Scritti_files/I Temi di Franco Francese 2011

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Scritti_files/I Temi di Franco Francese 2011
Restò così questa scorza
la vera mia sostanza;
il fuoco che non si smorza.
(Montale)
Finalmente con questa pubblicazione viene esaudita un’aspirazione non solo nostra, di noi
estimatori e collezionisti di Franco Francese e mia in particolare anche in qualità di esecutore
testamentario, ma pure dello stesso artista che negli ultimi anni aveva coltivato l’idea – con tante
promesse altrui non mantenute – di vedere riassunte e documentate in un catalogo esteso e
sistematico le opere più rappresentative di una ricerca di oltre sessant’anni. Invero, già nel 1976, nel
suo diario manifestava il desiderio di “realizzare una prima pubblicazione quasi antologica, ma in
ogni caso più vasta di quelle preesistenti”.
Una sintesi ragionata e allargata della sua febbrile tensione creativa quale pittura pensiero, mai
esornativa o di ornata scrittura, anzi di profonda, drammatica, a volte aspra espressività e di ardua
comprensione a prima vista.
Secondo Vittorio Sereni: “non è mai, o quasi mai, un artista gradevole. Spesso al primo contatto,
respinge. Ma subito dopo, abolendo ogni esca di piacevolezza, appassiona”1 per coinvolgerci con
una folta varietà iconografica.
E’ in questa bruciante e potente energia mai sopita che si manifesta l’arte di Francese, espressa da
una pittura di idee, di realtà e di immaginazione insieme quale scavo della vita e della condizione
umana tra memoria e verità, sensazione e stato d’animo, tra spazio mentale e spazio psicologicoevocativo con tutta la pulsione, l’emozione sensoria, la malinconica meditazione sul mistero
esistenziale spesso ammantata, secondo Tadini, da “austera angoscia”. Francese appartiene
all’eletta, ristretta schiera degli artisti che più si vedono più si amano, e più si osservano più si
scoprono nuovi valori.
Alla ricerca dell’artista milanese è inapplicabile una formula riassuntiva che lo cataloghi come
pittore realista o naturalista, espressionista, informale o con accenti astratti. E’ stato pure postcubista e in quanto a essere legato alla figurazione vale la sottile precisazione di Francese stesso
quando afferma che “pur non essendo un pittore strettamente figurativo, nel senso della descrizione,
tuttavia sono un pittore di figura. La presenza umana in un quadro mi emoziona subito”2.
Inapplicabile, perché il suo indagare pittorico risulta di là dalle rigide, schematiche classificazioni
strettamente stilistiche, spesso costrizioni in gabbie non chiaramente decifrate e peggio ancora
quando male interpretate.
Pittore di esigente solitudine per vocazione, e quindi per consapevole scelta, al fine di contemperare
le proprie inquietudini a cospetto dell’imperturbabilità del mondo e questo al crescere degli anni,
ma già avvertibile nella malcerta ebrietà adolescenziale.
Basta leggere le pagine del suo diario dal 1935 al 19963, un vero journal intime con una funzione di
diagramma psicologico e in certi passaggi di finestra dell’animo sin dai primi tempi e aduggiante
già d’allora il carattere, precocemente dotato ed esasperatamente sensibile, di non facile
comunicabilità con il circostante. Preleviamo un brano dell’amara solitaria esperienza di
diciassettenne, un po’ sognatore che si sentiva “solo come in un deserto”, ma già avvertito nel
comprendere che “il più acuto piacere spirituale è capire un’opera d’arte” per cui gli risultava
spontaneo riaffermare l’assunto morale di considerare la pratica d’arte come impegno assoluto di
vita.
1
V. Sereni, Catalogo mostra Galleria Toninelli Arte moderna, 1975, Milano
Dialogo di Francesco Porzio con Franco Francese, Catalogo mostra, 1991, Ferrara
3
F. Porzio, (a cura di), Diario intimo 1935-1995, 2002, Milano. Invero nel 1996 compila il 13 giugno l’ultima nota di
tono non artistico
2
1
Di questi anni giovanili fondamentale e intensa resta l’invariabile amicizia con Alfredo Chighine
più vecchio di sei anni, conosciuto alla scuola della Società Umanitaria di Milano nel 19324 e da lui
definito nel febbraio 1938, sempre nel diario, “l’amico dai sentimenti nobili sotto una scorza aspra”;
uno scambievole rapporto conservato nel tempo, seppur attenuato al mutare degli eventi.
Mezzanotte 31 dicembre 1937
Chi balla, chi canta, chi beve, chi fa l’amore: tutti si divertono. In mezzo agli altri non mi potrei
divertire lo stesso: oppresso da un senso di scontentezza, insoddisfazione, accidia. Non ho soldi e
compagni. Resto a casa a fare un esame di coscienza. Non ho ricordi, non trovo che vuoto fino ad
oggi, millenovecentotrentasette. Se esamino qual ero attraverso pensieri trascritti, sensazioni
disegnate e dai disegni riaffioranti, temo di dedurne la paura di essere incancrenito, rotto, sfatto;
di non aver più il mio temperamento e il mio spirito lucido. Non sento più la vita interiore che mi
reggeva nel grigiore quotidiano. La mia psiche è malata. Se paragono quel che ho fatto a quello
che potevo fare mi sento attanagliare dal rimorso per il tempo irrimediabilmente perduto, tempo
che ha misura della morte. Anche quest’anno tediose domeniche sognanti, sempre solo, di una
solitudine opprimente nel vuoto interiore. Non con i coetanei del quartiere perché nulla di ciò che
interessa a loro interessa a me; non con i compagni di scuola per fastidio della loro vuotezza;
precluso dai divertimenti di questi o di quelli perché non ho la loro disposizione. Eppoi ogni
persona mi è insopportabile perché con ognuna mi sento diverso, con nessuna posso mai avere
rapporti che implichino totalmente la mia personalità. Come posso avere amici?
Sono frasi giovanili fra le tante in un’età in cui sogni e speranze solitamente cullano altri propositi,
ma che nel pittore incapace di andare incontro alla vita secondo “i desideri di ogni sana
giovinezza”, incastonano i primi passi di una sussultoria incontentabilità e tensione che saranno così
per tutta l’esistenza; un’ insoddisfazione a volte angosciata e accentuata dalla sensibilità, magari
non apparente5, il cui arpeggio a volte persino eccessivo o spinoso, appariva mascherato dalla
chiusura esistenziale inclinata alla solitudine, all’inappartenenza e all’isolamento per sentirsi al
riparo della vacuità degli altri. Isolamento che è andato crescendo con gli anni anche se rotto da
partecipate ristrette amicizie. E tutto senza rimpianti e rimorsi, perché sorretto dal principio di
libertà quale essenza primaria anche nei disbrighi dell’arte, memore forse dell’assioma leonardiano
che “se tu sarai solo sarai tutto tuo”.
Uomo colto, con una visio intellectualis in cui fervore del carattere e passione del ragionamento si
accompagneranno con rigore e concentrazione nel lungo tragitto artistico. E tutto questo con
implacabile coerenza alla propria ispirata creatività, senza cedimenti per rimanere indipendente e
lontano da nomadismi e trasmigrazioni tanto per essere “à la mode”: aggiornato ai fermenti della
modernità sì, con certezza, ma estraneo alle onde dei mutamenti del gusto e delle mode.
Confermanti risultano le parole di Dante Isella, uno degli amici letterati di Francese, quando nella
presentazione di una mostra del 1982 sottoscriveva che all’arte del pittore milanese “una giovane
generazione di pittori lombardi guarda ormai come a uno schivo e solitario caposcuola”, la cui
presenza è stata effettivamente un riferimento culturale che ha attraversato il gruppo del cosiddetto
Realismo esistenziale di Guerreschi, Vaglieri, Ferroni e sodali.
4
Si veda T. Gipponi, Morire sconosciuto e misero. Il carteggio Chighine-Francese, 2005, Milano
A questo proposito è coinvolgente rileggere la lirica pagina del 6 dicembre 1963: “Eppure cos’era quello struggente
rimpianto nelle sale all’ultimo piano di Villa Reale, lo scorso autunno – il poco oro del tramonto tra le cime indaco e
verde cupo dei grandi alberi e, a quella luce, le pareti: i Ranzoni, il ritratto bianco-azzurro chiaro di una giovane (una
istitutrice inglese di Intra?) la saletta di Medardo Rosso già immersa nell’ombra e – piccoli, dall’alto – i cigni natanti
nella bianca nebbia del grande parco? Come si può soffrire tanta nostalgia per tempi già trascorsi al mio nascere? Per
quali nessi quel tempo ci appartiene? Che cosa di quel tempo in noi si è perduto?”
5
2
Disegnatore precocissimo sin dagli albori, da vero ‘enfant prodige’ – che poi sarà uno dei “motivi”
dei tanti suoi studi o cicli – attestato già nel 1932 con un sorprendente disegno “Ritratto di
bambino” (un autoritrattino dodicenne) per il quale Giovanni Testori scriveva che “c’è da
trasecolare. Il disegno mostra, infatti, l’autorità di un’opera pienissimamente matura”6. Notevole
sarà la serie di “autoritratti” (due sono alla Galleria degli Uffizi) non solo del periodo giovanile, ma
come spunto di lunga durata auto raffigurativa, dai “memento mori” della Vanitas alle molteplici
presenze nei vari temi.
Autore di un notevole corpus grafico che lo denota fra i grandi in assoluto del secolo passato,
Francese nel suo apprendistato artistico anteguerra presenta disegni di paesaggi, figure e ritratti con
stupori sognanti e utilizzo di tecniche diverse come sarà in seguito, magari sullo stesso foglio
(grafite, sanguigna, inchiostro di china, contè, bistro, matita grassa, pastelli, carboncino, acquerello;
la tempera verrà più tardi) con fermenti in parte riferibili alla trasognata freschezza del
negligentemente dimenticato Angelo Del Bon, suo insegnante al liceo artistico di Brera dove poi
frequenterà l’Accademia e il corso di scultura con Manzù per cambiare verso l’ultimo anno in
quello di Decorazione ottenendone l’attestato di licenza il 15 ottobre 1950. Per altri aspetti
influenzato più ancora da vari rimandi e prestiti metabolizzati quali fonti ispirative e con un
fuggevole sguardo alla fissità della “Nuova oggettività” o incantamento di realismo magico. Dal
marzo 1940 militare a Roma e dintorni (Gaeta e Civitavecchia) fino al settembre del 1943, e nella
precarietà del momento, tra i vincoli duri del quotidiano, da “rifugiato” a Pizzarosto, frazione di
Palestro confine della provincia di Pavia con il vercellese e terra dei suoi avi, concepisce fino al
1945 e in parte 1946 un’originale serie di straordinari disegni di fantasia allucinata, animata da
sentimento romantico e da un’atmosfera serotina, densa, di notturno lucore, con il risultato che la
poesia non abita solo la luce, ma anche l’ombra, il crepuscolo, l’oscurità, e che spesso la misteriosa
verità delle immagini nasce nell’ombra.
Immagini anche grottesche, allusive e ironiche salde nella loro fantastica visionarietà e con
accostamenti a volta a volta all’amato mondo goyesco (dalle sue pagine nel 1942 si proponeva di
copiare le incisioni di Goya e le allarmate mitologie del suo immaginario come già aveva fatto
Delacroix) e a Daumier, Rouault e fugacemente a Ensor.
Come dice Mario De Micheli, il primo critico ad avviare l’attenzione su Francese: “Oggi,
guardando i suoi disegni di allora, non si può fare a meno di riconoscerne la singolare plasticità, la
dolcezza e il vigore, e quella severa persuasione che nasce dalla loro intensa tristezza meditativa. Di
quella ormai lontana e precaria stagione italiana, essi appaiono rari esempi di autonomia e
autenticità espressiva”.7
Di questi fogli vestiti di tempo affiora l’angolo privato, la parte più segreta come pagine di
un’autobiografia, “il diario della mano umana” direbbe Henri Focillon, di immagini esistenziali di
solitudine nella quale, al pari di Foscolo, “cercare la virtù”; un’autobiografia venata di suggestioni
rivelatrici di preoccupato sgomento cui non è mai sottratta una vena di memoria malinconica e che
traduce tutto in prove di assoluto valore. E’ l’inizio di una lunga cantata elegiaca, da intendersi non
di flebile sentimento, per dire sentimentalismo, ma temperata di sentimento virile, di eccitamento
psichico coscienziale.
Dell’inizio 1947 sono i disegni per le illustrazioni di “Delitto e castigo” di Dostoevskij, prove di
autonomia espressiva e formale per le edizioni Einaudi e “Della tirannide” di Alfieri, oltre alla serie
di dieci acqueforti per il “Testamento” e le “Ballate argotiche” di François Villon. L’anno
precedente aveva affrontato un soggetto religioso con gli acquerelli-inchiostro di “Crocifissione
nella camera” e “Crocifisso nella stanza” già idealmente anticipati nel 1942 con le Crocifissioni.
Dopo, nelle speranze e nelle illusioni del dopoguerra, il suo operare, di là da qualche fugace
riferimento matissiano o ad approssimazioni più a Léger che a Braque, si concentra sulle
esercitazioni grammaticali della sintassi neocubista per approfondire in special modo quella
6
G. Testori, Francese. Disegni giovanili, 1983, Milano
M. De Micheli, Disegni tempere acquerelli pastelli di Franco Francese 1939-1968, edizione della galleria Bergamini,
1969, Milano
7
3
picassiana di tagliente sintesi tra geometria e figurazione, però senza mai sconquassare la forma
(“l’esatta forma” era una sua definizione), attento come è sempre stato il pittore milanese a
controllarla nella razionale organizzazione dello spazio. Anche per questo ha voluto conservare
lungo tutto il percorso l’indagine sulla figura umana quale punto innato e modalità insopprimibile
del suo incessante operare, come dal diario del 14 febbraio 1963: “sono attualmente il pittore
italiano che ha condotto la più perseverante indagine sulla figura umana” e, soggiungiamo, senza
vanagloria, ma per semplice costatazione di fatto e tanta ragione per questa perseveranza sorretta
primariamente dalla padronanza del disegno. Disegno: stimolo linguistico non solo preliminare o
“primo fuoco” della sua indagine immaginativa, ma autonomo e anche susseguente ad ogni
applicazione: incisivo, con un segno sintetico e umanizzato, interiormente sovrano per dare ordine
alla forma come irrinunciabile essenza del linguaggio8. Del resto l’identico convincimento era
ribadito da Testori che “in effetti non è dalla parte della pittura che bisognava e bisogna misurare
l’arte di Francese; bensì dalla parte del disegno, anche per capire la forza del Francese pittore; che
resta sempre in primissima istanza e nelle turbolenze proprie e dei suoi contemporanei,
‘disegnatore’: e tra i massimi di questi decenni”9 (questo però senza voler sopraffare la pittura o
quantomeno volerla giudicare secondaria o riduttivamente un epifenomeno rispetto alla naturale
capacità disegnativa che rimane invece costante ancella quando dal 1948 l’artista si dedicherà con
convinzione e assiduità alla pittura). Abbandonato poi il catechismo picassiano ormai senza
necessità e per di più declinato in un formulario di diffuso accademismo, dal 1950 al 1956 inoltrato
interviene una nuova pagina con il realismo, un robusto realismo suggerito dalla vita e già per brevi
cenni pensato dal 1949 con motivi quali: torello sul prato, mucche, donna sull’erba, due bevitori
all’osteria, oltre ad aspetti campestri come temporale sulla siepe, uccello fra i rami o nel cespuglio,
uccello nel bosco d’autunno. Un realismo non impegnato nel propagandistico credo politico
ideologico del realismo socialista populista o denunciatorio, concepito pertanto nella sua
illustrazione come unico strumento di comunicazione di massa, ma di tipo diverso che Francese
definiva “naturalismo campagnolo” o “contadino” e questo senza l’obbligatorietà di una nuova
formulazione stilistica, ma solo per una precisa distanza i cui contorni si configurano negli aspri
umori del mondo agreste, rurale, vissuto come esperienza e partecipata solidarietà. Una stagione di
felice, alta ed energica vitalità ideativa, di figurazioni plasticamente vigorose con immagini solide,
imponenti, dilatate nella forma e un’ impostazione di iniziale ammiccamento a Constant Permeke,
da lui scoperto alla Biennale di Venezia del 1952, oppure, per certe letture, al dolente
espressionismo realistico di Käthe Kollwitz, senza tuttavia concedere nulla alla gradevolezza o
all’indugio formalistico per ripetere cose già nominate quali imitazione o esercitazione
intellettualistica di stili e modelli altrui senza creare un gusto. Un realismo portato invece a
esprimere le ragioni e i valori fondamentali della vita umana perché, parole di Francese del 1943,
“si parte dalla realtà, da qualcosa che viene dalla vita e non dagli stili”. Un mondo quindi permeato
dalla fisica disposizione alla fatica (dei contadini e dei piccoli proprietari), alla sua sfinitezza nella
siesta dei mietitori o dei braccianti di sera o a riposo, e tutto legato all’epos di queste vicende di
natura, di rustica ambientazione bucolica e con la circostante presenza animale (gallo e gallina,
cani, cavalli o puledri, lotta di galli, gatti, vitelli che saltano o accoccolati, mucche aggiogate).
Calzante a proposito è una frase dal diario del dicembre del 1954: “Io per altro verso ho cercato di
approfondire l’indagine della realtà senza oscillazioni, intendendo per realtà tutta l’esistenza fisica,
sociale dell’uomo nel suo svolgersi cercando di cogliere, di questo svolgersi, le massime
8
Interessante è un’annotazione di poetica di Francese a questo proposito sugli “studi”, così concepiti principalmente
quali disegni, frammisti ad altre tecniche e con la dichiarata voluttà di intervenire spesso sullo stesso foglio in vari
modi “massacrandolo” (parola sua). Studi che “non necessariamente precedono il quadro, spesso neppure lo
suppongono … o restano a sé stanti … Talvolta gli studi affiancano la condotta del quadro o ne segnano l’interruzione
per un’improvvisa variante – cromatica o compositiva - come la tempera per “Notte d’amore”. Tal altra sono stati
eseguiti a quadro ultimato; quando non costituiscono addirittura delle prove – a ciclo ormai concluso e a distanza di
anni – sullo stimolo di improvvisi ritorni d’immagine o di quel particolare sentimento che la precede” (Francese, Studi
1945-1975, edizioni Bambaia, Busto Arsizio, 1976)
9
G. Testori, op. cit.
4
componenti e di esprimerle”. A questo momento creativo, cadute le stelle delle illusioni – il 1956 è
l’anno dei fatti politici d’Ungheria, ma Francese ha già abbandonato il partito comunista cui si era
iscritto a Novara nel 1948 – e avendo considerato storicamente inattuabile per errore di prospettiva
e quindi improponibile l’orientamento verso il muralismo visionario realista alla Orozco, il pittore
sposta la sua ricerca dalla campagna verso i temi della vita e della grande città, non prima di avere
attraversato un rallentamento depressivo, una pausa paralizzata da dubbi, da incertezze e
irresolutezze lavorative (“balbettamenti” li chiamava) e con una crescente tendenza a sempre più
isolarsi (“gran parte di quello che ho fatto mi sembra sbagliato”, diario 23 aprile 1957). E’ solo con
il 1958 e soprattutto nel 1959 che inizia l’annus surgens, la piena stagione di un nuovo sviluppo
linguistico concentrato su un’indagine più complessa, arricchita da una spinta immaginativa che è
tema e soggetto stesso di una nuova raffigurazione, di un modo diverso di sentire e di rappresentare
il senso di un accadimento, un suo presentimento e questo attraverso l’intenso lirismo emozionale di
un movimento psichico interiore, con la risonanza dell’io e delle sue pulsioni. In sintesi la
conoscenza della realtà nel suo svolgimento viene filtrata dalla coscienza che affiora con
complessità e rivelazione di sentimenti, passioni e stati psichici in varie stratificazioni e associazioni
in divenire, secondo Francese quale “mitologia personale del profondo”, ed in questo senso risulta
emblematica una frase da lui spesso ripetuta: “io nuoto sott’acqua”.
E’ l’avvio dei cicli, dell’assunzione e sviluppo dei nuclei tematici per un verso già affrontati nel
precedente periodo realista di narrazione epico-campagnola dipinti nel granaio-studio di Pizzarosto,
seppur concepiti in modo meno organico, più frammentario, quali Veglia nella stalla dal 1954: un
antro, o meglio un luogo raccolto di umanità e animalità insieme, una comunanza nella luce di un
mondo oggi scomparso; Gioia di vivere con il pretesto emotivo esaltato dall’osservazione di un
vitello “liberato dalla stalla per l’abbeverata che salta nel sole sull’aia. Lo disegno cercando di
esprimere l’ebbrezza d’aria e di sole, la gioia di vivere appunto” (più tardi, ancora nel 1964,
accennerà al soggetto con qualche richiamo); Prima che il gallo canti o Quando il gallo canta del
1951; Piccoli proprietari, rappresentati dal 1951 al 1956 nei tipici gesti lavorativi, scrutati nella
posa dei tanti momenti della giornata di fatica (Siesta dei mietitori), o all’imbrunire, al rientro dal
lavoro e con un indugio sulla loro spossatezza serale (Bracciante che dorme o di sera); Ragazza in
bicicletta del 1950 e Bambina alla finestra del 1953 (inizialmente preso in considerazione quale
particolare dello studio per Gioia di vivere) oppure d’intimità domestica come Famiglia a letto del
1954; o d’ambiente familiare per Maternità del 1956 e Donna che si spoglia e bambina (Elide e
Erica) dal 1957 al 1958, anno per qualche paesaggio quale il Campo di grano. Anche Ferie
d’agosto iniziato con disegni nell’agosto 1955 (e sorprendentemente riaccennato dieci anni dopo in
uno schizzo), periodo dei Doppi ritratti: ferie per dire bagnanti in varie pose, ovvero contadini e
lavoratori al sole sul greto del fiume, per lavarsi verso sera, o bagnanti della domenica con il
paesaggio urbano nel fondo e le figure non più dislocate in primo piano. In queste opere, e in parte
anche dopo, viene esaltato l’espressionismo della figurazione (non scordando la disposizione verso
la matrice tedesca alla Beckmann, un pittore a lungo osservato da Francese) con smangiamenti della
forma nella foga ispessita dalla accalcata scena di una dimessa e un po’ stracciata umanità.
Il 1952 è l’anno della sua prima partecipazione alla Biennale di Venezia con due disegni a
carboncino, Testa di donna del 1948 e Falciatore del 1951 e antecedentemente nel 1948 a Bologna
alla selezionata “Prima mostra nazionale d’arte contemporanea”, giovane di ventotto anni tra
quarantuno artisti fra pittori e scultori invitati.
I nuovi cicli pittorici quindi, da indagatore della dimensione esistenziale, degli stati d’animo con
tutte le segrete immaginazioni condensate in varie tematiche per una pittura di eco più evocativo
che descrittivo, ma mai illustrativa, come dal fermo proposito dell’artista.
Un’incontentabile invenzione nell’andirivieni delle stasi e delle riprese e nell’iterazione quale
ripetizione differente del tema in una mai assopita spinta fabbrile carica di nuovi slanci e di apporti
intellettuali e psichici, di misteriosi sovrasensi, di suggestioni, di “altro da sé” e di molteplici
risonanze autobiografiche. Un’invenzione lontana dalla sbocconcellatura aneddotica, dalla vaghezza
consolatoria, ma con dichiarato rifiuto dello stilismo e della grazia estetica. In sintesi la pittura
5
come profondità e non pittura di facile bellezza, piacevolezza o eleganza; certamente non
contemplativa, ma più mentale, di idee, e questo come proponimento sin da giovane.
Ponendosi nel maggio 1960 l’interrogativo su cos’è la pittura, Francese si dava una concisa risposta
precisando il “tentativo di rendere fisicamente visibile le relazioni del mondo psichico con il reale”
e poco prima, sempre dal diario “l’arte non è altro che una verifica emozionale della realtà, di tutte
le realtà, di ciò che avviene, si teme, si sogna”. Per lui “la concrezione di associazioni emotive
attorno a un nucleo” che nella loro forma spesso ritornante (Melanconia del Dürer, Elegia per
Kronstadt e quasi ossessivamente in Imbarco e Atelier) rappresentano l’ininterrotta meditazione
sulla sorte dell’uomo e sulla sua verità o destino nell’attraversamento della disarmonia del
quotidiano e delle inquietudini e angustie che chiedono udienza alla vita, ben sapendo che tante
domande non restituiscono adeguate risposte.
Tornano allora incisive le parole di Nietzsche: “se si possiede il proprio ‘perché’ della vita allora si
va d’accordo con quasi ogni ‘come’. L’uomo non anela alla felicità”. Assunto questo che rinvia alle
sofferte frasi di diciannovenne invaso dalla tetraggine tanto da sentirsi “un sognatore spaventato
dalla realtà … con l’abitudine di ritirarmi nel mio guscio di silenzio e solitudine” e ribadire più
avanti, nel 1962, che “la mia vita è un’alternativa tra tristezza e collera, malinconia e furore”.
Si è già accennato ai temi e alla loro apparente letterarietà, quasi una raffinata ostinatezza nel
definire liricamente la titolazione. Non bisogna però fraintenderla quale illustrazione o quantomeno
considerarla in funzione meramente letteraria. Sono invece titoli suggestivi da valutare
appropriatamente quali riassunti di cultura dato l’incontro attivo sin da ragazzo con la lettura seppur
altalenante di testi impegnativi e perciò in possesso di un notevole retroterra letterario. Restano
invece nuclei o eventi di tensione morale e di fertile immaginazione attorno a un fatto di vita, di
natura e storia10: liberi dall’insidia di un vacuo citazionismo fine a se stesso. Pertanto formulazione
letteraria sì, ma mai oltrepassante o prevalente sul testo pittorico, sull’affabulazione privata
costantemente costruita per una pittura che si sposta dalle sensazioni alle idee e priva di
compiacimento a conferma che la pittura ha “la possibilità di afferrare le immagini nella dimensione
del loro apparire senza rimandi a sensi letterari” (diario, 3 settembre 1962). E a questo proposito
sottolineava nel marzo 1966: “i titoli li metto perché si possano reperire-indicare verbalmente le
opere; ma si potrebbero indicare i quadri con le lettere e i numeri, come per le pièce musicali”.
Pittore dal tono umbratile, di corruschi baluginii e di cupa, calda intensità, a volte di impervia
accoglienza. Così, ripetiamo, è Franco Francese con la sua arte. Infatti quanta aria notturna,
evocativa e in alcuni temi ricca di sensualità e atmosfera sonora affiora dall’empito percettivo ed
emotivo delle notti, o dalle approssimazioni rothkiane delle Finestre di sera del 1958 eseguite a
Novara, allora luogo di residenza; dalle crepuscolari campagnole Falci alla finestra iniziate nel
1953; dal canto labile e incerto delle albe in città, o dalle brune solitudini nelle diverse malinconie,
dai sonni interrotti o d’inverno, dagli ossimorici soli notturni, dalla vanitas autorappresentativa con
teschio e fiori oppure dalle apparizioni nelle citazioni dell’universo-labirinto degli atelier, così come
nei ritratti in penombra della compagna Elide, assidua ispiratrice e modella celebrata in numerose
pose cui riserverà nel 1981, l’anno dopo la sua morte, uno straziato, affettuoso ricordo scritto per la
mostra a lei dedicata. “Con Elide”: dolente ricostruzione di un passato insieme, con un cantabile
spezzato, asintattico di nostalgica liricità da autentico scrittore, con lo scatto di irrevocabili,
definitorie parole e con la memoria convertita in voce.
Venivi da Novara per l’ammissione al corso di scultura di Marino Marini. La prima giovinezza
perduta … Io avevo ventisette anni - ero superstite - dal ’40 - dal tedio della guerra - dalla
clandestinità – dall’indigenza …Fino alla fine – non te l’ho mai detto – era sempre un sussulto
10
Infatti nei vari conversari quante volte a proposito della dialettica natura e storia ho sentito Francese argomentare con
una considerazione di fondo sulla pittura sostenendo che la stessa nasce tra natura e storia, emerge cioè dai dati della
natura per dire dalle “cose” e da tutto ciò che entra quale stimolo sensorio nella percezione visiva. Dalla natura e
dall’arte che invece precede la prima con le suggestioni o meglio le forme stilistiche consegnate all’archivio della
memoria che è memoria del tempo fattasi storia.
6
incontrarti per strada – eretta come un giunco – chiusa nel velo del tuo sorriso come un enigma –
con quel passo regale che ha attraversato tutta la mia vita.
Sono tanti i temi più che i soggetti di questa mitologia, di questo racconto personale nella lunga
durata, e soprattutto figure a rappresentare un evento, magari “un evento soggettivo, ma pur sempre
qualcosa che avviene … Non sono eventi descrittivi, naturalmente, e anche la materia pittorica si
trasforma, è in continuo divenire. Nel quadro l’immagine non c’è: diviene”11.
Ne risulta infatti un’adesione al movimento interiore, vincolo e rispecchiamento rivelatore di
immagine e di vita, di un circostante cadenzato tra sussulti e pensiero, riflessione e cultura per
interrogare l’esperienza, gli urti e l’inerzia quotidiana e la sua incomunicabilità e per meditare sul
sentimento del tempo, del tempo sospeso e interno alle cose con l’accumulo degli accadimenti che
tornano e si ripetono.
Riepiloghiamo allora la poetica di questi temi talvolta “oscuri”, per dire emblematici a prima vista,
a volte pure indecifrabili, ma portatori di una propria luce riflessiva e spesso ammantati da aura
notturna, di malinconiche penombre, così come di accensioni risonanti di sensualità. Ed è lo stesso
artista a ricordarlo nel suo diario già all’inizio del 1942: “Le passioni umane, le forze morali si
esprimono in pittura mediante la vicenda drammatica della luce e dell’ombra. La luce e l’ombra
immergono le cose in un’atmosfera di umano calore”. Riassumiamo sinteticamente i temi o cicli
cercando di non indulgere in devianti insistenze descrittive o di vacuo dettaglio che la pittura di
Francese non esige, che anzi rifiuta poiché è la pittura stessa che non ha niente da dimostrare, ma
solo da mostrare, e in questo senso è l’immagine a farsi capire spiegandosi da sola, talvolta con
difficoltà, però senza bisogno di vaganti interpretazioni o, peggio, di accalorate sovra
interpretazioni o generalizzazioni. Convincente per la poetica è l’argomentazione dell’artista in una
lettera da Novara del 10 gennaio 1959 a Marcello Venturoli: “Per quel che mi riguarda nei miei
quadri c’è sempre un tema, ci sono sempre delle figure (non oggetti, fiori, nature morte o segni
autonomi, ma figure). Potrei anzi dire di non aver mai fatto altro che figure. E, forse, i costanti
‘motivi’ del mio lavoro si affermano con maggior forza quanto più si attenua il ricorso letterarioillustrativo. Per tema non intendo narrazione figurata, ma un nodo di relazioni psichico-emotive
connesse all’esperienza oggettiva del mondo, come natura e come storia”12.
Cinemascope
Spunto ideato nel 1955 e affrontato nel 1957 come “Cinema” e più tardi, con un sottotitolo come
“Minaccia”; proseguito con maggiore convinzione fino al 1963. Rovello compositivo per le
soluzioni prospettico-spaziali per tutto il 1958 tanto da affermare nel diario “non riesco a chiudere il
senso dell’immagine dello schermo”. Nel ricorso al gorgo materico e a una certa gestualità con una
gamma di neri, bianchi e grigi, si nota la concessione alla morfologia dell’informale a cui per cenni
si accosterà, ma non cedendo alle pressioni di una tendenza allora largamente di moda della quale
non condivideva l’assunto. Dello stesso torno di tempo tra 1958 e 1959 è Cimitero di paese, e poi
Doppi ritratti e Donna che piange.
Con gli interrogativi e con le perplessità di questo periodo, insieme a propositi di ricerca espressiva
innovativa interviene qualche ritorno sui temi precedenti ed è una nota questa caratteristica di altri
momenti nel procedere di Francese. Uomo con cane, per esempio, presenta la stessa tensione
coinvolgente di Ragazzo con vitello mentre nuovi sono gli studi urbani con Finestra di notte o di
sera o Vetro di sera del 1958 e così Città o Città di notte del 1960 non risolto o ristretto a pochi
esemplari come Donna che piange sulla strada del 1959-1960 esposto quest’ultimo alla XXX
Biennale di Venezia del 1960, dopo aver rifiutato di partecipare, invitato con cinque opere, alla
precedente del 1958.
Gli anni della crisi, tra 1957 e 1958, periodo di rimeditazione, vedono il tentativo dell’indagine sul
paesaggio ripreso ancora nel 1965 in Tramonto sul Sesia, in precedenza genere solo qua e là
11
12
G. Porzio. Dialogo con Francese, op. cit.
Manoscritto conservato nell’archivio dell’autore di questo testo.
7
intrapreso come in Ultime case, o nell’astratto Cimitero di paese, e Finestre; in aggiunta altri
soggetti, da considerare tentativi frammentari per essere poi tralasciati quali Donna che si mette il
rossetto del 1958 con tracce derivate dalle Frau di Johannes Robert Schürch e desunzioni dalle
prostitute di Rouault. Cinemascope però rappresenta la svolta importante verso la nomenclatura dei
grandi cicli e soprattutto il cambiamento dello scenario con il passaggio dalla coscienza contadina
vissuta sul luogo, all’insediamento nella realtà cittadina, entrando nel vivo, alla radice delle varie
problematiche.
Sette le opere tutte di grande formato esposte nella sala veneziana con presentazione di Francesco
Arcangeli, uno dei critici più acuti, autorevoli e di perspicace smalto linguistico. E’ curioso notare
che nel testo del critico bolognese si accenna agli oli delle tre Notti d’amore, delle due Fine d’estate
e dello studio per Cinemascope, ma si sottace sulla tempera di Donna che piange e si capisce il
perché nella lunga e puntualizzante lettera dell’11 maggio 1960, da me conservata in archivio fra
altre lettere dello stesso autore. Arcangeli manifesta delle perplessità a proposito del quadro
sollevando obiezioni: “L’immagine, la concezione mi sembra nuova, il mezzo di realizzarla non
immune da una certa eco che non saprei come chiamarla, se non ‘900 … Insomma per il tuo telone,
mi sbaglierò, ma mi pare non sia mai esistito l’informale o l’espressionismo astratto”. Telone o
telero, Donna che piange è uno dei quadri più importanti nella sintesi di un percorso “dell’emozione
nello spazio”, anche se Francese in risposta alle argomentazioni dell’amico critico il 13 maggio
precisava: “Grazie mille grazie per le tue osservazioni su la Donna che piange. E’ vero, è come tu
dici. Non sono riuscito, c’è un ricorso sulla figura tradizionale”. Oggi possiamo dire che a
influenzare questo giudizio può essere stata la temperie dell’informale, allora in voga, e sostenuta
tenacemente da Arcangeli.
Negli appena elencati motivi e in quelli affrontati dopo, forte risulta la carica di turgore vitalistico
che l’artista rappresenta con vari rimandi a una ricerca di sé con una pittura che febbre della vita
tenta di rendere visibile il recondito del mondo psichico e immaginario con il reale, tanto da
ricorrere già nell’agosto del 1957 al “monstrum che preme nel sangue”, che è l’unica forma di
realismo possibile, dopo la rottura con il naturalismo “campagnolo” (meridionalista anche,
riferendosi a Guttuso), “di ciò che si vede e che della realtà si registra anche inconsapevolmente.
Fantasma, immagine, sintesi vivente della realtà soggettiva ed oggettiva, unica vera forma
d’indagine poetica del reale al di sopra di preconcetti e di precostituite ideologie”.
Fine dell’estate
Anche Fine d’estate, cominciato tra 1959 e 1960. La carcassa prosciugata dell’animale, presagio e
correlativo oggettivo della stagione che muore e della natura lussureggiante in declino, testimonia lo
scorrere del tempo e la transitorietà dei fenomeni che lo investono (e lo struggimento del tempo che
inesorabile passa affiora spesso nelle tematiche francesiane). La parola “fine” richiama inoltre per
similarità altri soggetti quali Fine dell’amore, una risoluzione affettiva ricollegabile all’indifferenza
di Due sulla panchina del 1958 e seguenti o alla dolorosa epifania di Addio degli anni Ottanta,
testimonianza memoriale dell’immedicabile perdita di Elide sua musa e compagna dal 1947.
Pastorale
Tema già del 1959 che affronta il turbinoso intreccio da “la bella e la bestia”, di eros e di corpi e
congiunzione degli stessi fra spasimo e perdizione, voluttà e violenza e proseguito fino all’ Ultima
pastorale del 1965. In questo mescolamento affiora l’animalità, l’ibridismo di natura umana e
natura bestiale, con l’intento di far “sentire” una naturalità psichica dell’evocazione piuttosto che
l’evidente naturalità fisica. Impulso intellettuale e impulso fantastico nell’insolita morfologia
amorosa che letterariamente risale al Pastor fido di Battista Guarini del 1590 ed è un motivo che
molti pittori hanno utilizzato, affine all’altro del Minotauro, mito greco amato anche da Picasso, nel
quale prevale il mito del toro. In Francese l’iconografia nell’avvicinabilità alla pregnanza sensuale
dello spagnolo non è quella del mito pastorale di incantata, idilliaca serenità, ma di una diversa
mescidazione confermata da una pagina del diario del 1945: “L’animalità è cardine dei momenti più
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solenni della vita; nel parto, nel coito, nella morte. Quale folgorante stupore se l’animale prende
possesso di noi e con quale tesa serietà ci abbandoniamo alla meccanica dell’amore”.
Notte d’amore
Motivo dei primi anni settanta che richiama precedenti archetipi di coppia assidui di risonante
sensualità e già ideativi in Figure e città, disegni del 1942 e in altrettanti del 1944 e 1945 e in Gli
amanti del 1953 e Coppia sdraiata del 1954: dalle infuocate e “ingolfate nella loro luminosa
densità” (Arcangeli) Notti d’amore dal 1959, al tono acceso combusto delle Teste amorose dello
stesso anno e ancora nel 1975, allo spasimo degli amanti di Coppia o di Amplesso, Seppur
iconograficamente con diverso assunto, il riferimento si lega anche a Pastorale e alla Bestia a due
schiene del 1965. Il tema erotico rappresenta una parte essenziale del cammino dell’artista e che con
le folte sue variazioni o denominazioni è percorso dalla vampa avvolgente della passione amorosa
(“il fervore pittorico attinge all’eros”), trasfigurata dall’ardore della materia cromaticamente
incandescente. L’abbraccio avviluppante dei corpi nell’intensità e tumulto dello incontro-scontro
digrignante delle facce manifesta il “furor” del desiderio che si fa possesso, fisica violenza e
sussulto quasi doloroso.
Erica e il diavolo
Uno dei nuclei, avviato nel 1959, fra i più convincenti con una risoluzione formale in cui la figlia
bambina appare ritratta con un ghigno scomposto e con il pupazzo deformato a lato che lei
considerava un diavolo. Motivo accostabile a quello precedente del 1959 poi non approfondito con
gli sguardi allarmati ed eccitati di Erica e il gatto. E’ evidente in questo caso una dilacerazione
plastica, di segno interrotto con il riecheggiamento vitalistico dell’informale con l’haute pâte e il
cromatismo dell’espressionismo astratto americano antinaturalistico riferibile alle delicatezze di
pastello alla De Kooning. Assoluti capolavori queste opere, tali da collocare Franco Francese, senza
fraintesi o sovraesposti giudizi di valore, fra gli artisti di respiro europeo, opere nelle quali la
presenza della materia è attiva e determinante ed è, assecondando Francesco Arcangeli, “flusso
imponente di materia e croma che a un certo momento si inalvea e diventa significato”13.
Melanconia del Dürer
Iniziato con un disegno nel novembre 1960 e continuato con qualche rifacimento fino oltre il 1970 e
nel 1975 (e stranamente risistemato ancora nel 1995) è uno dei temi che ha occupato maggiormente
il pittore con continue elaborazioni e repliche, compreso un quadro del 1971 inusualmente in tondo.
Un pregresso disegno è in Melancholia del 1944. Sintetizzando, da sensibile intellettuale qual era il
capolavoro “Melancholia I”, bulino di Albrecht Dürer del 1514, già motivo di meditazione e di
ricerca nel febbraio 1941 a Roma durante il servizio militare o di sorprendente aspirazione
nell’agosto 1942 (così nella citazione del diario: “dipingere aspirare ad immagini come la
Melanconia del Dürer …Vi sono immagini pittoriche che toccano i più profondi strati della psiche:
la Melanconia del Dürer in particolare”), l’artista ha conservato pochi elementi dell’abbondante e
misteriosa simbologia ispiratrice: l’angelo pensoso con in mano un compasso diventa un enigmatico
personaggio femminile con la testa ripiegata; l’affiorante presenza del fedele cane (non
acciambellato come in Dürer), il romboide squadrato, la sfera quale punto fermo e l’arcobaleno
simbolo della fortuna che a volta a volta appare o scompare, sono tutte forme che lievitano ed
emergono dalla struttura di fondo. La rappresentazione si muove sui toni grigi e bruni, terre
d’ombra e d’ardesia, amaranto cupo e violetti scuri in armonia con l’humor melancholicus. La vita
in questa riflessione compositiva pare imprigionata nello spazio geometrico con la figura che nella
sua estraneità aggiunge un significato di profonda riflessione sul destino dell’uomo.
La bestia addosso
13
F. Arcangeli, Dipinti di Francese, Comune di Monzuno, 1971
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La prima titolazione in uno schizzo del giugno 1961 era Uomo con una bestia sulle spalle o sulla
schiena e in un disegno a sanguigna del 16 giungo 1961 La bestia in groppa poi modificato. La
formulazione definitiva deriva dalla locuzione gergale “avere la scimmia sulla schiena”, immagine
utilizzata per i drogati americani negli anni Sessanta con riferimento anche al romanzo di Williams
Burroughs. Non è il caso del pittore che si riferisce invece al ricordo del “mostro” sulle spalle
causato dalla depressione provata. Titolo ripreso negli anni Settanta, interpretabile come sinonimo
di angoscia o di ansia, sapendo anche che ognuno di noi si porta un’inconscia “bestia” sulle spalle; e
qui appare il richiamo dell’”altro”, del soggetto diviso come idea del “doppio”, figura
immaginatrice-immaginante dell’altro che troviamo derivata dalla letteratura di un anticipante
analizzatore dell’inconscio e degli incubi di prorompente inventiva quale è stato il tedesco E.T.
Amadeus Hoffmann, poeta del sosia e autore letto dall’artista già nel 1944 e a cui ha dedicato una
serie di disegni e nel luglio del 1986 L’altro, una riflessione scritta pubblicata in questo catalogo. In
quanto al “doppio”, sarà immagine attiva di questi anni: in Erica e il diavolo, in Notte d’amore, in
La bestia addosso, in Due sulla panchina, in Aubade, e più tardi nel Giro di giostra.
Aubade. Alba in città
Labilità mattutina, nell’incerta luce grigia, luci dell’Alba in città al neon e di bianco lattiginoso dei
muri al mattino, quando più incerto ancora appare il risveglio intorpidito strappato, tra sonno e
veglia, al languore della tenerezza. Questo soggetto ha impegnato l’artista già nel 1962 e
specificatamente negli anni 1964-1965 ed è avvicinabile ad altri motivi di sonno e di risveglio quali
Insonnia, Sonno interrotto a metà degli anni Ottanta oppure, risalendo negli anni, alle Aubade del
1961 fino al 1971, con la figura solitaria, ma più ancora con i corpi degli amanti abbracciati nel
colore aspro e grigio o bruno, per giungere a Sonno d’inverno del 1994, soggetto finale dell’artista,
elaborato fino al 1995 un anno prima della morte, ultimo anno lavorativo, con la composizione
richiamante le stesse erotiche e sensuali emozioni di Aubade, ma con un segno più netto e scavato e
con le figure allungate però messe dalla parte opposta..
Convalescenza
Altro importante ciclo di inizio anni Sessanta. Nell’impalcatura della gabbia interno-esterno, con
l’uccello che precipita e il sole che declina, l’artista febbricitante, serrato nello spazio di una stanza,
avverte inusuali, angosciosi stati d’animo. Dal registro fisico a quello psichico, il torpore della
spossatezza cattura sensazioni, suoni interiori, apprensioni emotive e colori con inquietudine
contemplativa e sguardo smarrito. Le presenze vaghe, i muti trasalimenti di queste sollecitazioni
sono percepiti nei riverberi della luce rosata dei primi tepori primaverili in quel “cielo scialbo della
sera mentre arrossano le cimase nel tramonto” con l’eco sparso delle voci dei fanciulli. Dal suo
diario: “Fuori l’eco di grida di bambini nel gioco, lontani. Questo è il suono segreto di quella parte
dei miei quadri” (10.11.68). Luce malata di emotiva interiorità con colori antinaturalistici in
funzione simbolica, macerati, aciduli o dissonanti nella libertà dal tono imitativo locale,
caratteristica primaria questa per capire anche l’atonalità cromatica, non atmosferica, ma
psicologica, di stati d’animo dell’artista e non pretendere qualcosa di diverso dalla sua sensibilità e
dai suoi intendimenti che trovano concordanza con quando sosteneva il pittore Varlin: “devi captare
un tono generale che corrisponde al tuo stato d’animo e poi ci fai dentro le tue cose. Allora sei
libero”. Motivo ripreso ancora nel 1990. Il soggetto dell’uccello con la testa rovesciata all’ingiù lo
si ritrova in Semi di zucca dei primi anni Settanta e nei primi abbozzi di Elegia per Kronstadt. Nel
giro di questi anni illustra con cinque opere “Io Bertolt Brecht (canzoni ballate poesie)” edito nel
1962, quando già nel 1954 il regista Strehler voleva incaricarlo di studiare la scenografia dell’alta
testimonianza drammaturgica di “Madre Coraggio” dell’autore tedesco. Nel 1972 per le edizioni
Trentadue illustra sei poesie di Vittorio Sereni con altrettanti disegni.
L’uccello batte sul vetro
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L’uomo nel chiuso della casa (sempre dal diario: “nella stanza, nell’ora del pomeriggio in cui il
giorno sta per calare nella sera, nelle stagioni di mezzo, primavera o autunno”) osserva un uccello
che, direbbe Mario Luzi, “desolato si appoggiava ai suoi vetri”. Il picchiettio, il fremito
interrogativo non hanno risposte dall’interno, se non nel volto allucinato, colmo di ansia, di incubo,
di disagio inquietante. Nel magma dell’opulenza materica di segno informale si muove l’ispirazione
tratta da The Raven (Il corvo) di Edgard Allan Poe. Tema di grande suggestione e intensità
espressiva iniziato nel 1960 (con una titolazione non bene definita quale Uccello contro il vetro)
insieme a Rimorsi d’autunno, spunto di concezione aniconica, non sviluppato, se non in pochissime
opere, come non avrà seguito un insolito “Per Justine” del 1960.
Elegia per Kronstadt
Fra i nuclei più esplorati con varie elaborazioni. Cominciato nel 1957 con alcuni studi di diversa
impostazione e poi ripreso con persistenza dal dicembre 1962 per una decina d’anni con riprese nel
1985 e perfino nel 1995 e variazioni non solo nel titolo (inizialmente nel 1961 A quelli di
Kronstadt, poi Per Kronstadt e nel 1963 una Bambina con uccello come studio per Kronstadt ed
infine Tema eroico e Burocrazia), ma soprattutto nella raffigurazione della spazialità che stretta
nella composizione del soggetto manifesta accentuati spostamenti, modificazioni e interazioni tra
un’opera e l’altra con addizioni prelevate per i primi studi da Convalescenza e con diverse citazioni
per nuovi approdi. E’ la sola occasione di pittura storico-politica (invero esiste un olio Mussolini a
Milano del 1957 e qualche disegno con lo stesso argomento, ma più in chiave satiro-grottesca e che
dovevano illustrare la copertina di Marcia su Roma e dintorni di Emilio Lussu) dato che Francese
non ha mai affrontato temi di impegno politico, nemmeno nel periodo del realismo. Il pretesto nasce
dalla rivolta dei marinai nel marzo del 1921 nel porto della fortificata città russa di Kronstadt sul
mar Baltico, rivolta repressa duramente dalle stesse autorità rivoluzionarie bolsceviche da poco al
potere. Nello stipato e segregato spazio dell’ambiente in cui si trovano imprigionati i rivoltosi e
ritornante memoria alle due stanze proletarie della soffocata infanzia in via Ruggero di Lauria 18 al
Sempione, alla periferia industriale di Milano, l’Elegia nel suo significato storico anticipa di trenta
anni circa la fine dell’utopia socialcomunista. Penso che la temperie della cronaca della rivolta
ungherese del 1956 (Francese aveva già attraversato la sua crisi politica. Nel diario del 1963
accenna al sentimento della propria disillusione con “il Kronstadt che è accaduto in me”) abbia
suscitato in lui meccanismi traspositivi verso la storia dell’episodio russo, un episodio non
celebrato, ma rivelato come pittura di giudizio nell’“immagine della coscienza” senza nessuna
notazione episodica descrittiva se non il foglio delle “Iszvetia” che brucia in basso, in primo piano.
Aver dipinto anni prima, rispetto al fallimento del 1989, l’episodio russo, o meglio esser riuscito a
stabilire che il realismo socialista dopo Kronstadt non più pensato, ma imposto in modo sempre più
burocratico, presenta la sua fine già nel drammatico momento del marzo 1921, ritengo sia stata per
l’artista una piccola privata soddisfazione intellettuale.
Bestiario I. Dispera di elevarsi
Con la prolessi del rannicchiato Bestiario, disegno del 1944, il pittore aveva affrontato il tema del
“monstrum”, animale fantasma e immagine umana insieme. Del resto il mostro con caratteristiche
in parte umane e in parte bestiali è un elemento tipico della mitologia greca che l’artista ha
attualizzato deformando il soggetto, sorretto dall’irrinunciabile proposito che lo ha portato a
privilegiare il lato artistico rispetto a quello estetico. Per lui quindi l’uomo-animale rappresenta una
demonologia moderna “con le orribili apprensioni del mondo contemporaneo. Demonologia della
psiche” (diario, 20 agosto 1963).
Per la ferina simbologia del Bestiario, il cui repertorio, come per certe antecedenti immagini, lo si
ritrova nel plasticismo e nelle forme del bestiario della scultura romanica: nei mostri del battistero
dell’Antelami a Parma, nei portali e nei bassorilievi delle cattedrali medievali o nell’abbazia di
Vezelay in Borgogna visitata da Francese nel suo primo viaggio a Parigi nell’autunno 1955, per
11
questa simbologia l’artista aveva concepito tre motivi, anzi quattro se si vuole considerare la
sgomenta incertezza dell’uomo in Si affaccia o si ritrae del 1965, una via di mezzo tra il primo
Dispera di elevarsi e il secondo Guarda dalla soglia. Il terzo tema, Notte stellata, citazione
vangoghiana con riferimento solo nel titolo, è rimasto poi autonomo ed estraneo al Bestiario. Ciclo
iniziato con disegni nei primi anni Sessanta e con realizzazione pittorica convinta dal 1965 che ha
coinvolto a lungo l’autore con esiti felici. In un primo momento nel raggruppamento dei motivi
aveva ritenuto di includere pure La bestia addosso e altri aspetti di un bestiario moderno, in cui
invece dei demoni e dei mostri immaginari venivano a essere rappresentati “stati abnormi e
allarmati ai limiti della coscienza” per esorcizzare il monstrum. In Dispera di elevarsi dal 1967 fino
al 1978 risulta un’umanità indifesa e ferita, minacciata dalla complessità della vita, dal turbamento
della realtà quotidiana con la figura accasciata e la testa riversa e sullo sfondo a simboleggiare la
condizione lacerata, il calcinato muro con una finestra, quasi a impedire la montaliana via di fuga e
di trovare quindi il varco “in una maglia rotta nella rete che ci stringe”.
Bestiario II. Guarda dalla soglia
L’occasione-spinta dell’immagine viene dal quadro di Böeklin visto al Kunsthaus di Zurigo,
“Centauro sul bordo di un fiume”, rielaborato nella caratteristica figura inginocchiata davanti alla
porta segnata dalla diagonale quale diaframma interno-esterno. Un titolo del 1966 recita Veniva a
brucare sull’uscio, un ricordo d’ambiente agreste troppo descrittivo come incerto risulta Viene a
guardare sull’uscio o alla soglia del 1965, trasformato poi nel 1968 in Dalla soglia ed infine
nell’esplicito ultimo passaggio con Guarda dalla soglia. Figura definita dall’espressione degli
occhi, spesso un occhio solo dilatato, spaurito d’incubo sull’incertezza umana, atterrita dalla
drammaticità dell’immagine deformata, sfregiata: sguardo insieme minaccioso e smarrito di
allarmata animalità sempre incombente nel personaggio uomo. Il modello figurativo macrocefalo
scomposto presenta un echeggiamento baconiano e ha ispirato altri soggetti, isolati o non
completamente svolti, denominati come Bestiario, quali Animale urbano del 1965 e Animale luce
del medesimo anno, tutte forme di un’immagine animale scorticata adatta a rappresentare “gli
sgomenti o le apprensioni dell’inconscio” (De Micheli).
Notte stellata
Concepito nella prima intenzione come terzo momento del nucleo Bestiario iniziato nel 1961, la
Notte stellata nel suo alternarsi stilistico durato fino al 1974, ha subito diverse varianti formali e
coloristiche con qualche accentuazione secondo gli stati d’animo.
Nel 1967 in alcuni studi appare strutturata anche orizzontalmente. Nel penetrante silenzio notturno
si nota la presenza in primo piano della figura con capo reclinato e la mano chiusa a testimoniare il
mestiere di pittore. Sullo sfondo il cranio impennato di un cavallo, premonitore segnale e richiamo
della vanitas, pare squarciare con un nitrito il sospeso silenzio della notte, mentre dalla finestra si
intravede il cielo nel barbaglio di un luccichio o nel bagliore lumeggiato di una stella. La notte, il
buio, l’oscurità, l’ombra: uno spazio di avviluppante notturno in Francese e dominante spesso con
una densità sensuale la cui aura o meglio dinamismo emotivo è risonante rivelazione in diversi altri
soggetti (notte d’amore, mostro notturno, sole notturno, teste amorose, sera in città, donna che si
spoglia, anche imbarco e così pure nelle penombre scure dei real-naturalisti veglia nella stalla,
prima che il gallo canti, falciatori, finestre di sera, braccianti che dormono e falci alla finestra).
Colomba sul balcone
Ripropone lo schema dell’interno-esterno, taglio strutturale di altri temi (Alba in città,
Convalescenza, L’uccello batte sul vetro e le Finestre). Colomba sul balcone è del 1962, titolo poi
rielaborato in Ultima colomba fino al 1969. L’immagine descritta è ripresa dal balcone dello studio
del pittore in via Borgonovo 29 dopo lo spostamento nel luglio 1961 da quello di via San Primo 2.
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“Anche una colomba che vola può disegnare la tua figura” (Montale): un palpito nell’oscurità, nel
vuoto silenzioso della città, di domenica, un vibrato piumeggio di colomba sul muro fosco.
Di domenica
Anche Domenica o A Milano, di domenica. L’immagine descritta è la simbolizzazione di un
sentimento racchiuso nel silenzio serale della città. Silenzio rotto da un frullio di colomba che
emerge tra il luccicare della segnaletica stradale e dei manifesti pubblicitari. Il suono interiore del
quadro è rappresentato dalla dominante cromatica fra il color ruggine di ferro, il rosso porpora e i
lampi di blu intenso con verdi acerbi, grigi scuri e gialli estenuati. Nel settembre del 1966 l’artista
annotava il proprio stato d’animo, da vero pittore della memoria: “Con A Milano di domenica vorrei
esprimere la solitudine domenicale, l’atmosfera ferruginosa, la luce rappresa nella foschia e il grido
aspro-giallo-nero-rosso delle affiches e dei caratteri murali. Tutto immobile … sensazioni
sovrapposte dell’infanzia”. Motivo proseguito a intermittenza fino al 1973.
Visitazione
La raffigurazione del 1963 è sdoppiata nelle due figure, una che arriva e l’altra nell’attesa della
celebrazione di un incontro d’amore. Eros con Thanatos sono due momenti di pregnanza oggettiva e
simbolica e dai significati essenziali che Francese ha approfondito con metaforiche immagini del
passaggio esistenziale. La meditazione sulla morte, affrontata in diverse iconografie, ha
accompagnato la seconda parte della sua vita, quando della stessa meno carica del sole trionfale
dell’eros, ha avvertito le ombre farsi più lunghe e fitte. Già nel marzo 1972, in una transitorietà di
sconforto per i due anni senza creatività per non aver maturato nuovi temi, dopo i fervidi e fecondi
di idee anni Sessanta, meditava sull’eros che abbandonando “la potenza generale della creazione
artistica, si disvela nella sua natura, consumandosi in una febbricitazione superficiale perché ha
perduto potenza e tensione di scavo. Una precoce senilità, insomma? O angoscia di morte”.
Meridiana
La Meridiana è lavoro dei primi anni Sessanta come misura e rappresentazione dell’esistenza
attraversata dalla malinconia del tempo che passa inesorabile e che allungando le sue ombre porta
dolore. Unione di tempo interiore e di chronos, l’antico padre distruttore del tempo storico che
Baudelaire definiva “dieu sinistre, effrayant, impassibile”. In un’acquaforte del 1972 illustrante una
poesia dell’amico critico Mario De Micheli, Autunno 1943, il pittore milanese aveva inciso il
motivo di Meridiana con il primo verso della lirica “chi cerca trova la nebbia”. Un susseguente
verso “il dolore non ha tempo, ma il tempo porta dolore” è stato parzialmente utilizzato come
sottotitolo a Meridiana. Tema accennato e non sviluppato come Viandante, Rimorsi d’autunno e
Uomini che camminano.
Giro di giostra
Soggetto del 1964 e durato fino al 1984 con rallentamenti e riprese nelle varianti e ritematizzazioni
tipiche dell’andirivieni di Francese. La memoria, straordinaria virtù evocativa che Bergson
considerava non come una regressione dal presente al passato, “mais au contraire dans un progrès
du passé au present”, tra le sue pieghe richiama un momento dell’infanzia, con il tremore del giro di
giostra e con lo sdoppiamento del cavallino di legno nell’immaginato sostituto reale. Una cavalcata
nella fantasia smarrita, eccitata della fanciullezza, un dato soggettivo e analogico, preludio al più
allucinato e misterioso giro di giostra della vita. Colori azzurri e grigi, spesso una cantata
chiaroscurale potente di grigi, quel grigio sironiano (di Sironi il pittore milanese aveva sentito il
fascino del timbro plastico, non solo del tono cromatico) tanto amato nelle varie cadenze e
sfumature e utilizzato in diversi soggetti, con l’aggiunta o il prevalere di venature violette e di rossi
smorzati, per evocare tra coscienza e nostalgia il flusso sentimentale del ricordo, il suo divenire e
crescere emotivo nel movimento plastico delle figure nella successione delle immagini.
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Nube nella stanza
Da circoscrivere agli anni 1966-1967. L’ombra conserva un suo carico di mistero e di sogno con la
nube segnata in alto come un graffito imprigionato dallo sguardo chiuso, compresso nello spazio
claustrofobico di una stanza (e con la nube in alto, così come in Dispera di elevarsi). Realtà
psichica e sensibile che la finestra proietta all’esterno su uno schermo più murato che aperto verso
un altrove sconosciuto.
Enfant prodige. Infanzia. Siesta
Enfant prodige, una composizione allegorica già embrionale in alcuni disegni giovanili del 1944 e
1945 e poi ripresa alla fine degli anni Sessanta. Un rimando autobiografico pensando alla
giovanissima sua affilata capacità disegnativa e alla maturità da vero enfant prodige, in un’età che
di solito cavalca altri sogni o spensieratezze. Ritorna di nuovo la memoria con il senso di
sentimento perduto nel tema Infanzia, “il tempo dell’infanzia, sempre a sé presente, adagiata nel
tempo … Se tornano alla memoria i giorni della mia adolescenza, mi sento riavvolgere come dal
torpore di un meriggio d’estate” (diario 29.X.1945). Gli iniziali schizzi risalgono al 1953 e poi dal
1962 e anche nel 1977, per dire ancora 1995. E il ricordo del tempo campestre connoterà anche
Siesta già nel 1954 e poi dal 1964 e pure nel 1970 con la figura dominante della testa del cavallo, la
cui apparizione è citazione di un’immagine d’incubo da Füssli. Sollecitazione di ricordi dell’età
fanciulla che non invecchia mai e che in Francese “ritorna a lunghi intervalli di tempo perché
trattiene come un grumo del sentimento del vivere, del mio sentimento dell’esistere” (dal diario,
febbraio 1991).
Sole notturno
Tema che ha occupato il pittore per una decina di anni dal 1972 al 1982 e inizialmente denominato
Notturno, con sole. Nell’ossimoro del titolo si avverte un senso malinconico di luce bassa che è
l’ombra accompagnatrice nella dimensione psichica di tanta produzione e, in questo caso, di un
tramonto nostalgicamente sognato carico di luce dorata. Invece il sole appare all’uomo supinamente
scorciato, declinante e declinato sull’immaginario muro frontale della città privata di orizzonte. Nel
sovrasenso di non accettata rassegnazione riemerge suggestivo il ricordo di lontani tramonti e di
altre vibrazioni d’animo. Notturno, aggettivo spesso ricorrente nelle opere di Francese, pronto a
indicare nella sua iterazione “ciò che alternativo, segreto rispetto al quotidiano … Notturno anche
ciò che è oscuro nella nostra vita … luogo di adunanza dei fantasmi insorti dall’oppressione del
diurno. Nella pratica del dipingere-notturno è un’inconscia propensione all’ombra, agli aloni bruni,
alla sontuosità potente dei neri, alle atmosfere calde delle ocra scure”(dal diario, il 19 gennaio
1977).
Imbarco
Motivo del 1973 e formulato come Progetto di navigazione in cui l’uomo è in posizione obliqua
con il cane alle spalle e la barca con lo stendardo molto più delineati e poi Progetto d’imbarco, un
titolo dal senso un po’ meccanico o forse ancora carico di inviti e di aspettative di ulissico anelito. Il
più risolutivo Imbarco suona come clausola più che incipit, perciò metafora della fine non proprio
incombente, ma pur sempre minacciosa, del viaggio esistenziale all’incupirsi degli anni. Il vigore
plastico dell’uomo, ritto di spalle non rimanda certamente alla vicenda di un pescatore, ma la sua
ritta monumentalità accompagnata dalla contigua fedeltà del cane sulla barca, con lo sguardo
interrogativo rivolto all’indietro, presago del sensus finis, raffigura l’incamminarsi angoscioso verso
il pas-d’adieu, il sigillo del destino umano chiuso nel bloccato spazio di un ambiente di un antro da
cui non può sortire se non verso un altrove carico di mistero. E’ tra i cicli di più alto significato
espressivo e di suggestione “altra” che ha ossessionato l’autore fino a quando ha potuto lavorare, fra
soste e riprese e varianti formali, quando cercava di renderlo meno statico e meno descrittivo,
dissolvendolo nei colori liquidi che si fanno luce nella fluidità avvolgente del magma materico, con
la composizione ravvicinata in primo piano e la riduzione via via degli accenti iconografici (la barca
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quasi scomparsa, così pure le vele-stendardo o sudario e la lampadina; la stanza dissolta in “largo
alveo d’ombra avvolgente d’attesa”). Imbarco trova un’anticipata intuizione già nel 1944 con i
pastelli di Uomo dal lenzuolo, nudo di fronte all’ignoto.
Uno dei lavori conclusivi, se non l’estremo di Francese, è stato proprio Ultimo imbarco del 22
giugno 1995, e oggi viene facile ripensare l’artista nella tribolazione fisica sospensiva dell’attività
pittorica dell’ultimo anno, in questo presagio fattosi certezza la sera del 18 settembre del 1996.
La goccia
Dal 1973 al 1983, con una ripresa di Ultima goccia nel 1994 e 1995, il ciclo presenta il
caratteristico topos dello spazio ingabbiato nella dialettica strutturale interno-esterno. Nella tremula
precarietà di una goccia che cade sul rombo del vetro si sintetizza la fragilità e l’instabilità
esistenziale. In questa immersione del soggetto nel piano-colore ravvicinato, la sospensione di tutto
ciò che è accaduto (il temporale) o sta per accadere (la goccia), viene riassunto dalla faccia
sgomenta che schiacciata in primo piano manifesta il disagio interiore dell’uomo, il senso
sconsolato di una solitudine. Nell’impulso ideativo dell’artista, il passaggio dall’emozione sensoria
e dal pensiero all’immagine (e solo il pensiero controlla il vero, l’interpretazione del reale), spesso è
raffigurato un dubbio, una cadenza nella stasi dell’indugio (in Si affaccia o si ritrae o in Vorrebbe
attraversare, disegno del 1944), di smarrita certezza come nella caduta della goccia o nel sole che
tramonta, così come nell’impossibilità di sollevarsi (Dispera di elevarsi); oppure di titubanza o
paura per il limite da superare (Guarda dalla soglia) e di angosciosa inquietudine come in
Convalescenza o nell’incombente Uccello batte sul vetro che invece appare citato a testa in giù
nella Convalescenza.
Celebrazione urbana del 1977. Spunto iconografico prelevato da Das Denkmal (monumento) des
Generales del 1937 dello svizzero Walter Kurt Wiemken. Qui anziché il trionfo aureolato del
generale vincitore seduto sul cippo dei cadaveri, appare il piancito di una zattera che attraversa una
città spettrale, vuota; o, forse meglio, la parvenza di un luogo ignoto, di un misterioso al di là senza
orizzonte e con un’imponente figura centrale seduta in croce, e con a lato un guerriero celato dietro
lo scudo e altre figure larvate insieme a un teschio e alla solita presenza della bestia. Una
celebrazione con un corteo che nel suo simbolismo pare celebrare una disfatta, una sconfitta nel
momento che si può anche essere vincitori. Nell’imagerie di Francese, sempre fuori di ogni aspetto
preminentemente narrativo, più che l’oscurità, l’impenetrabilità o inequivocabilità di senso, da
decifrare e interpretare sono il sovrasenso, il mistero, a volte l’enigma e l’eco interiore
dell’immaginazione, aspetti tutti che aggallano con le loro proiezioni e stratificazioni di significati
aggiunti, sottintesi o occulti. Contigui a Celebrazione sono Dimostrazione del 1976 e nel 1978
Dimostrazione di massa, soggetto senza proseguimento costruito in uno spazio architettonico e
dello stesso tempo Quasi un’allegoria del 1975, un tema altrettanto ostico, di ardua comprensione,
con una inafferrabilità di senso e di soprasenso. Questa “oscurità” non occulta però la tensione e la
forza espressiva delle immagini, e lascia spazio e residui interrogativi seppure di inquieta e non
chiara decifrazione tematica.
Atelier
Un altro dei cicli di più insistita e fresca ispirazione e tenuto sul cavalletto con Imbarco e Tramonto
in città fino agli estremi giorni lavorativi. Ideato nel 1980 (ma in nuce già dal 1941 nella serie dei
disegni de Il pittore e le sue figure), proseguito nel tempo con diverse soluzioni formali, intermedie
varianti e metamorfosi cromatiche (grigi, azzurri, bruni e verdi stentati), coinvolge anche la
precedente serie degli Autoritratti con teschio da considerare quale prolusione o meglio tessera del
più dispiegato mosaico dell’Atelier. Picasso definiva gli atelier “paesaggi d’interno” e Braque “una
tremenda immersione in me stesso”. Nei suoi interni l’artista milanese ricapitola il proprio universo-
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labirinto, “personificazione del disagio di una vocazione”, e autorappresentativo hortus conclusus14
nel controluce di citazioni15, di emblemi e di ombre corpose e il cui senso nascosto viene rivelato
come nuovo tema che emerge dalle improvvise apparizioni, dall’insorgere dei “fantasmi in uno
spazio proprio”. Uno spazio interiore, psichico quale “alveo di apparizioni (alveo della coscienza)”
e quindi non riepilogazione aneddotica di precedenti immagini, ma spazio abitato dall’agnizione
della compagna Elide, dalla sua assenza presente, cui nel 1980, anno della sua scomparsa, aveva
dedicato l’estenuato omaggio a Elide morente con la fugacità di tempo e di dolore nella serie di
quadri al limite del sostenibile e quale novella hodleriana Valentine Godé-Darel.
Addio
Studi dedicati alla malattia di Elide, al suo calvario finale. Contrappunto ed epifania delle immagini
dolenti nella ricostruzione dell’ultimo suo periodo esistenziale, sul letto di morte, la cui
rievocazione attanaglierà l’artista con momenti di angosciante inquietudine. “Ora più i giorni
passano più rimpianto rimorso dolore si fanno cocenti, laceranti: non mi lasciano spazio per vivere.
Torna nei miei sogni almeno, Elide: ti attendo sempre anche ora dalla porta in fondo allo studio; mi
sembra, mi fingo dolcemente si apra e tu entri, alta, flessuosa, il tuo volto sorridente i tuoi occhi neri
nei miei” (dal diario, 23 novembre 1980).
Tramonto in città
Titolo emblematico di una crescente delusione quale lo smarrito “sentimento della città”(Sereni),
visto come decadimento culturale e sociale nella collettiva degradazione. Nel caldo affocato dello
studio si concentra l’emozione fenomenica nel trascorrere di lumi e delle contrombre di figure,
oggetti, finestre, con sdoppiate parvenze e il fuoco compositivo del sole riflesso in basso a sinistra.
Nell’ora stremata un profondo ascolto coscienziale dell’uomo con le sensitive incombenti luci
virgiliane del vesperascit, del farsi sera (“majoresque cadunt altis de montibus umbrae”: dall’alto
dei monti più fitte calano le ombre). All’inizio degli anni Ottanta la ricerca era stata avviata con i
simboli del sole giallo freddo in campo aperto e non nella contrazione dello spazio assiepato nel
dentro-fuori delle repliche e delle varie soluzioni formali di acceso cromatismo tra gialli limoni,
rossi, blu, aranci e violetti vibranti (Sera in città, ancora nel 1985, contrapposto al precedente
motivo del 1964 Alba in città, è una prima definizione del titolo). Nella pagina diaristica
dell’ottobre 1986 il pittore fissava il suo monologo interiore, quale flusso di coscienza: “Tramonto
civile di Milano … o, forse, tramonto della mia vicenda umana: le ombre della sera che diventano
paurosamente più fitte”.
Melanconia bianca. Vanitas
Nei primi anni Ottanta in Linea d’ombra, un motivo poi tralasciato, appare una figura bendata
identica alla Melanconia dello stesso periodo, in seguito ciclo della Melanconia bianca.
Malinconia, stato d’animo e pretesto fra i più costanti della mitologia pittorica di Francese. Nella
saldezza dei volumi la malinconia trascolora nella brunitura e nel grigio della cenere, e le tonalità
oscure richiamano il lorchiano mistero del “duende” con tutta la severa riflessione di destino che lo
accompagna, dove la vita sembra servire a preparare la morte e, a sua volta, la morte a sospendere
la vita. Come nelle “Vanitates” iniziate nel 1981, intese quali “natura morta” o in Teschio sulla
finestra sempre anni Ottanta oppure Vanitas, porta socchiusa e così pure Vanitas con teschio e fiori
iniziato nel 1979, tutte varianti di uno stesso registro, in cui si avverte il memento della meditazione
sul teschio, soggetto già presente come prolessi della Melanconia bianca in diversi disegni giovanili
e in Teschio davanti alla finestra del 1946 e nei Crocifissi dello stesso anno. Infatti nella
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In quanto all’aspetto autobiografico della pittura di Francese è chiara la definizione che lo stesso formula nel diario
del 13 agosto 1991: “se sono pittore la mia vita è nelle immagini che costruisco, sia perché in esse si concretizza la mia
esistenza soggettiva sia perché solo nel tracciato delle immagini posso riconoscermi ed essere da altri riconosciuto”.
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Fra le altre nel 1989 riprendeva il tema Convalescenza in un disegno, inserendolo in Visione dell’Atelier con
Convalescenza.
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“Melanconia bianca” la riflessione sulla condizione umana e sulla morte si fa quadro nel quadro
sostenuto all’interno della composizione dalla plastica figura dell’ autoritratto con in primo piano
ortogonalmente accucciato il fedele cane (solo nella Melanconia del 1983, quella bendata, l’animale
appare a lato), mentre una nebbiolina di luce lattiginosa entra dalla strombatura della finestra dello
studio di via Rovello.
L’acqua scorre fra le dita
Ultimo motivo iniziato dopo la metà degli anni Ottanta.
Ritornante ricordo d’infanzia come la mano nell’acqua fredda del Sesia, con la sensazione della
fluidità della materia che scivola dal palmo fra le dita. Il ricordo elabora altre sensazioni con la
prensilità di considerare la barca un possibile guscio, una recinzione di spazio protettivo o
proiezione soggettiva di alveo psichico, quasi una specie di grembo materno per un “regressus ad
uterum”. Nella valva di legno, una racchiusa pulsione tra incubo e sogno che si interiorizza in uno
stato di profondità psicologica nel flusso di tempo e materia quale sedimentazione metaforica del
continuum bergsoniano di matière e mémoire. Un pastello del novembre 1994, fra gli ultimi su
questo tema, titola infatti in modo inusuale “La mano nell’acqua può palpare il flusso plastico della
materia. In questo “Innenraum” avviene il trasferimento di una realtà evocata dalla memoria nello
spazio interiore, riflessa emozione di un lontano gesto.
Per tutti la vita trascina i propri pensieri e l’acqua scorre fra le dita del tempo, il tempo che trapassa
inesorabilmente. Il canto di Franco Francese nei suoi svolgimenti è passato dall’aurorale tensione
dell’eros alla meditazione sempre più avvertita del thanatos. Amore e morte: un’endiadi come la
luce e l’ombra negli accadimenti dell’uomo nella vita e a volte nella dura pena della sua vicenda
quotidiana e che l’artista ha raffigurato in un lungo itinerario di nuclei tematici colmi di risonanza
emotiva, di impulsi psicologici ed empiti evocativi. Ruit hora e il sole tramonta, non solo in città,
ma pure nell’animo e in questa apprensione le interiorizzate, crepuscolari ombre hanno
accompagnato i passi del pittore verso il suo “ultimo imbarco”: un mercoledì, verso sera, il 18
settembre del 1996. Improvvisamente.
Lodi 2011
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