Testo della conferenza - in Cucina con Galileo
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Testo della conferenza - in Cucina con Galileo
Rare immagini di convivialità padovana quattrocentesca sono riferite nel manoscritto R 3550 conservato nella Ruskin Gallery di Sheffield, in Inghilterra, solo parzialmente edito. Il compilatore di questa ricca raccolta di ricette si definisce scrittore romano, al servizio di ser Arrigo da Stra, facoltoso commerciante di seta e tessuti di qualità, che aveva fissato la sua lussuosa dimora nel centrale quartiere di san Lorenzo. È il 25 marzo 1475, sabato santo. Per santificare il periodo di penitenza, viene servita in casa del celebre medico Girolamo Dalle Valli, abitante a Santa Sofia, una serie di piatti a base di pesce. Protagonista del convito è un famoso docente dello Studio patavino la cui fama rimbalzava sulle pareti affrescate della Cappella Ovetari, opera ora scomparsa di Andrea Mantegna. Secondo il Vasari, maestro Girolamo è raffigurato nel Martirio di San Cristoforo, assieme ad altri personaggi che in quegli anni emergono sulla scena cittadina: Nofri Strozzi, figlio di Palla, esule fiorentino, un certo vescovo d’Ungheria (Iano Pannonio?), Niccolò orefice del papa Innocenzo VIII ed altri personaggi raffigurati in armi, tra cui il pittore stesso. Il pesce servito alla cena, prevalentemente d’acqua dolce, è presente in poche varietà ritenute già allora di scarso pregio. Ad inizio pasto, dopo i dolci di rito, viene servita bottarga, seguita da fegatelli, un’interessante per quanto desueta trippa di trota, lucci accompagnati da una minestra somigliante ad un sapor bianco; seguono una frittura ben dorata con code di luccio, morelli di raina e luccio, anguille arrosto. Torta bianca, gelatina a due colori, frutta, giuncate (formaggelle fresche) inzuccherate e confetti chiudono il pranzo quaresimale. Di questa cucina colorata e saporita rimane nella tradizione padovana, perfettamente uguale a quella quattrocentesca, una ricetta per fare le tinche rovesciate. (RICETTA N.1) Ci piace immaginare seduto a questa tavola imbandita, onorato ospite, anche l’ormai celebre Magistro Andrea Mantegna che, guarda caso, proprio in quei giorni era presente in città per sbrigare alcune faccende private e che intratteneva con i sunnominati illustri ospiti buoni rapporti di lavoro, se non di amicizia. Nel Quattrocento, il banchetto iniziava con un antipasto in piedi a base di dolciumi, biscottelli alle mandorle, zenzero confetto offerto in scodellette, una ogni due convitati, dalle quali ci si serviva con forchettine individuali. I tavoli erano mobili, appoggiati su treppiedi facilmente rimovibili per permettere le danze finali, rivestiti da tappeti riccamente ricamati, coperti da due candide tovaglie dette mantili, con tovagliolo, posate e pane ordinatamente collocati per ciascun invitato. Una curiosità: la tavola veneta vede predisposte sulla tavola le bottiglie dell’acqua e del vino fin da subito, per il servizio diretto da parte dei commensali. A Padova, nel 1501, una cena lussuosa è organizzata secondo uno schema nordico, «ala todescha», con tre tavole quadrate apparecchiate elegantemente per 46 convitati, adorne di festoni e cornucopie agli angoli, addobbi che richiamano alla mente le cromatiche decorazioni ridondanti di frutti che Andrea Mantegna realizzava sulle sue tele qualche tempo prima proprio nel Veneto. Il servizio viene diretto dallo scalco, ufficiale di casa che sovrasta al perfetto svolgimento del convito; i piatti sono offerti agli ospiti da giovani scudieri appartenenti a nobili famiglie padovane (il livello sociale dei camerieri dipendeva ovviamente dall’importanza dell’ospite). Non mancavano, alla fine del Quattrocento, portate fatte per stupire e divertire i commensali. Già in uso nell’antichità, sopravvivono per tutto il Medioevo e anche oltre: il pavone rivestito, dopo la cottura, dalle sue colorate penne, con il becco fiammeggiante; alberi di pasta ai cui rami sono appese gabbiette di uccelli pronti a volare per le stanze una volta liberati. Nel manoscritto “padovano” il cuoco prevede delle frittelle contenenti uccelli vivi, disposte ad arte fra le altre in modo che il servitore possa presentarle a sua discrezione secondo un progetto ben definito. (RICETTA N.2) Nel XV secolo, una festa molto attesa dagli studenti era denominata “della prima neve” o “dei capponi”, per via del tributo in gallinacei che gli scolari dello Studio di Padova riscuotevano dai monasteri, dagli ebrei e dai professori per la loro annuale adunanza. Non se ne hanno notizie prima di tale secolo, ma successivamente all’offerta in natura venne sostituito un tributo in denaro. Nelle liste di pranzi offerti nella città del Santo si nota la presenza preponderante di volatili da cortile, uso alimentare che caratterizza da sempre la cucina padovana. (RICETTA N.3) Galli e galline di “razza padovana” sono segnalati per la loro grossezza dall’umanista Bartolomeo Sacchi detto Platina. Michele Savonarola, celebre medico padovano operante presso la corte estense, ricorda come, castrando sia galli sia galline, si ottengano ottimi capponi e “capponesse”. In suo approfondito testo dedicato alle carni, egli attribuisce ad Avicenna una vera golosità culinaria: «che migliore son quelle [galline] che se cuocino nel ventre del agnello e del cavretto rostito. Il perche se conserva la sua humida». Qualche tempo dopo, Isabella d’Este, dalla corte dei Gonzaga, richiedeva al suo corrispondente veneto di procurarle, assieme ad altre specialità gastronomiche una razza speciale di polli dal vistoso ciuffo, rintracciabile in un paese nelle vicinanze di Padova. Il diligentissimo servitore di corte, nella missiva di risposta comunicava: «...della semenza delle galline da Polverara, ho trovato un gallo e una galljna de questo anno (...) Vi sono delle mescollate; ma delle vere e nazùe de tal sorte se hanno con deffecultate».Gli incroci con altre specie rendeva fin da allora assai difficile il reperimento della razza pura che, si dice ma non è affatto dimostrato, sia stata importata dalla Polonia, nel Trecento, da Giovanni Dondi dall’Orologio. Andrea Mantegna, Ritratto di Ludovico Trevisan, patriarca di Aquileia. Il prelato è passato alla storia come Cardinal Lucullo, per la sue abitudini non certo morigerate. 26 settembre 1502. L’ignoto amanuense trascrive, affidandosi alla memoria, il rito dell’elezione, la solenne festa dell’investitura e la collatione offerta di un novello rettore dei giuristi. Per accedere a questo ruolo di rappresentante degli studenti assai ambito sia per gli emolumenti che produceva, sia per il prestigio che arrecava, l’aspirante rettore doveva possedere condizioni economiche di partenza molto solide, essere figlio di facoltosa e nobili famiglia, con legami politici importanti. Ecco una ricchissima lista di dolciumi, aggiunta alla fine del manoscritto, in cui si elencano sia piccoli semi ricoperti di uno strato di zucchero confetto, sia canditi; compaiono nebie storte, cialde arrotolate e inzuccherate, scalete, caliscioni e braciatelli indorati o inargentati, onnipresenti sulle tavole venete delle grandi occasioni. Il copista suggerisce un interessante accorgimento per evitare disordinati assembramenti attorno alle tavole imbandite (furti di costosi dolciumi e bacili preziosi erano all’ordine del giorno, anche da parte di ricchi patrizi!), consistente nel segnare con lettere dell’alfabeto le confettiere d’argento dalle quali gli invitati possono servirsi secondo un ordine precedentemente stabilito. RICETTA N.1 Una ricetta tradizionale della cucina padovana vede protagoniste le tinche rovesciate, similmente a quanto riportato nel manoscritto: « Per fare in un altro modo che se chiama tencha reversa, tolli la tencha grossa, e rassala molto bene como vole essere e poi sfendila per la schina e cava fora le interiora e rompi le spine de la e de qua poi tolli le ova de la tencha e qualche altro grasso de qualche pesse e queste erbe, poi metti del aglio che sia taiatto menutto menutto e metti poco de pepe e zaffarano e poco pocho de olio e se ai brugne o cerese metti ancora dentro e poi messita ogne cosa insieme e metti sopra questa tencha reversa che la pelle staga de dentro e poi cusila e ligala intorno con qualche spago poi mettila sopra la gratella e dali lo fuoco adasio e vole essere ben cotta poi fa una salamora con aceto olio e sale e pocho de vino cotto e quando tu la volti bagna con questo sapore» RICETTA N.2 Ecco un “pastello volativo” sicuramente presente anche nei banchetti quattrocenteschi padovani: «Fritole a modo di ballote con uselli vivi dentro. Fate la pasta di frittole ubaldine et mettivj piu farina a ziò siano piu dure et puoi tolli la forma rotonda piu grossa che mezo ovo de anatra et acconza el pastume intorno e frize. Et quando è cotti taglia per mezo col cortello sotile o con una setela di cavalo; e quando è per andare a tavola, in le dictte fritole metti dentro li oselli et serrale con uno legnetto picolino da uno canto; et questo basta a fare 4 o 6 per convito et mostra l’acto alli scudieri che tagliano, che fazano destramente toccando ora luno ora laltro che a ogne taiero sia uno usello che essa fuore, et governe quelle frittole et taglie delle altre et tucte voiano essere vuote dentro». RICETTA N.3 Ancor oggi un piatto della cucina locale, riproposto col favore del pubblico dai ristoratori come gallina “alla canavera”, vede protagonista la gallina cotta in una vescica di maiale con una canna utilizzata per lo sfiato, rivisitazione in chiave moderna di una ricetta medioevale di successo: «Per cocere una galina in una caraffa. Piglia una galina morta alla sera per la matina, poi spelala senza aqua calda che non rompi la pelle e poi levali fora le budella e da quello loco comenza a scorticare la pelle reversandola sopra del collo». La pelle viene riempita con carne sminuzzata, erbette odorifere, spezie. La gallina, ricompsta e cucita, si pone in piedi in una caraffa piena d’acqua salata «et serà cotta in termino de una hora». RICETTA N.4 Di Maestro Martino, celebre cuoco del patriarca di Aquileia Ludovico Trevisan si segnala la ricetta «Per fare mostarda rossa padovana. Piglia la senapa e falla pestare molto bene e piglia della uva passa e pestala etiamdio bene quanto piu puoi e habbi uno poco di pane bruscolato e uno pocho di sandali e della cannella e con uno pocho di agresto ho di aceto e sabba distempererai questa compositione e passerala perla stamigna». Claudio Benporat, Un testo inedito cinquecentesco di cucina e scalcheria veneta, «Appunti di Gastronomia», XXVII, Milano, Condeco, 1998. Marina Scopel, Panorami conviviali dello Studio di Padova, «Appunti di Gastronomia», LIII, Milano, Condeco, 2007.