La pagina de L`espresso con il testo integrale dell`articolo
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L'espresso SOCIETÀ AL VICTORIA & ALBERT MUSEUM Eclettico cinese Di annalisa piras Da Pechino e Shanghai, un nuovo design. Che riflette le contraddizioni della società. In mostra a Londra la rivoluzione del 'Made in China' Made in China, ovvero 'Inventato in Cina'? Per ora non è proprio questo ciò che il marchio 'Made in China' evoca: piuttosto, imitazioni di qualità scadente. Ma una mostra-evento ha oggi come obiettivo quello di segnare una svolta nella nostra percezione. 'China Design Now' (dal 15 marzo al 13 luglio, www.vam.ac.uk/), porta al Victoria & Albert Museum, tempio londinese del design, il risultato di quattro anni di monumentali ricerche attraverso il continente che ospita un quinto della popolazione mondiale, 200 milioni di consumatori e l'economia in più rapida ascesa del pianeta. Attraverso un viaggio da nord a sud, da Pechino, città del futuro, a Shenzhen, città di frontiera, passando per Shanghai, città dei sogni. Cento designer cinesi offrono un'instantanea dei travolgenti mutamenti avvenuti negli ultimi dieci anni nella ex Repubblica Popolare Cinese. Archittettura, Graphic Design e Culture visive, Moda e Lifestyle, sono i tre settori che si fondono e contaminano a vicenda. Ma come ricostruire un percorso in un mondo così vasto e in tale caotico movimento? "Se c'era qualcuno che poteva provarci, era solo il V&A", sostiene il curatore, Zhang Hongxing. "Abbiamo tra le collezioni internazionali più significative di design contemporaneo e di arte cinese. Ci siamo dati tempi e mezzi necessari per una selezione che metta a fuoco la Cina nel panorama del design globale: lo sviluppo vertiginoso di una cultura nel contesto della rapida urbanizzazione, della rivoluzione dei consumi e dell'ambizione a uno status mondiale". Dove siete andati a guardare? "Nella Cina della costa. Una delle tre Cine, la più moderna secondo una divisione sociologica diffusa. Esiste la Cina della costa orientale, neoindustrializzata. La Cina dell'hinterland, ovest e centro, più tradizionale. E la Cina del nord est, l'ex Manciuria, ancora un'economia statalista, socialista nonostante le riforme". Qual è l'aspetto più sorprendente di 'China Design'? "La vertiginosa energia creativa degli individui, che esprime le speranze e i sogni della Cina moderna. Nei settori che osserviamo c'è un continuo crossover, una contaminazione, ma anche una feroce determinazione a creare fuori da ogni schema pre-esistente. E soprattutto in un modo completamente alieno da qualsiasi pensiero commerciale. È evidente nella sezione sui poster di Shenzhen, questa nuova città creata per diventare il più grande centro manufatturiero del mondo. Lì nel 1992 nasce ufficialmente il graphic design cinese, con la prima mostra chiamata semplicemente 'Graphic Design in China'. Autogestita e autofinanziata, incomincia a raccogliere poster completamente non funzionali, e concettualmente tanto rarefatti da essere quasi incomprensibili. I loro autori si definiscono 'graphic designer culturali'. Creano per il proprio piacere, si autofinanziano e comunicano solo con i loro pari nel resto del mondo". Si può leggere in questo individualismo una reazione a mezzo secolo di comunismo? "Esattamente. Quel che sta accadendo è eccezionale. Ma purtroppo, persino in Gran Bretagna, l'ignoranza sulla Cina contemporanea è sconcertante. La Cina è ancora l'ultimo imperatore, dragoni su chimoni di seta, o l'iconografia socialista della propaganda di Mao. Mentre la Cina 'reale' è oggi una società post-comunista nella quale l'individuo è libero, in una economia di mercato, di crearsi, per la prima volta, la propria personalità. La proprietà privata della casa che era vietata sotto Mao è protetta solo dall'anno scorso. Scegliere il proprio lavoro, senza essere obbligato nelle unità produttiva dello Stato, è una novità. Sono cambiamenti che non tutti capiscono in Occidente". Si può già intravedere uno 'Stile'? C'è chi parla di un'interessante miscela tra l'antica tradizione cinese e l'estetica della modernità della globalizzazione. "È un processo in fieri. Non ci si può vedere uno stile distintivo nazionale, come quello giapponese. In questo momento c'è un fenomenale processo di 'fusion', contaminazione tra il passato pre-socialista, la tradizione imperiale, le tendenze globali, e un interrogarsi sull'eredità visiva del Maoismo, reinterpretando l'arte della propaganda comunista. L'aspetto chiave resta la fluidità. Arte pura e design funzionale sono indistinguibili qui. Alcuni sperimentano con l'antica calligrafia cinese, e combinano tecniche millenarie per gli ideogrammi con le moderne tecniche di computer graphic. Usano papiri e perspex. Un altro esempio, è nella sezione ' Fashion'. 'Useless', il vestito 'Inutile' di Ma Ke, una designer molto interessante, riflette sulla tradizione cinese di nascondere il corpo invece che rivelarlo, o decorarlo. Ma non solo. Il vestito, che è stato bruciato, seppellito, ricucito, sembra aver attraversato i secoli. È lungo due metri, e pone la domanda a cui una volta i vestiti, cinesi, ma anche europei sapevano rispondere, 'chi mi ha fatto materialmente?'. Una domanda che è stata cancellata dalla produzione di massa di cui la Cina oggi è maestra". Architettura? "Il lavoro di Ai Wei Wei, uno degli esempi più efficaci di questo eclettismo senza confini. Architetto, performance artist, iconoclasta, regista, disegna case in cui le porte sono al posto delle finestre". L'arte contemporanea cinese sta vivendo un boom internazionale, ma per molti è sopravvalutata. Succederà anche al design? "Non credo. Ci sono mode senza radici, ma anche chi cerca soluzioni dei problemi della società". Il V&A sostiene che la mostra è stata realizzata in modo indipendente dalle autorità cinesi. Ma registra qualcosa del lato oscuro della Cina, la mancanza di libertà politica e d'espressione, l'inquinamento, la violazioni dei diritti? "Quella sarebbe un'altra mostra. In alcuni lavori di graphic design, se guardi bene, puoi vedere la tensione della repressione, delle violenze all'ambiente. Ci sono echi di posizioni politiche: ma non sono centrali. Il nostro scopo non era la critica del sistema politico. Ci siamo concentrati sull'individualismo creativo. Siamo stati liberi di andare nelle università, negli studi degli artisti. A volte eravamo raggiunti dai funzionari di partito che controllavano cosa facevamo. Ma erano contenti". Il che la dice lunga... "Parliamoci chiaro, i progressi che la Cina ha registrato dal punto di vista delle riforme economiche nell'ultimo decennio sono straordinari. Oggi c'è libertà economica. Noi ci siamo soffermati a guardare come la conquista di questi spazi personali abbia creato un caos creativo, instabile e disordinato ma pieno di cambiamenti culturali epocali e rapidissimi. Tutti ci auguriamo che l'altra parte, quella della libertà politica, finisca per seguire la rivoluzione nell'economia". ' Made in China' evoca in Occidente imitazioni, o giocattoli, tossici e pericolosi. Come rovesciare questa immagine? "È lo scopo ambizioso della mostra. Quella è una storia vera. E che preoccupa i cinesi, non solo gli europei. Ma è solo una parte della Cina di oggi. 'China Design Now' vuole raccontare l'altra faccia della medaglia. E rendere l'immagine della Cina in Occidente più realistica. E un aspetto bizzarro ma interessante è come in Cina il design, che in Occidente è legato all'industrializzazione, sia completamente scisso dall'idea di produzione di massa; e in una strana dicotomia o forse reazione al 'Made in China', prodotto in sistemi artigianali: su piccola scala". C'è una difficoltà profonda, per noi, nel capire un'altra visione del mondo. "Le nostre civiltà si sono sviluppate separatamente per 2000 anni. Ma negli ultimi dieci la comunicazione si è moltiplicata. Certo, c'è la difficoltà del linguaggio e del sistema di scrittura. Ma la Cina non è più un continente remoto: è parte integrante del villaggio globale. Le differenze culturali sono parte di un dialogo. Che ' China Design Now' si propone di migliorare".