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SOFFICI PITTORE
Dall'immagine di Soffici pittore è difficile tener separate quelle dello scrittore,
del critico e del polemista. Non già che
la prima abbia bisogno d'essere in qualche modo completata con sussidi estranei
alle arti del disegno: la pittura di Soffici
ha in sè e per sè il suo peso e la sua autorità.
Ma in Soffici, e dagli esordi, tutto si
produsse con armonia e naturalezza assai profonde; quanto più gli osservatori
superficiali volevano mettere il dito sulle
apparenti contraddizioni. E talvolta potè
darsi che, dall'assolutezza di successive
enunciazioni polemiche, come dal candore di certi atti di coscienza, che taluno
s'affrettava ad interpretare quali pentimenti: potè darsi che cotesta pretesa contradittorietà, dal medesimo Soffici, sembrasse avvalorata. Le giustificazioni critiche d'un artista, fatalmente hanno gambe
più corte che quelle della sua arte. Sta il
fatto che, circa da quarant'anni, Soffici
milita sotto la stessa bandiera.
N on ci vuoI nulla a ricondurre ad elementare e palmare coerenza anche le sue
cosiddette deviazioni futuriste. Basti, ad
esempio, considerare come, nemmeno un
minuto, egli fosse sedotto da quella brillante fisima del «movimento» cercato
d'ottenere con le sventagliate dei piani;
o da quell'altra fisima della «simultaneità »; le quali, del resto, si prestarono a
curiosi paradossi, teorici e plastici, dell'indimenticabile Boccioni.
Il futurismo, soprattutto quello di Soffici, fu di natura essenzialmente filologica.
Fu un esercizio di analisi e cernita, diretto
a ritrovare l'integrità di un linguaggio
figurativo. Ecco, più o meno, nei Mendicanti (1911), quello che Soffici poteva portarealla rivoluzione futurista: il primo
sboccio del futurismo sofficiano; ch'è poi,
in realtà, come dicemmo, arcaismo e filo-
logia; con benissimo leggibili, in calce alla
pagina, tutti i richiami e le note di riferimento bibliografico. Non è agevole sostenere si tratti d'un lavoro assolutamente
originale, gradevole e convincente. Ma
neanche, credo, vorrebbe sostenersi che
di siffatte analisi e mortificazioni non ci
fosse bisogno, nello stato in cui la pittura era caduta in Italia, tra la morte
di Fontanesi e quella di Fattori.
L'esteriore e fragorosa assertività del
gruppo futurista, o di alcuni che ne fecero parte, dovè trarre facilmente in inganno un pubblico e una critica quanto
mai impreparati. Pubblico e critica furono principalmente colpiti dai proclami
e dai gesti iconoclastici, e dalle figurine
col naso a triangolo scaleno. Non scorsero
che una tracotante chiassata; laddove, o
almeno nei migliori, era un atto di ascesi.
Come chi, male informato, a Damasco o
Bagdad, assistesse ad un rito di « dervisci
ballerini ». Li vede ruotare e prillare come trottole, e fusi, interminabilmente, in
un immenso fruscÌo di veli candidi. E li
prende per uno strabiliante spettacolo di
«varietà »; finchè qualcuno l'avverte che,
invece di forzisti e giocolieri, sono anacoreti, dottori in teologia, e grandi mistici
e santi.
Che cosa si proponeva Soffici, alla prima mostra futurista, in quelli da lui modestamente intitolati: «saggi di deformazione e di scomposizione»? « Ricostituire
una liricità pittorica dalla scoperta delle
implicazioni luminose e voluminose dei
corpi; esprimere dei corpi la sodezza, il
peso, l'equilibrio, il chiaroscuro ». CosÌ
credevo di dover rispondere (<< La Mostra
Futurista », Marzocco, 23 marzo 1913); e
sebbene, dopo cinque lustri, cotesto linguaggio mi sembri involuto e macchinoso,
non potrei, quanto alla sostanza, mutarci
gran che.
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S'era in quel processo di laboriose riconquiste che si sviluppava, oltre che nelle
arti figurative, in letteratura e altri campi
della vita italiana. Al quale processo, con
la penna e il pennello, Soffici, già da alcuni anni, veniva recando il contributo
più cauto e fruttuoso. Ma preferivano gridare allo scandalo di sue spericolate avventure, quasi egli avesse firmato chi sa
qual patto sulfureo col diavolo e con la
versiera; mentre soprattutto era stata
questione (e questione grossa) di ritrovare il centro di gravità d'una bottiglia,
o registrare il tono purpureo d 'lma fetta
d'anguria contro uno sfondo. Come dovevano far tanto scalpore di certe truculenze critiche e dei suoi simpatici e innocenti «massacri », su cui oggi nessuno
trova più nulla a ridire.
Sarebbe stato giusto che avessero posto l'accento dell'attenzione sulla genuinità e gentilezza delle sue pagine intorno
a Cézanne e Renoir. E sulla animosa intelligenza con cui egli era stato fra i
primi a rivendicare Fattori. O che tornando alla galleria di Valle Giulia, considerassero come Medardo Rosso vi grandeggia sul panorama, ormai abbastanza
illuminato e sfrondato, di tutta la nostra
arte moderna.
Di Rosso, che nessuno trent'anni fa
conosceva; di Renoir e di Cézanne, che
da noi sarebbero rimasti chi sa ancora
quanto fra il lusco e il brusco, e il ti vedo
e non ti vedo; di Fattori ch'era troppo
vicino ma troppo rassegnato, perchè la
gente si decidesse a guardarlo e capirlo:
di questi, nè solo di questi, Soffiei trattò
con un tono di discorso che, soprattutto
dall'essere cosÌ familiare ed umano, formava la propria autorevolezza.
L'insieme della sua opera critica e divulgativa non è troppo ingente. E più
occorreva che i lieviti ne fossero davvero
opportuni e vigorosi, perchè da cotesta
opera, succinta e alla buona, riuscisse a
propagarsi tanto effetto. A Soffici fu do-
vuto (e ogni giorno si conferma che fu
dovuto in bene) gran parte d'un mutamento nel clima della nostra cultura e
produzione artistica. Fu dovuto il risvegliarsi d'un senso, ancor forse approssimativo, ma sincero e per nulla accademico, dei perenni influssi della nostra tradizione. Il senso che quando si parlava
e si parla di Cézanne, di Fattori e di
quelli che si sforzano a intenderli e seguirli, non si fa che proseguire un argomento avviato alcuni secoli or sono, con
Giotto, l'Angelico e Masaccio.
N on meno dell'opera critica, tutta la
produzione pittorica di Soffici, quando s'è
vagliato ben bene, rientra fermamente
sotto questi segni tutelari; ricevendone
un riflesso di pensosa nobiltà, e l'impronta d'un'austera consapevolezza. Una sorta
di doratura umanistica brilla castamente
dentro i più fumosi chiaroscuri di Soffici.
Un'antica e schietta dignità, l'aria d'una
fedele ed eroica discendenza, sostiene le
sue figure; anche quando per certi aspetti potrebbero sembrar quelle d'un macchiaiolo, o post-macchiaiolo, appena dilatato. Questo è ciò che alla pittura di Soffici finisce col conferire una fisionomia
talmente superiore.
Anche in tempi vicini, si sono avuti
in Italia artisti di vena più abbondante
e d'invenzione più disinvolta e generosa.
Pittori i quali non tolsero ore ed operosità alla loro arte, per dedicarle alla polemica e alla letteratura. E presto conseguirono, per esercitarla lunghi anni serenamente, una maestria che nel Soffici ogni
tanto appare turbata per il sopraggiungere e l'imporsi di esigenze nuove: non
mai estrinseche esigenze, badiamo, ma
che sorgono dal fondo d'una coscienza
incontentabile.
Senza che ciò contraddica all'unità che
osservammo sul primo principio: a partire da un certo punto, la pittura di Soffici si svolge con altro destino da quello
della sua prosa, che fu arrisa sempre dalla
ARDENGO SOFFICI. - Salita Cristina (1908).
ARDENGO SOFFICI. - La raccolta delle olive (1908).
TAY.
ARDENGO SOFFICI. -
ToelctLa del bambino (1923).
ARlH:NGO SOFFICI. - )!cndicanli
(1911).
LXXVII.
ARlJE!\';O SOFFICI. -
nonna col piatto (aITresco, 1932).
AHlJENGO SOFFICI. -
Processione (19:l:l).
TAV.
AnDENGO SOHICI. -
AnDENGO SOFFICI. -
Campi
e
coUine (1925).
Primavera piovosa (1938).
l.XXIX.
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LE ARTI -
più cordiale facilità e felicità. Diceva Renato Serra (1914) che la scrittura di Soffici, ed anzi, tutto Soffici, «è un dono.
Una cosa fluida; un colore schietto; e bisogna avere quella certa facoltà nelle pupille per sentire il valore e il piacere d'una
frase sola, buttata là e che si regge di
per sè, trasparente, limpida, solida, senza
pasta e senza ritocco; come la pennellata
d'un vero pittore, che basta che cada sopra la tela, che scorra modellando se stessa, ed è già bella ». Rincalzato da quel paragone tratto dalla pittura, ciò vale effettivamente per i dipinti di Soffici nell'anteguerra.
Santa Cristina (1908) è ariosa e redolente come un paesaggio di «Lemmonio
Boreo» o di «Arlecchino ». Una lieve
sfumatura d'intenzione critica s'avverte
nella Raccolta delle olive (1908); con l'accentuarsi dei volumi e il semplificarsi delle
simmetrie e delle masse. La materia, tuttavia, è ancor ricca di sapori, stipata
d'umori e d'una freschissima memoria di
sensazioni dirette. Ma è inutile parafrasare ciò che lo stesso Soffici espresse in
pagine narrative e descrittive, che sembrano suoi paesaggi rinati in parole. O ciò
che, fra i critici della sua pittura, significò il Dami, assai tempestivamente e garbatamente (Dedalo, anno I, p. 202); nonostante esagerazioni di spavento per i
rischi e repentagli ai quali l'artista s'era
poi messo, in compagnia di Carrà e di
Boccioni.
Durante i primi anni, pittura e letteratura creativa di Soffici rendono, insomma, la stessa nota d'energica ed espansiva allegrezza. E la letteratura ritrova forza a rinnovarsi, sempre con accenti concordi, dalle dure esperienze della guerra.
Complessivamente, Soffici ha più scritto
che dipinto: cosa della quale egli ha anche creduto di doversi dolere (CARRÀ,
A. Soffici, Ediz. Valori Plastici, 1922,
p. lO). Dal pubblico, egli è forse più conosciuto per i suoi diari, i suoi idilli e
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le sue polemiche, che per la sua pittura.
E al chiudere dei conti, si sente invece
che proprio nella pittura egli s'è pii'l risolutamente impegnato, con un concetto
stilistico più severo. V oglio aggiungere
subito, che dalla pittura si riceve di lui
un' idea più complessa e coraggiosa.
Pubblicata due anni fa dal De Robertis, che la trascelse copiosamente da
tutta l'opera letteraria di Soffici, l'antologia Fior fiore si prestò ad alcune considerazioni importanti. Una soprattutto:
che di nessun scrittore d'altrettanta vitalità si sarebbero potute vedere, cosÌ
mescolate, pagine composte a distanza
di decenni, frammenti che appartengono
alla gioventù prima ed altri della piena
maturità, riportandone l'impressione d'un
discorso che fosse continuato senza stacco
di tempo, senza mutamento d'umore, e
senza sorprese stilistiche. Tra i foglietti
del «Giornale di bordo» ch'è del 1915,
erano inseriti paragrafi del «Taccuino
d'Arno Borghi », ch'è del 1933; dell'« Arlecchino », che precede il «Giornale », e
di «Lemmonio» che precede «Arlecchino »; insieme a passi dalla Gazzetta del
Popolo di quegli ultimi mesi. E tutto legava benone; nuovi ricordi di Londra
con vecchissimi ricordi parigini; legava,
intendiamo, non solo per la naturale coerenza del temperamento, e per l'armoniosità del lavoro letterario ottimamente
eseguito; ma come se Soffici fosse rimasto fermo tutto quel tempo, con in mano
la medesima penna, sempre allo stesso
tavolino. Che non era inerzia; ma piuttosto, somiglianza e identità nella felicità.
Gli scarti di cronologia sarebbero stati
lmicamente denunciati dai commenti e
riferimenti polemici, dalle satire e dai
filosofemi; dalla scoria, in altre parole, o
almeno scoria in sede poetica, che l'antologista s'era giustamente fatto obbligo
di eliminare.
Ciò non accade della pittura. Le occasioni figurative vi provengono da una
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esperienza infinitamente più limitata di rinuncia ha corrisposto un continuo inquella da cui son tratti i motivi letterari. nalzamento del tono, l'allargarsi del reE la rigorosa, quasi accigliata, sorveglian- spiro e il concretarsi ed annobilirsi delle
za dell'artista sui movimenti del suo pen- forme. Basti paragonare, a questi riguarnello, un residuo talvolta di sforzo e quasi di, la notissima Ragazza in piedi (1920)
di pena, non sono fatti per aggiungere al- con la Donna col piatto; o la Toeletta del
l'impressione di ricchezza e varietà. Mal- bambino con la Processione; a scorgere il
grado questo, la produzione pittorica si or- decisivo passaggio da un vero più incidenganizza secondo un'incontrovertihile, mar- tale ad un vero essenziale; dalla descriziocatissima linea di sviluppo, con tappe ben ne, quantunque scrupolosamente depurarilevate; e da tale, estrem.a logicità e de- ta, alla più robusta evocazione; e a conterminatezza si produce quel senso di mo- trastare, altresÌ, come in Soffici tutto ciò si
vimento intellettivo da cui tutta è per- produca senza perdere contatto con la tervasa, e che la riempie di fremito. anche l'a; voglio dire senza che, per tendere al moai momenti più faticosi.
numentale, egli vada, con troppi altri, a
Con un trapasso che, dalle opere già sconfinare nell'arbitrario e nell'astratto.
ricordate, e senza nessun bisogno di diIl sordo c.a lore dell'austera tradizione
mostrazioni, si segue qui nella Toeletta del chiaroscurale fiorentina, il riflesso della
bambino (1923), nell'affresco della Donna maestosa monotonia che s'irradia dai foncol piatto (1932), o nella Processione (1933), di della cappella Brancacci, bruciarono
fino ai recenti e più scanlÌ paesi, quest'ar- fin l'ultimo stelo e l'ultima corolla delte è venuta spogliando i suoi legittimi or- la lontana primavera impressionista. Nel
namenti, la sua sensuale festevolezza, il massimo dominio dell'esperienza, nel pietanto che ancora poteva restarle d'un sa- no vigore dell'età, oggi Soffici s'afferma
no piacere percettivo. Ha lasciato cadere con la più armata e fiera volontà di stile.
quelle eleganze di pennellata squamos.a , Non può a meno di credersi che se alla
friabile o lanosa, nelle quali un tempo si rubrica della sua letteratura e poesia egli
compiaceva; assumendo quasi uniforme- non potrebbe ormai aggiungere che qualmente una virile povertà che, anche fuor che codicillo, nella rubrica della pittura
dell'affresco, ci richiama all'affrescù.
egli s'accinge a scrivere la sua pagina più
Delle quali cose respinte o tralasciate ferma e più alta.
non si prova l'impianto, poichè alla loro
EMILIO CECCHI .