Il Treno 8017

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Il Treno 8017
G. DF. - S. A. per www.vesuvioweb.com
Il Treno 8017
Una Tragedia Dimenticata
Balvano, 3 marzo 1944
02 - Il Disastro dell’8017
Salvatore Argenziano
S. Argenziano. Balvano 1943. 02-Il Disastro dell’8017
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IL DISASTRO DELL'8017
di Giulio Frisioli
Articoli di Giulio Frisoli, pubblicati su "L'Europeo",
11 marzo 1956, pagine 12-15;
18 marzo 1956, pagine 52-55;
25 marzo 1956, pagine 37-41.
Fu la più grande catastrofe ferroviaria del mondo. Pochi sanno che accadde in
Italia dodici anni fa
COMINCIA LA RICOSTRUZIONE DI UNA CATASTROFE IGNOTA
Il ferroviere dice: «Accadde là sotto» Balvano. Alle 0,50 del 3 marzo 1944 un
treno merci, dopo aver sostato trentotto minuti a Balvano, si inoltrò lentamente nella
galleria delle Armi di là dalla quale a sette chilometri c'è la stazione di Bella-Muro.
Doveva percorrere la distanza in venti minuti. Non arrivò: 521 persone morirono
asfissiate sotto la galleria. Il manovale Angelo Caponegro, in servizio a Balvano nel
'44, indica l'ingresso della galleria.
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Prima puntata - 11 marzo 1956, pagine
12-15
IL CAPOSTAZIONE DÀ IL VIA AL
LUGUBRE 8017
Si era in guerra. Sulla linea BattipagliaPotenza un solo treno passeggeri alla
settimana. Ai borsari neri ne occorrevano
molti: quindi salivano sui «merci». Autorità
e ferrovieri erano costretti a chiudere gli
occhi.
All'una circa della notte fra il 2 e il 3
marzo del 1944, un treno merci in servizio
sulla linea Battipaglia-Potenza entrò in una
galleria, e non riuscì a percorrerla. Il
lunghissimo convoglio, composto di 47
carri trainati da due locomotive del tipo
476 di alta montagna, una delle quali era
stata aggiunta alla stazione di Romagnano,
a metà strada circa fra Eboli e Potenza,
dato che il peso del treno appariva
eccessivo (470 tonnellate), era giunto alla
stazione di Balvano-Ricigliano alle 0,12.
Qui aveva sostato per trentotto minuti.
Alle 0,50, il capostazione Vincenzo
Maglio dette il segnale di partenza. Il
merci, che era contrassegnato dal numero
convenzionale 8017, si avviò lentamente.
La stazione di Balvano dista da Potenza 39
chilometri; la stazione immediatamente
seguente, quella di Bella-Muro, 32; fra
Balvano e Bella-Muro la distanza è quindi
di soli sette chilometri, che un treno, per
quanto vada lentamente, non dovrebbe
percorrere in più di venti minuti.
SOLO UN GIORNALE PARLÒ
DELLA TRAGEDIA, IN POCHE
RIGHE
Il merci 8017 non riuscì a percorrere
questo brevissimo tratto né in venti minuti
né in un'ora; la coincidenza di due fattori (il
primo, quello che esso era sovraccarico, il
secondo, che il carbone bruciato dalle
locomotive non era di buona qualità)
concorse a farlo fermare, circa trecento
metri dopo che esso aveva imboccato la
galleria detta «delle Armi». Quasi tutti
coloro che si trovavano sul convoglio
morirono per asfissia: se si pensa al poco
personale che di solito si trova sui treni
merci, si potrebbe dedurne che persero la
vita nel drammatico incidente solo alcuni
individui. Se le cose stessero così, queste
rievocazione del disastro di Balvano non
avrebbe ragione di essere.
Ma le cose stavano, invece, in tutt'altra
maniera: perché a bordo del merci 8017
avevano preso abusivamente posto circa
seicento passeggeri, dei quali 521
compirono il quel treno l'estremo viaggio
della loto vita, un viaggio la cui stazione
d'arrivo aveva il nome «Morte».
Quella di Balvano fu una tragedia
allucinante e silenziosa; pur costituendo la
più grave sciagura ferroviaria mai
verificatasi nel mondo, la sua eco non
giunse quasi all'orecchio del grosso
pubblico; o, diremo meglio, vi giunse
attenuata, tanto da non suscitare nessun
moto sentimentale. Solo un giornale, il
quotidiano
napoletano
Risorgimento,
l'unico autorizzato dalle autorità alleate a
vedere la luce, accennò vagamente al fatto,
il 7 marzo del 1944, in poche righe della
sua cronaca regionale, senza specificare né
la località nella quale la tragedia era
avvenuta né il numero delle vittime.
La censura, in quel periodo, ostacolava il
lavoro dei giornalisti; anche quando le cose
tornarono normali, nessuno, per molto
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tempo, pensò di rievocare quel tragico
accaduto.
Fu solo nel 1951 che due giornalisti
napoletani, i quali svolgevano quella forma
di attività tipica di quei pubblicisti che
nelle nazioni anglosassoni vengono definiti
«free lance writers», vale a dire scrittori
indipendenti, pubblicarono sulle catene di
quotidiani italiani ai quali collaboravano un
articolo sul disastro di Balvano, argomento
che venne ripreso da alcuni settimanali. Ma
anche stavolta i fatti furono narrati
frettolosamente,
senza
entrare
nei
particolari, e quindi molti aspetti del
tristissimo avvenimento rimasero oscuri.
Che cosa accadde con precisione nella
gallerie delle Armi? A chi doveva essere
fatta risalire la responsabilità dell'accaduto?
L'Europeo si è proposto di rispondere a
questi interrogativi, al secondo dei quali, lo
diciamo subito, non è possibile dare una
risposta precisa, perché l'ingarbugliatissima
vicenda giudiziaria che prese le mosse dalla
tragedia di Balvano non giunse alla sua
fine.
Prima di inoltrarci nella cronache del
disastro, sarà bene ricordare un po' ai
lettori, specie a quelli che vivevano nel
1944 al di sopra della Linea gotica, quali
erano le condizioni in cui si viaggiava
nell'Italia meridionale. Le comunicazioni
erano ovviamente mal servite, dato lo stato
di guerra. I treni partivano, ma non sempre,
in orario, e giungevano sempre con un
elevato ritardo alle stazioni terminali.
Quanto alla linea Battipaglia-Potenza, che
tuttora non gode della trazione elettrica, e
in molti tratti è ad un solo binario, essa era
stata dichiarata di interesse militare, e il
Governo Militare Alleato la gestiva in
proprio, con l'aiuto del personale italiano
delle Ferrovie dello Stato, consentendo che
su di essa transitasse un solo treno la
settimana per passeggeri.
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A questo punto, è necessario ricordare
quel tipico fenomeno del tempo di guerra
che fu la borsa nera. Fosse esercitata su
vasta o su piccola scala, la borsa nera
metteva in condizione gli abitanti delle
grandi città di rifornirsi di quei viveri dei
quali si avvertì la deficienza negli ultimi
anni di guerra. Napoli specialmente, la
grande città che soffrì, dal 1942 in poi, una
grande fame, era un mercato che si
presentava, per così dire, stimolante nei
riguardi di chi se la sentiva di sottoporsi
alla corvée di recarsi a reperire dove fosse
possibile generi alimentari, per poi
rivenderli con un certo margine di
guadagno. Migliaia di individui dei paesi
circostanti, sui quali si abbatté la disgrazia
della disoccupazione, si orientarono quindi
verso la borsa nera; poco per volta, essi
giunsero alla convinzione, esatta, che la
località in cui si sarebbero potuti più
facilmente fornire di quei generi che
mancavano a Napoli, come la carne, l'olio,
il grano, il tabacco, e perfino la verdura,
oltre che i cereali e i legumi, era Potenza, il
capoluogo di una provincia la cui economia
si fonda proprio sull'agricoltura e
sull'allevamento del bestiame.
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I RIFORNIMENTI PER
IL MERCATO NERO DI NAPOLI
Potenza dista da Napoli solo 166
chilometri; partendo la sera da Napoli era
possibile giungervi all'alba, fare i propri
acquisti, e tornare nella capitale della
Campania nel pieno pomeriggio. Il piano di
lavoro dei borsaneristi era semplice, se pur
faticoso; ma, a stroncare la loro attività,
venne la requisizione della linea ferroviaria
Napoli-Potenza, effettuata dal Governo
Militare Alleato subito dopo l'ingresso a
Napoli delle truppe della 5ª armata
americana, che avvenne alla fine del
settembre del 1943. Come abbiamo detto,
da allora fu autorizzato il transito di un solo
treno settimanale per passeggeri, il
mercoledì. Invece, i borsaneristi, specie
quelli la cui attività potrebbe essere
paragonata a quella dei commercianti al
dettaglio, erano premuti dalla necessità di
effettuare viaggi continui, e non potevano
non servirsi delle ferrovie, data la
requisizione di tutti i mezzi di trasporto
azionati a benzina o anche a metano.
Se davvero la militarizzazione della linea
Napoli-Potenza avesse inferto un colpo
mortale all'attività dei piccoli speculatori,
non staremmo qui ora a stendere questa
cronaca di un avvenimento di dodici anni
fa; perché il merci 8017 non si sarebbe
fermato nella galleria delle Armi, la cui
pendenza, che non supera il 13 per mille,
esso sarebbe riuscito a superare, tenuto
conto del suo peso e della trazione
effettuata da due locomotive. Invece, i
borsaneristi non rinunziarono al loro
lavoro; facendo giusto affidamento su certe
qualità tipicamente meridionali, essi fecero
in modo da adattare ai loro scopi la
situazione, poiché non potevano adattarsi
essi stessi alla situazione che l'ordinanza
del GMA era venuta a creare; e nacque così
una specie di «modus vivendi» sul quale,
purtroppo,
gli
Alleati
chiusero
benevolmente gli occhi. In sostanza,
avvenne questo: i borsaneristi trovarono
rapidamente un accordo con il personale
italiano di scorta ai treni merci che da
Napoli si recavano ininterrottamente a
Potenza; i conduttori dei treni, un po' per
buon cuore, e qualcuno anche per speculare
sulla situazione, consentivano che nei
vagoni dei convogli, quando non erano
stipati di merci, prendessero posto
clandestinamente dei viaggiatori; quanto al
personale alleato di scorta al treno, aveva
capito la situazione, e fingeva di non
rilevarne l'irregolarità.
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ALMENO 320 QUINTALI
DI VIAGGIATORI ABUSIVI
Questa
specie
di
compromesso,
comprensibile sul piano umano, funzionò a
perfezione fino all'alba del 3 marzo del
1944, fino al momento in cui, cioè, il merci
8017 si fermò nella galleria delle Armi. Nei
carri scoperti, in quelli coperti, e perfino
sugli imperiali di questi ultimi, avevano
preso posto circa seicento persone, che
viaggiavano certamente molto peggio dei
quaranta militari che dovevano per
regolamento, una volta, stiparsi nello
spazio di un vagone. Un facile calcolo fa
stimare il peso di quei seicento viaggiatori
irregolari sui trecentoventi quintali
almeno.
Se si tiene conto del carbone adoperato,
che veniva fornito dagli Alleati, e
proveniva dalla Jugoslavia, ed era,
notoriamente, dotato di un insufficiente
potere calorifico, mentre abbondavano in
esso le scorie che, bruciando nelle caldaie,
si trasformavano in gas di scarico, costituiti
per lo più da monossido di carbonio, un
terribile veleno ad azione rapida;
se si tiene conto del fatto che, con questo
carbone, le due locomotive avrebbero
potuto trainare, in salita, non più di
cinquecento tonnellate;
se si ricorda che il peso del merci 8017
era, a vuoto, di 479 tonnellate, basterà
sommare a queste tonnellate le 32 del peso
dei passeggeri per notare come, sia pure di
poco, il limite si sicurezza era stato
superato.
Naturalmente, queste considerazioni non
furono fatte a Napoli, la sera del 2 marzo,
prima che il treno partisse; se il
capostazione che gli dette via libera si fosse
preso la briga, di fronte al brulicare, nei
carri, di persone che egli non poté fare a
meno di vedere, di ragionare un po' sulla
faccenda, il merci 8017 non sarebbe partito
se non dopo che ne fossero scesi coloro i
quali vi erano abusivamente saliti. Ma
quello dei treni merci diretti in Lucania
stracarichi di clandestini era ormai uno
spettacolo consueto, per i ferrovieri
napoletani.
Perciò,
dopo
aver
superficialmente controllato il «foglio di
viaggio» del convoglio, sul quale era detto
che il merci 8017 era destinato a Catanzaro,
dove avrebbe dovuto caricare legname che
«serviva per esigenze determinate dalla
guerra e di competenza del Governo
Militare Alleato» , quel capostazione si
assicurò che il personale di scorta al treno
avesse preso posto sui vagoni; poi agitò la
mano verso i macchinisti, che, sporgendosi
dal finestrino, attendevano il suo segnale,
emise i regolamentari tre trilli dal suo
fischietto. Non sapeva che, espirando con
una certa violenza una minima quantità di
aria dai suoi polmoni, avrebbe avviati 521
persone verso il posto dove i loro polmoni
sarebbero stati rapidamente saturati dal
monossido di carbonio, e ne sarebbero
rimasti paralizzati.
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Seconda puntata 18 marzo 1956, pagine 52-55
OGNI VIAGGIATORE SEDEVA
CADAVERE AL SUO POSTO
Sotto la galleria delle Armi due
locomotive emettevano fumo prodotto dalla
combustione di cattivo carbone jugoslavo.
Il treno 8017 si era appena fermato per
insufficienze di calore. Un terribile errore:
bisognava fare subito marcia indietro.
Macchinisti e fuochisti asfissati per primi.
Cinquecentoventuno persone passarono nel
silenzio dalla vita alla morte
I passeggeri «abusivi» del «merci» 8017
erano quasi tutti addormentati quando il
convoglio si arrestò sotto la galleria. Le
loro salme furono allineate sul marciapiede
della stazione, a un centinaio di metri dalla
galleria.
L'identificazione delle vittime fu iniziato
subito. Non fu un'impresa facile. Molte di
esse, per lo più piccoli trafficanti in borsa
nera, erano prive di documenti.
Il treno fu rimorchiato all'aperto la
mattina del 3 marzo 1944.
Angelo Caponegro è un manovale delle
Ferrovie dello Stato; veste quasi sempre in
borghese; un berretto col fregio che
rappresenta due ali d'oro poggiate su un
cerchio nel quale le lettere F e S sono
ricamate l'una sull'altra indica la sua
appartenenza alle Ferrovie; la visiera copre
di una strana ombra i suoi occhi piccoli e
acuti, sotto i quali un gran naso spicca sul
volto onesto dell'uomo. Guarda lontano; si
vede che, con la mente, si sforza di tornare
indietro negli anni, che tenta di mettere a
fuoco certi ricordi che vanno ormai, col
trascorrere del tempo, diventando labili,
imprecisi.
La notte fra il 2 e il 3 marzo 1944 era di
servizio alla stazione di BalvanoRicigliano, insieme all'operaio di prima
classe Vincenzo Biondi, il cui grado è
rappresentato da una striscetta verticale
d'oro che si trova ai due lati del sottogola
del suo berretto. Quella notte, i due non
avevano nessun motivo particolare per
interessarsi più del consueto al treno merci
8017, giunto da Napoli alle 0,12. Per i
ferrovieri, un treno non rappresenta,
naturalmente, un fatto umano; esso è solo
un convoglio, contraddistinto da un numero
convenzionale, dalla sua qualifica di treno
rapido o diretto o accelerato o merci, dal
numero dei suoi vagoni, dall'orario di
arrivo e di partenza. Nessun treno attrae in
modo particolare la loro attenzione, e a
questa regola non sfuggì il merci 8017.
Il fatto che fosse gremito di passeggeri
abusivi faceva parte anch'esso di una
consuetudine che durava da più di un anno.
Quando esso giunse alla stazione di
Balvano, il suo carico umano era
profondamente addormentato, in gran
maggioranza. Adesso, può riuscirci difficile
capire come si possa sprofondare nel sonno
stando ammucchiati nei vagoni di un merci,
nell'interno dei quali non v'è che il
pavimento per adagiarvisi. Ma dodici anni
fa la cosa era normale, o quasi,; ognuno di
noi ricorderà di essersi addormentato in un
rifugio, quando un allarme aereo si
protraeva per lungo tempo: un fatto che
oggi ci sembra impossibile.
Nel treno merci che giunse, quella tale
notte, a Balvano, tutti dormivano, meno i
macchinisti delle due locomotive, i due
fuochisti, e il frenatore del vagone di coda,
Michele Palo. In questo fatto, è un altro
segno della strana fatalità che si accanì sul
lunghissimo convoglio. Se esso avesse
dovuto percorrere di giorno i trentanove
chilometri che separano Balvano da
Potenza, senza dubbio il disastro non
avrebbe assunto proporzioni tali da
renderlo assolutamente eccezionale nella
storia di tutte le ferrovie del mondo. In tal
caso, quasi tutti avrebbero avvertito l'acre
odore del monossido di carbonio che si
sprigionava dai fumaioli delle due
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locomotive che trainavano i quarantasette
carri; e avrebbero potuto tentare di
raggiungere lo sbocco della galleria, che
non distava più di duecento metri (quando
il merci 8017 si fermò per sempre) dalla
locomotiva di testa.
Invece, i passeggeri del treno, che
avevano abusivamente occupato i vagoni,
dormivano della grossa. Quando, con il
tipico sferragliare dei freni, l'8017 si fermò,
dodici minuti dopo la mezzanotte, nella
stazione di Balvano, il tenebroso silenzio
della campagna circostante, punteggiata da
colline sulla cui vetta si poteva distinguere,
grigiastra nel lividore della notte, la neve
dello scorso inverno che ancora non si era
sciolta, non fu rotto dunque dal
caratteristico vocio che contraddistingue i
treni che viaggiano di giorno, nei quali i
passeggeri chiedono che ora è, a che ora si
arriverà; e molti di essi approfittano della
fermata per scendere a procurarsi
dell'acqua, o per sgranchire le gambe.
Ruppero quel silenzio di morte (già una
specie di sintomo, di premonizione) solo le
voci dei macchinisti, del capostazione, del
manovale e dell'operaio, che si avvertivano
appena, sullo sfondo del collettivo, pesante
respiro della gente che dormiva nel treno;
uno strano, grosso rumore, anch'esso
silenzioso paradossalmente.
Il ricordo di questo singolare rumore fa
rabbrividire ancora oggi Angelo Caponegro
e Vincenzo Biondi; perché esso assunse,
dopo la sciagura, il lugubre significato di
una introduzione alla morte, una specie di
drammatica ouverture. A questo non
pensarono i due allora, né lo pensò il
capostazione Vincenzo Maglio, che sbrigò
la pratica del merci 8017, e dette alle 0,50
il segnale di via libera verso Potenza, dove
il lunghissimo convoglio non sarebbe mai
giunto.
A questo punto, prima che il treno si
avvii, sarà bene vedere come esso è
composto con esattezza, chi lo aveva fatto
comporre, e perché; tutte cose che, dato
l'allora vigente regime di occupazione
militare da parte degli Alleati, non erano a
conoscenza nemmeno di tutti i ferrovieri
italiani, e si appresero solo in seguito, nel
corso del procedimento giudiziario che
venne provocato dai parenti delle 521
vittime.
Come gli altri treni circolanti sulla linea
Battipaglia-Potenza,
l'8017
veniva
effettuato su ordini delle autorità alleate
che specificavano il numero dei carri che
dovevano comporlo. Le Ferrovie italiane,
del materiale a loro disposizione,
sceglievano quello adatto a quel percorso e
al tipo di trasporto che doveva essere
effettuato. L'8017 del giorno 2 marzo
venne costituito con 47 carri e due
locomotive in testa, del tipo a quattro assi
accoppiati. Dai calcoli effettuati prima di
comporre il treno, venne rilevato, come
dicemmo nella scorsa puntata, che esso
poteva «tirare», tenuto conto del carbone
scadente, che veniva fornito dalle autorità
alleate, 600 tonnellate e non più (e abbiamo
anche visto che questo margine di sicurezza
fu superato, se pure di poco, dato il peso
complessivo dei seicento viaggiatori
abusivi). Il carbone era di provenienza
iugoslava. Esso non sviluppava un calore
sufficiente per il tipo di locomotive di cui
disponevano le Ferrovie italiane; ed
emanava dalla combustione gas tossici che
spesso stordivano i macchinisti.
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IL TRAFFICO SULLE LINEE
REQUISITE DAGLI ALLEATI
Questo inconveniente fu fatto rilevare
alcune volte agli Alleati dal capo del
deposito del personale viaggiante di
Salerno, Francesco Mittiga, come egli
stesso dichiarò in una deposizione resa il
25 maggio 1948; ma, per esprimerci con le
sue parole, «senza nulla ottenere, perché gli
Alleati si rifiutarono di prendere qualsiasi
provvedimento». Lo stesso Mittiga ci
fornisce preziose indicazioni sul come si
svolgeva, nel 1944, il traffico sulle linee
requisite dagli Alleati. Formalmente, la
direzione del movimento nelle stazioni era
tenuta da funzionari italiani; in realtà, le
disposizioni erano impartite dagli Alleati,
che stabilivano la composizione dei treni e
l'orario di partenza; per cui l'attività dei
capistazione era solamente esecutiva,
diretta a rendere possibile l'adempimento di
quanto veniva stabilito dagli Alleati, i quali
si servivano di un loro personale tecnico
composto di capistazione, capitreno e
deviatori, che impartivano gli ordini. Il
personale viaggiante dei treni era, però,
italiano.
Il merci 8017 del 2 marzo 1944 venne
costituito in tal modo. Esso avrebbe dovuto
viaggiare vuoto: solo un ufficiale italiano e
sette soldati, regolarmente autorizzati dal
Comando alleato, avrebbero dovuto
prendervi posto.
Ma abbiamo visto invece che il
convoglio era gremito di passeggeri
abusivi, per lo più piccoli borsaneristi, dei
quali il personale italiano e gli stessi Alleati
fingevano di non accorgersi, essendosi
compenetrati dei bisogni di tanta povera
gente per la quale era necessario, per i loro
piccoli traffici, raggiungere quelle località
dove potevano rifornirsi di generi richiesti
in città.
Formalmente vuoto, in realtà pieno
zeppo di gente, il merci 8017, scortato dal
regolamentare «foglio veicoli» che gli
Alleati redigevano in duplice copia, partì
da Napoli diretto a Potenza; e di qui, come
già dicemmo, doveva proseguire per
Catanzaro a caricarvi del legname. Pesava
più delle seicento tonnellate che le
locomotive potevano in teoria trainare.
Giunse a Balvano poco dopo mezzanotte, e
ne ripartì dieci minuti prima dell'una, con il
suo carico di passeggeri (tutti abusivi,
meno l'ufficiale e i sette soldati autorizzati)
che dormivano.
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LE RUOTE GIRARONO A VUOTO
SUI BINARI UMIDI
Il capostazione Vincenzo Maglio,
l'operaio Vincenzo Biondi e il manovale
Angelo Caponegro lo videro avviarsi
lentamente, mentre dai fumaioli delle
locomotive si levavano alti bioccoli di
candido fumo, e imboccare la prima
galleria che si trova sul tratto da Balvano a
Bella Muro, che dista non più di duecento
metri dalla stazione di Balvano. Il buio
della galleria lo inghiottì; per un po', si vide
brillare il fanalino di coda, sito all'esterno
della garitta dove si trovava il frenatore
Michele Palo; poi, anche quel lume sparì
dietro la prima curva. Nella stazione di
Balvano, il telegrafista dette al suo collega
di Bella Muro il segnale di «partito».
Subito dopo Balvano, il terreno
incomincia a salire. Il merci 8017 superò
facilmente la prima, breve galleria; anche
la seconda fu attraversata senza che,
evidentemente, i macchinisti si rendessero
conto di qualche difficoltà. Il convoglio
procedeva lentamente, in un paesaggio
orrido, fatto di rocce che assumono strane
forme per la nebbia. Dopo l'uscita dalla
seconda galleria, i binari fanno una curva,
su un viadotto lungo un trecento metri,
prima di inoltrarsi nella galleria delle Armi,
che si profila a sinistra, e il cui imbocco è
contraddistinto da una S segnata sulla
parete di sinistra. I macchinisti forse
notarono (nessuno poté raccogliere le loro
disposizioni, perché furono i primi a
morire) che la velocità dell'8017 non
corrispondeva alla pressione delle caldaie;
ma dovettero pensare di potercela fare, e
proseguirono la corsa. Forse le loro
supposizioni non erano del tutto errate.
Nonostante il limite massimo di peso fosse
stato superato, però non di molto, essi
dovettero avere la netta sensazione di poter
superare anche la pendenza che presenta il
terreno nella galleria delle Armi, pendenza
che raggiunge il 13 per mille.
Ma un altro imprevisto coefficiente si
coalizzò con il peso, con il sonno dei
passeggeri e con la cattiva qualità del
carbone, per trasformare in una lunga bara
il merci. Durante tutto il giorno 2, in
Lucania aveva piovuto, una di quelle
fastidiose pioggerelle che scendono
monotone, come costrette, da uno spesso
banco di nubi basse. Alle ventidue circa
aveva smesso di piovere; ma l'aria era
rimasta impregnata di umidità, una umidità
che era penetrata nelle gallerie fra Balvano
e Bella Muro, e aveva steso sui binari una
specie di micidiale, viscido manto
scivoloso.
Il dramma avvenne rapidamente. Le
locomotive avevano percorso di slancio
non più di duecento metri all'interno della
galleria delle Armi, quando i macchinisti si
avvidero che le ruote trovandosi a dover
girare proprio nel posto dove la pendenza
raggiunge il suo massimo valore, non
«mordevano» più i binari, e cominciavano
a girare a vuoto, con una velocità sempre
maggiore, mentre il convoglio non
avanzava più di un metro.
I due macchinisti ed i due fuochisti del
merci 8017 del 2 marzo furono i primi a
morire, lo abbiamo detto. Di fronte alla
morte, un senso di pietà dovrebbe
sommergere ogni altra considerazione. Ma
noi stiamo facendo una rievocazione di un
fatto, e la commozione non deve velarci gli
occhi. È indubbio (bisogna dirlo, se pure
con rammarico) che il personale di
macchina commise un grave errore. Risultò
dalle perizie condotto dopo il disastro, che
le caldaie, quando i macchinisti ed i
fuochisti si abbatterono, esanimi, sulle leve
di comando, erano al massimo della loro
pressione. Dal fatto si può dedurre che essi,
invece di invertire immediatamente la
marcia, e tentare di portare il treno
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all'aperto, manovra che avrebbe richiesto
non più di tre o quattro minuti, commisero
invece la grave imprudenza di aumentare la
pressione delle caldaie, nella speranza di
riuscire forse a scuotere il pesante
convoglio dalla sua mortale inerzia. In quei
tremendi attimi, essi dovettero dimenticare
o trascurare il gravissimo pericolo
costituito dal monossido di carbonio che si
sprigionava dal carbone combusto, e la
tragedia si compì, sotto il segno di una
fatalità tale dal lasciare increduli, stupefatti.
Il monossido di carbonio è un veleno ad
azione rapida.
I macchinisti ne aumentarono, certo
senza volerlo, la produzione, alzando la
pressione.
L'ovattato fumo che usciva dai fumaioli
entrò nel loro abitacolo; il veleno li prese
alla gola, penetrò nei loro polmoni, li
strozzò in qualche minuto. Poi la nube
mortale cominciò a stendersi, come una
specie di mostruoso serpente, nella galleria
delle Armi, e si insinuò nei carri dove i
passeggeri dormivano; qui entrò a far parte
del meccanismo della loro respirazione, e li
avvelenò senza scampo.
S. Argenziano. Balvano 1943. 02-Il Disastro dell’8017
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«LÀ SONO TUTTI MORTI»
RIUSCÌ A DIRE IL FRENATORE
La drammaticità della tragedia è adesso
acuita, ai nostri occhi, da un altro elemento:
il silenzio. Un naufragio, uno scontro, un
crollo, una battaglia sono rumorosi. La
gente grida, impazzisce, si lamenta. Nella
galleria delle Armi questo pathos che
precede di solito un dramma fu del tutto
assente. Nemmeno una voce commentò
l'accaduto.
Tutti passarono dal sonno alla morte,
tutti quelli che morirono, perché non
morirono tutti. L'ultimo vagone, infatti, non
fu sommerso anch'esso dalla nuvola di
fumo, per fortuna; non lo fu, perché rimase
per metà all'aperto, come in bilico fra la
vita e la morte, in parte dentro e in parte
fuori della galleria.
Che cosa avvenne dei suoi passeggeri,
che quando si svegliarono, più tardi, quasi
impazzirono per il terrore, non siamo
riusciti a saperlo. Essi rientrarono nella vita
di ogni giorno, con quel pesante ricordo nel
cuore; poiché non esisteva ovviamente una
lista di nomi che potesse metterci in
condizioni di rintracciarli, non abbiamo
potuto raccoglierne le testimonianze.
Abbiamo tentato di metterci in contatto con
chi visse, magari in uno stupefatto
dormiveglia, quegli attimi in cui stavano
per varcare la soglia dell'ignoto; ma
inutilmente; ci deve essere, in costoro, un
sentimento che deve portarli a fuggire
quanto più è possibile dal ricordo di quei
momenti di incubo.
L'unico degli occupanti l'ultimo vagone
che non poteva estraniarsi alla tragedia, per
la sua funzione, fu il frenatore Michele
Palo. Egli non aveva certo azionato i freni,
cosa che viene effettuata quando, con una
richiesta convenzionale, espressa con un
fischio dai macchinisti, i frenatori vengono
avvertiti della necessità di manovrare la
ruota che serve a bloccare la vettura in cui
si trovano.
Michele Palo stava riscaldandosi,
quando avvenne il disastro, con un
fuocherello fatto accendendo alcuni
giornali strettamente strizzati, un artifizio
messo in atto di solito dai frenatori per far
durare il fuoco più a lungo. Non pensava
assolutamente a niente, tranne che a
combattere il freddo umido della notte con
quel fuocherello sul quale si era come
accartocciato. Non pensò nemmeno a
guardare l'orologio, quando si avvide che il
treno si era fermato, e perciò non possiamo
conoscere l'ora esatta in cui la tragedia
ebbe inizio. Egli rimase tanto stupefatto
dell'inconsueto accaduto (non si era potuto
rendere conto di quello che era avvenuto
nelle due locomotive) che non pensò ad
altro se non a scendere per vedere che
diamine era successo, perché fosse stato
necessario arrestare, senza chiedere la sua
opera, il treno. Si avviò, quindi, verso
l'interno della galleria. Percorso che ebbe
qualche metro, si sentì aggredire alla gola
dall'aspro odore del monossido di carbonio.
Barcollò per un attimo, sopraffatto dalla
nausea e dalla tremenda rivelazione, si
voltò verso l'imbocco del budello, e si mise
a correre.
Tornato all'aria aperta, le gambe gli si
paralizzarono sotto. Rimase, così, fermo,
per qualche istante, mentre una massa di
confusi pensieri gli sconvolgeva la mente.
Il tremendo silenzio di morte che gli era
alle spalle gli parve dovesse raggiungere,
implacabile, anche lui. Il pensiero della
morte evocò per contrasto subito, nella sua
mente, quello della vita: a Balvano era la
vita, qui alla galleria delle Armi, la morte;
doveva raggiungere al più presto Balvano.
Michele Palo riuscì a scuotersi dal torpore
che lo aveva come irrigidito. Emise un
terribile grido, e si precipitò, seguendo i
binari, verso Balvano.
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Nel 1944, Michele Palo era ancora
giovane: dalla galleria delle Armi, non
doveva percorrere, per raggiungere
Balvano, più di quattro chilometri e per di
più in discesa. In meno di un'ora di marcia,
a buon passo, la cosa è possibile. Invece, di
ore egli ne impiegò due: pure, gli parve di
correre, di volare. È chiaro che il povero
frenatore doveva essere tanto sconvolto,
quasi privo di sensi, che credeva di correre,
ed invece si trascinava. Esausto, con gli
abiti a brandelli (non capì mai come avesse
potuto lacerarseli), alle tre del 3 marzo
1944 Michele Palo vide finalmente, uscito
che fu dalla prima galleria, quella che dista
un duecento metri da Balvano, le luci della
stazione. Come attraverso un'ombra, i suoi
occhi videro che sul binario stava, sotto
pressione, una locomotiva; capì che a
Balvano avevano saputo, se non proprio del
disastro, qualcosa. Percorse gli ultimi metri
carponi, con una stanchezza nelle membra
quale mai aveva avvertito; quando giunse
vicino a Vincenzo Biondi e ad Angelo
Caponegro, non ebbe la forza di
pronunciare una frase compiuta. Tremava,
emetteva suoni sconnessi dalle labbra.
«Che è successo, che è stato?» gli
gridarono l'operaio e il manovale. Prima di
venir meno Michele Palo riuscì a proferire:
«Là, là, sono tutti morti, tutti morti». Poi,
cadde sul marciapiede mentre l'eco delle
sue parole giungeva all'orecchio del
capostazione Vincenzo Maglio e del vice
capostazione Giuseppe Colonia.
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Terza puntata - 25 marzo 1956, pagine
37-41
IN PUNTA DI PIEDI I FERROVIERI
SI AVVICINARONO AL TRENO DEI
MORTI
* Nessuno si preoccupò del ritardo: in
quei tempi accadeva spesso che per
percorrere
sette
chilometri
fossero
necessarie più di due ore
* Cosa succedeva nelle stazioni di
partenza e di arrivo mentre 521 persone
morivano sotto la galleria delle Armi
* Il «merci» fu raggiunto alle quattro del
mattino, tre ore dopo la sua partenza da
Balvano. Del gas omicida non rimaneva
alcuna traccia
* Soltanto sull'ultimo vagone, fermo a
metà fuori della galleria, qualche
viaggiatore respirava ancora. Il resto del
treno era immerso nel silenzio
* Abbiamo potuto rintracciare due
superstiti. Uno ha perso la ragione, l'altro,
da allora, ha i capelli bianchi.
Domenico Miele è uno dei superstiti.
Deve la vita alla sciarpa di lana, che porta
sempre al collo, come un portafortuna. E'
un giovane: nella notte della tragedia i suoi
capelli incanutirono.
Che cosa accadeva nelle stazioni di
Balvano-Ricigliano e di Bella-Muro mentre
il merci 8017 era fermo sotto la galleria
delle Armi, dove il monossido di carbonio
sprigionato dal carbone iugoslavo stava
asfissiando quasi tutti i viaggiatori che
avevano preso irregolarmente posto nel
convoglio?
Alle 0,50 del 3 marzo del 1944, subito
dopo la sua partenza, il telegrafista della
stazione di Balvano trasmise a Bella-Muro
il regolamentare avviso di «partito»
relativo al treno 8017. Esso avrebbe dovuto
giungere a Bella-Muro al più tardi in una
mezz'ora: non vi giunse, abbiamo già visto
perché. Nonostante questo fatto, Bella-
Muro non entrò in allarme; e nemmeno
entrò in allarme la stazione di Balvano, che
non ebbe da Bella-Muro il segnale di
«giunto».
Un giornale che, nel 1951, fece una
breve cronaca del disastro scrisse che
questo fu, in un certo senso, l'aspetto più
fosco ed inspiegabile della sciagura; e
asserì che il personale delle due stazioni
non si preoccupò di chiedere in qualche
modo notizia del «convoglio fantasma». Un
fatto gravissimo, secondo quel giornale. E
davvero lo sarebbe, se non ci fosse una
qualche spiegazione della cosa; davvero il
fatto getterebbe una luce sinistra sui
ferrovieri delle due stazioni, i quali
avrebbero
preferito
andarsene
tranquillamente a riposare, senza pensare,
dato il grave ritardo, alla possibilità di un
disastro.
Ma in realtà, come ricordammo nella
prima
puntata
di
questa
nostra
rievocazione, dodici anni fa, nell'Italia
meridionale, i treni partivano forse in
orario, ma per la strada perdevano di vista
questo orario, e accumulavano ritardi
assolutamente incredibili.
Come risultò durante il procedimento
giudiziario che seguì la tristissima vicenda,
il tratto Balvano-Bella-Muro, benché la
distanza fra le due stazioni fosse solo di
sette chilometri, veniva compiuto talvolta,
dai treni che lo percorrevano, anche in 120
minuti.
Questo è un dato di fatto che può
spiegare l'apparente disinteresse dei
funzionari delle due stazioni, un
disinteresse che solo per un caso assunse,
più tardi, l'aspetto di una trascuratezza
colpevole.
A Balvano, la notte fra il 2 e il 3 marzo
1944, il capostazione titolare Vincenzo
Maglio, dopo aver dato il segnale di
partenza al merci 8017, se ne andò a casa a
dormire, nella massima tranquillità di
S. Argenziano. Balvano 1943. 02-Il Disastro dell’8017
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spirito. Non v'era motivo perché fosse
turbato; non ebbe nessuna premonizione.
Si accertò che il capostazione Giuseppe
Salonia sarebbe rimasto al suo posto, per
assicurare il regolare svolgimento del
servizio; salutò tutti, e se ne andò a casa.
Il capostazione Salonia si sedette dietro
la sua scrivania, e si mise ad attendere: da
Battipaglia doveva giungere, alle 2,40, un
altro treno diretto a Potenza; egli doveva
aspettarne l'arrivo, e «istradarlo». L'8025
giunse stranamente in orario.
E fu allora che, dovendolo avviare,
Giuseppe Salonia incominciò a pensare che
bisognava sapere qualcosa circa l'eccessivo
ritardo del merci 8017; infatti, essendo la
linea Battipaglia-Potenza servita in quasi
tutto il suo percorso da un solo binario, non
poteva far partire l'8025 se non quando
avesse accertato che la linea era sgombra.
Quasi contemporaneamente, anche il
capostazione di Bella-Muro pensò le stesse
cose: perché potesse entrare in stazione il
treno 8025 occorreva che, prima di esso, il
merci 8017 continuasse la sua corsa.
Dopo aver atteso anche lui senza troppo
preoccuparsi fino alle 2,50 (da dieci minuti
l'8025 era giunto, intanto, a Balvano),
telefonò al collega Giuseppe Salonia.
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FINALMENTE
SI
DECIDE
DI ISPEZIONARE LA LINEA
Attualmente i due funzionari non lo
ricordano, perché i loro ricordi furono
sommersi dalla terribile realtà alla quale si
trovarono di fronte in seguito: ma forse, nel
corso di quella telefonata, mentre gli
occupanti dell'8017 erano già freddi
cadaveri, essi scherzarono sull'inefficienza
del materiale rotabile allora in funzione,
attribuendo il ritardo a qualche guasto. In
ogni caso, poiché del merci non si erano
avute notizie, si rendeva necessaria una
ispezione della linea, per vedere se, dove e
perché l'8017 si era fermato; perciò
Giuseppe Salonia disse al collega che
avrebbe provveduto lui ad un sopraluogo;
e, per effettuarlo, dette ordine ad Angelo
Caponegro e a Vincenzo Biondi,
rispettivamente manovale ed operaio di
prima classe, di staccare dal treno 8025,
giunto alle 0,40, la locomotiva, sulla quale
sarebbe salito per una ricognizione.
Poiché ancora non sapevano niente del
disastro, i ferrovieri di Balvano apparvero
più seccati che altro per il fatto che li
costringeva ad un lavoro straordinario
piuttosto noioso. Brontolando, essi
staccarono la locomotiva del treno 8025, e
si dettero alla ricerca di attrezzi e di
lanterne. Sulla locomotiva salì il
capostazione Salonia. Già la macchina
stava per avviarsi, e Angelo Caponegro e
Vincenzo Biondi si erano un po' scostati da
essa, sul marciapiede della stazione,
quando dall'ombra emerse, come una
specie di fantasma lacero, Michele Palo, il
frenatore della vettura di coda dell'8017, il
quale partito dalla galleria delle Armi a
piedi, verso l'una, aveva impiegato due ore
per giungere a Balvano. La sua apparizione
fece capire che qualcosa di drammatico era
avvenuto; le sue parole: «Là, là, sono tutti
morti!» lo confermarono.
Giuseppe
Salonia
scese
dalla
locomotiva. Con una freddezza della quale
lui stesso si stupì in seguito, prese in mano
la situazione; ordinò ad un guardasala di
svegliare il capostazione titolare Maglio, e
di recarsi subito dopo in paese (Balvano
dista tre chilometri dalla stazione) per
avvertire i carabinieri, il pretore ed il
sindaco ingegner Alessandro di Stasio, che
adesso vive a Potenza. Poi risalì sulla
locomotiva, mentre Angelo Caponegro e
Vincenzo Biondi si prodigavano per
soccorrere Michele Palo; e si avviò verso il
posto (che ancora non si sapeva quale
fosse) dove avrebbe dovuto trovare i morti
di cui il frenatore aveva parlato.
L'8017 stava fermo lì, all'imbocco della
galleria delle Armi, in un innaturale
silenzio. Dei suoi 47 vagoni, solo l'ultimo
era fermo a metà fuori dalla galleria; di
essi, 41 erano vuoti, perché chiusi con un
catenaccio
applicato
alle
serrande
scorrevoli; gli altri sei erano quelli in cui si
erano
ammucchiati
circa
seicento
passeggeri in un certo senso clandestini,
più un ufficiale e sette soldati autorizzati a
viaggiare sul merci.
Come scrivemmo in un'altra puntata,
quasi tutti i viaggiatori erano piccoli
borsaneristi che si recavano in Lucania per
rifornirsi di generi alimentari che poi
vendevano a Napoli. Ma c'era anche chi
non aveva niente a che fare con l'ambiguo
mondo dei piccoli trafficanti, tipico di quel
periodo. Molte persone le quali, per la loro
attività, dovevano forzatamente spostarsi
fra Potenza e i centri della Campania si
vedevano costrette a servirsi anch'esse di
qualsiasi mezzo pur di non trascurare i
propri
interessi.
Si
trattava
di
commercianti, di studenti, di professori, di
medici; tutta gente munita magari di
regolare biglietto, o anche di un
abbonamento settimanale, come ad
esempio il professor Vincenzo Iura,
S. Argenziano. Balvano 1943. 02-Il Disastro dell’8017
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dell'università di Bari. Il professor Iura si
trovava in un carro di cui divideva le
scomodità con novanta studenti della sua
facoltà, costretti, per recarsi a Bari dal
centro della Campania dove risiedevano, a
raggiungere la città presso la cui università
erano iscritti per la via di Potenza.
Il professor Vincenzo Iura, un noto
chirurgo, era con loro perché non aveva
voluto, durante quei difficili anni, benché
vivesse nella capitale della Puglia,
abbandonare il suo lavoro di consulente
dell'ospedale San Carlo di Potenza e
dell'ospedale Sant'Anna di Eboli. Alle
spalle di Vincenzo Iura era tutta una
carriera in cui l'attività scientifica si era
sposata ad un profondo senso di umanità.
Ad Eboli, dove ci siamo recati per
raccogliere qualche testimonianza, tutti lo
ricordano ancora con commozione. Le
suore dell'ospedale, i dottori Imperato,
Cassese e Paesano ricordano che il più
delle volte operava gratuitamente. Dopo
quel 3 marzo del 1944 l'università di Bari,
dov'era ordinario di patologia chirurgica e
di propedeutica clinica, promise ai suoi
familiari che egli sarebbe stato ricordato
con una lapide di marmo, lapide che sia
detto per inciso non fu eseguita.
Quando il capostazione Giuseppe
Salonia giunse, con la locomotiva
dell'8025, sul viadotto che precede di poche
centinaia di metri l'imbocco della galleria
delle Armi, erano le quattro circa del 3
marzo 1944. Una luce livida, quella
dell'alba grigiastra, incominciava a
rischiarare il paesaggio lunare, denso di
rocce e di cespugli che ancora l'ultima neve
screziava di bianco. L'ultimo vagone del
merci 8017 si intravedeva a stento. In punta
di piedi, religiosamente, Giuseppe Salonia,
il macchinista ed il fuochista della
macchina che li aveva portati sul luogo
della sciagura si avvicinarono al treno.
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IL
TRENO
RITORNA
A BALVANO CON I MORTI
A tre ore di distanza dal momento in cui
si era compiuto il tragico destino dei
viaggiatori dell'8017, nessuna traccia
rimaneva dell'accaduto. Il fumo saturo di
veleno che aveva ucciso 521 viaggiatori si
era ormai diradato. Giuseppe Salonia
ripeteva tra sé, in una specie di monotona
cantilena: «Ma è impossibile, ma è
impossibile». Come tre automi, lui, il
macchinista ed il fuochista sbloccarono i
freni del merci, lo agganciarono in coda
con la loro locomotiva, lo rimorchiarono
alla stazione di Balvano. Qui trovarono ad
attenderli il titolare Maglio, il pretore, il
sindaco ed i carabinieri. Qualcuno salì sui
carri gremiti di «abusivi»; nei primi cinque
giacevano morti compostamente, come se
ancora dormissero, tutti i loro occupanti;
nell'ultimo, il silenzio non era così
completo ed agghiacciante: i viaggiatori
stipati in esso erano rimasti fra la vita e la
morte; qualcuno aveva ceduto; i più,
invece, erano rimasti semiasfissiati, per la
benefica azione esercitata dall'aria pura che
si respirava all'ingresso della galleria delle
Armi. I morti vennero scaricati sui
marciapiedi della stazione di Balvano; i
vivi furono ammucchiati nella piccola sala
d'aspetto e nelle stanze degli uffici. Si tentò
in ogni modo di rianimare questi ultimi, ma
lo stato di stupefatto torpore nel quale si
trovavano non sparì che qualche ora più
tardi, quando grossi autocarri giunti da
Potenza li trasportarono nell'ospedale civile
di quella città. Coloro che sopravvissero al
disastro non riuscirono, negli anni seguenti,
a ricostruirlo nella loro memoria. Prima di
cadere in quella specie di torpore quasi
mortale, Luigi Cozzolino, un piccolo
trafficante di Resina, dovette accorgersi che
un suo figlioletto di otto anni, che
viaggiava con lui, era morto, perché lo
ritrovarono abbracciato al corpo esanime
del bambino. Forse, come tutti gli altri,
Luigi Cozzolino dormiva. Si svegliò
quando si sentì aggredire alla gola da un
sapore aspro; e vide che già suo figlio era
morto. In quell'attimo terribile, il suo
cervello si svuotò di ogni pensiero
ragionevole, e divenne preda di una
benigna follia. Lo rinvennero abbracciato al
bimbo, dimentico di tutto. Tornò a casa, a
Resina, e qui lo abbiamo rintracciato e
fotografato. È rimasto, di lui, un uomo
incapace di fare un discorso coerente; nei
suoi occhi è una pena inenarrabile, della
quale per fortuna lui stesso non si rende
conto.
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UNO CHE DEVE LA VITA
A UNA SCIARPA DI LANA
Abbiamo scritto, nella scorsa puntata,
che non eravamo riusciti a rintracciare
nessuno dei superstiti del disastro
ferroviario più impressionante del mondo;
dobbiamo modificare questa affermazione.
Infatti, abbiamo potuto vedere Luigi
Cozzolino; e dopo una lunga e difficile
indagine siamo anche entrati in contatto
con Domenico Miele, di Roccarainola.
Guardatene la fotografia, quella che lo
riproduce mentre, seduto al bordo del suo
campiello con quattro suoi conoscenti,
racconta quello che avvenne. Vedrete
l'immagine di un uomo anziano, dai capelli
bianchi, con una sciarpa alla gola e una
sigaretta fra le dita della mano sinistra. È
senz'altro, all'apparenza, il più vecchio dei
cinque individui ritratti. Invece, ha la stessa
età del giovane coi baffi che si trova alla
sua destra. I capelli bianchi di Domenico
Miele sono un ricordo del merci 8017. Egli
si recava sistematicamente, nel 1944, a
Potenza, dove comperava olio, che
rivendeva nei dintorni di Napoli. Avrebbe
dovuto morire, perché prese posto nel
quinto carro del merci 8017. Per un puro
caso, era però ben sveglio, quando il
monossido di carbonio si sparse all'interno
della galleria delle Armi. A Balvano scese
un momento dal vagone ed ebbe salva la
vita. La sciarpa che si è messa al collo
prima di essere fotografato, gli fu anche
d'aiuto. Appena il monossido di carbonio lo
aggredì, Domenico Miele si fasciò la bocca
con la sciarpa. Barcollando, col fiato
mozzo, scese dal suo vagone, e si diresse
verso l'uscita della galleria delle Armi.
Quando giunse all'ultimo carro, le forze gli
vennero meno. Sentì dei lamenti, e invece
di compiere altri pochi metri, e mettersi
definitivamente in salvo allo scoperto, salì
su quel carro, e cadde svenuto sui corpi
abbandonati di chi l'occupava. Quando si
riebbe, dopo qualche ora, gli capitò di
trovarsi, per ravviarsi nervosamente i
capelli, davanti ad uno specchio. Guardò
esterrefatto la sua immagine riflessa. I suoi
capelli erano diventati tutti bianchi come la
neve.
Anche lui venne deposto sui marciapiedi
della stazione di Balvano con gli altri
occupanti dell'8017. Mentre alcuni
autocarri si dirigevano velocemente verso
quella stazione, da Potenza, ferrovieri e
carabinieri effettuavano il macabro lavoro
di separare i morti dai vivi, e di identificare
tutti i colpiti. Nell'orgasmo con cui questa
operazione vene compiuta, non fu fatto
nemmeno un esatto calcolo numerico dei
viaggiatori dell'8017. Possiamo però
affermare, in contrasto con quanto sostiene
qualcuno, che i morti furono 521, dei quali
193 non identificati.
Era pieno mattino quando giunsero gli
autocarri da Potenza. Dopo le constatazioni
di rito, il pretore dispose per il
seppellimento dei morti. Il cimitero di
Balvano è piccolo; venne perciò scavata
una grande fossa comune, e qui furono
ammucchiati i cadaveri, sui quali fu gettato
uno strato di calce. Più tardi, per
l'intervento di qualche parente alcune salme
furono sistemate in una tomba a parte. Gli
scampati vennero avviati all'ospedale di
Potenza: ne furono dimessi dopo pochi
giorni.
Trascorse qualche anno. A un certo
momento, ci fu chi pensò di citar per i
danni le Ferrovie dello Stato. Un certo
numero di vedove, di orfani, di genitori
privati dei figli si rivolsero ad alcuni
avvocati napoletani; ed ebbe così inizio una
lunga vertenza giudiziaria, che non giunse
alla sua conclusione. Nel corso di essa, le
Ferrovie dello Stato sostennero che, dato
l'allora vigente regime di occupazione
militare da parte del governo alleato, e dato
il fatto che agli occupanti dell'8017 non
S. Argenziano. Balvano 1943. 02-Il Disastro dell’8017
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poteva essere riconosciuta la qualifica di
viaggiatori regolari, nessuna responsabilità
poteva
essere
addebitata
alla
amministrazione.
Il governo alleato aveva condotto intanto
un'inchiesta sull'accaduto, concludendola
con l'esclusione di ogni responsabilità da
parte del personale delle Ferrovie. I giudici
italiani, però, non espressero recisamente lo
stesso pensiero. Se era vero che i
viaggiatori dell'8017 erano tutti «abusivi»,
come la cosa poteva conciliarsi con
l'esibizione, da parte degli avvocati, di
alcuni biglietti rilasciati dal personale di
scorta al treno? D'altra parte, si affermò nel
corso della vertenza, non è vero che un
viaggiatore non possa assolutamente
prendere posto su un merci. Se la cosa
accade, egli deve pagare il biglietto ed una
penale, e scendere alla prima stazione. Però
può risalire sullo stesso merci, pagare
ancora un biglietto ed una penale, scendere
alla stazione seguente; e poi ancora risalire
e pagare biglietto e penale e così via fino
alla fine del viaggio. Non si può dire, però,
che la cosa si sia verificata sul «treno della
morte» di Balvano. Così come non si poté
provare che l'esercizio della linea NapoliPotenza era stato affidato alle Ferrovie
italiane il 15 febbraio del 1944. Una
circolare in tal senso venne diramata
effettivamente dal compartimento di
Napoli. Ma forse essa non era ancora
entrata in fase di esecuzione al tempo della
sciagura.
MOLTE
OMBRE
CHE
NON
SONO STATE DIRADATE
In sostanza, sul piano giudiziario il
disastro ferroviario di Balvano rimase
avvolto da alcune ombre, che non si son
potute diradare; perché, a un certo
momento, nella questione intervenne, con
un senso di umanità raro nella burocrazia, il
ministero del Tesoro, che propose di
risarcire le famiglie dei morti in base alla
legge sui danni di guerra. Il procedimento
giudiziario venne così sospeso. Ma la
burocrazia riscattò la sua precedente
benemerenza con il ritardo nelle
liquidazioni. Esse, infatti, non sono ancora
state versate a coloro i quali debbono
godere di questo beneficio, che è un fatto
materiale, non sufficiente in ogni caso a
compensare quel terribile fatto che è la
morte.
Intanto, il ministero dei Trasporti ha
ordinato, per la modernizzazione della linea
Battipaglia-Taranto, la costruzione di
venticinque locomotive Diesel di tipo
americano. Quando esse entreranno in
esercizio, disastri come quello che abbiamo
rievocato non ne potranno più accadere. È
da sperare che la loro immissione sulla
linea non preceda la liquidazione dei danni
alle famiglie delle vittime. Se così sarà, in
un certo senso potremo dire che la tragedia
di Balvano sarà finalmente un fatto
definitivamente compiuto.
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Giulio Frisoli
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Finirono di vivere tutti alla stessa ora e nello stesso buio
L'8017 fu rimorchiato fino a Balvano da una locomotiva di soccorso. I cadaveri furono
deposti sulla banchina della stazione e accanto ai binari.
Con gli autocarri arrivati da Potenza, le salme furono trasportate al cimitero di Balvano, che
dista tre chilometri dalla stazione, e subito sepolte.
I 521 morti dell'8017 furono sepolti in una fossa comune, che fu ricoperta di calce viva.
Soltanto più tardi, per desiderio dei parenti, alcune salme furono riesumate e sepolte più
decorosam
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