Quarta riflessione: vestire gli ignudi

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Quarta riflessione: vestire gli ignudi
Riflessione _ 4 _ Le opere di misericordia corporale
Vestire gli Ignudi
Fa riferimento, nuovamente, al soccorso urgente di cui spesso ancora vediamo il bisogno
intorno a noi. Aiutare con dignità e discrezione le persone in difficoltà, fosse anche pagare la
bolletta del vicino o, come ho visto fare, la visita del medico a una famiglia in difficoltà senza
che lei se ne accorga è un modo concreto di darle dignità, di “vestire” dell’abito della festa ogni
figlio prodigo.
Ci sono veramente innumerevoli realtà, cattoliche e non confessionali, che si occupano di
raccogliere indumenti da distribuire alle persone più indigenti, da quelle locali a quelle più
ramificate.
Attualmente ogni anno in Italia si raccolgono circa 80 mila tonnellate di indumenti, e attraverso
una raccolta più attenta e capillare si potrebbero raggiungere le 300 mila tonnellate.
Probabilmente non tutti sanno che questi prodotti tessili sono riutilizzabili e riciclabili quasi al
100%, costituendo una ricchezza con tre sfaccettature complementari: in primo luogo,
ovviamente, vengono donati ai senzatetto e inviati a bisognosi di ogni parte del mondo; in
secondo luogo vengono rivenduti e il ricavato è investito in progetti umanitari per i Paesi in via
di sviluppo; in terzo luogo vengono riciclati, ottenendo così la riduzione delle emissioni di
anidride carbonica, dei consumi di acqua, di fertilizzanti e pesticidi. Il tutto con benefico impatto
ambientale.
Il nostro superfluo per qualcuno è vitale.
La Chiesa ha in questo campo un’icona alla quale si ispira da secoli: san Martino di Tours, un
cavaliere che, appena battezzato, incontra un povero che sta morendo di freddo e non esita a
tagliare a metà con la spada il proprio pregiato mantello per coprirlo e ripararlo dal rigido
inverno del Nord. Ecco il senso delle azioni di misericordia: con-dividere. Essendo entrambi
protetti da metà dell’intero mantello, il povero e il cavaliere si sono resi degni l’uno dell’altro.
Nudità e relazione
<<Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla
creazione del mondo… poiché ero nudo e mi avete vestito>> (cfr Mt 25,34-35). Nel suo
racconto del giudizio finale Gesù porta a compimento, come sua consuetudine, le antichissime
pratiche di giustizia e misericordia che appartengono alla tradizione ebraica, prima ancora che a
quella cristiana. Nell’AT è presente un po’ ovunque il precetto di coprire chi non ha abiti.
Nel libro della Genesi è Dio per primo a compiere tale gesto nei confronti di Adamo ed Eva, i
quali, in seguito alla loro disobbedienza nei confronti del Signore, cominciano a percepire la
propria nudità, simbolo della fragilità (cfr Gen 3,21).
Tobia riceve dal padre il saggio consiglio di donare un abito a chi non ha di che coprirsi (cfr
Tobia 4,16), ed anche i grandi profeti designano questo gesto come opera di giustizia ed
espiazione (cfr Ez 18,5.7.16; Is 58,6.7).
C’è nudità e nudità…
Ma come mai questa pratica riveste una tale importanza nella nostra tradizione di fede?
Questa è la terza opera di misericordia corporale. Riguarda la protezione del corpo umano, che
NT è “RIVESTITO” di una nuova dignità: quella di essere il tempio dello Spirito Santo (cfr
1Cor 6,19).
La nudità può assumere risvolti positivi o negativi, a seconda del contesto e soprattutto del tipo
di relazione. Sono nudi due amanti che condividono una totale intimità, ma è nudo anche chi
vive nella povertà più estrema, chi è stato privato dei mezzi per la sussistenza degli affetti, della
libertà o della dignità.
L’essere umano nasce nudo, inizia la sua vita nella totale indigenza: non è capace di
provvedere a sé stesso in alcun modo e per sopravvivere deve essere nutrito e accudito. Lo
stesso accade in altre fasi della vita, come nella malattia, in cui si acuisce la sua debolezza.
<<Nudo sono uscito dal ventre di mia madre e nudo vi farò ritorno>> (Gb 1,21).
Vestiti d’amore
La maniera in cui si è vestiti o svestiti ha rilevanti connotazioni di carattere psicologico e
spirituale, perché l’abito è un prodotto culturale, uno dei linguaggi attraverso i quali esprimiamo
noi stessi e la nostra personalità. Forse “l’abito non fa il monaco” nel suo cuore, ma di certo è un
immediato segno di riconoscimento, quantomeno esteriore. E’ imbarazzante non indossare
l’abito adatto a una particolare occasione: fa sentire di essere fuori luogo. Il vestito indica lo
status sociale di qualcuno, i suoi gusti, dice che cosa desidera, come si pone nei confronti del
mondo, come vuole essere visto (o non visto), se è preoccupato di piacere e di sedurre.
Nella tradizione biblica erano svestite o malvestite alcune categorie di persone: gli schiavi
quando venivano venduti (cfr Gen 37,33); i carcerati privati della loro libertà (cfr Is 20,4; At
12,8); le prostitute esposte agli sguardi indiscreti (cfr Ger 13,26-27; Os 2,4-6); le persone
alienate da malattie mentali o spirituali (cfr Mc 5,1-20). Nei confronti di questi poveri e umiliati la
Scrittura mostra compassione e invita al sostegno.
Affinché la nudità non provochi imbarazzo, deve inserirsi in una relazione di fiducia e di
complicità. Per questo il racconto della Genesi ci riporta che inizialmente Adamo ed Eva
vivevano con estrema naturalezza la loro condizione di nudità, che divenne gravosa e umiliante
soltanto nel momento in cui qualcosa arrivò a compromettere la fiducia presente nella relazione
con Dio. Si è insinuato un dubbio che ha contaminato l’autenticità del rapporto, ed è subentrata
la percezione di una finitezza da dover nascondere, di un difetto da voler mascherare. Questo
tipo di percezione mina alla radice le relazioni che viviamo quotidianamente, nella maggior
parte delle quali non possiamo concederci di metterci a nudo e di essere semplicemente,
felicemente, noi stessi. Tutti sono capaci di individuare difetti e manchevolezze altrui, e molti si
compiacciono di evidenziarli (se siamo fortunati correggerli), ma solo chi ama davvero ha
rispetto della debolezza, sa quando coprirla, sopportarla, nasconderla da sguardi critici e feroci,
accoglierla, in una parola.
Nel momento in cui Adamo ed Eva cominciano a provare vergogna per la loro fragilità, Dio
riveste i loro corpi con un abito tessuto dalla sua misericordia. La misericordia infatti copre
una moltitudine di peccati, ed è un atto di amore di cui tutti abbiamo uno smisurato bisogno, che
tutti dovremmo saper rivolgere agli altri, ma che pochi sono capaci di offrire davvero. Se non
passiamo attraverso la misericordia, ci correggeremo per paura. Diversamente la gratitudine e
l’amore stesso potranno operare in noi i più profondi cambiamenti.
<<Rivestiti di Cristo>>
Parallelamente, il battesimo ricuce l’antica ferita tra l’uomo e Dio, immergendo la miseria umana
nell’oceano dell’amore divino, che avvolge la sua creatura e le restituisce l’identità regale. E’
questo che si intende con l’espressione “rivestiti in Cristo” (cfr Gal 3,27).
Nei primi secoli il rito del battesimo prevedeva che il neofita si spogliasse completamente, si
immergesse totalmente nell’acqua e, dopo essere riemerso, fosse rivestito di un abito bianco.
La spoliazione completa indica l’abbandono totale di uno stile di vita.
L’immersione totale simboleggia la morte, a sottolineare l’abbandono della vita precedente.
L’emersione indica la rinascita a una vita nuova.
La veste candida, nuova, luminosa, gioiosa, regale, simboleggia l’ingresso in un nuovo stile di
vita: lo stesso di Cristo, quello dei figli di Dio. <<Quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete
rivestiti di Cristo>> (Gal 3,27).
La nudità della fragilità, propria della condizione umana, è immersa nella misericordia di Dio (cfr
Tito 2,4-5): rivestita di essa. Rivestiti della gloria e della misericordia di Dio, impariamo a
guardare come lui guarda e ad agire come lui agisce.
Un “investimento” nuovo
Ricevere un abito nuovo allora significa assumere un ruolo nuovo. Le divise, le uniforme, gli
abiti dei religiosi possono aiutarci ad afferrare immediatamente questo concetto.
Quando Dio nell’Eden riveste Adamo ed Eva, non è solo per coprire la loro vergogna, ma per
ripristinare la loro dignità.
La veste candida ricevuta nel battesimo significa l’inizio di una nuova vita, diversa, fatta di
nuove abitudini e nuovi costumi. Infatti il termine “abito” ha la stessa radice di “abitudine”, di
cui è sinonimo: indica un modo di essere, uno stile abituale, una disposizione dell’animo oltre
che una forma di apparire.
E “investire”, letteralmente “coprire di una veste”, rivestire, circondare, significa mettere in
possesso di una dignità, conferire una carica ufficiale, affidare un mandato attraverso il quale il
bene “investito” diventa la persona stessa e il frutto sono le opere che riuscirà a compiere,
mettendo in gioco i suoi talenti (è così, ad esempio, per gli investimenti di capitale).
E tu dove sei?
L’amore di Dio ci riveste e investe per donarci un nuovo inizio e adempiere una missione.
°
Vestiamo la nudità dei nostri fratelli per dare loro ogni volta la possibilità di un nuovo
inizio?
°
Copriamo i loro difetti invece di sparlarne?
°
Ci ricordiamo che possiamo e dobbiamo vivere come i figli di un Re?
°
Abbiamo fatto dono a qualcuno di ciò di cui ci siamo privati nelle nostre pratiche
devozionali (ad esempio rinunciando a determinati cibi per un certo periodo di tempo)?
°
Con quale bisognoso abbiamo condiviso i nostri beni, in modo da metterci allo stesso
livello, abbassando un po’ noi stessi ed elevando un po’ lui?