in ascolto della Parola di Dio - Parrocchia Collegiata S. Ambrogio

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in ascolto della Parola di Dio - Parrocchia Collegiata S. Ambrogio
Percorso di formazione cristiana
Varazze – Quaresima 2016
La Confessione
Sacramento
della Misericordia
catechesi
di don Claudio Doglio
2.
2. La contrizione ............................................................................................... 2
Una sola Confessione per tante situazioni differenti .................................................... 2
Antiche norme dettate dalla situazione del momento ................................................... 2
La Confessione, un medicinale da prendere … quando serve ...................................... 3
L’azione di Dio precede l’azione dell’uomo ................................................................ 3
Formalità e autenticità della Penitenza ......................................................................... 4
La contrizione ............................................................................................................... 4
Contrizione perfetta e imperfetta .................................................................................. 5
L’atto di dolore ............................................................................................................. 6
Istruzioni per l’uso ........................................................................................................ 7
Eucaristia e perdono dei peccati ................................................................................... 8
L’esame di coscienza .................................................................................................... 9
Questo Percorso di formazione cristiana è stato tenuto a Varazze
durante la Quaresima 2016
Riccardo Becchi ha trascritto con diligenza il testo dalla registrazione
2. La contrizione
La Confessione è un sacramento di guarigione. Abbiamo visto nell’incontro precedente
qualche accenno alla storia di questo sacramento che nel corso di duemila anni ha cambiato
diverse forme, ma è rimasto nella sua sostanza uno strumento di guarigione e quindi è
destinato a dei malati che desiderano guarire e l’obiettivo della Confessione è quello di far
maturare la vita cristiana, far rivivere la grazia del Battesimo.
Una sola Confessione per tante situazioni differenti
La Confessione è come un altro Battesimo, è un modo per riprendere l’impegno del
Battesimo. Ora, noi parliamo di questo sacramento rivolgendoci a persone molto diverse
fra di loro e, inevitabilmente, la proposta dell’unico sacramento riguarda tante situazioni
diverse.
Ci sono ad esempio persone che si sono allontanate dalla vita cristiana, da molto tempo
sono lontani dalla fede, e nel frattempo hanno commesso anche molte gravi colpe. Quando
ritornano, se ritornano, è necessario questo sacramento che ha come scopo proprio quello
di reinserire le persone nella comunità cristiana.
È però molto diverso il caso, invece, di persone che vivono abitualmente nella comunità
cristiana e hanno una vita di vicinanza alla fede, di impegno costante. Queste persone
possono confessarsi magari raramente, nell’occasione ad esempio delle grandi feste.
Ci sono invece altre persone che, proprio per un cammino spirituale più maturo, si
confessano frequentemente.
Vedete allora già semplicemente tre tipologie molto diverse di persone che si avvicinano
allo stesso sacramento, per cui quando si parla di questa realtà bisogna inevitabilmente
tenere conto di molte sfaccettature diverse.
Se io penso ad esempio a dei ragazzi del catechismo, che avviciniamo alla celebrazione
di questo sacramento, mi pongo in un’ottica particolare ed è un discorso molto diverso da
quello che propongo a un adulto che da vent’anni non frequenta la Chiesa e ha avuto tante
vicende umane anche storte, strane, difficili. Capite? Il sacramento però è lo stesso.
Diventa allora arduo sintetizzare e dare delle indicazioni che valgano per tutte queste
diverse realtà umane. Dobbiamo perciò, in questo nostro discorso, imparare a tenere un
equilibrio, sapendo che i riferimenti alle persone sono molto diversi e quindi facciamo un
discorso astratto che deve essere poi adattato alle singole persone e alle singole situazioni.
Ecco perché non si può dare un criterio generale, non si può scadere in una serie di
normative pratiche, non si può dire ad esempio quanto spesso bisogna confessarsi; è una
indicazione che non può essere stabilita in modo generale che valga per tutti e sempre.
Si possono invece dare dei consigli, molto spesso però, quando qualcuno dà dei consigli,
finiscono per diventare delle norme, dei criteri generali assoluti.
Antiche norme dettate dalla situazione del momento
Molti di voi ricordano un insegnamento, che era del catechismo pre-conciliare, in cui si
parlava della necessità di confessarsi almeno una volta all’anno e di fare la Comunione
almeno a Pasqua. Quell’“almeno” vuol dire che è “il minimo indispensabile”.
Questa è una norma che risale al Concilio Lateranense IV dell’anno 1215, quando non
erano ancora stati istituiti né i francescani, né i domenicani – tanto per dire la lontananza
da noi nel tempo – e un altro canone dello stesso Concilio diceva che i preti sono tenuti a
celebrare almeno tre Messe all’anno, di cui una a Pasqua. Questa norma non riguardava i
laici, ma riguardava i preti.
Avete idea della situazione in cui si era, se un Concilio doveva dire che un prete almeno
tre Messe all’anno deve celebrarle?
C. Doglio — Il sacramento della Confessione
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Di conseguenza, ai laici si diceva che, almeno una volta all’anno, devono: confessarsi
andare a Messa e fare la Comunione. Quella regola, che era un minimo per sopravvivere, è
diventata un po’ una norma e il rischio è sempre quello di far diventare abitudine un
consiglio morale buono, valido.
La Confessione, un medicinale da prendere … quando serve
La Confessione, se è un sacramento medicinale, vuol dire che serve per guarire e quindi
possiamo sviluppare il paragone con la malattia.
Quando andiamo dal medico? C’è un criterio? Posso darvi delle indicazioni, posso dirvi
ogni quanto è bene andare dal medico? Vi accorgete che non funziona come
ragionamento? Non ha senso che io, in genere, vi consigli il ritmo della visita da un
medico. Ci sono dei periodi della vita in cui uno sta bene e dal medico va poco. Perché ci
va poco? Perché non ne ha bisogno! Ci sono dei periodi invece in cui ci va spesso, magari
anche tutte le settimane. Perché ci va spesso? Perché non sta bene, perché ne ha bisogno. È
una situazione diversificata.
Dal medico ci si va quando c’è bisogno di un aiuto per curare qualche malattia. La
Penitenza come sacramento è analoga all’intervento del medico: ci vuole qualche malattia
da curare, ci vuole il desiderio di guarire da qualche male.
Immaginate la scena di uno che vada dal medico dicendo: “Dottore sono venuto a
trovarla, era già due mesi che non venivo”. “Bene, cos’ha?”, “Niente, ma sa, sono venuto
perché era due mesi che non venivo”. Come reagisce il medico? Voi l’avete mai fatto?
Ci potrebbe però essere un altro criterio, tenendo questo paragone: la prevenzione. A
questo punto allora, anche se uno non ha qualche male specifico, consigliano che è bene
fare degli accertamenti con un ritmo regolare. A seconda delle situazioni, dell’età, dei
pericoli, delle familiarità con certi mali, conviene fare degli accertamenti in modo regolare
per poter prevenire. Allora sì, posso fare le analisi del sangue per una verifica della mia
situazione di salute.
Ho tentato di ricreare le varie situazioni: c’è un malato che ha frequente bisogno del
medico per esigenze particolari, c’è una persona sana che ci va solo in alcune occasioni
quando ne ha bisogno e c’è un criterio di verifica, di controllo per una prevenzione.
Così vale per il sacramento della Penitenza nella sua molteplicità di esigenze.
La struttura fondamentale del sacramento comporta però sempre due elementi
ugualmente essenziali: quello che fa l’uomo e quello che fa Dio. Io sono il paziente, Dio è
il medico. Nel sacramento si incontrano queste due realtà: il paziente da guarire e il medico
che guarisce.
L’azione di Dio precede l’azione dell’uomo
Ora, nel sacramento della Confessione sono importanti non solo l’azione di Dio che
perdona, ma gli atti dell’uomo che si converte. Quando c’è una conversione, una penitenza,
un desiderio di guarigione, c’è già l’opera dello Spirito Santo.
Provate a immaginare una persona che commetta un grave peccato. È un peccato
mortale, si chiama così perché fa morire, fa morire alla grazia, si perde la vita di grazia.
Una persona del genere, che ha commesso un peccato mortale e ha vissuto per un certo
tempo nel peccato mortale, come può andare a chiedere perdono ed essere veramente
pentito e piangere il suo peccato? Come è possibile?
Se è morto alla grazia, come può sentire dolore per avere offeso Dio e chiedere
umilmente e con tutto il cuore perdono? Se diciamo che non è possibile allora annulliamo
tutte le vicende di conversione che invece nella storia dell’umanità ci sono state e queste
conversioni sono possibili.
C. Doglio — Il sacramento della Confessione
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Quando un uomo che è in peccato mortale si pente, è perché lo Spirito ha lavorato in lui,
ha già lavorato in lui. Quando una persona arriva a chiedere perdono nella Chiesa è perché
c’è già stata un’opera divina dentro di lui e lui è stato docile a questa azione della grazia.
Formalità e autenticità della Penitenza
Ora, la cosa che mi preme maggiormente precisare in questo incontro è una distinzione
importante fra la ritualità formale e l’autenticità della Penitenza. Adoperiamo due parole
per fare il contrasto: il formalismo rituale e l’autenticità del pentimento.
Noi, di fronte al sacramento, rischiamo l’abitudine rituale e la pratica formale senza una
autentica partecipazione del cuore. Quello che dirò serve quindi per correggere una pratica
rituale formale senza cuore, fatta per abitudine o per dovere, ma senza che il cuore
veramente sia penitente.
Dunque, gli atti dell’uomo nella Confessione, secondo la tradizione codificata dal
Concilio di Trento, sono tre. Adopero i termini tecnici, poi li spieghiamo:
1. la contrizione,
2. la confessione,
3. la soddisfazione.
Il decreto del Concilio di Trento al riguardo precisa: “Per il penitente serve che nel suo
cuore vi sia la contrizione, nella sua bocca la confessione, nelle sue opere tutta l’umiltà e
la feconda soddisfazione”. Sostanzialmente sono tre atti semplicissimi che stanno alla base
di ogni nostra relazione, se c’è stato uno scontro, un diverbio, una lite.
Se io voglio fare pace con te devo dire: “scusami, mi dispiace”,
devo dire anche “è colpa mia”
e, terzo elemento: “come posso riparare? Cosa posso fare per rimediare alla situazione
che ho creato?”.
È un discorso che capiscono perfettamente anche i bambini. Dopo che due hanno
litigato, per poter fare la pace bisogna essere dispiaciuti di aver litigato, andare a parlare
con l’altro, chiedere scusa e riparare. È il gesto infantile dei bambini che dicono: facciamo
la pace, diamoci la mano, giochiamo di nuovo insieme, oppure si regalano un giocattolino.
È un gesto che viene spontaneo per la riconciliazione.
I paroloni teologici possono spaventare, ma comunicano una realtà semplice, comune: è
necessario che prima ci sia la contrizione nel cuore, il dolore, poi la confessione dei peccati
attraverso la bocca che parla, che dice, che accusa le proprie colpe, e quindi la riparazione,
l’impegno a fare meglio, a correggere quello che si è sbagliato.
Sostanzialmente quindi questi tre atti umani caratterizzano il prima, il durante e il dopo
la Confessione.
Per adesso ci concentriamo sul “prima”.
La contrizione
Tra gli atti del penitente la contrizione occupa il primo posto. Ancora il Concilio di
Trento ci aiuta a definire che cos’è la contrizione:
La contrizione è il dolore dell’animo, è la riprovazione del peccato commesso accompagnati
dal proposito di non peccare più in avvenire.
Non basta la conoscenza del peccato, è necessario il dolore, il dolore dell’animo e
l’atteggiamento di chi ritiene di avere fatto male. Provate a pensare concretamente: ci sono
delle occasioni in cui noi abbiamo provato questo dolore dell’animo?
Qualche volta avendo litigato con una persona, avendo trattato male qualcuno, avendo
detto delle parole pesanti contro qualcuno, poi, tornati a casa, siamo stati male, ci è rimasto
il magone. Qualche volta l’avete certamente provato questo dolore di avere sbagliato e vi
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siete detti: “Che stupido che sono stato, ma perché non sono stato zitto?”. Ho fatto un gesto
e me ne pento, mi dispiace di averlo fatto.
Si possono commettere delle colpe gravi o anche piccole e provarne dispiacere. Al
contrario, si possono fare grandi peccati o anche piccoli, ma non sentire niente e dire “Beh,
che cosa ho fatto di male? Cosa c’è? Non lo fanno tutti? se non tutti i più tanti, e allora?”.
Il punto delicato nella preparazione alla Confessione è proprio questo dolore
accompagnato dalla riprovazione del male, cioè: “Ho fatto male, sono stato uno stupido a
fare così, un’altra volta non lo faccio più”. Qui il punto è la coscienza: è necessario che tu
lo pensi veramente, secondo coscienza, davanti a te stesso, davanti al Signore.
Il termine contrizione è stato inventato dai teologi latini partendo da due versetti del
Salmo 50, il Miserere.
Sal 50(51),18Tu non gradisci il sacrificio;
se offro olocausti, tu non li accetti.
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Uno spirito contrito è sacrificio a Dio;
un cuore contrito e affranto tu, o Dio, non disprezzi.
C’è per due volte questo aggettivo legato a spirito e a cuore, si contrappone all’offerta
dei sacrifici, gli olocausti che erano gli animali interamente bruciati sull’altare e il profeta
che scrive questo salmo comprende come il Signore non voglia delle cose, dei riti, ma
gradisca uno spirito contrito, apprezzi un cuore affranto.
L’aggettivo contrito deriva proprio dal verbo tritare. Avete presente che cos’è il trito per
fare il sugo? Come si fa? Tritare la verdura vuole dire farla a pezzetti. Non mettete una
cipolla intera, la tritate e il cuore contrito è come la cipolla tritata: una triturazione del
cuore che talvolta, come la cipolla, fa anche piangere. È il contrario di tutto intero, duro,
pieno di sé. Il cuore contrito fa parte della ricetta; non ci vuole il “cuore intero”, ma ci
vuole il “cuore tritato”.
Naturalmente è un’immagine il cuore a pezzi: che cosa vuol dire? Quando abbiamo un
dolore dello spirito, un dispiacere grande, siamo moralmente a pezzi, siamo umiliati, cioè
raso-terra, humus è la terra. Sono espressioni banali, terra-terra, ma significative: quando
dico che sono a terra, sono a pezzi, posso indicare una situazione fisica, ma soprattutto
indico una condizione morale.
Il cuore contrito è l’atteggiamento di chi prova dolore per il male che ha fatto; questo è il
sacrificio che Dio gradisce e non disprezza: l’atteggiamento di chi riconosce il proprio
male e ne prova dolore. Da questa immagine adoperata nel Salmo i teologi latini hanno
inventato la parola contrizione, che designa appunto l’atteggiamento di pentimento.
Contrizione perfetta e imperfetta
Si dice che la contrizione può essere perfetta o imperfetta; è perfetta quando nasce dalla
carità, cioè quando deriva dall’amore di Dio, amato sopra ogni cosa. Si dice invece
imperfetta la contrizione che nasce dal timore, quando cioè proviene dalla paura della
dannazione eterna o delle altre pene la cui minaccia incombe sul peccatore.
Ho trattato male un persona, mi sono lasciato prendere dall’ira, l’ho insultata, poi torno a
casa, ci ripenso e mi dispiace. Potrebbe però dispiacermi perché quella persona avrebbe
potuto farmi dei favori: “Che stupido che sono stato, mettendomi contro di lui ci ho
rimesso io. Una volta che avessi bisogno di lui non mi aiuta più”. Mi dispiace, ma è un
dispiacere imperfetto. Oppure: “Mi dispiace perché magari quello si vendica e me la fa
pagare, mi dispiace perché ho paura che mi faccia qualcosa di male, mi dispiace perché ci
rimetto io, perché ho paura di rimetterci io”. È sempre un dispiacere egoistico, nasce dalla
paura.
Invece la contrizione vera, quella perfetta, nasce dall’amore. Questa contrizione, se è
perfetta, rimette le colpe veniali, è sufficiente per ottenere il perdono. Quando è vera, ed è
per amore di Dio, è sufficiente come atteggiamento penitenziale per il perdono delle colpe
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veniali e ottiene il perdono anche dei peccati mortali, se non c’è la possibilità di
confessarsi. Nel momento in cui io provo veramente dolore per amore, sono perdonato; poi
alla prima occasione celebrerò il sacramento.
L’atto di dolore
L’atto di dolore che abbiamo imparato, che ci è stato proposto dalla tradizione, riprende
proprio questi due elementi.
Mio Dio, mi pento e mi dolgo con tutto il cuore dei miei peccati, perché peccando ho meritato i
tuoi castighi, e molto più perché ho offeso te, infinitamente buono e degno di essere amato
sopra ogni cosa. Propongo col tuo santo aiuto di non offenderti mai più e di fuggire le
occasioni prossime di peccato. Signore, misericordia, perdonami.
Il linguaggio è già un po’ arcaico; nessuno di noi infatti adopera l’espressione “mi dolgo
di qualcosa”, ormai è un linguaggio vecchio. Le preghiere nella tradizione della Chiesa
cambiano, anche perché il linguaggio cambia, i modi di dire variano nel giro di poco
tempo, quindi è giusto variare per poter pregare come mangiamo, altrimenti si ha
l’idolatria della formula. La formula è uno strumento che mi insegna, io devo imparare da
quella formula, non essere attaccato alla formula.
“Mio Dio, mi pento”, cioè mi dispiace di avere peccato e mi dispiace con tutto il cuore,
provo dolore con tutto il cuore. È proprio vero?
Quando il confessore a un certo punto dice: “Chieda perdono con l’atto di dolore”, uno
attacca la preghiera che ricorda a memoria e spesso per la paura di non ricordarla va veloce
per poterla dire tutta di seguito – è lo stress da prestazione che rovina l’effetto – e la si dice
cambiando le parole, mangiandosi le parole, senza pensare a quello che dice. Pazienza, è
però importante pensarla prima.
È necessario che io, come persona, non viva un rito formale, ma sia addolorato per i miei
peccati. Perché mi dispiace? Per due motivi, primo:
perché ho meritato i tuoi castighi
Questo è un modo per far riferimento al timore. Ho paura del castigo, non nel senso che
Dio mi castiga concretamente, ma il peccato produce degli effetti negativi e quindi mi sono
andato a cercare delle rogne: mi dispiace perché ho fatto il mio male. Questa è una
contrizione imperfetta. Comincio di lì, l’egoismo mi aiuta a dire: ho sbagliato, ci rimetto
io, è meglio cambiare. Poi la saggezza della Chiesa ci insegna ad aggiungere:
e molto più perché ho offeso te, infinitamente buono e degno di essere amato sopra ogni cosa
Questa è la formulazione della contrizione perfetta: mi dispiace molto di più perché ho
offeso te. Ma, se io ho insultato mio fratello, cosa c’entra il Signore?
Anche litigando con un mio amico, io ho offeso il Signore e mi dispiace perché ho
offeso il Signore che mi ha trattato bene. Io non ho reagito come il Signore mi chiedeva,
l’ho tradito. Il Signore mi perdona, ma mi chiede di andargli a chiedere scusa e di
riconciliarmi con il fratello. La soddisfazione farà la riparazione. Troppo comodo peccare
con il fratello, andare a chiedere scusa al Signore e lasciare tutto come prima: Va’ a
riconciliarti con il tuo fratello!
Ho rubato, mi dispiace di avere rubato, mi confesso e – se è vero che mi dispiace –
restituisco. Se non restituisco, non è vero che mi dispiace. Se non posso restituire la cosa
perché per qualche motivo è andata perduta, allora riparo in un altro modo. Se è vero che
mi dispiace, ho voglia di riparare: il desiderio di riparare è strettamente legato al dolore
autentico.
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Istruzioni per l’uso
Nel Santuario di Gesù Bambino di Praga, ad Arenzano, i frati Carmelitani hanno
preparato un ambiente per le confessioni. Hanno esposto un cartello, un banner, che aiuta
la preparazione al sacramento: ve lo leggo come saggio consiglio e se andate al Santuario
lo potete vedete di persona. Mi è sembrato un discorso persino duro, però deciso e saggio.
Leggiamo allora che cosa consigliano questi confessori. Si rivolgono al pellegrino che è
entrato in Santuario e cerca qualcuno per confessarsi e gli dicono:
Se ti consideri “onesto” e “senza colpe”, se ricordi solo cose generiche e scontate, oppure se
“non sai cosa dire” o cerchi “un’assoluzione in più che non fa male”, allora non sei
nell’atteggiamento giusto per ricevere il dono di questo grande Sacramento.
Ricordati che il confessore non deve “tirare fuori” i tuoi problemi, ma sei tu che vuoi guarire il
cuore e che, liberamente e coscientemente, ti vuoi affidare alla misericordia di Dio, che ti
sogna bello e santo, come lo è Lui!
Fermati quindi un momento e preparati con un esame di coscienza, magari aiutato dal depliant.
La freccia ti indica dove trovi il depliant con un esame di coscienza. Questo consiglio
propone la fotografia di una realtà molto diffusa.
“Non so che cosa dire”. Se non sai che cosa dire, certamente non ti dispiace. Se non sai
che cosa dire al medico, come può intervenire a curarti? Se c’è bisogno di un esame di
coscienza, allora non ci si va a confessare senza averlo fatto, si chiede a qualcuno l’aiuto
per fare un esame di coscienza. È un po’ come fare le analisi o i raggi o la TAC o qualche
altro tipo di accertamento. Se parti dall’idea che non hai niente, niente di grave, allora non
c’è pentimento, non c’è il dolore di niente, quindi manca l’atto umano fondamentale. Una
buona confessione richiede una buona preparazione; se non sei pentito, non sei
nell’atteggiamento giusto per ricevere il sacramento, fermati e preparati.
Qui il pericolo serio è quello del rito.
Andiamo a confessarci, perché è quasi Natale, è quasi Pasqua; siamo in questo
Santuario… cogliamo l’occasione e andiamo a confessarci. Quando il penitente si trova
inginocchiato lì comincia: “Non so neanche io cosa dire”. E cosa ci posso fare io come
confessore? Hai sbagliato posto, perché sei venuto? “Eh, già che ero al Santuario ed è
quasi Natale…”.
È una situazione classica, sarebbe ridicola se non fosse tragica; ricordo che è capitata a
me più di una volta ed è tipica degli uomini. Il penitente dice: “Sono venuto perché è
Natale”. Gli domando: “Di cosa chiede perdono”; mi risponde: “Ah, di niente, sa, mi ha
mandato mia moglie”. La moglie ha insistito perché è Natale o perché è Pasqua: “Vatti a
confessare, vatti a confessare, vatti a confessare”; per non farla più mugugnare, è venuto.
Si mette lì e non chiede perdono di niente: “Mi ha mandato mia moglie, cosa c’entro io?
Mi ha detto di venirmi a confessare e io sono venuto”.
In fondo il brav’uomo dà soddisfazione alla moglie, perché è venuto lì nell’armadio che
chiamiamo “confessionale” e il fatto di inginocchiarsi, di essere di fronte alla grata, di dire
quelle formule rituali, secondo lui fa la Confessione. Cosa ci vuole di altro? Ci vogliono gli
atti del penitente che mancano e se mancano non c’è il sacramento.
In alcuni casi io devo dire al penitente: “Io ti assolvo da tutti i peccati che hai
confessato”. Se ci pensi un attimo, capisci che non ne hai confessato nemmeno uno. Io ti
assolvo da tutti quelli che hai riconosciuto, cioè da nessuno.
Ora, possiamo vedere dei casi diversi. Ci può essere un’occasione nell’anno in cui uno fa
davvero un controllo generale e completo, fa un bell’esame di coscienza partendo
dall’inizio fino alla fine, passando in rassegna tutta la vita, tutte le relazioni, tutte le
situazioni; questo però richiede del tempo, richiede un impegno, non è abituale. Un
discorso del genere non si può fare frequentemente, era il criterio del Concilio Lateranense
C. Doglio — Il sacramento della Confessione
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IV in cui si diceva che almeno una volta all’anno c’è bisogno di fare una bella revisione di
vita e di verificare tutta la nostra esistenza.
Durante la vita normale ci sono poi delle occasioni in cui facciamo degli sbagli che
percepiamo fortemente come sbagli. Qualcuno lo fa frequentemente, qualcuno in modo più
raro, ma ci sono dei momenti in cui facciamo qualcosa di male che ci dispiace: ecco, quella
è materia di confessione.
Quando ti dispiace di qualcosa che hai fatto di male, vai a confessarti al più presto, non
aspettare. In quella occasione non serve che parli di tutta la vita, in fondo hai un peccato
che ti ha mosso ad andare a confessarti e confessi quello lì perché è proprio il punto su cui
vai a chiedere al Signore la grazia di guarire. Sai che cosa dire, perché magari non hai
dormito una notte per quel problema, ci hai ripensato a lungo e sai benissimo qual è il
problema.
Eucaristia e perdono dei peccati
Nella situazione ordinaria l’Eucaristia è la via principale del perdono dei peccati veniali,
quotidiani, certamente. Facciamo la comunione come peccatori pentiti, penitenti.
“Per celebrare degnamente i santi misteri riconosciamo di essere peccatori”.
Non facciamo la comunione in modo degno: non ne saremo mai degni! La facciamo in
modo conveniente, come conviene a noi, a creature deboli e ci conviene fare la comunione
come peccatori che desiderano guarire. Allora l’Eucaristia è un aiuto a migliorare. Di
domenica in domenica o anche di giorno in giorno, l’Eucaristia è un farmaco che guarisce i
nostri peccati. Se c’è il desiderio di curare, di migliorare, chiediamo al Signore la forza;
questa forza ci viene data e guariamo. È una medicina, è una cura continuata e fa molto
bene se è fatta con questa intenzione.
Se non si fa la comunione ci deve essere un motivo. – Perché non fai la comunione? –
Perché non mi sono confessato. – Che cosa hai da confessare? – Niente! Guardate che
questo è un circolo vizioso frequentissimo.
In una casa di riposo sono andato a celebrare la Messa, hanno fatto la comunione quasi
tutti e una signora non l’ha fatta. Alla fine mi sono avvicinato, ho parlato di altre cose e poi
ho chiesto perché non ha fatto la comunione. Mi dice: “Perché non mi sono confessata”,
Le ho detto: “Se vuole sono qui, ho tempo”, lei risponde: “Ma non ho niente da
confessare”. Come usciamo da questo circolo vizioso? Non ha niente da confessare, ma
non essendosi confessata non può fare la comunione.
Vedete il pericolo del rito? C’è una regola che è stata inculcata da bambini, si è fissata
solo la regola, la forma rituale e non c’è più la sostanza, manca la sostanza, manca il cuore.
Si va a fare il rito perché è prescritto, ma non c’è il cuore; oppure non si fa la comunione
perché si sente la lontananza dal sacramento della Penitenza: è un po’ che non mi
confesso… quindi non posso. Ma sai che cosa devi confessare?
Come criterio generale io vi darei questo suggerimento: fate un esame di coscienza
abituale. Quando iniziamo la Messa c’è l’invito a riconoscere i propri peccati, se emerge
qualche cosa di negativo lo abbiamo nella memoria, eccome se emerge. Se è una cosa seria
per cui dici: “non mi sento di fare la comunione” allora vai a confessarti al più presto.
Ragioniamo di domenica in domenica: se questa domenica non fai la comunione perché
hai sulla coscienza un peccato, entro domenica prossima confessati e domenica prossima
fai la comunione.
Se non hai nessun peccato serio da confessare, allora riconosci le piccole cose e fai la
comunione con l’atteggiamento penitente di chi vuole migliorare. Questo è un sistema
dove si attiva l’intelligenza e il cuore.
C. Doglio — Il sacramento della Confessione
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L’esame di coscienza
L’esame di coscienza è fondamentale per prepararsi a ricevere questo sacramento e deve
essere fatto alla luce della Parola di Dio.
Ci vuole cioè un confronto: non è per niente facile fare l’esame di coscienza, vero?
Lo abbiamo insegnato a dei bambini, tenendo conto della realtà dei bambini, e rischiamo
di fossilizzarli in uno schema infantile. Fare un esame di coscienza serio, da persone
adulte, non è facile, ci vuole un termine di confronto e il termine di confronto è la Parola di
Dio. Io devo confrontarmi con qualcuno esterno a me; se penso semplicemente a me e alle
mie idee in fondo vado bene così. È il confronto con la Parola di Dio che mi fa risultare
mancante
Uno schema classico è quello del Decalogo, però con i Dieci Comandamenti rischiamo
sempre di assolverci ed è un’altra delle formule consuete in cui si dice: non so di che cosa
accusarmi perché non ho ucciso, non ho rubato, non ho commesso adulterio; tre cose
grosso non le ho fatte, quindi praticamente sono santo; cosa voglio dire di altro?
Il discorso sul Decalogo lo abbiamo affrontato l’anno scorso, richiede un’attenzione
particolare ed è uno schema utile, interessante, ma non sufficiente senza il Vangelo.
Ci sono invece delle pagine dei Vangeli che sono utilissime, ancora di più gli
insegnamenti degli apostoli. Ci sono dei capitoli interi nella Lettera ai Romani, nella Prima
Lettera ai Corinzi, nella Lettera ai Galati e agli Efesini, dove l’apostolo dà dei consigli di
vita cristiana. Leggere un testo del genere è uno strumento per verificare se stessi
domandosi: ma io sono così? Io queste cose le faccio? È la mia mentalità, è il mio stile?
Io ritengo che la strada migliore non sia quella di sedersi una sera e decidere: adesso
faccio l’esame di coscienza e ripenso a tutta la mia vita. Difficilmente riuscirai a fare
qualcosa di serio.
Cogli invece le occasioni propizie e i suggerimenti che ti sono dati.
Tutte le domeniche la Parola di Dio, a Messa, ti propone dei messaggi importanti,
confrontati con la Parola. Ogni volta che ascolti la Parola di Dio fai un esame di coscienza;
ti accorgi se la tua mentalità, il tuo stile di vita è quello. Ogni tanto può capitare di sentire
veramente il dolore perché il tuo modo di pensare, il tuo modo di fare, è lontano da quello
che hai ascoltato: non sono così – ammetti – io sono diverso. Mi dispiace o non mi importa
nulla?
In genere l’ascoltatore, quando trova una cosa diversa da quelle che pensa, accusa la
Parola di Dio, trova che quella pagina non gli piace, che non va bene, che non avrebbero
dovuto dire così. Noi siamo censori, correggiamo la Parola di Dio, non ci piace, la
vorremmo cambiare. In realtà l’atteggiamento corretto è l’altro: è quello dell’umile che
ascolta docilmente e si mette in crisi, si sottopone al giudizio della Parola di Dio.
Questo è un modo per ascoltare e verificare la nostra vita, si fa di volta in volta,
domenica per domenica, lungo l’anno e – quelle volte in cui emerge qualcosa di più forte –
uno prende consapevolezza di un atteggiamento sbagliato e ne prova dolore.
Vada allora a celebrare il sacramento, partirà da casa sapendo che cosa dire perché è
quello su cui ha pensato, perché gli è rimasto lì, perché chiede al Signore la forza di
correggere quel difetto, di guarire da quel vizio.
È un sacramento di guarigione, se lo celebriamo bene ci fa guarire.
La Messa e la Confessione, vissute bene – come binari indipendenti, ma paralleli – sono
due strade che ci aiutano a guarire, cioè a far maturare la nostra umanità.
C. Doglio — Il sacramento della Confessione
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