se questi animali sembrano solo una nuova interpretazione dell’uomo, dei nuovi personaggi di Esopo, pensate alla povera Vacca che giace morta sul ciglio della strada senza nessuno che la seppellisca o che le canti le lodi per il buon latte e per il duro lavoro. un progetto di rosario battiato e agata “I mostri nascono per combinazione d’elementi d’esseri reali, e che le possibilità dell’arte combinatoria sono quasi infinite”. Jorge Luis Borges e sapienza 7 BESTIARIO LA SOFFITTA DI CARTA Ci sono animali che nel tempo sono diventati più famosi di altri. Nel 1956 Virgilio Piñera inserisce nella sua raccolta Cuentos fríos la contingenza, chiaramente autobiografica, che mette in relazione il suo personaggio e gli scarafaggi. Dopo anni, questo già fortunatissimo animale, che deve tutto il suo splendore a Kafka, riceve ulteriori attenzioni in lingua spagnola. Questa volta però la metamorfosi è più sottile e diluita nel tempo. Infatti in Cómo viví y cómo morí gli scarafaggi infestano la casa modesta e sporca del protagonista e con l’andare del tempo diventano parte della sua vita. La sua rassegnazione alla loro presenza non è marcatamente negativa: loro sono i muti testimoni delle sue pene, l’unica realtà della sua esistenza fatta di pura apparenza. Allo stesso tempo la loro presenza continua a turbarlo. Ha addirittura l’impressione di vedere scarafaggi dappertutto, che la gente per strada abbia zampe e ali di scarafaggio. Nel momento in cui un signore, inavvertitamente, lo chiama “scarafaggio” si compie la rottura col resto del mondo: la sua ossessione si fa realtà e la gente finisce per accorgersene. Decide quindi di rinchiudersi nella sua stanza e non uscire mai più. Dopo pochi giorni sta per morire, ma niente è cambiato, gli scarafaggi continuano a regnare e cominciano a posarsi pure su di lui. Da qui alla metamorfosi non c’è molta strada... e ci sembra di sentire lo stesso stupore del suo famoso collega Gregor Samsa quando si rende conto di cosa gli è successo svegliandosi da sogni inquieti. Del resto è risaputo che Virgilio ami Kafka e che molti dei suoi racconti sottolineino questa ammirazione. Ma qui la scelta dello scarafaggio non vuole solo essere un omaggio allo scrittore ceco, ma un modo per mettere in scena la sua piccola grande Cuba, isola in cui gli scarafaggi sono molto diffusi. L’inferno quotidiano diventa la scelta del protagonista, perché lottare per la salvezza è inutile quanto cercare di scacciare gli scarafaggi da casa. Agata Sapienza hanno scritto: rosario battiato filippo grasso loris magro agata sapienza grafica: stefania rifuggiato foto: claudia rifuggiato logo di asterischi: sandra verkulent sedlecká Filippo Grasso C’è un Maupassant che non ti aspetti. Il maestro del racconto moderno, irriverente accusatore della società borghese, fu l’ideatore di una creatura tra malattia mentale e presenza soprannaturale. Le Horla (Le Horla e altri racconti dell’orrore, Newton, Tascabili Economici 100 Pagine 1000 lire, numero 140) è un mostro che si presenta in punta di piedi. Dapprincipio sembra un “innocuo” disturbo mentale, uno di quelli che ti fa vedere e udire coseche-non-dovresti-vedere-e-udire. Poi il fastidio comincia a diventare ossessione. Il confine tra l’organico del cervello e l’altro del soprannaturale si assottiglia. Forse cosciente di questa duplice interpretazione, che poi è un topos di tanta letteratura fantastica, Maupassant realizza almeno due versione del racconto. La seconda è quella che scansa e accoltella, senza mai ucciderla definitivamente, la spiegazione psichica. Si tratta, in definitiva, di un essere antico, che esisteva già prima dell’uomo, e che ha deciso di perseguitare il malcapitato protagonista. Ecco cosa scrive ad un certo punto. «È venuto, Colui che prevedevano i primi terrori dei popoli primitivi, Colui che esorcizzavano i sacerdoti inquieti, che gli stregoni evocavano nelle notti scure, senza vederlo apparire ancora, a cui i presentimenti dei padroni effimeri del mondo prestarono tutte le forme mostruose o graziose degli gnomi, degli spiriti, dei geni, delle fate, dei folletti». Poi cita i classici riferimenti dell’epoca come Mesmer (anche Poe si ispirò alle opere del medico austriaco per scrivere splendide cose come Rivelazione mesmerica e La verità sul caso di Mr. Valdemar) per lasciarci senza soluzione perché «Lui è venuto, il… il… come si chiama… mi sembra che mi gridi il suo nome, ma io non lo sento…». Anche sul nome della creatura, praticamente intraducibile, ci sono state differenti interpretazioni tra cui Ce Horla come anagramma di cholera, anche se l’interpretazione più semplice è Hors La, nel senso di espulsione del corpo estraneo. Una concezione che non stupisce perché il francese viveva in una realtà dove l’uomo era schiacciato da entità più o meno consistenti e reali. Al cinema bisognerà attendere il 1963 per vedere trasposto il racconto in Horla – Diario Segreto di un pazzo di Reginald Le Borg. Mai attesa fu più vana perché il film, che mette dentro la storia anche un altro racconto di Maupassant che si chiama Diario di un magistrato, non si stacca dalla mediocrità complessiva, nonostante la presenza di Vincent Price. Scrive Borges nel Manuale di Zoologia fantastica (traduzione di Franco Lucentini, Einaudi, 2010) che «Golem si chiamò l’uomo creato tramite combinazioni di lettere; letteralmente la parola significa “una materia amorfa o senza vita”». I saccheggi operati dalla letteratura e dal cinema nei confronti delle religioni del libro, inutile ricordarlo, sono stati numerosi, anche se alcuni commessi con estrema abilità. Tra questi c’è sicuramente il caso di Gustav Meyrink, scrittore ed esoterista austriaco, che riprende la vecchia leggenda praghese del Golem per offrirla ai posteri in una chiave meno tradizionale, mascherandola, al contempo, da romanzo fantastico. La cabala ricopre un ruolo notevole in questa vicenda, ma meglio non imbattersi in questa strada contorta e pericolosa. Basterà dire che la leggenda praghese, da cui poi prenderà spunto Meyrink, affonda la sua origine nel IV secolo a.C. Il Golem è un colosso che dovrebbe proteggere gli ebrei dai popoli stranieri. La creatura, però, ha una vitalità “sorda e vegetativa”, scrive l’austriaco. Si attiva, secondo la tradizione, quando sulla fronte accanto al nome di dio si scrive verità (Emet), e si spegne quando, cancellando l’aleph, muta in morto (met). Il Golem di Meyrink riprende la leggenda fondendo assieme letteratura fantastica, cabala e terrore, in un viaggio delirante nella Praga di primo Novecento. Ne è entusiasta lettore persino Borges (sul Golem scriverà anche una poesia) che sarà un grande ammiratore di Meyrink al punto da promuoverne la diffusione in Argentina. La cultura popolare del Novecento si appropria del mito del Golem. Così lo immaginiamo in buona compagnia tra il mostro del dottor Frankeinstein (James Whale si ispirò al mostro di Wegener per girare Frankenstein nel 1931), e poi, in uno scorrimento sempre più veloce, con i primi robot della fantascienza fino agli androidi dickiani. Una galleria che, verosimilmente, perde un po’ di magia ad ogni decennio che passa, ma rinnova, ad ogni generazione, le medesime domande. Filippo Grasso Secondo Herbert George Wells nell’anno 802701 i discendenti dei lavoratori del secolo scorso vivranno nel sottosuolo e saranno brutti, rozzi e schifosi. Si chiameranno Morlock e sopravviveranno cibandosi degli Eloi, creature innocue allevate per essere carne da macello. Wells, il progressista, non doveva farsi molte illusioni sul futuro dell’umanità. Nel suo capolavoro La macchina del tempo il protagonista scopre a proprie spese che il passare degli anni non sottinende necessariamente lo sviluppo dell’umanità, ma, al contrario, ne suggerisce la deformità slabbrando e confondendo i confini dell’umano. La razza dei Morlock, la traduzione italiana riporta una buffa variante in Morlocchi, rappresenta la curva discendente del sistema sociale dell’età vittoriana che si perde in un delirio di deformità e antropofagia. La ripugnanza del viaggiatore del tempo non è solo estetica, ma, probabilmente, nasconde un senso di scoramento per quello che sarebbe toccato ai suoi discendenti. Mostri deformi come i Morlock oppure gentili bestioline da macello come gli Eloi. La descrizione di Wells lascia poco al caso. «Difficilmente potete immaginare il loro aspetto inumano e nauseabondo; avevano il volto pallido senza mento, gli occhi grigio-rossastri senza ciglia, e mi fissavano spaventati e accecati. Non mi fermai a osservarli, ve lo giuro». Lo sguardo di questa povera umanità futura, costretta a vivere nei bassifondi perché inadatta alla luce solare, è il triste epilogo di un’umanità che si è fatta creatura ferale destinata a sfuggire alla stessa luce dell’esistenza. «Mi liberai dalla stretta dei Morlocchi, mi arrampicai in fretta sulle pareti del pozzo, mentre essi, dal fondo, mi fissavano strizzando gli occhi; soltanto un piccolo miserabile mi seguì per un po’, impadronendosi quasi della mia scarpa come di un trofeo». Il cinema, che difficilmente ha resistito al fascino delle opere di Herbert George Wells, ha realizzato diversi adattamenti più o meno ispirati al romanzo, tra cui spicca certamente il notissimo L’uomo che visse nel futuro (1960) di George Pal. Ma il futuro gioca un ruolo decisivo in questa partita. Quarantadue anni dopo il remake The time machine (2002) sarà diretto da Simon Wells, pronipote di H. G. Wells. Rosario Battiato Filippo Grasso Scrive Borges nel Manuale di Zoologia fantastica (traduzione di Franco Lucentini, Einaudi, 2010) che «Golem si chiamò l’uomo creato tramite combinazioni di lettere; letteralmente la parola significa “una materia amorfa o senza vita”». I saccheggi operati dalla letteratura e dal cinema nei confronti delle religioni del libro, inutile ricordarlo, sono stati numerosi, anche se alcuni commessi con estrema abilità. Tra questi c’è sicuramente il caso di Gustav Meyrink, scrittore ed esoterista austriaco, che riprende la vecchia leggenda praghese del Golem per offrirla ai posteri in una chiave meno tradizionale, mascherandola, al contempo, da romanzo fantastico. La cabala ricopre un ruolo notevole in questa vicenda, ma meglio non imbattersi in questa strada contorta e pericolosa. Basterà dire che la leggenda praghese, da cui poi prenderà spunto Meyrink, affonda la sua origine nel IV secolo a.C. Il Golem è un colosso che dovrebbe proteggere gli ebrei dai popoli stranieri. La creatura, però, ha una vitalità “sorda e vegetativa”, scrive l’austriaco. Si attiva, secondo la tradizione, quando sulla fronte accanto al nome di dio si scrive verità (Emet), e si spegne quando, cancellando l’aleph, muta in morto (met). Il Golem di Meyrink riprende la leggenda fondendo assieme letteratura fantastica, cabala e terrore, in un viaggio delirante nella Praga di primo Novecento. Ne è entusiasta lettore persino Borges (sul Golem scriverà anche una poesia) che sarà un grande ammiratore di Meyrink al punto da promuoverne la diffusione in Argentina. La cultura popolare del Novecento si appropria del mito del Golem. Così lo immaginiamo in buona compagnia tra il mostro del dottor Frankeinstein (James Whale si ispirò al mostro di Wegener per girare Frankenstein nel 1931), e poi, in uno scorrimento sempre più veloce, con i primi robot della fantascienza fino agli androidi dickiani. Una galleria che, verosimilmente, perde un po’ di magia ad ogni decennio che passa, ma rinnova, ad ogni generazione, le medesime domande. Filippo Grasso hanno scritto: rosario battiato filippo grasso loris magro agata sapienza grafica: stefania rifuggiato foto: claudia rifuggiato logo di asterischi: sandra verkulent sedlecká C’è un Maupassant che non ti aspetti. Il maestro del racconto moderno, irriverente accusatore della società borghese, fu l’ideatore di una creatura tra malattia mentale e presenza soprannaturale. Le Horla (Le Horla e altri racconti dell’orrore, Newton, Tascabili Economici 100 Pagine 1000 lire, numero 140) è un mostro che si presenta in punta di piedi. Dapprincipio sembra un “innocuo” disturbo mentale, uno di quelli che ti fa vedere e udire coseche-non-dovresti-vedere-e-udire. Poi il fastidio comincia a diventare ossessione. Il confine tra l’organico del cervello e l’altro del soprannaturale si assottiglia. Forse cosciente di questa duplice interpretazione, che poi è un topos di tanta letteratura fantastica, Maupassant realizza almeno due versione del racconto. La seconda è quella che scansa e accoltella, senza mai ucciderla definitivamente, la spiegazione psichica. Si tratta, in definitiva, di un essere antico, che esisteva già prima dell’uomo, e che ha deciso di perseguitare il malcapitato protagonista. Ecco cosa scrive ad un certo punto. «È venuto, Colui che prevedevano i primi terrori dei popoli primitivi, Colui che esorcizzavano i sacerdoti inquieti, che gli stregoni evocavano nelle notti scure, senza vederlo apparire ancora, a cui i presentimenti dei padroni effimeri del mondo prestarono tutte le forme mostruose o graziose degli gnomi, degli spiriti, dei geni, delle fate, dei folletti». Poi cita i classici riferimenti dell’epoca come Mesmer (anche Poe si ispirò alle opere del medico austriaco per scrivere splendide cose come Rivelazione mesmerica e La verità sul caso di Mr. Valdemar) per lasciarci senza soluzione perché «Lui è venuto, il… il… come si chiama… mi sembra che mi gridi il suo nome, ma io non lo sento…». Anche sul nome della creatura, praticamente intraducibile, ci sono state differenti interpretazioni tra cui Ce Horla come anagramma di cholera, anche se l’interpretazione più semplice è Hors La, nel senso di espulsione del corpo estraneo. Una concezione che non stupisce perché il francese viveva in una realtà dove l’uomo era schiacciato da entità più o meno consistenti e reali. Al cinema bisognerà attendere il 1963 per vedere trasposto il racconto in Horla – Diario Segreto di un pazzo di Reginald Le Borg. Mai attesa fu più vana perché il film, che mette dentro la storia anche un altro racconto di Maupassant che si chiama Diario di un magistrato, non si stacca dalla mediocrità complessiva, nonostante la presenza di Vincent Price. Secondo Herbert George Wells nell’anno 802701 i discendenti dei lavoratori del secolo scorso vivranno nel sottosuolo e saranno brutti, rozzi e schifosi. Si chiameranno Morlock e sopravviveranno cibandosi degli Eloi, creature innocue allevate per essere carne da macello. Wells, il progressista, non doveva farsi molte illusioni sul futuro dell’umanità. Nel suo capolavoro La macchina del tempo il protagonista scopre a proprie spese che il passare degli anni non sottinende necessariamente lo sviluppo dell’umanità, ma, al contrario, ne suggerisce la deformità slabbrando e confondendo i confini dell’umano. La razza dei Morlock, la traduzione italiana riporta una buffa variante in Morlocchi, rappresenta la curva discendente del sistema sociale dell’età vittoriana che si perde in un delirio di deformità e antropofagia. La ripugnanza del viaggiatore del tempo non è solo estetica, ma, probabilmente, nasconde un senso di scoramento per quello che sarebbe toccato ai suoi discendenti. Mostri deformi come i Morlock oppure gentili bestioline da macello come gli Eloi. La descrizione di Wells lascia poco al caso. «Difficilmente potete immaginare il loro aspetto inumano e nauseabondo; avevano il volto pallido senza mento, gli occhi grigio-rossastri senza ciglia, e mi fissavano spaventati e accecati. Non mi fermai a osservarli, ve lo giuro». Lo sguardo di questa povera umanità futura, costretta a vivere nei bassifondi perché inadatta alla luce solare, è il triste epilogo di un’umanità che si è fatta creatura ferale destinata a sfuggire alla stessa luce dell’esistenza. «Mi liberai dalla stretta dei Morlocchi, mi arrampicai in fretta sulle pareti del pozzo, mentre essi, dal fondo, mi fissavano strizzando gli occhi; soltanto un piccolo miserabile mi seguì per un po’, impadronendosi quasi della mia scarpa come di un trofeo». Il cinema, che difficilmente ha resistito al fascino delle opere di Herbert George Wells, ha realizzato diversi adattamenti più o meno ispirati al romanzo, tra cui spicca certamente il notissimo L’uomo che visse nel futuro (1960) di George Pal. Ma il futuro gioca un ruolo decisivo in questa partita. Quarantadue anni dopo il remake The time machine (2002) sarà diretto da Simon Wells, pronipote di H. G. Wells. Rosario Battiato