L`EMERGENZA EDUCATIVA È EMERGENZA DELLA CHIESA

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L`EMERGENZA EDUCATIVA È EMERGENZA DELLA CHIESA
L’EMERGENZA EDUCATIVA È EMERGENZA DELLA CHIESA
Intervista al Segretario della Congregazione per l’Educazione Cattolica
L’emergenza educativa è un’emergenza per l’opera di evangelizzazione della Chiesa, afferma
in questa intervista rilasciata a ZENIT l’Arcivescovo Jean-Louis Bruguès, nominato di
recente Segretario della Congregazione per l’Educazione Cattolica.
Monsignor Bruguès è nato il 22 novembre 1943 a Bagnères-de-Bigorre (diocesi di Tarbes e
Lourdes). Dopo essersi laureato in Economia e Diritto è entrato nell’Ordine dei Predicatori
nel 1968.
Ha ricevuto la laurea “honoris causa” dall’Aquinas Institute of Theology dell’Università di
Saint-Louis (Stati Uniti), nel 2002. Giovanni Paolo II lo ha nominato Vescovo di Angers il
20 marzo del 2000, mentre Benedetto XVI lo ha chiamato a collaborare con lui alla Santa
Sede, il 10 novembre scorso.
Come descriverebbe la gioventù di oggi?
Monsignor Bruguès: Abbiamo la fortuna di poter contare su una gioventù che io
qualificherei straordinaria. È generosa. È una minoranza, è vero, se si guardano alle
cifre complessive, ma ha volontà. Sa di non sapere, dal punto di vista della cultura
cristiana; si rende conto che il contenuto della fede gli è familiare fino a un certo
punto, ma vuole imparare!
Per questo motivo le catechesi riscuotono un grande successo presso i giovani,
siano essi adolescenti o più grandi, studenti o giovani professionisti. E a me questi
giovani aiutano a compiere un atto di fede nel futuro della Chiesa, anche qui, in
una società in via di rapida secolarizzazione.
Ogni anno, nel mese di luglio, vado a Lourdes con seicento adolescenti. Quando
tenevo le catechesi i giovani venivano a centinaia e talvolta superavano il migliaio.
Abbiamo fatto una festa della catechesi e sono venuti in settemila. Evidentemente i
numeri non dicono tutto. Il titolo dell’incontro era: “Questo futuro da amare” e
l’obiettivo era riconciliare i nostri cristiani, i nostri battezzati, con il loro futuro.
In Francia si è appena svolto un grande dibattito sulle catechesi e le scuole
cattoliche. Qual è la sua posizione e le sue riflessioni su questo tema?
Monsignor Bruguès: La situazione della scuola cattolica si differenzia molto tra un
Paese e l’altro. Mi limito alla Francia ricordando un ulteriore dato: nella mia diocesi
l’insegnamento cattolico riguarda il 41% dei giovani. Quasi uno su due. Quando si
dice che la Chiesa non ha contatto con i giovani, evidentemente non si conosce la
realtà, perché nel nostro ambiente ha la possibilità di rivolgersi quasi a un giovane
su due.
Cosa facciamo di fronte a questa opportunità? Questa è la domanda con cui ci
confrontiamo. Oggi, sulla scuola cattolica, è in corso un dibattito che ritengo
interessante, utile, anche se talvolta viene fatto a colpi di cannone; un dibattito che
ci obbliga a ricordare a noi stessi, Vescovi, sacerdoti, direttori dei centri, professori
che cos’è una scuola cattolica.
Anzitutto possiamo dire che il termine “cattolico” ha in sé due significati. Cattolico
vuol dire universale e pertanto i nostri centri devono avere l’impegno di aprirsi a
chi bussa alla porta, soprattutto a chi si trova in condizioni sociali meno favorevoli.
Cattolico, per un secondo verso, significa anche confessione di una fede. Una scuola
cattolica quindi è una scuola aperta in cui la cultura che viene insegnata è orientata
alla confessione di una specifica fede.
Come si possono articolare queste due dimensioni della scuola cattolica?
Monsignor Bruguès: Tra queste due definizioni del termine cattolico - universalità e
specificità - esiste, è sempre esistita, una tensione che io trovo salutare. Il pericolo
vero sarebbe di voler sopprimere uno dei due significati, con lo scopo di eliminare
questa tensione.
Se si vuole eliminare la dimensione universale, si fa della scuola cattolica una
scuola di una comunità particolare e, in certi casi, una scuola ghetto. Se si elimina la
dimensione della confessione della fede, si fa della scuola cattolica una scuola come
le altre, senza un carattere proprio. Se si aprono tutte le finestre di una casa, si
ottiene una corrente d’aria ma non si riesce a lavorare. Per questo sono
faziosamente favorevole a questa tensione.
Nella pratica che cosa implica questo?
Monsignor Bruguès: Le faccio un esempio concreto. Quando sono arrivato alla
diocesi mi sono reso conto che, quando i genitori venivano ad iscrivere i figli in un
istituto cattolico, il Direttore diceva loro che in quella scuola si faceva una proposta
di fede, una proposta catechetica. I genitori erano liberi di accettare o di rifiutare.
Cosa succedeva se rifiutavano? Niente. Non se ne faceva nulla. La scelta era:
catechesi o nulla.
Io credo che questo non sia un buon modo di presentare la questione e pertanto
abbiamo intrapreso un’esperienza di cui sono molto contento e anche molto fiero.
Abbiamo iniziato a costruire un ciclo di cultura cristiana. Non dico religiosa, ma
cristiana.
In cosa consiste questa proposta di cultura cristiana?
Monsignor Bruguès: Con gli strumenti più moderni abbiamo creato una pedagogia,
una metodologia, per l’insegnamento della cultura cristiana che, molto ben
realizzata a livello tecnico, piace moltissimo ai bambini. Nella metà dei centri
scolastici della nostra diocesi la cultura cristiana è quindi obbligatoria per tutti. Se i
genitori vogliono iscrivere i loro figli alla scuola, sanno da subito che ci sarà un
insegnamento vivo della cultura cristiana. Ma non è una catechesi. Per chi invece lo
desidera, esiste anche una proposta catechetica. La nostra proposta quindi non è
più “o-o”, ma è “e-e”!
Ciò che constatiamo è che questo insegnamento della cultura cristiana è vissuto da
molti come un primo annuncio della fede, al punto che il numero dei bambini che
si iscrivono alla catechesi è aumentato di un terzo. Vorrei che questa esperienza
fosse maggiormente conosciuta e riconosciuta, e - perché no - diffusa, tanto più che
le diocesi di Angers e di Nantes, che si sono associate, hanno creato con il libro di
testo “Anne e Leo giornalisti” uno strumento straordinario.
Questo è un esempio che dimostra che è possibile vivere in modo molto proficuo
questa tensione fra l’universalità e la specificità della scuola cattolica.
Lei ha parlato di questi ambiti in cui si è riusciti ad incidere, come quello della
scuola cattolica. Nel suo nuovo incarico lei ha anche i seminari. Quale può essere
in Occidente la politica per i seminari, di fronte al calo delle vocazioni?
Monsignor Bruguès: Non so se sia giusto elaborare una politica al vertice e dire:
ecco qua ciò che si deve fare a tutti i livelli. Io farei piuttosto il percorso inverso:
cosa avviene alla base?
Nella mia esperienza di religioso, di professore e di Vescovo posso dire che Dio
chiama oggi nella stessa misura in cui chiamava prima. Per esempio, in questo
momento, ho una quindicina di ragazzi che sono venuti ad incontrarsi con me - non
so se prima si faceva così - e hanno detto al Vescovo di avere delle domande. Il più
giovane ha 14 anni e il più grande sui 22 o 23. Pertanto, Dio chiama.
D’altra parte è vero, e io ci credo, che esiste una stretta relazione tra il numero delle
vocazioni e il numero dei praticanti. Dio chiama questo popolo, i servitori, perché
ne ha bisogno. Per me quindi la questione non è la scarsità di vocazioni, ma lo
scarso sostegno, lo scarso accompagnamento. Ed è da qui che arrivano le difficoltà:
non è facile trovare una comunità cristiana che sostenga veramente queste
vocazioni e che accompagni passo dopo passo il giovane che si senta chiamato,
anche se, evidentemente, all’inizio la certezza non c’è.
Come può la Chiesa aiutare i giovani a rispondere alla chiamata di Dio?
Monsignor Bruguès: Un numero significativo di vocazioni si perde sul campo. Una
comunità ha sempre i sacerdoti che si merita. Un esempio recente: un sacerdote
viene da me per dirmi che ha raggiunto l’età della pensione e che ha deciso di
ritirarsi. Nel colloquio gli chiedo: “non c’è stato mai un giovane che è venuto a
trovarla?”. “Sì, sì, c’è stato uno di recente, di 22 anni, con studi di musicologia...”. E
questo giovane, la cui madre faceva parte dell’EAP (Equipe di animazione
parrocchiale), aveva colto l’occasione, una domenica in cui il parroco era stato
invitato a casa, per dire alla famiglia che stava pensando di farsi sacerdote.
La madre allora va su tutte le furie e gli dice: “È una strada senza uscita, spero che
tu non lo faccia”. E passa il resto del pranzo a dissuadere il figlio. Responsabile
dell’EAP! E il parroco era lì! Allora gli ho chiesto: “E lei cosa le ha detto?”.
“Niente”. È l’esempio di una comunità che non si fa carico della chiamata che Dio
rivolge a uno dei suoi giovani.
Come si può favorire questa presa di coscienza?
Monsignor Bruguès: I metodi sono diversi. Conosco parrocchie in cui si prega per
le vocazioni. E' un buon mezzo ma bisognerebbe sensibilizzare, responsabilizzare,
le comunità parrocchiali e le famiglie, perché veramente si accolga come un dono,
una grazia e - perché no - come un onore, la chiamata che può essere rivolta a uno
dei suoi giovani. E poi bisogna utilizzare tutti i mezzi per accompagnare il giovane.
In parte per rispondere a tale questione ho creato quest’anno, nella mia diocesi,
delle case per studenti. In queste tre case, per ora, risiedono ventisette giovani, che
sono responsabili di esse. Hanno tutti i giorni un tempo di preghiera e ricevono un
insegnamento esplicitamente cristiano. Questo vuol dire che, parallelamente alla
formazione professionale che ricevono nelle università, acquisiscono una
formazione cristiana. Alcuni di loro si fanno delle domande di tipo vocazionale. Lì
trovano l’ambiente e i direttori spirituali di cui hanno bisogno. Di questi ventisette,
quattro mi hanno detto che stanno pensando di farsi sacerdoti o religiosi. Queste
prime tre case accolgono solo ragazzi, ma ho lanciato - anche se spetterà al mio
successore - la creazione di case per ragazze.
F:\Rivista (luglio 2008)\05 - Interviste.doc