il manuale della marca – l. minestroni

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il manuale della marca – l. minestroni
IL MANUALE DELLA MARCA – L. MINESTRONI
Riassunto di Matteo Pratelli
DA HOMO OECONOMICUS a HOMO RECIPROCANS
Keynes: il consumatore è un attore razionale che segue i principi dell’economicità. Il
consumo varia in funzione del reddito ma non tanto quanto l’aumento del reddito.
Marcuse: la produzione detta il consumo. L’uomo è conformato ai bisogni
dell’industria capitalistica e felice di esserlo, si riconosce nell’oggetto del consumo.
Weber: il consumo è un agire sociale dotato di senso e va interpretato alla luce dei
comportamenti collettivi i quali sono causa di mutamento della struttura sociale.
OGGI SI RITIENE CHE SIA IL CONSUMO A PLASMARE LA CULTURA E LA PRODUZIONE.
Annullati i vincoli di status, è mutato il concetto di identità sociale, che si costruisce
anche attraverso i consumi. La marca diventa un modo per comunicare se stessi.
Bauman sostiene che abbiamo l’ansia di restare sempre “in anticipo” rispetto alle
tendenze e alle mode del branco, in risposta ad un bisogno di riconoscimento sociale.
La marca ha insito un principio di reciprocità che è assimilabile al concetto di dono di
Mary Douglas: ci offre codici di espressione e costruzione identitaria ed è un oggetto
sociale, con forte valenza relazionale, perché crea legame tra le persone. Per questo
siamo disposti a spendere anche più del valore reale in cambio di quel valore
aggiunto, che “trascende” il valore economico.
SI PARLA DEL CONCETTO DI VALUE FOR ME AL CONTRARIO DEL VALUE FOR MONEY.
Le marche esercitano un forte potere emotivo, sviluppano brand attachment cioè
attaccamento alla marca, e brand resonance, una forma di relazione ancora più
intensa e resistente.
CENNI STORICI
La marca all’inizio era essenzialmente marchio, cioè un segno di riconoscimento che
il produttore apponeva sulle commodity, i beni indifferenziati, e serviva più che altro al
dettagliante per riconoscerne la provenienza. Per il consumatore non faceva differenza
una marca o l’altra, a fare la differenza era il consiglio esperto del venditore.
E’ con l’industrializzazione e il consumo di massa che nasce la marca. La commodity
viene brandizzata, cioè gli viene attribuito un valore aggiunto, cosicché il riso non è
riso se non è Riso Gallo oppure lo zucchero non ha lo stesso sapore se non è Eridania. I
beni prima indifferenziati acquistano ora una valenza simbolica nella mente del
consumatore a seconda del marchio che vi è impresso. La competizione è forte tra le
aziende e alle persone serviva una guida per scegliere nel vasto mercato dei prodotti.
Si ricorre alla pubblicità e al packaging per differenziarsi e accattivarsi il cliente.
Nel dopoguerra in Italia il consumo ascende a simbolo di status sociale. Arriva la
grande distribuzione americana nei supermercati. Cambia la mentalità delle persone
che gradatamente sostituiscono i prodotti artigianali con quelli di marca: si passa da
un’etica del risparmio a quella del consumo-valore. Negli anni ’60 si fa più forte il
concetto di status e Alberoni parla di beni di cittadinanza per indicare quei beni
indispensabili per dimostrare l’ascesa ad uno status superiore, come la televisione o la
lavatrice. Lo stile di vita diventa più frenetico e cresce l’anonimato specie nelle città,
le persone usano le marche per risparmiare tempo e per essere guidata nei consumi.
Negli anni ’70 c’è un’inversione di tendenza data dalla crisi petrolifera e dal
movimento Hippie che boicotta la marca e le multinazionali. Nell’89, con la caduta del
muro di Berlino, si legittima definitivamente il consumismo e crescono a dismisura gli
investimenti pubblicitari delle imprese. Nascono le emittenti private, Mediaset prima
fra tutte, e il consumo viene abbinato all’entertainment.
Con la nuova crisi economica del ’93, il consumatore si orienta al risparmio, per cui
proliferano gli hard discount. Il consumatore diventa sempre più esigente e attento
alla performance dei prodotti e alla loro dimensione simbolica e sociale. Verso la fine
degli anni ’90 e per tutti gli anni 2000 Internet costituisce una svolta nella
comunicazione di marca, che riesce a raggiungere così pubblici sempre più vasti.
DISCIPLINA DEL MARCHIO
Il marchio o trademark è un simbolo distintivo che indica il diritto esclusivo ad usare
una certa forma, grafia, colore. Il marchio registrato ha valore giuridico, cioè da diritto
alla tutela legale della proprietà intellettuale di quel segno o nome. Anche un
suono può essere registrato come marchio, come nel caso del rombo della Harley
Davidson o dell’intro della 20th Century Fox. Il vincolo alla registrazione di un marchio
è la sua riproducibilità grafica, quindi un odore difficilmente verrà registrato a
causa della difficoltà nell’isolare graficamente quella specifica essenza, tra le migliaia
di sfumature possibili, attraverso una formula chimica.
In Italia un marchio deve essere registrato presso l’UIMB (Ufficio italiano marchi e
brevetti) ed ha validità decennale. Decorsi i 10 anni può essere rinnovato. In Italia un
marchio non verrà registrato se contrario all’ordine pubblico e al buon costume. Inoltre
il marchio può perdere la sua capacità distintiva, cioè “volgarizzarsi”, a causa
dell’uso generalizzato prolungato. Per esempio nylon, thermos, cellophane, sono tutti
marchi che hanno subito una volgarizzazione e sono diventate parole di uso comune
per indicare tutta una categoria di prodotti.
GLI APPROCCI ALLA MARCA
L’approccio di marketing pone enfasi sull’azienda che usa la marca per raggiungere
il consumatore e vendere il suo prodotto. Essa ha lo scopo di identificare il prodotto o
servizio, distinguerlo dalla concorrenza, offrire valori, sicurezza e garanzia.
L’approccio finanziario pone enfasi sullo stretto legame tra forza di un brand e
valore finanziario dell’azienda. Motivo per cui molte aziende negli anni’90 hanno
concentrato diversi marchi sotto una sola grande corporate.
L’approccio semiotico interpreta la marca come produttore di significati. Ogni marca
genera un discorso di marca da sé e attorno a sé. Gli annunci fanno spesso ricorso a
elementi dalla forte valenza simbolica per guidare il lettore verso una determinata
chiave di lettura del messaggio di marca. Ciò che interessa non è l’esperienza d’uso
del prodotto, ma l’esperienza di decodifica e interpretazione del messaggio che il
prodotto rappresenta. Floch utilizza il quadrato semiotico di Greimas per rappresentare
il sistema di valori che ciascuna marca incarna.
L’approccio testuale vede la marca come un generatore di mondi possibili. Ognuno
di noi attinge a questi mondi per strutturare e organizzare la propria comprensione del
mondo e della vita quotidiana. Umberto Eco pone in risalto come l’interpretazione
degli universi testuali sia una continua battaglia per la negoziazione dei significati, un
meccanismo che richiede cooperazione: da una parte la marca deve incuriosire il
lettore senza dire tutto e dall’altra il lettore deve aver voglia di completare il pezzo
mancante, interpretare il messaggio e farlo proprio attraverso l’esperienza del
consumo.
L’approccio metaforico vede la marca come metafora di qualcos’altro. Il Mulino
Bianco per esempio è la perfetta metafora di un mondo buono e genuino, intriso di
elementi mitici legati alla tradizione e al mangiare sano. La marca è metafora di una
prestazione o beneficio (Volvo=sicurezza) ma anche di uno stile di vita o di uno status
sociale. Altre metafore sono:
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marca come specie vivente: sopravvive la marca che meglio si adatta al
cambiamento
marca come persona: più la marca si comporta come una persona e più
possibilità avrà di attrarre “suoi simili” e quindi consumatori
marca come racconto: la marca crea un “orizzonte d’attesa” per il consumatore,
al pari di un racconto per il lettore, fatto di promesse, linguaggi, stili di
comunicazione che spingono il suo “lettore implicito” o target a proseguire nella
lettura-esperienza di consumo
marca come territorio: la marca può essere considerata al pari di un territorio
con una sua popolazione, un suo linguaggio, una sua cultura e bandiera. Il
management della marca deve difendere senza sosta questo territorio dalle
aggressioni esterne dei competitors o può decidere di attaccare per primo
attraverso operazioni di brand extension per esempio. Viceversa il territorio può
essere una marca a tutti gli effetti e applicare i principi del branding
marca come metonimia: nel caso della volgarizzazione della marca un marchio,
per esempio, scotch (di proprietà della 3M) viene usato per indicare tutti i nastri
adesivi di quel tipo
marca come medium: la marca può essere considerata un medium, cioè un
mezzo di comunicazione, in quanto permette il trasferimento di messaggi da
una comunità all’altra. Per esempio l’azienda la utilizza per mediare i significati
che vuole trasferire al consumatore e attraverso i quali il consumatore media la
propria esperienza di consumo.
LA MARCA OGGI
Ogni marca ha il proprio mondo o brand-world cioè il proprio sistema di segni che
ognuno di noi può utilizzare per esprimersi e organizzare la sua esperienza quotidiane.
Cioè ognuno crea il proprio personal brandscape, il proprio paesaggio di marca,
riconoscendosi in determinati brand piuttosto che altri. Una giornata qualsiasi
potrebbe persino essere riassunta in funzione delle marche di cui ci circondiamo.
La marca è story-teller, racconta una storia, la propria, frutto di un’attenta strategia
nella quale condensa i propri valori e veicola significati per lo più accessibili e familiari
e quindi di facile memorizzazione. Attraverso lo story-telling la marca riesce a riempire
di pathos anche gli oggetti di consumo più banali. E’ importante che la storia sia
coerente nel tempo (brand consistency).
Inoltre la marca è polisensuale, in quanto cerca di coinvolgerci attraverso tutti i sensi
(per es. LG Chocolate) e crossmediale, cioè tende a utilizzare più canali mediatici in
modo complementare e integrato, adattando i contenuti alle peculiarità del canale
stesso. La crossmedialità implica inoltre una marca sempre più 2.0 che spinge gli
utenti alla partecipazione attiva (per es. televoto di X-Factor o NikeID e la
personalizzazione della scarpa) e alla produzione e condivisione dei contenuti, gli usergenerated contents, come i contest artistici lanciati per la promozione di un film. La
marca è poi sempre più disseminata. Basta pensare alle Winx di Iginio Straffi che
hanno dato vista ad un vastissimo merchandising e persino a un musical. La marca si
è inoltre ibridata cioè si assiste spesso a marche che abbracciano più categorie
merceologiche, come Harry Potter (libro e film) oppure compiono operazioni di cobranding (Hello Kitty e Skype) o ancora nascono dove erano solo dominio di fantasia
(la birra Duff dei Simpson immessa nel mercato).
La marca usa sempre più il linguaggio delle emozioni, punta al cuore dei consumatori
ed è attiva socialmente (citizen brand) per es. attraverso azioni di cause-related
marketing; utilizza il punto vendita per mettersi in mostra (per es. temporary store) o
per offrire un’esperienza unica (Hard Rock Café).
In definitiva la marca punta oggi a generare la brand experience, che tanto più è
articolata tanto più sarà memorabile e efficace nel generare valore per il consumatore
e, di conseguenza, per la marca stessa.
FUNZIONI DELLA MARCA
La marca è una sorta di guida nel vasto mercato dei prodotti tra i quali sarebbe
impossibile scegliere secondo la logica di Keynes, quella del decisore razionale che
valuta tutte le alternative e sceglie quella che gli offre il miglior rapporto costobeneficio. In realtà quello di scelta di un prodotto è un processo euristico cioè
dominato da scorciatoie di pensiero che ci consentono di ridurre lo sforzo cognitivo
richiesto dalla scelta.
La marca è la nostra prima scorciatoia cognitiva perché ci offre garanzie di qualità e
di valore (reale o percepito) riducendo così il rischio legato alla scelta di un prodotto
che non si conosce, o di cui si ha scarsa competenza. La nostra sensibilità alla marca
nel processo di scelta dipende proprio dalla quantità di informazioni che possediamo,
ma anche da fattori personali e affettivi.
LA FIDUCIA
Per ottenere effetto sul consumatore la marca deve lavorare molto e guadagnarsi la
fiducia del consumatore. Solo le marche più forti ci riescono. Infatti la fiducia si
conquista col tempo, attraverso un ripetuto processo di esperienza-apprendimento da
parte del consumatore. Inoltre la fiducia è influenzata anche dal comportamento e dai
valori della marca che devono essere condivisi dal consumatore e coerenti nel tempo.
LA PROMESSA DI MARCA
Ogni marca promette al consumatore di generare valore per lui attraverso la
soddisfazione di un determinato bisogno reale o astratto (il cosiddetto end benefit). E’
la reason why o reason to believe, il motivo per cui credere alla marca stessa e
preferirla ad altre (“Dash lava più bianco”). In questo senso la marca è democratica
perché consente al consumatore la possibilità di cambiare se la promessa non viene
soddisfatta.
RIDUZIONE DEL RISCHIO
Oltre che il rischio funzionale legato alle caratteristiche d’uso del prodotto, la marca
assolve anche la funzione di riduttore di rischio fisico e finanziario. Per esempio se
voglio una macchina sportiva e veloce e scelgo una Ferrari, so per certo che sarà
veloce, non mi lascerà a piedi o peggio senza freni, sarà costosa, ma in termini di
rapporto qualità-prezzo saranno soldi ben spesi. Inoltre avere una Ferrari costituirà per
me un vantaggio di immagine azzerando il rischio sociale dovuto ad uno scarso
apprezzamento del mio acquisto. In questo modo avrò soddisfatto il mio desiderio di
avere una macchina sportiva e provandola esperirò un benessere psicologico che
mitigherà il pensiero dell’ingente somma spesa. Inoltre così facendo non avrò perso
tempo a scegliere tra le tante marche di auto sportive, andando a colpo sicuro sulla
migliore della categoria.
Insomma si può affermare che un brand come Ferrari sia un brand forte a tutti gli
effetti, offrendomi garanzie sulla performance, possibilità di personalizzazione e
rispondendo ad un mio bisogno edonistico nel migliore dei modi. La marca infatti è
anche fonte di piacere. Per finire so anche che Ferrari è impegnata socialmente
attraverso la Fondazione Enzo Ferrari, assolvendo quindi a una funzione etica e
rafforzando nella mia mente l’immagine della marca.
LE PRIVATE LABEL
Le marche sono essenziali tanto per i consumatori, quanto per i produttori e i
distributori. La marca consente all’impresa di aumentare la propria valutazione
finanziaria e di avere maggior potere contrattuale con i distributori. Questi a loro
volta si servono delle marche più forti per vendere meglio i prodotti sui propri scaffali
(secondo la logica per cui maggiore è la quota di mercato detenuta dalla marca,
migliore è la propria posizione sullo scaffale). Tuttavia i distributori da diversi anni
hanno introdotto le proprie private label cioè marche private che portano il nome del
distributore (per es. bagnoschiuma a marchio Carrefour), il quale commissiona a
aziende esterne la produzione della propria gamma di prodotti.
Le private label offrono al distributore un doppio vantaggio per via dei bassi prezzi
applicabili e del maggior margine di profitto, oltre che da una libertà di
posizionamento del prodotto sullo scaffale, indipendentemente dalla logica delle
quote.
Il distributore può scegliere la strategia di posizionamento della private label che non
sempre segue una logica low price, infatti può essere:
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marca di primo prezzo, di solito con prezzi inferiori del 50% rispetto alla marca
leader di mercato
marca premium, con prezzo anche del 30% superiore alla marca leader
marca insegna, sotto la quale si collocano la maggior parte dei prodotti, con un
prezzo in media del 25% inferiore alla marca leader
marca bio, si tratta di prodotti biologici per cui anche del 15% più cari della
marca leader (per es. Esselunga Bio, prima in Italia con 250 prodotti bio).
In base alle ricerche di mercato i consumatori sembrano percepire una effettiva
convenienza delle private label anche sul piano qualitativo e quindi non è il prezzo
l’unico fattore a guidarne la scelta. Inoltre le private label si servono di strategie di
camuffamento e imitazione sistematica della marca leader sul piano del nome e del
packaging per ridurre al minimo la differenza percepita e desensibilizzare il
consumatore alla marca. Carrefour, per esempio, diede battaglia a Mulino Bianco
imitando i suoi prodotti con lo slogan “altrettanto buoni, meno cari”.
AGGIUNTA MIA. Non ditelo alla Minestroni, non me ne assumo la responsabilità se poi
vi boccia! In realtà le maggiori private label (Carrefour, Conad, Coop, ecc.) stringono
accordi con le marche leader per farsi produrre i prodotti che poi rivendono come
marca insegna o primo prezzo. Per fare degli esempi il riso FIOR FIORE COOP è
prodotto da Riso Scotti; Il latte UHT Coop è prodotto da Granarolo; la Colomba Conad è
prodotta da Paluani e i Wurstel Conad sono Beretta; i tortellini Carrefour sono Giovanni
Rana e il gelato Esselunga è Sammontana. Solo per citarne alcuni (fonte
http://www.guidaacquisti.net/il-trucco-per-acquistare-prodotti-di-marca-a-meta-prezzo).
Che ci guadagna allora la marca leader? Ci guadagna eccome perché in questo modo
si aggiudica anche la fetta di mercato low price che altrimenti sarebbe stata occupata
dal distributore, riservando a quest’ultimo un giusto margine di profitto ovviamente.
Così al distributore non cambia niente e sono tutti contenti. Al consumatore cambia
invece che così facendo può risparmiare anche il 50% acquistando lo stesso prodotto
“di marca”!
IDENTITA’ DI MARCA
Per identità di una marca si intende l’insieme dei significati e dei significanti che la
marca trasmette al mercato, al fine di ricavarne un vantaggio competitivo sui
concorrenti in termini di distintività e valore aggiunto. Senza un’identità la marca
sarebbe solo un logo su una confezione. E’ la marca che decide che identità veicolare
e costruire nel tempo: è il suo carattere, il suo potere emotivo e contrattuale con il
consumatore, la sua mission e vision. L’identità incarna in sostanza valori di
prodotto (corrispondono in genere col prodotto di punta, per es. Nutella-Ferrero,
iPhone-Apple), contenuti emotivi (alla base di una relazione duratura), valori
sociali (assunzione di responsabilità, principi etici, ecc.) e cultura d’impresa (i
principi che guidano l’impresa, x es. P&G = innovazione).
LA VERSIONE DI AAKER
L’identità di marca ha una struttura concentrica costituita da due cerchi. Quello
interno è la core identity, il nucleo della marca, costituito dai suoi elementi più
caratterizzanti, che rispecchiano i valori e la strategia e dovrebbero rimanere stabili
nel tempo, anche in caso di operazioni di estensione a nuovi mercati o prodotti (brand
extension, brand stretching, ecc.). Il cerchio esterno è invece l’extended identity,
cioè l’insieme degli aspetti di marca che pur non essendo core partecipano a costruire
l’identità complessiva della marca, come la sua personalità, i suoi benefici emotivi e
l’immagine del suo utilizzatore ideale.
IL PRISMA DI KAPFERER
Kapferer concettualizza l’identità di marca attraverso un prisma ideale, che
graficamente corrisponde a un esagono. I sei lati rappresentano ognuno una
dimensione e tutte le dimensioni dell’identità si influenzano reciprocamente. Le
dimensioni sono:
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luogo fisico (lato nord-ovest), è il dominio concreto della marca, l’elemento
tangibile e distintivo che la marca evoca immediatamente. Può essere un
simbolo, un personaggio, un prodotto capostipite o una qualità (Barilla=blu,
Volvo=sicurezza, Ferrero=cioccolata, Bialetti=omino coi baffi)
personalità (lato nord-est), è il carattere della marca che si forma non appena
una marca comincia a comunicare. Spesso si ricorre a un testimonial che
riassume le qualità della marca e ne diventa portavoce. Può essere un
personaggio reale e famoso (Ferilli per poltronesofà, Brignano per Lavazza) o
un personaggio di fantasia (cowboy Marlboro, Mastro Lindo, Super Mario per
Nintendo). A volte l’imprenditore stesso si espone in prima persona (Giovanni
Rana).
cultura (lato est), è l’universo di culturale che la marca veicola, fatto della sua
storia, delle sue tradizioni, dei suoi valori ed espressioni.
relazione (lato ovest), è l legame simbolico che si crea con l’interlocutore, il
patto con il consumatore, il discorso sociale della marca. Nike con il Just do it! o
L’Oreal con Perché voi valete si sono entrambe rivolte alle persone con un
chiaro messaggio
riflesso (lato sud-ovest), costituisce l’immagine esterna che la marca riflette,
che si identifica con il suo consumatore tipo (per es. consumatore
Apple=persona smart). E’ diverso dal target. Infatti i due possono anche non
coincidere come nel caso di Nike che con le Air Jordan si rivolgeva ai giocatori di
basket professionisti, tuttavia è riuscita a creare, di riflesso, l’immagine
dell’utilizzatore ideale della marca: chi indossa Nike è una persona atletica e lo
comunica al mondo
mentalizzazione (lato sud-est), è la rappresentazione interna che l’individuo
si fa della marca (contrario del riflesso). Kapferer suggerisce come la Porsche sia
mentalizzata dal consumatore-tipo come un traguardo da raggiungere, un
segno del proprio successo. Al contrario ciò che il guidatore Porsche riflette
all’esterno è l’immagine di uno “sbruffone esibizionista”. La prima ha una
valenza positiva, l’altra negativa. Al contrario Lacoste è riuscita a far coincidere
le due dimensioni, in quanto la mentalizzazione del consumatore Lacoste è
quella di membro di un club sportivo ma non esclusivo, democratico. In Francia
la marca è riuscita a trasmettere di riflesso un’immagine molto simile.
LE ENCICLOPEDIE DI SEMPRINI
Semprini considera l’identità di marca in chiave sistemica, come frutto dell’incastro di
tre sotto-sistemi che chiama Enciclopedie:
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l’Enciclopedia della Produzione, che racchiude la cultura e i valori dell’azienda,
gli obiettivi di breve e lungo termine, il mix di comunicazione, la visione del
contesto di socio-culturale e di mercato, la prefigurazione degli altri sottosistemi
l’Enciclopedia del Contesto, che è determinata dall’ambiente esterno (mercato,
cultura, legislazione, concorrenza, ecc.) e dall’influenza delle altre Enciclopedie
l’Enciclopedia della Ricezione, che include atteggiamenti, motivazioni, valori,
pratiche di consumo e interpretazione della Produzione e del Contesto.
CAMBI DI IDENTITA’: IL CASO DASH
La marca deve stare molto attenta a mantenere un’identità coerente nel tempo.
Quando si decide di attuare una strategia di modifica alla propria identità si corre il
rischio che le persone non ci riconoscano più. E’ quello che è successo a Dash quando
decise, nel 2006, di cambiare il claim con il quale aveva annunciato la propria forza
per decenni “Dash, più bianco non si può” in “Dash, più luce alla tua vita”. La scelta,
dettata da un’esigenza di ringiovanimento e rassicurazione della non aggressività del
prodotto, si è rivelata un flop totale. Infatti la marca non era più riconoscibile, aveva
perso l’attributo pratico di “prodotto sbiancante” per assumere una connotazione più
astratta e esistenziale, che i consumatori non hanno apprezzato.
IDENTITA’ DI GENERE: CASO YORKIE
A volte i brand possono decidere di eleborare scelte identitarie molto selettive e
ristrette ad una precisa categoria. Yorkie è una barretta al cioccolato della Nestlé che
ha scelto un posizionamento particolare: quello di baretta “per maschi” e lo ha
comunicato in modo ben chiaro attraverso claim come It’s not for girls con il sibolo di
“vietato alle femmine”. Partendo dal concetto che mangiando la cioccolata gli uomini
affermano la propria mascolinità (in quanto masticano rumorosamente, fanno tante
smorfie e si sporcano di più) Yorkie ha deciso di diventare il veicolo di quella
riaffermazione di genere, rivolgendosi esclusivamente al pubblico maschile.
USP e UEP
La Unique Selling Proposition è una teoria di successo elaborata negli anni ’40 da
Rosser Reeves e applicata ancora oggi, secondo la quale le comunicazioni di marca
che funzionano di più sono quelle che puntano su un solo elemento distintivo o
proposizione di vendita. Bisogna comunicare ai consumatori promesse uniche, che la
concorrenza non può offrire e che siano così forti e rilevanti per le persone da
spingerle all’acquisto. L’USP rientra nelle strategie di posizionamento, in base alle
quali la marca decide come vuole essere rappresentata nella mente delle persone.
M&M’s per esempio venne lanciata da Reeves che la annunciò come “il cioccolato che
non si scioglie in mano”, indicando un solo elemento di chiara distintività rispetto ai
competitor.
Quasi contemporaneamente Leo Burnett elaborò un concetto diverso, ma altrettanto
efficace: la teoria della Unique Emotional Plus, secondo la quale è il contenuto
emozionale insito nella marca o prodotto la cosa più importante. E’ grazie ad esso che
la marca instaura un rapporto di vicinanza alle persone e conferisce al suo prodotto,
anche al più banale, un vantaggio competitivo. Un UEP si può ottenere dotando la
marca di un set di attributi di personalità attraenti e coinvolgenti, emozionali, per
esempio utilizzando un brand character che riassuma in sé questi tratti. Un caso di
successo a cui Burnett applicò la sua teoria è quello di Marlboro. Da marca di sigarette
femminili, il brand voleva rivolgersi ad un target maschile per cui Burnett pensò di
creare un testimonial mitico, l’Uomo Marlboro, macho e forte, il prototipo del cow-boy
americano.
Sia l’USP che l’UEP costituiscono quello che Aaker ha chiamato branded
differentiator, cioè l’elemento che serve a creare un punto di differenziazione per la
marca. I differenziatori in genere giovano particolarmente a brand giovani e, per
riassumere, possono consistere in:
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una funzione (Gatorade reintegra i sali minerali)
un attributo (Riso Gallo è pronto in 5 minuti)
un ingrediente o tecnologia che aggiunge valore alla marca (Activia con Bifidus
Actiregularis, North Face con tecnologia Gore-Tex)
un servizio di marca (su Amazon puoi pagare con PayPal)
un programma di marca (Programma fedeltà Mille Miglia di Alitalia)
e infine
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un beneficio emotivo o di auto espressione, detto anche end benefit cioè un
valore aggiunto più implicito e astratto, ma comunque di grande forza, insito
nell’utilizzo del prodotto. Per es. il detersivo che lava più bianco già al primo
lavaggio permette alla mamma di risparmiare tempo da dedicare alla famiglia o
a sé stessa (beneficio emotivo); oppure “se sostengo Greenpeace sono attento
all’ecologia” (beneficio auto espressivo).
NAMIN E LOGO
Naming
Il momento della scelta di un nome per la marca è cruciale perché quel nome la
identificherà nella mente del consumatore e difficilmente potrà essere cambiato senza
conseguenze negative per il brand. Il nome può essere descrittivo del prodotto
(Pagine Gialle) o evocativo, cioè rimandare a significati e associazioni simboliche
(Apple non c’entra niente con un computer, ma rimanda a freschezza, informalità,
semplicità, innovazione). Il nome deve difendibile legalmente per cui non si
potrebbe mai chiamare una azienda petrolifera “Diesel”, perché non sarebbe
denotativo di proprietà essendo una semplice descrizione della categoria. Tuttavia lo si
può utilizzare per una marca di jeans. Il nome in questo caso è sia una garanzia per il
brand di differenziazione dalla concorrenza, sia per il consumatore che può orientarsi
più facilmente nel mercato.
La strategia di naming del brand deve rientrare in un’ottica a lungo termine e può
influenzare anche la brand architecture stessa come nel caso di Ford che storicamente
a chiamato moltissimi modelli con la lettera “F” iniziale (Fiesta, Fusion, Focus,ecc.) o
di IKEA, che sceglie nomi da uomo per sedie o librerie e nomi da donna per per tende
e tessuti. Così facendo la marca dona coerenza interna al proprio brand e questo ha
ovviamente un riflesso positivo sull’immagine del consumatore. La scelta di un nome
sbagliato può compromettere la vendita di un prodotto, specie se non si tengono in
conto fattori culturali. Per es. la Chevrolet Nova, che vendette benissimo negli USA,
fu un flop in Messico, dove il nome dell’auto richiamava l’espressione spagnola “no
va”, cioè “non funziona”. In alcuni casi quindi è essenziale valutare un re-naming, che
può anche essere utile a comunicare un’identità nuova (per es. nel caso di acquisizioni
come per Omnitel che è diventata Vodafone).
Logo
Il logo svolge, assieme al nome, le funzioni principali di identificazione,
differenziazione e memorizzazione del brand. Il logo è una garanzia di qualità per il
consumatore. Con esso il brand comunica la propria identità, personalità. Il logo
dovrebbe evocare gli attributi fondamentali della marca o prodotto, esprimere sintonia
al proprio target (utilizzandone i codici espressivi) ed essere coerente al brand name
(utilizzando uno stile che ne evochi il contenuto). Il logo è di solito costituito da un
lettering e da un simbolo. Il simbolo può essere figurativo (il coniglietto di Playboy),
astratto (swoosh di Nike) o anche un personaggio (Ronald McDonald, Mastro Lindo).
Packaging
E’ il contenitore del prodotto, quindi serve a proteggerlo e a preservarlo, ma è anche
un potente veicolo di comunicazione con il consumatore. Esso racconta una storia,
quella del brand, ma anche scelte stilistiche di design, innovazione e cura dei dettagli.
Pay-off
Il pay-off è lo “slogan” che spesso accompagna la marca ovunque vada, specialmente
nei messaggi pubblicitari, e dovrebbe condensare in una breve espressione il
posizionamento, i valori e il DNA di una marca. Alcuni pay-off di successo: il Just do it!
di Nike che invita all’azione; il No Limits di Sector che esorta a non porsi limiti; il
Perché voi valete di l’Oreal, un appello al valore individuale; il Think Different di Apple,
un appello a pensare fuori dal coro.
IMMAGINE DI MARCA e REPUTAZIONE
L’immagine di una marca è l’insieme delle percezioni e delle associazioni che i
consumatori si formano nella propria memoria in riferimento alla marca stessa.
Cosa contribuisce a formare l’immagine? Le caratteristiche del prodotto e l’esperienza
diretta della marca sono fondamentali, infatti un consumatore insoddisfatto si formerà
un’immagine pessima della marca (e farà anche cattiva pubblicità peggiorando la
brand reputation). Inoltre contribuiscono anche la comunicazione della marca, sia
diretta attraverso la pubblicità, che indiretta attraverso la rappresentazione che ne
danno i media. Fatti di cronaca negativi che coinvolgono la marca possono essere
molto dannosi per la brand image. Inoltre una comunicazione debole, poco efficace o
incoerente può essere altrettanto deleteria. Anche la contraffazione costituisce negli
ultimi anni un grande problema specialmente per la case di moda che vedono
indebolirsi l’appeal della marca a causa della sua volgarizzazione (specialmente
quando è ingannevole, cioè il consumatore non si accorge della differenza).
A volte ad un’azienda serve un cambiamento di immagine in quanto riconosce che il
proprio brand ha un’immagine antiquata o connotata negativamente dal pubblico. Una
strategia da perseguire è l’introduzione sul mercato di prototipi, termine usato per
primo da Kapferer, il quale riporta il caso Mercedes che negli anni ’90 era ormai
percepita come una macchina per “ricchi pensionati” o “manager in carriera”.
Pomposa, ostentativa, poco dinamica. La casa automobilistica optò allora per
l’introduzione del prototipo “Classe A”, un’auto giovane, dalla forte personalità,
compatta, che poteva contare sulla qualità e lo stile Mercedes, ma rivolgendosi ad un
target più giovane e dinamico. Oppure Nike, che da marca dura e inflessibile, troppo
tecnica, maschilista. Decise di attuare un cambio di rotta a seguito del sorpasso
storico da parte di Reebok, nel 1987, sul fronte del mercato femminile. Nike introdusse
nuovi prototipi rivolgendosi anche al pubblico femminile e ad attività “più ricreative”
(interval training) che esulassero dal dominio assoluto del running.
Una marca può essere minacciata dalle cosiddette fonti parassite come il me too o il
look alike di alcuni brand inferiori che mirano a seguire e a mimetizzarsi con la marca
leader, intaccandone la fetta di mercato. Anche il brand extension, lo stretching o il
licensing sono due pratiche che se non attentamente studiate a tavolino possono
rivelarsi dei grandi fallimenti e indebolire l’immagine (Chiquita con il lancio dei sorbetti
alla banana durante una crisi del mercato o Pierre Cardin che arrivò a firmare qualsiasi
cosa concedendo in licenza il proprio marchio e diminuendone il valore). Inoltre l’uso
prolungato di un testimonial può cannibalizzare l’immagine della marca in favore di
quella del testimonial stesso. Infine l’identità fantasma, che rientra nella sfera della
soddisfazione del cliente, intacca l’immagine quando la marca crea delle aspettative di
valore che poi si rivelano infondate (Microsoft con Windows Vista).
La brand reputation, a differenza della brand image, si riferisce non a ciò che la
gente percepisce della marca, ma a ciò che effettivamente dice di essa, a come ne
parla. La reputazione di una marca aiuta il consumatore nel momento dell’acquista,
ovvero la sceglie perché “ne ha sentito parlare bene”. Ha una forte connotazione
morale, infatti è fortemente influenzata comportamento sociale della marca, la
cosiddetta brand citizenship. Oggi la marca si espone moltissimo ad attacchi alla sua
reputazione specialmente sul web, dove le notizie viaggiano velocissime e su scala
globale.
Diversa, è la brand awareness (collegata alle euristiche di pensiero tipo “se la
conosco vuol dire che è buona”), cioè la notorietà di marca, che partecipa alla
misurazione della brand equity, il valore complessivo di una marca. Essa può essere
misurata attraverso prove di ricordo spontaneo (unaided recall) o di riconoscimento
(aided recall). Le marche che per prime vengono in mente quando si pensa ad una
determinata categoria merceologica sono dette Top of Mind e corrispondono in genere
ai leader di mercato (per es. macchine sportive = Ferrari, Lamborghini, Maserati). La
marca dominante è la prima citata e a volte l’unica di una categoria (magari perché ha
inventato la categoria, come Red Bull per gli Energy drink).
FEDELTA’ ALLA MARCA
La fedeltà alla marca o customer loyalty è la misura dell’attaccamento dei
consumatori al brand. Indica il tasso di ri-acquisto cioè la capacità del brand di
generare una scelta ripetuta di acquisto nel tempo di un determinato prodotto o
servizio. Nella piramide della fedeltà di Aaker, l’autore individua diversi gradi di fedeltà
che vanno dal più basso, cioè “l’acquirente infedele”(la cui discriminante è il prezzo),
all’acquirente soddisfatto con costi di cambiamento, a quello “innamorato della
marca” fino a quello pienamente coinvolto, che si riconosce nell’utilizzo della marca in
quanto adempie ai propri bisogni di auto espressione e riconoscimento sociale. In
questo caso la variabile prezzo può diventare irrilevante.
La fedeltà alla marca risente di alcuni fattori come l’acquisto d’impulso, che per sua
natura non prevede una pianificazione. Si è ormai soliti considerare fedeli i
consumatori che riacquistano la marca nel 50% dei casi (40% nel mercato
automobilistico). Le marche utilizzano strategie di custode retention, cioè di
fidelizzazione, per esempio attraverso la distribuzione di carte fedeltà, le quali
permettono di accumulare sconti e premi, ma sono anche un ottimo strumento di
segmentazione dei clienti, sulla base di dati reali sulle abitudini di acquisto degli
stessi, che consentono alle aziende di elaborare strategie mirate. Lle norme vigenti in
materia di privacy (24 febbraio 2005) stabiliscono che le informazioni trattenute con le
Carte Fedeltà non possono essere conservate per più di 2 anni (per le ricerche di
mercato) e devono rispettare i dati sensibili del cliente riducendo al minimo le
informazioni personali.
POSIZIONAMENTO
Come il nome stesso suggerisce il posizionamento di una marca o prodotto si riferisce
a come l’azienda decide di collocarsi nella mente del consumatore target rispetto alla
concorrenza. Una strategia di posizionamento efficace dovrebbe quindi puntare su un
elemento di differenziazione che sia rilevante per il cliente.
Lo strumento più usato per elaborare una strategia di posizionamento è la mappa
percettiva, cioè un sistema cartesiano dove vengono collocate le marche concorrenti
rispetto ad alcune variabili scelte arbitrariamente (per es. qualità e prezzo), sulla base
della percezione dei consumatori. In questo modo il brand che vuole posizionarsi può
rendersi conto di quali rischi dovrà affrontare e quali barriere in ingresso possono
esserci. Potrà decidere di attaccare direttamente la marca leader (scelta rischiosa)
oppure di rivolgersi ad una nicchia, ma in entrambi i casi dovrà avere ben chiaro il
proprio target di riferimento. Per far questo il brand dovrà segmentare il pubblico in
base a caratteristiche demografiche (età, sesso, reddito), ma soprattutto in base ai
bisogni, gli stili di vita, la cultura, i valori.
Le leve di posizionamento possono essere diverse e dipendono dalle caratteristiche
del prodotto e dalla categoria di consumo. Possono essere tangibili, cioè fare leva su
benefit concreti offerti dalla marca (prezzo, tecnologia, occasioni d’uso, ecc.), oppure
intangibili, che riguardano la sfera emotiva del consumatore. Possono ricorrere ad un
testimonial famoso, puntare sull’effetto paese di origine (“il vero parmigiano italiano”)
o porsi in antitesi con un concorrente (“rispetto a X noi siamo più convenienti”).
Quando non si può attaccare la marca leader perché troppo forte e con mezzi
finanziari superiori, il brand può sceglier di posizionarsi al di sotto di essa. Caso di
successo è quello della Hertz, che non potendo competere con Avis, leader nel
mercato del noleggio auto, si posizionò come la numero 2 senza vergognarsene, con il
motto we try harder, cioè ci “impegnamo sodo”. Oppure quello di 7-Up che si firmò
come la uncola, la “non cola” non potendo imitare Coca-Cola, ma facendosi amare per
la sua personalità.
MODELLI DI POSIZIONAMENTO
Kapferer propone il quadrilatero, un modello di riferimento per costruire una corretta
strategia di posizionamento fatto di quattro domande essenziali a cui l’azienda deve
saper rispondere prima di inserirsi sul mercato:
-
-
perché? cioè la reason to believe, il motivo per cui il consumatore dovrebbe
scegliere la marca
per chi? cioè a chi si rivolge la marca, qual è il suo target (Bear è nata come
marca per surfisti, adesso si rivolge a chiunque voglia “sentirsi surfista”)
quando? cioè l’occasione di consumo, il tipo di fruizione che appartiene alla
marca (Fiesta per quando “non ci vedi più dalla fame”; Coca-Cola è riuscita a
posizionarsi come la bevanda per ogni occasione con il motto Always Coca-Cola)
contro chi? cioè avere ben chiaro il proprio ruolo rispetto ai competitor (Dixan
è competitor diretto di Dash; De Cecco di Barilla; Burn di Red Bull, ecc.).
Lombradi semplifica il modello utilizzando la metafora del territorio, che risponde alla
domanda “che cos’è il prodotto?”, seguita dal target (per chi?) e dal beneficio (cosa
offre la marca?).
LA MARCA CORPORATE
Per Corporate si intende l’impresa che sta dietro il brand, ovvero un portafoglio di
brand. Di solito infatti noi conosciamo solo le marche perché sono le uniche ad essere
pubblicizzate, mentre la Corporate non compare, rimane nell’ombra, con lo scopo di
coordinare ed elaborare le strategie per le diverse divisioni di prodotto (business
unit) e di curare gli aspetti prettamente economici (le economie di scala) e finanziari
della marca. Inoltre ha la responsabilità di allineare tutti i suoi brand sotto un sistema
di valori comune, ma ha pure una responsabilità sociale che, se mal gestita può
ripercuotersi negativamente sui propri brand (effetto della fonte).
Fino alla fine degli anni ’80 in Occidente si pensava che dovessero essere solo le
marche a parlare, in quanto la Corporate doveva rimanere solo un soggetto
finanziario, una questione di azionisti e investitori insomma. Uno degli esempi più
esemplari è P&G o Unilever, entrambe con decine di brand diversi al proprio
portafoglio e che, tuttavia, non si sono mai firmate (freestanding brand). Tuttavia negli
ultimi anni si è assistito ad una inversione di tendenza in quanto le Corporate hanno
capito l’importanza di comunicare con il cliente.
A fare da modello sono stati i giapponesi che da sempre utilizzano questo approccio.
Le grandi industrie nipponiche come Yamaha e Mitsubishi, infatti, firmano col proprio
nome tanti prodotti differenti (architettura monolitica), dalle moto ai motori per la
nautica, ai pianoforti, ai beni alimentari. In Giappone, infatti, la reputazione
dell’azienda produttrice è fondamentale per costruire legami solidi con i consumatori.
Tuttavia anche loro ultimamente si stanno invece convertendo in parte al modello
occidentale, in quanto in alcuni mercati è più vantaggioso differenziare che unificare
sotto la stessa effige.
E così L’Oreal nel 1998 ha cominciato ad utilizzare una sola visual identity e un sollo
pay-off “perche voi valete” per tutti i suoi prodotti, capendo l’importanza di curare la
marca corporate. Ultimamente anche P&G, che è sempre rimasta silente, sta facendo
Corporate branding attraverso una comunicazione autoreferenziale che ne esalta
concetti come la mission e la vision. La prima esalta lo scopo d’impresa, la
giustificazione dell’esistenza della marca, che si riassume nel Brand Mission
Statement (Ikea “creare una vita quotidiana migliore per la maggior parte della gente”
o Nike “Creare Sogni”). La vison invece è incentrata su uno scenario futuro da
inseguire, gli obiettivi di lungo termine del brand (Pepsi “Essere il catalizzatore del
cambiamento di un’intera generazione”). Alcune Corporate come Gruppo Barilla o
Nestlé, pur non comunicando in modo esplicito, usano codici espressivi affini e
coerenti in tutta la loro comunicazione di marca, rendendosi riconoscibili e fungendo
da garante dei vari sub-brand (si parla di Endorsed brand).
LA BRAND EQUITY
Anche la marca Corporate, come i suoi sub-brand, ha un valore di marca o brand
equity che è fatto di elementi tangibili e intangibili (asset). Tra quelli intangibili
troviamo la brand identity, la brand image (che partecipa per circa il 5% del potere
contrattuale della marca) e la brand reputation (che si forma nel tempo).
Gli approcci alla misurazione del valore di una marca sono essenzialmente di tre tipi.
Si dicono:
-
consumer based quelli che si basano sul valore percepito dal consumatore
asset based quello che si basano sugli asset (tangibili e intangibili)
business oriented quelli che prendono in considerazione quanto, in termini
monetari,
brand image, brand awareness e
loyalty siano in grado di
influenzare la risposta dei consumatori alle politiche di marketing (detto effetto
differenziale; è positivo quando per es. la marca influisce provoca bassa
sensibilità del consumatore all’aumento del prezzo o alla diminuzione degli
investimenti in pubblicità).
MODELLO CBBE DI KELLER
Secondo il modello CBBE la forza di un brand è rappresentata da tutto ciò che i clienti
hanno appreso o sperimentato nel tempo in merito a quel brand. Il modello CBBE
(Consumer Based Brand Equity) è oggi utilizzato per mettere a punto brand forti,
infatti studia con approccio cognitivista come riuscire a stabilire nella mente dei
consumatori set di idee e percezioni sul brand, che siano funzionali al posizionamento
competitivo dell’impresa. I tre elementi della brand equity sono conoscenza del brand,
effetto differenziale e la risposta alle politiche di marketing.
Se la marca non riesce a provocare alcun effetto differenziale si associa alle
commodity, la merce comune. La chiave del valore del brand è, secondo Keller, proprio
la conoscenza del brand stesso che si traduce in brand awareness , la forza del
ricordo della marca stessa, e brand image la forza delle associazioni positive al brand
nella mente del consumatore. La conoscenza della marca offre un triplice vantaggio:
quello di apprendimento (“ho capito che questa marca fa telefoni ”), quello di
considerazione (“ho capito che questa marca fa telefoni buoni”), quello di scelta (“nel
dubbio tra questa e quella marca scelgo questa perché la conosco”).
Secondo Keller il brand riesce a sedimentarsi nella mente del consumatore attraverso
l’esposizione ripetuta alla marca stessa. Ma la quantità non basta, le esposizioni
devono essere di qualità per creare associazioni positive, forti e durature.
LA PIRAMIDE CBBE
Keller identifica 4 stadi che portano alla creazione di una marca forte. Si tratta di un
modello generativo riferito alla capacità della marca di creare valore per il
consumatore. Ogni stadio corrisponde al livello di una piramide, per cui partendo
dalla base si ha:
-
-
-
-
STADIO 1 (base della piramide): prominenza del brand , cioè lo stadio in cui
l’impresa deve creare consapevolezza della marca. La marca deve rendersi
riconoscibile e memorizzabile, facendo si che il pubblico la identifichi con una
specifica categoria merceologica (Risponde alla domanda “chi sei?”)
STADIO 2 (secondo livello): immagine/performance del brand , cioè lo stadio in
cui l’impresa deve lavorare per imprimere nella mente del consumatore il
significato della marca. E’ il momento in cui il consumatore si crea un’idea di
cosa sia il brand (immagine) e di cosa fa (performance), sia direttamente
(esperienza di consumo) sia indirettamente (Marketing, pubblicità). Risponde
alla domanda “cosa sei?”
STADIO 3 (3° liv): giudizi/sensazioni sul brand, cioè il momento in cui la marca
deve creare una risposta positiva all’immagine che si è creata. Il consumatore
crea cioè giudizi di valore riferiti a alla marca, in particolare in termini di qualità,
credibilità, considerazione, superiorità del brand. Anche le sensazioni sono
importanti; il consumatore dovrebbe sviluppare una reazione emotiva positiva
all’esperienza col prodotto. (risponde alla domanda “cosa penso di te? che
sensazioni mi susciti?”)
STADIO 4 (vertice): Risonanza, l’ultimo stadio, quello in cui la marca deve
riuscire a trasformare la risposta positiva del consumatore in un relazione attiva
(active engagement) e duratura (fedeltà). La risonanza si riferisce all’intensità
del legame psicologico/affettivo tra individuo e marca, al senso di attaccamento
e di comunità. E’ il vero “feeling” con la marca, cioè il massimo valore per il
consumatore.
A Keller è stato criticato l’approccio troppo cognitivista, accusato di non aver lasciato
abbastanza spazio ad una lettura interpretativa della marca da parte del consumatore,
alla sua capacità di contrattazione e filtro. Il consumatore viene più visto come un
“terreno vergine” su cui il brand può lavorare a suo piacimento e imprimere il proprio
segno.
BAV (Brand Assett Valuator)
Il BAV è uno strumento di misurazione della brand equity messo a punto nel 1993
dall’agenzia pubblicitaria Young & Rubican. Tale modello compara tra loro migliaia di
brand permettendo di valutarne lo stato di salute attuale e le potenzialità future.
Esso utilizza un sistema di assi cartesiani che formano 4 quadranti (Power Grid). Da
sud a nord si misura la Forza di una marca (diversità e rilevanza), mentre da ovest a
est la sua Statura (familiarità e stima). La Forza è il potenziale di crescita futura o
vitalità della marca ed è composto dalla sua diversità, cioè cosa la rende differente
dalle altre, e dalla rilevanza, cioè se questa differenza la rende realmente importante
nella mente del consumatore. La Statura indica la grandezza della marca, ciò che ha
costruito nel tempo ed è la combinazione di: familiarità cioè il grado di conoscenza
profonda del brand, la capacità di considerarla “di casa”; e stima cioè quanto la marca
è apprezzata, tenuta in considerazione dai consumatori. Una stima superiore alla
familiarità è tipica delle marche giovani, il contrario è tipico delle marche percepite di
bassa qualità.
La combinazione di Forza e Statura colloca la marca in uno dei quadranti del Power
Grid. Dalla sua posizione possiamo capire l’età anagrafica del brand:
-
-
nel quadrante di Sud-Ovest si collocano le marche appena nate, che non
hanno né forza né statura in quanto all’inizio del loro ciclo di vita;
nel quadrante di Nord-Ovest si trovano le marche che stanno acquistando
Forza ma non hanno ancora Statura. Da qui possono diventare marche di
nicchia e restarvi, oppure diventare mass brand e crescere di statura fino al
quadrante di nord-est;
nel quadrante di Nord-Est si trovano le marche leader di mercato, i
megabrand o mass brand.
nel quadrante di Sud-Ovest infine si trovano le marche in declino, che hanno
perso Forza (vitalità) ma hanno ancora una loro Statura perciò possono rivivere
una nuova fase di crescita e ritornare nel quadrante sud-ovest. Oppure possono
cadere nel dimenticatoio.
LA BRAND PERSONALITY
Le ricerche psicologiche hanno indagato le motivazioni profonde dietro le scelte di
consumo. Ne è scaturito che la marca è uno strumento che l’individuo usa per ridurre
la distanza tra sé ideale e se reale. La ragione è da ricercare nella relazione affettiva
che il soggetto instaura con la marca, specie se questa ha una personalità vicina a
lui.
Su questa base molte marche hanno di recente sviluppato un approccio basato sulla
metafora marca-persona, che permette di comunicare più efficacemente,
connotando il discorso col consumatore di elementi prettamente umani. Oggi le
imprese analizzano il rapporto del consumatore con la marca in termini di stima,
familiarità, amicizia tutti aggettivi che si riferiscono più alle persone che ai prodotti
(per es. sentiment analysis) .
La personalità della marca è essenziale nel stabilire un legame profondo con le
persone. Basti pensare a Coca-Cola che durante i blind-test della Pepsi Challenge, la
sfida lanciata da Pepsi Cola, perdeva in termini di gusto al quale i consumatori
preferivano Pepsi. Eppure all’atto pratico dell’acquisto vinceva sempre Coca-Cola, gli
americani non la tradivano. Apple ha fatto un chiaro uso della metafora marca-persona
per comunicare una personalità più user-friendly, dopo i tempi dello spot dal tono cupo
stile Orwell 1984 per il lancio del Mac, che l’aveva troppo disumanizzata. Nello spot del
2006 Apple ritorna in chiave più umoristica impersonando il Mac con un ragazzo smart
e casual, in netto contrasto col PC, un uomo maturo con problemi di obesità, un
businessman decisamente poco “cool”. I due diventano l’immagine di due mondi
opposti, due modi di essere agli antipodi (http://www.youtube.com/watch?
v=l_MkOODq6Tg).
La personalità di una marca si esprime, nel modello di Jennifer Aaker degli anni ’90,
attraverso 5 dimensioni o Big Five: SINCERITA’ – ECCITAZIONE – COMPETENZA –
SOFISTICAZIONE – RUVIDEZZA.
IL TERRITORIO DELLA MARCA
BRAND EXTENSION E STRETCHING
Per estensione di marca si intende un’operazione con cui la Corporate decide di
estendere il dominio del proprio brand ad altri prodotti tendenzialmente affini al core
business dell’impresa. Questa pratica esplose negli anni ’80 quando le Corporate si
accorsero che era molto più economico capitalizzare il valore di una marca già solida
piuttosto che crearne una nuova. Infatti il prodotto-estensione della marca usufruisce
del cosiddetto effetto alone della marca madre, cioè dei vantaggi connessi a
familiarità e prestigio del brand. In questo modo le marche hanno attuato moltissime
operazioni di estensione che si distinguono in:
-
-
-
line extension o estensioni di linea, quando l’impresa immette varianti del
prodotto originario, ma rimanendo saldamente ancorata al posizionamento
primario (per es. Gran Soleil Ferrero al Limone, mandarino e caffè; oppure
Mercedes Classe E, Classe E, M; Coca-Cola in PET o lattina, ecc.)
brand extension per cui la marca si spinge verso nuovi comparti merceologici,
ma comunque molto affini o complementari a quello primario (per es. Liquore al
caffè di Starbucks, spazzolino di Mentadent). A volte il brand sfrutta la propria
esperienza e credibilità per estendersi a nuovi mercati come Parmalat con i
succhi freschi, ma rimanendo comunque in un settore contiguo cioè quello delle
bevande “naturali”. Oppure il brand può sfruttare la propria immagine come nel
caso dei cosmetici firmati Jennifer Lopez.
brand stretching, a differenza delle altre due in questo tipo di estensione la
marca si allontana dal core business avventurandosi in mercati nuovi, che non
erano dominio dell’impresa. E’ un’operazione delicata che va valutata con
attenzione. Un caso di successo è quello di Virgin che ha dato il proprio nome a
una bevanda a base di cola, a una compagnia area, una radio, una palestra,
ecc.). Ma ci sono anche tanti fallimenti come quello del profumo firmato Zippo o
del cappotto della Samsonite.
CO-BRANDING
Il co-branding è un accordo tra 2 o più marche della stessa Corporate (Gilette e
Braun entrambi P&G) o di imprese diverse che intendono avvalersi l’uno dell’immagine
e dell’esperienza dell’altro nella propria specifica area di competenza, per dare vita a
un business comune. L’accordo può avere valore temporaneo (McDonald con gli Happy
Meal firmati dai grandi marchi come Disney) o di lungo termine.
Il co-branding può avere valore funzionale quando una azienda presta il proprio
know-how tecnologico ad un’altra come nel caso di IBM con i microprocessori IntelInside. Oppure simbolico se la marca presta ad un’altra i propri attributi simbolici e
psicologici come nel caso della Pegeout 206 “Sweet Years” o della Citroen C3 firmata
D&G.
Può inoltre consistere in operazioni di licensing in cui il marchio concede i propri diritti
in licenza ad un'altra azienda (Hello Kitty e Samsung).
Alcuni rischi insiti nel co-branding si possono avere nel caso di operazioni a lungo
termine in cui la perdita di forza o il danno di immagine di una delle marche coinvolte
può nuocere anche all’altra. Inoltre è fondamentale che si basi su una strategia
corretta. Per esempio Mercedes a metà anni ’90 è stata brava ad accorgersi che il cobranding con Swatch, con la quale voleva produrre la “Swatcmobile”, era destinata a
diventare un fallimento e a danneggiare l’immagine di marca. Infatti il concept della
Swatchmobile era quello di macchina compatta e leggera, con sportelli intercambiabili,
insomma fin troppo fragile rispetto allo standard di qualità e robustezza Mercedes. La
casa tedesca decise perciò di cambiare rotta e risolvere l’accordo con Swatch,
trasformando la Swatchmobile in Smart, che fu invece un grande successo.
L’INVECCHIAMENTO DELLA MARCA
Mentre una volta si parlava di ciclo di vita della marca come di un processo
inarrestabile che coinvolgeva tutte le marche dal nascita all’inevitabile declino, oggi si
è convinti che l’invecchiamento della marca può essere arrestato e controllato. Una
marca deve essere in grado di leggere i cambiamenti in atto nella società, nel
mercato e tra i consumatori, e mantenere sintonia con essi. Deve essere in grado
di mutare costantemente adattandosi al cambiamento senza mai perdere la propria
fisionomia. Cambiare senza cambiare.
Marche come Coca-Cola perdurano al cambiamento senza invecchiare mai.
Mantengono cioè la propria consistency, ovvero la propria coerenza, compattezza e
armonia con l’ambiente. ATTUALITA’, RILEVANZA E SERIALITA’ sono le parole chiave.
Essere attuali significa essere in sintonia con i valori e le tendenze in atto; l’attualità
include i segni che la marca usa. La comunicazione è infatti fondamentale ed è
importante che i segni che la marca usa (logo, ecc) si rigenerino spesso in rapporto
all’evolversi delle attese dei consumatori. Essere rilevanti vuol dire offrire sempre
benefici significativi per il cliente, mentre essere seriali significa essere coerenti nel
mutamento, adattarsi senza tradire il DNA di marca.
I fattori di invecchiamento che una marca deve tenere in considerazione sono
molteplici e dipendono sia da caratteristiche della marca stessa sia da elementi
esterni. Un prodotto sarà tanto più suscettibile all’invecchiamento tanto più sarà
sofisticato e ad alto contenuto tecnologico. Se il core business dell’impresa è legato
all’innovazione, infatti, essa dovrà mutare molto più rapidamente di una che produce
articolo di lusso. I FMCG (Fast Moving Consumer Goods) cioè i beni di largo consumo
sono quelli più soggetti ad invecchiamento precoce. Inoltre il target è un elemento
cruciale da monitorare continuamente: più è ristretto e omogeneo più sarà elevata la
ripercussione sulla marca in caso di invecchiamento, mentre un pubblico più esteso e
differenziato lascia maggiore possibilità di manovra. Le marche leader e quelle più
anziane sono quelle che più di tutte devono stare al passo coi tempi per non perdere
la propria quota di mercato, specie se operano in un mercato altamente competitivo.
Le marche più giovani hanno ovviamente meno pressioni. Infine la visibilità di una
marca è inversamente proporzionale alla sua capacità di restare giovane. Infatti più
una marca è visibile più invecchia come effetto collaterale della sovraesposizione del
consumatore.
Nel processo di invecchiamento contano sia fattori oggettivi e tangibili come le
caratteristiche del prodotto, ma anche che soggettivi, legati alle percezioni del
consumatore. La marca può valutare il propria età percepità attraverso metodi qualiquantitativi, in riferimento al brand, al prodotto e alla comunicazione di marca.
Continui cambi di agenzia pubblicitaria oppure un packaging obsoleto sono fattori
deleteri.
Usando una metafora si può dire che le marche che meglio resistono
all’invecchiamento, i brand sempreverdi, sono quelli in grado di cogliere lo Zeitgeist,
nome con cui nella filosofia romantica viene indicato lo spirito del tempo, il clima
ideale e culturale che caratterizza un’epoca e la sua società.
LA MARCA E LE EMOZIONI
Gli attributi emotivi della marca acquisiscono una valenza sempre maggiore per il
consumatore, tanto da costituire dei veri e propri motivi di scelta o reason to believe. I
prodotti che rispondono a esigenze edonistiche (piacere) prima ancora che funzionale
si moltiplicano. La pubblicità da anni ormai associa determinate marche e prodotti
all’esperienza emotiva che il loro uso comporta. Primi fra tutti i brand del settore
automobilistico (piacere di guida, “dominio della strada”), ma anche dell’industria
elettronica o delle telecomunicazioni (“se non hai un iPhone non hai un iPhone”) i quali
fanno leva su autostima, amore, felicità, ricompensa sociale, parlando prima al cuore
che al cervello.
Conferme del potere emotivo dei brand nell’influenzare la scelta d’acquisto vengono
anche della neurobiologia e in particolare dal neuromarketing, ovvero l’applicazione
delle tecniche della neuroscienza allo studio del comportamento di consumo. In uno
studio del 2004 Mclure ha per esempio scoperto che la vista del marchio Coca-Cola
attivava nei soggetti le aree legate alla memoria affettiva, molto più di quanto facesse
Pepsi, motivo per cui le persone la preferivano alla seconda anche se nei blind-test
avevano detto l’esatto contrario. Questo perché nei blind-test la marca non
influenzava le percezioni dei soggetti, che si basavano solo su stimoli informativi
provenienti dal gusto.
Pare, da un altro studio del 2008 con risonanza magnetica, che la vista di marche
apprezzate attiverebbe l’amigdala, cioè l’area del cervello legata al sistema della
ricompensa, che si attiva anche in relazione a stimoli come eros e amore, e in
generale in relazione a gratificazioni materiali. Al contrario le marche disprezzate
attivano in noi il cingolo anteriore, cioè l’area deputata al percezione del rischio e del
pericolo, la stessa che si attiva in situazioni di paura o disgusto.
Il valore emozionale della marca o emoziona equity è dato da diversi elementi come
stimoli sensoriali (colori, grafica, design, odori, sapori, sensazioni tattili, simboli),
stimoli relazionali (linguaggio della marca, soddisfazione delle aspettative,
interattività, presenza fisica nei contesti quotidiani) e infine stimoli di natura simbolica
e affettiva (personalità, capacità di far immaginare e sognare, innovazione, continuità
nelle generazioni).
Gobé ha definito come Emotional branding la capacità della marca di emozionare e
connettersi con l’individuo non più “consumatore”. Infatti per lui oggi la marca deve
parlare a persone, non a semplici acquirenti, deve considerare i loro bisogni, la loro
sensibilità. Ascoltarli, prima che vendergli qualcosa. Dialogare con essi. L’onesta della
marca deve tramutarsi in un patto di fiducia con le persone, qualcosa da conquistare
all’interno di una relazione profonda. Non basta più la semplice visibilità (ubiquità), la
marca deve essere presente, interagire col pubblico, creare engagement emotivo ed
esperienziale (per esempio nel punto vendita).
IL LOVEMARK
Il lovemark è un termine coniato da Kevin Roberts (CEO dell’agenzia Saatchi &
Saatchi), per descrivere quei brand che hanno fatto un salto di qualità fino a creare
quasi una “relazione d’amore” con il proprio pubblico. Al pari dell’innamoramento i
lovemarks causerebbero un comportamento che a volte può essere irrazionale, una
sorta di fedeltà incondizionata da parte delle persone. Essi sono caratterizzati da alto
rispetto e stimolano continuamente la relazione col pubblico attraverso mistero,
intimità e sensualità. A differenza di essi I marchi che godono solo di rispetto restano
brand; quello che suscitano solo amore senza rispetto sono mode passeggere. I marchi
che non hanno né amore né rispetto sono solo “prodotti”.
GLOBALIZZAZIONE
La globalizzazione è un fenomeno per cui l’impresa tende ad espandersi e ramificarsi
fino ad assumere dimensioni globali. A partire dagli anni ’90 le grandi corporate che
operavano a livello internazionale hanno decentralizzato la distribuzione a livello
locale, ma mantenendo una solida struttura di coordinamento centrale che decide gli
standard dei prodotti e garantisce un’offerta per lo più omogenea in tutto il
mondo. Hello Kitty, costituisce un ottimo esempio di marca che in poco tempo sia
diventata globale: attraverso una serie di accordi di licensing oggi è distribuita in oltre
40 paesi e firma circa 22.000 prodotti. Il gattino giapponese estremamente dolce e
femminile, disegnato da Ikuzo Shimizu, riassume in sé i tratti della cultura nipponica
che sono diventati ampiamente esportabili in tutto il mondo.
Il motto dell’impresa globale è “think global, act local”: essa tende cioè a creare
prodotti in grado di soddisfare pubblici molto ampi, seguendo una logica di
standardizzazione di prezzo, distribuzione e comunicazione globale. Per farlo adotta
un’ottica locale, per adattare i prodotti alle esigenze e preferenze dei singoli paesi.
Pr esempio P&G non ha considerato questo aspetto quando ha modificato la propria
strategia di comunicazione di Dash in Italia. Decise di rompere col tipico formato
“doorstep”, orientato ad un ambiente familiare e casalingo, per passare a messaggi
più “universali”, ma così facendo l’impatto sul pubblico femminile perse molta della
sua efficacia. Infatti il brand deve tenere in considerazione aspetti culturali, etici,
religiosi e normativi che variano da paese a paese.
Caso emblematico è quello del caffè che è associato ad usi molto diversi a seconda
che ci sia trovi in Italia (concentrato ed energetico), in Germania (relax) o negli USA
dove è consumato molto diluito. Diversi brand provarono ad intraprendere una strada
“globale” (come caffè Splendid) ma senza successo. Solo Nescafé di Nestlé riuscì
nell’impresa riuscendo a diffondere in tutto il mondo la propria bevanda, persino in
Italia dove la posizionò come “caffè all’inglese” mirando ad un pubblico giovane. Illy
invece ha adottato il linguaggio dell’arte, un linguaggio universale, e si è affermata nel
mondo come il vero caffè made in italy.
MCDONALDIZZAZIONE
Ritzer, sociologo americano, parla di mcdonaldizzaizone della società riferendosi alle
caratteristiche di efficienza, prevedibilità, calcolabilità e controllo che caratterizzano le
grandi multinazionali come McDonald. La catena di fast food rappresenta
l’applicazione per eccellenza di questi concetti, riuscendo a realizzare il grande
apparato burocratico teorizzato da Weber. McDonald ricorre infatti all’estrema
standardizzazione di prodotti e procedure, al punto che il fattore umano viene ridotto
al minimo. Tutto è estremamente controllabile e prevedibile e segue un oculato piano
di gestione dei costi preciso al secondo. Dalla grandezza dei cetrioli al peso degli
hamburger, alle caratteristiche del pane, tutto deve essere uguale da New York a
Pechino, in modo da fornire al cliente un’esperienza unica e distintiva ovunque si trovi.
Il Big Mac è un panino talmente uguale a stesso da essere diventato un indice di
misura informale del potere di acquisto di una moneta (Big Mac Index).
Ritzer parla anche di globalizzazione del nulla riferendosi alla capacità delle
multinazionali occidentali di annullare il carattere locale dell’offerta. La multinazionale
ch segue gli obiettivi di crescita globale o “grobalization” lo fa a discapito di prodotti o
realtà tradizionali sul territorio in cui si insedia. L’impresa crea forme sociali adattabili
a qualsiasi contesto perché private del contenuto distintivo che invece caratterizza le
realtà locali. I centri commercial in questo sono l’esempio tipico del nulla essendo
“non-luoghi”, uguali a sé stessi in qualunque parte del mondo. Allo stesso modo
esistono le non-cose (Dolce&Gabbana, Ikea, ecc.), le non-persone (commessi dei fastfood, televenditori) e i non-servizi (bancomat, Amazon, pompe selfe-service dei
benzinai, ecc).
NUOVI LINGUAGGI DELLA MARCA
L’evoluzione dei linguaggi della marca è andata di pari passo con quella delle
tecnologie di comunicazione. In particolare Internet è stato determinante nel
modificare l’approccio della marca al pubblico che segue strade sempre più below the
line, meno istituzionali e più informali. Anche il consumatore è cambiato diventando
multitasking, esigente, più irraggiungibile di prima. La marca si serve affianca oggi agli
investimenti in advertising tradizionale anche quelli in attività non convenzionali. Il
brand da sempre più spazio ai consumatori, dandogli la possibilità di partecipare e
condividere idee e contenuti, arricchire l’esperienza di marca. YouTube è l’incarnazione
del brand partecipativo, in quanto i suoi contenuti sono per lo più user-generate e
persino i profitti sono divisi con gli utenti.
Il brand site è diventato uno strumento indispensabile per relazionarsi al pubblico,
anche qui attraverso una logica quanto più interattiva e coinvolgente, una
prosecuzione online della brand experience.
Gli altri media emergenti sono:
-
gli eventi carattere territoriale (per es. Red Bull con il FlugTag e l’Icarus
Revenge, eventi dedicati a mezzi di trasporto e di volo creati dai partecipanti)
-
-
promozioni (Coca-Cola che offre ai clienti italiani una collezione di borracce
distribuite da Autogrill)
grande distribuzione (per es. il concorso organizzato da Pepsi per il lancio del
film 007 Casino Royale, con distribuzione di centinaia di gadget nei
supermercati italiani)
punto vendita monomarca (Apple Store e Niketown)
temporary store
Hotel (Yahoo sponsorizza la catena Sheraton fornendo postazioni Internet nei
principali hotel)
ristorazione
palestre, intrattenimento, trasporti (Illy offre ai clienti Frecciarossa il caffè freddo
in lattina)
affissioni e chioschi interattivi (cabine telefoniche insonorizzate by Nokia negli
USA)
blog, buzz e viral marketing, community
quotidiani e magazine online
arredo urbano (Kit Kat a Londra sponsorizza cabine telefoniche e panchine)
product placement
co-branding
PRODUCT PLACEMENT
E’ la pratica di far comparire un marchio o un prodotto all’interno di contenuti audiovisivi come film, telefilm, programmi tv o videogame. Avviene senza il tipico
avvertimento esplicito di carattere commerciale in quanto tende ad integrarsi nella
trama e nella scenografia. L’inserzionista può corrispondere al produttore un
compenso monetario (product fee) o extra monetario (barterting) come la fornitura di
attrezzature o servizi gratuiti. Secondo alcuni autori l’origine del product placament
sarebbe da ricercare nell’usanza medievale del mecenatismo, con cui i nobili si
facevano ritrarre e poi donavano il quadro alle chiese che in questo modo attiravano
fedeli. La prima pellicola cinematografica a contenere un product placamento è il film
dei fratelli Lumiére in cui alcuni operai escono dall’omonima fabbrica. I film di 007
sono pieni di questo tipo di comunicazione (Martini, Don Perignon, Aston Martin, ecc.)
e la Apple ne fa uso da molto tempo.
In Italia il product placement ha vissuto periodi controversi in quanto negli anni ’80 la
nostra legislazione l’ha bandito come “pubblicità ingannevole”. In seguito, con una
serie di leggi europee, è stato riammesso e sdoganato dal film di Ozpetek Cuore
Sacro. Garofalo è una delle marche italiane che fa molto uso del product p. con
numerose collaborazione con la casa di produzione Cattleya e accordi con Cinecittà
per il co-finanziamento di opere prime.
Il product p. può essere verbale collocato all’interno dei dialoghi (scrip placement),
visivo cioè su un elemento della scenografia come un veicolo o un berretto (screen
placement) oppure integrato quando cioè si interseca a tutti gli effetti con la
sceneggiatura (plot placement, tipo Il Diavolo Veste Prada).
I vantaggi del product p. sono senza dubbio il basso costo per contatto, la possibilità
di raggiungere target specifici, ma anche il maggior effetto di risonanza ottenibile
compenetrando il brand all’interno di un contesto narrativo come un film di per sé
molto coinvolgente. Infine l’effetto testimonial dato dall’associazione del brand a un
personaggio famoso. La marca ne ottiene un rafforzamento in termini di brand image
e brand personality, ma anche di posizionamento, scegliendo contenuti mirati al
proprio target e ai propri valori. Inoltre nel product p. vige il low clutter cioè non può
esserci un affollamento di marche concorrenti.
Il rischio principale sta nel fatto che l’efficacia dell’operazione di p.p. è legata al
risultato del film/programma in termini di gradimento e questo non è prevedibile a
priori. Si dovrà tenere in considerazione sia un fattore quantitativo come il livello di
esposizione al brand nel corso del film (quante volte appare), ma anche qualitativo
cioè il livello di integrazione della marca o prodotto all’interno della trama. Se è basso
o di semplice scenografia si parla di placement commerciale; se è alto e integrato con
la sceneggiatura e la costruzione dei personaggi si parla di placement culturale.
IL BLOG DI MARCA
Il blog può essere uno strumento di grande valore per l’azienda che vuole dialogare
con il proprio pubblico interno (blog aziendale), ma anche esterno. E’ una
dimostrazione di apertura del brand nei confronti del pubblico, all’interno del quale si
accettano critiche e suggerimenti. E’ l’antitesi della comunicazione generalista, il
monologo di marca one to many.
L’azienda produttrice di lucchetti Kryptonite risentì in modo disastroso della
sottovalutazione del potere dei blog. Infatti nel 2004, un video che mostrava come
aprire i suoi lucchetti con una penna bic divenne in poco tempo virale nei blog, e in
poco tempo un caso mediatico. L’azienda non replicò e non cerco di difendersi o di
dialogare, ma venne coperta di insulti e ridicolizzazioni in rete. Dopo 10 mesi la
Kryptonite provvedé a sotituire i lucchetti difettosi, ma ormai aveva creato un danno di
immagine difficilmente recuperabile, che invece avrebbe potuto contenere se avesse
dialogato con il pubblico.
LE TRIBU E LE COMMUNITY ONLINE
Alcune marche più di altre sono riuscite a creare un linking particolare con il proprio
pubblico, tanto da esercitare un potere aggregante, diventare un segno di
appartenenza per intere comunità. Si definiscono tribù della marca cioè micro
società caratterizzate da valori e costumi comuni. Prima fra tutte Harley Davidson che
ha dato origine alla tribù degli “harleysti”, i quali hanno fan club propri e si ritrovano in
motoraduni. Sono marche capaci di creare un attaccamento forte e autentico, il linking
value, detto anche bonding.
Il web ha favorito il diffondersi spontaneo o “suggerito” dalla marca di comunità online
o brand community, luoghi della rete in cui i fan di una marca si ritrovano per
discutere e condividere la propria esperienza di marca. Ferrero per es. ha lanciato nel
2003 il sito mynutella.it , la community italiana ufficiale di Nutella. Ma ci sono anche
tanti forum e blog nati spontaneamente per esempio attorno ad Apple o Android.
MARKETING VIRALE
Il viral marketing è una forma di marketing non convenzionale che sfrutta il
cosiddetto effetto “passaparola”. La parola stessa indica il contagio provocato da
contenuti dall’altamente coinvolgenti ed emozionali. La sua caratteristica è anche
quella di cercare un comportamento proattivo delle persone, il quale è lui stesso a
veicolare il messaggio condividendolo. La marca stimola l’interesse del pubblico
spesso anticipando contenuti che non vengono svelati completamente fin da subito
(teaser), generando in questo modo attesa attorno al prodotto. Il buzz marketing è una
sua variante per creare “rumore” attorno ad una argomento; ha una componente di
viralità meno spontanea e più indotta.
Un caso famoso di marketing virale è quello di Dove, che ha ottenuto una grande eco
con il video Evolution. Nato come iniziativa in rete, il video è diventato subito virale
fino ad ottenere un riconoscimento ufficiale con il Grand Prix all’edizione 2007 del
Festival della Pubblicità di Cannes. La Dove voleva accendere interesse su una
tematica importante come la distorsione intenzionale della nostra percezione della
bellezza femminile, che ruota attorno al mondo della moda e della cosmesi. Lo fa
lanciando un messaggio positivo e accolto da tante donne comuni, quello di bella
autentica, la Real Beauty, e scegliendo in seguito ragazze normali nei propri spot
anziché modelle.
GUERRILLA MARKETING
E’ un termine coniato da Levinson per definire operazioni di marketing svolte in
contesti urbani, a basso costo e con un alto impatto emotivo. Si tratta anche qui di
operazioni non convenzionali, che mirano a sorprendere e divertire, rivolgendosi
soprattutto a micro target. La forza del guerrilla marketing sta nella capacità di
coinvolgere il pubblico al di fuori del contesto classico della pubblicità, quando la
soglia di attenzione (advertising consciousness) è abbassata. Anche qui si punta
sull’effetto del passaparola innescato da un’esperienza altamente coinvolgente. Come
per il viral marketing si tratta di strategie pull cioè trainate dal pubblico stesso, con
effetti più potenti della pubblicità classica (push) seppur ottenuti con budget ridotti.
Non tutti i prodotti si adattano a questo tipo di strategia di “guerriglia”: sono più adatti
quelli ad alto contenuto innovativo, che escono dagli standard e cercano l’originalità.
IL SUBVERTISING
Deriva dall’unione dei termini subvert e advertising. Si tratta infatti di una forma di
pubblicità con lo scopo di scuotere le coscienze attraverso messaggi dal forte
contenuto dissacrante o parodistico. Il Subvertising mira spesso ad attaccare le
grandi multinazionali sul fronte dei comportamenti antietici che li caratterizzano. I temi
caldi sono spesso l’ambiente, il nucleare, la violenza sugli animali, la censura, lo
sfruttamento del lavoro, ecc. Alcune dele tecniche usate sono quella del
detournement (annunci pubblicitari, loghi e pay-off usati in contesti che ne cambiano il
significato), del fake (sostituzione di cartelloni), del camouflage, dello sniping (con le
bombolette spray, gli stencil, ecc.) e il site cloning (clonazione dei siti web di marca).
Nel 1999 è nata anche Adbusters la rivista simbolo del subvertising, che è diventata di
culto per il popolo No Global.
AGGIUNTA MIA. Greenpeace è maestra nel subvertising e di recente ha lanciato una
campagna di sensibilizzazione contro Shell, accusata di aver di recente firmato una
partnership con LEGO per imbonire l’opinione pubblica e distogliere l’attenzione da
quello che combina nell’Artico con i suoi pozzi petroliferi. “Il gigante del petrolio vuole
trivellare l'Artico e usa Lego per ripulire la sua immagine", denuncia Greenpeace sulla
sua pagina Facebook. Shell sta pericolosamente manipolando i bambini di oggi che
saranno gli adulti di domani, è per questo che Greenpeace ha lanciato una petizione
sul sito legoblockshell.org che mira a raggiungere le 500.000 firme. Il tutto è stato
accompagnato anche dall’hashtag #BlockShell sui social e da un video virale molto
coinvolgente (http://www.youtube.com/watch?v=qhbliUq0_r4).