Misurazione dei risultati di programmazione, valutazione e controllo
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Misurazione dei risultati di programmazione, valutazione e controllo
INNOVAZIONE AMMINISTRATIVA E CRESCITA DEL PAESE Rapporto con raccomandazioni LA MISURAZIONE DEI RISULTATI NELL’AMBITO DEI PROCESSI DI PROGRAMMAZIONE, VALUTAZIONE E CONTROLLO DELLE AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE Luciano Hinna Testo in corso di revisione non diffondere – non citare Formez, Ricerca & Sviluppo - Via Campi Flegrei 34, Arco Felice di Pozzuoli, NA Telefono 081 525 0211, fax 081 525 0312 ricerca&[email protected] LA MISURAZIONE DEI RISULTATI NELL’AMBITO DEI PROCESSI DI PROGRAMMAZIONE, VALUTAZIONE E CONTROLLO DELLE AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE Luciano Hinna Sommario: Premessa; 1) La funzione misurazione e l’attualità dal rapporto Giannini; 2) La misurazione: significato ed evoluzione nel settore pubblico; 3) L’importanza della misurazione e le differenti valenze che può assumere (misurare perchè); 4) Misurare l’input, l’output e l’outcome dei processi gestionali (misurare che cosa); 5) Gli strumenti ed i sistemi di misurazione (misurare come); 6) La misurazione per norma e la misurazione per esigenza; 7) La misurazione nell’area risorse umane; 8) Alcuni suggerimenti sulla funzione misurazione; Conclusione. Premessa Albert Einstein affermava che «non tutto ciò che conta può essere contato e non tutto ciò che può essere contato conta». Tale affermazione appare particolarmente suggestiva se la si assume come sintesi di ciò che è accaduto nella Pubblica Amministrazione italiana con riferimento al tema della misurazione dei risultati. Si misura ciò che non conta e non si misura ciò che realmente è importante. Nessuna netta discontinuità rispetto alla realtà che portò Sabino Cassese ad affermare, citando uno studioso degli anni venti, che la struttura dei controlli della PA italiana: «lascia passare gli avvoltoi e cattura i moscerini». In questo contributo, invece, si intende sostenere la tesi che proprio sul tema della misurazione dei risultati è necessario che il sistema degli attori che agiscono “nella” ed interagiscono “con la” Pubblica Amministrazione realizzino una forte discontinuità rispetto all’atteggiamento che finora ha prevalso. Non si deve commettere l’errore di ritenere che il problema della misurazione sia riconducibile solo ad un problema di natura tecnica e che si sostanzi quindi nella definizione di una lista di strumenti e di misure. Il problema, come si avrà modo di argomentare meglio in seguito, è principalmente di natura culturale. La maggior parte dei problemi e delle carenze che la Pubblica Amministrazione registra oggi sul fronte della misurazione dei risultati ha origine: nella retorica politica sulle riforma annunciate e scritte ma poi scarsamente applicate (o applicabili); nella cultura degli organi di controllo che hanno imposto la misurazione solo come una leva per sanzionare gli atteggiamenti non conformi alle norme piuttosto che per il miglioramento della gestione; nella sterile dicotomia ed incomunicabilità tra giuristi ed aziendalisti, che ha impedito al mondo accademico di affrontare problemi più reali ed utili; nelle false aspettative e nell’ingenuo ottimismo di chi non conosce bene la realtà e la complessità del settore pubblico; nel pessimismo paralizzante di chi “fa di tutta l’erba un fascio” demotivando anche chi ricerca quotidianamente di migliorare se stesso e la qualità del servizio pubblico. Nessuno è disposto a contribuire ad un processo di innovazione se poi percepisce che i risultati del suo sforzo potranno essere usati contro di lui; mentre sono tutti disponibili a contribuire alla definizione degli strumenti che se servono a migliorare la propria attività, il proprio livello di soddisfazione professionale, il proprio e l’altrui benessere organizzativo. I sistemi di misurazione, però, non sono mai stati interpretati e comunicati in questa logica. Se il paradigma organizzativo è si “punisce” chi sbaglia e non si “premia” chi fa meglio degli altri, è inevitabile che chi fa meno sbaglia meno. 1 La rivisitazione del rapporto Giannini non poteva cadere in un momento migliore: l’accordo sul contratto pubblico, l’aumento accordato dal governo ai dipendenti pubblici, il memorandum tra sindacati e governo, la costituenda Agenzia per la formazione, la stabilizzazione dei precari, il dibattito sui costi della burocrazia, gli accordi sulla produttività, etc1. In realtà i temi della Pubblica Amministrazione non sono mai passati di moda. Essi sono sotto gli occhi di tutti ed affondano le proprie radici nella storia, nella tecnica ed ormai anche nella cronaca. Da Giannini in poi non c’è stato governo che non abbia inserito in agenda l’ennesima riforma della P.A. Senza però riuscirci. La risposta della classe politica è stata sempre la stessa: creare nuove regole perché quelle precedenti avevano fallito. In realtà alcune non sono mai state neppure applicate; altre, invece, sono giunte in ritardo; altre, infine, non avevano i presupposti sociali e culturali perché si potessero realizzare. Difficile dire se le riforme dei primi anni novanta – già intuite da Giannini – avessero potuto vedere la luce senza che si scontasse l’effetto tangentopoli sulla percezione dell’opinione pubblica. In questo momento storico l’agenda della riforma sembra concentrarsi sui recuperi di produttività del personale della P.A. Il problema di affrontare allora è quello dei sistemi di misurazione. Se non lo si affronta e risolve tutti i programmi e gli annunci si risolvono nella solita retorica della riforma. Non solo, senza sistemi di misurazione qualsiasi decisione, diventa arbitrarietà e dittatura organizzativa: una prassi inaccettabile a trenta anni dal rapporto Giannini. Ma che cosa significa parlare di sistemi di misurazione nel contesto delle riforme auspicate? Significa uscire dalla tecnica dei “colpi all’orologio” che sono quelli che si danno all’orologio quando si ferma o rallenta: due colpi ed un’agitatina e si spera che riprenda a funzionare anche se per poco. Anche oggi c’è il rischio che si ceda a questa tentazione, approvando qualche norma, convincendosi di aver realizzato una grande riforma ma senza in realtà andare a fondo ai problemi. Dal rapporto Giannini ad oggi in tema di misurazione sono cambiate tante cose: gerarchie dei problemi, priorità, situazioni, e strumenti. È cambiata soprattutto la mentalità ed i valori aggreganti dei dipendenti pubblici. Le tecniche aziendali hanno fatto progressi e nuovi strumenti di misurazione sono stati messi a punto per misurare nuove dimensioni della gestione aziendale. Ci sono stati cambiamenti e trasformazioni, ma senza omogeneità. Gli “itinerari collaterali recriminatori” (come li definiva Giannini), la cultura autoreferenziale ha frenato e reso meno uniforme il processo di cambiamento. Il raffronto con i sistemi di misurazione adottati nel settore privato è ancora mortificante e frustrante: Giannini affermava (5.5) che è “causa di amarezza constatare che lo Stato non sa di se stesso ciò che il più semplice imprenditore sa della propria impresa”. A distanza di quasi trenta anni la situazione non è cambiata. La cosa non è trascurabile: la P.A. assorbe direttamente o indirettamente circa il 50% del PIL ed impiega tre milioni e seicentomila persone. È difficile dire se in questi trent’anni trascorsi dal rapporto Giannini siano stati commessi gravi errori. Solo la sperimentazione giustifica l’errore e trasforma i fallimenti in successi. La P.A. in questo periodo ha sperimentato come auspicava Giannini (2.5)? Ha capitalizzato sugli errori? Sembrerebbe di no. 1 Gli articoli apparsi recentemente su questi temi sono stati moltissimi a dimostrazione della loro attualità. Tra i tanti si ricordano i contributi di Giavazzi ed Ichino sulle pagine del Corriere della Sera; i commenti apparsi sul Sole 24 ore a firma di S. Carruba e di G.Gentili; le numerose interviste e commenti rilasciati dal ministro della Funzione Pubblica Nicolais. 2 Le proposte di Giannini suonano ancora come “prediche inutili” e non si riesce a ritrovare in quelle proposte gli enzimi di un cambiamento che il paese invece si merita. L’obiettivo di queste pagine è quello di inquadrare il problema della misurazione da una prospettiva economico-aziendale, integrando la visione giuridica e quella delle scienze amministrative che da sempre scandiscono l'orologio organizzativo della pubblica amministrazione. L’approccio che verrà adottato dallo scrivente è quello che Giannini ha definito la politica di “riparare gli ossicini fratturati” (1.2.), ovvero realizzare il realizzabile, senza nuove norme e senza attendere, anche se auspicato, un disegno più ampio e strutturale del “sistema della pubblica amministrazione”. Il taglio di queste pagine è ovviamente provocatorio, anche un po’ ribelle ma comunque propositivo. Soprattutto nelle conclusioni e nei suggerimenti non si è voluta mancare l’occasione per “passare dallo zoom al grandangolo” e toccare altri aspetti che comunque si collegano al tema alla funzione misurazione. 1 La funzione misurazione e l’attualità dal rapporto Giannini Misurare per decidere, misurare per valutare, misurare per migliorare. La misurazione è una fase determinante del processo gestionale di qualsiasi tipologia di azienda e, quindi, è un elemento che non poteva sfuggire all’analisi che a suo tempo Giannini con il suo rapporto propose. La misurazione è un concetto presente un po’ in tutto il testo del rapporto Giannini che per molti versi è uno splendido ed attuale testo sul funzionamento delle aziende pubbliche2. Anche se scritto da un fine giurista ed al di là della attualità dei contenuti trova ancora oggi, a quasi trenta anni di distanza, un riscontro preciso sotto il profilo del rigore tecnico-aziendale. Nel rapporto Giannini (paragrafo 2) i riferimenti economicoaziendali sono molto frequenti: • quando denuncia che “ai problemi ed alle tecniche di amministrazione non si è pensato che assai poco”; • quando riscontra “che le tecniche … sono fortemente arretrate rispetto a quelle delle organizzazioni private…”; • quando chiarisce e distingue il termine produttività (produttività- lavoro); • quando introduce il tema degli indicatori, • quando distingue tra efficacia, rapporto tra risultati ottenuti ed obiettivi prestabiliti ed efficienza, intesa come rapporto tra risorse impegnate e risultati ottenuti; • quando afferma che la produttività rappresenta una componente importante dell’efficienza; • quando tratta degli indicatori di produttività, • quando afferma che quelle “poche” istituzioni che hanno iniziato a misurare attraverso indicatori gli aspetti della gestione sono riuscite a migliorare la produttività; • quando assegna agli uffici di organizzazione (rimasti anche essi una speranza) il compito conoscitivo-diagnostico (appunto di misurazione) attraverso indicatori, • quando denuncia l’immagine di cui gode la P.A. presso l’opinione pubblica la quale ritiene “sia composta di inetti e di fannulloni” e nella migliore delle ipotesi da “tardigradi e cultori di formalismi”. Vale la pena chiedersi: è Pietro Ichino in 2 Il rapporto viene utilizzato normalmente come materiale di consultazione al corso di “Economia delle aziende pubbliche e non profit” alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma “Tor Vergata”. 3 ritardo di trentanni3 o è la situazione che non è cambiata agli occhi dell’opinione pubblica anche più attenta? Ebbene questi concetti, ribattezzati poi con le tanto abusate e consumate “tre E” (efficienza, efficacia ed economicità) sono elementi che nella Pubblica Amministrazione di oggi sono nel vocabolario di tutti, ma nelle conoscenze di pochi. Essi rimarranno concetti astratti, quasi da catechismo organizzativo, se non si concretizzeranno in misure che facilitino la gestione ed il miglioramento organizzativo. Per gli aziendalisti - proiezione moderna di quelli che Giannini definiva come “cultori di scienze dell’organizzazione” - elemento che non si misura, non si gestisce e non si migliora. Non c’è da meravigliarsi se la P.A. non abbia realizzato grandi passi in avanti visto che ben poco si è misurato in termini di efficienza, efficacia e produttività. I concetti sono rimasti astratti e non sono penetrati nella cultura del dirigenza pubblica. Dopo Giannini i riferimenti alla misurazione ed ai suoi strumenti non sono mancati né a parole, né a norme, ma sono mancati i fatti: il D.Lgs 29/93, il D.Lgs 286/99 le varie direttive della Presidenza del Consiglio che si sono susseguite di governo in governo fino al memorandum di intesa sul lavoro pubblico del gennaio 2007. Quel memorandum di intesa tra governo e sindacati è molto interessante da un punto di vista tecnico. In esso si parla di “misurabilità” dei risultati, di contributo “individuale” alla produttività, di “merito”, ma (lo ricordava in una recente intervista anche l’economista Nicola Rossi4) “si tratta di affermazioni importanti, ma almeno per ora prive di conseguenze concrete, e sopratutto lasciate alla volontà delle parti, in particolare del sindacato, di metterle in atto”. Parlare non costa e scrivere una norma o un comma di un memorandum di intesa neanche. Applicare ciò che si scrive è tutta un’altra cosa: servono conoscenze, competenze, elementi culturali e tecnici che creino le condizioni di fondo perché le norme da speranze diventino realtà. Tutto questo è mancato in questi trenta anni e sembra manchi ancora. È sufficiente scorrere il già citato memorandum di intesa sul lavoro pubblico e riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche per ritrovare l’annoso problema di delineare il “cosa” si vuol realizzare senza fare cenno al “come”. Non si può non condividere l’obiettivo di “accrescere la produttività del sistema paese… creando le condizioni di misurabilità, verificabilità ed incentivazione della qualità dei servizi e delle funzioni pubbliche”; ma quando in interviste rilasciate da autorevoli ministri si afferma che si vuole misurare la produttività individuale dei dipendenti pubblici e si dispone appena di insufficienti sistemi di rilevazione contabile, ci si rende conto che non si ha conoscenza dello stato in cui versa la funzione misurazione nelle pubbliche amministrazioni italiane e non si ha la consapevolezza di che cosa significhi introdurre i sistemi auspicati. Queste affermazioni che possono sembrare troppo ruvide e suonare come critiche potranno essere meglio comprese via via che il tema “Misurazione in PA” verrà sviscerato. 2 La misurazione: significato ed evoluzione nel settore pubblico Prima di passare ad esaminare nel dettaglio le motivazioni, i contenuti e gli strumenti della misurazione nella Pubblica Amministrazione, appare utile definire meglio i 3 4 Cfr. P. Ichino, “I nullafacenti”, Mondatori, Milano, 2006. Cfr. E. Marro,”C’è l’impegno sui soldi ma la riforma resta ferma”, in Corriere della Sera, 7 aprile 2007. 4 concetti di misurazione, performance e risultato. Tre parole magiche presenti nel rapporto Giannini e distribuite come “zucchero a velo” sulle varie norme che da allora si sono susseguite, incluso ovviamente il citato memorandum ed il più recente accordo per il pubblico impiego. Per misurazione si intende il processo con cui si quantifica un dato fenomeno, rapportando una grandezza ad un’altra, ad essa omogenea, scelta convenzionalmente come unità. L’attività di misurazione riguarda, dunque, elementi relativamente certi e oggettivi. Ciò differenzia il concetto di misurazione da quello di valutazione che, pur basandosi sull’attività di misurazione, contiene elementi soggettivi di giudizio e apprezzamento ed implica un sistema di valori e preferenze. La performance, o prestazione o rendimento, invece è il livello con il quale un’organizzazione, una politica o un programma sta raggiungendo gli obiettivi intesi come risultati programmati rispetto a target, standard o criteri. I risultati sono invece le conseguenze attribuite alle attività di un’organizzazione, di una politica pubblica o di un programma. La tematica della misurazione delle performance e degli strumenti attraverso i quali realizzarla ha assunto una posizione di assoluta centralità nell’ambito dei processi di riforma delle amministrazioni pubbliche, con una particolare intensità nel corso degli anni ’90 ed è tornata di moda oggi sulla scia delle varie proposte dei legge presentate5. Ai vari tentativi di innovazione, sperimentati dapprima in alcuni paesi di matrice anglosassone, sono stati attribuiti denominazioni differenti (performance measurement, performance management, result-based management, managing for results, ecc.), ma nella sostanza essi sono accomunati dall’obiettivo di realizzare un orientamento “culturale ai risultati” da parte delle amministrazioni pubbliche. Il processo di orientamento ai risultati delle amministrazioni pubbliche offre un caleidoscopio di situazioni dai confini piuttosto ampi. La Fig. 1 si propone di offrire una “mappa logica” che consenta di osservare simultaneamente le principali direttrici lungo le quali si sviluppa il passaggio da un’amministrazione orientata alla mera esecuzione di compiti ad un’amministrazione in cui prevale la “cultura del risultato”. Inoltre, il modello può essere un utile strumento di rilevazione, anche di auto-diagnosi per le singole amministrazioni, per tentare di delineare i confini dello stato dell’arte della funzione misurazione nella pubblica amministrazione a trenata anni dal rapporto Giannini. La Fig. 1 individua sei dimensioni e tre momenti6. Delle sei dimensioni, tre sono classificabili come caratteristiche dei sistemi di misurazione delle performance: • l’enfasi del sistema di misurazione • le modalità di costruzione del sistema di misurazione • la periodicità della rilevazione delle informazioni di performance e tre sono classificabili come utilizzo della misurazione delle performance • la logica di utilizzo delle informazioni di performance • gli ambiti di utilizzo delle informazioni di performance, 5 Cfr: il progetto di legge per l’istituzione dell’Authority sull’impiego pubblico; il disegno di legge Nicolais 2161 su modernizzazione, efficienza delle Amministrazioni pubbliche e riduzione degli oneri burocratici per i cittadini e per le imprese; il disegno di legge a più nomi n. 2080 su norme in materia di valutazione dell’efficienza e del rendimento delle strutture e di dipendenti pubblici. 6 Cfr. L. Hinna, F. Monteduro, "La misurazione delle performance: cos'è e come utilizzarla nelle decisioni", in AA VV, Misurare per decidere: la misurazione della performance per migliorare le politiche pubbliche ed i servizi, Dipartimento della Funzione Pubblica, il Rubettino, Roma, 2007 5 • i principali utilizzatori delle informazioni di performance. I momenti sono quelli dell’orientamento ai compiti e dell’orientamento ai risultati: lo spartiacque tra una P.A. tradizionale (quella che aveva analizzato Giannini a suo tempo) e quella più moderna (la PA manageriale e la public governance) che è però ancora nella dimensione ideale con pochi riscontri con la realtà attuale. Tanto più una pubblica amministrazione si colloca nello spazio interno della figura, tanto più può essere definita una PA tradizionale. Tanto più si sposta nelle aree esterne tanto più la pubblica amministrazione si è mossa verso logiche manageriali e di public governance. Figura 1 ENFASI DEL SISTEMA MISURAZIONE PRINCIPALI UTILIZZATORI outcome Amministratori e manager output controllori processo e esterni input AMBITI DI UTILIZZO decisioni strategiche e accountability sociale decisioni operative accountability burocratica verifica della conformità miglioramento dei proc. produttivi e responsabilizzazione delle persone tarata sulle esigenze di gestione Allineata ai ritmi delle decisioni politiche LOGICA DI UTILIZZO orientamento ai risultati basate sulla partecipazione degli stakeholder prevista dalle norme conoscenza del valore creato per fare strategie dar conto all’esterno Public PA Governance manageriale tarate sulle esigenze interne disciplinate dalle norme MODALITÀ DI COSTRUZIONE CARATTERISTICHE DEI SISTEMI DI MISURAZIONE DELLE PERFORMANCE UTILIZZO DELLA MISURAZIONE DELLE PERFORMANCE Cittadini, imprese e politici PERIODICITÀ DELLA RILEVAZIONE PA “tradizionale” PA Public manageriale Governance orientamento ai compiti orientamento ai risultati L’amministrazione in cui prevale l’orientamento ai compiti è quella che ha caratterizzato il contesto italiano dai tempi di Cavour fino alla stagione delle riforme degli anni ’90. Le informazioni sulle performance erano utilizzate nell’ambito di quella che si potrebbe definire come “accountability burocratica” e, cioè, delle verifiche esterne a carattere ispettivo volte a verificare la correttezza e la conformità degli atti amministrativi rispetto alla norma di riferimento, puntando per tale via a garantire l’equità dell’agire pubblico e a sanzionare eventuali comportamenti individuali scorretti. L’enfasi del sistema di misurazione era tutta concentrata sulle risorse utilizzate (input) ed, in particolare, sulle risorse finanziarie. La logica era quella di verificare che le risorse finanziarie fossero state utilizzate in maniera “appropriata” sotto il profilo della legittimità della spesa e della conformità con le finalità e le disposizioni sancite dalle norme. Ne consegue che i principali utilizzatori delle misurazioni erano i controllori esterni. Inoltre sia le modalità di costruzione del sistema di misurazione sia la periodicità della rilevazione delle informazioni erano quelle 6 stabilite dalla normativa di riferimento. Le informazioni erano “patrimonio” di pochi attori (i controllori ed i vertici amministrativi) mentre erano poco diffuse o utilizzate all’interno ed all’esterno delle organizzazioni pubbliche, anche perché la quantità e la complessità delle informazioni erano tali da renderle incomprensibili ai non addetti ai lavori. Nel tempo questo tradizionale orientamento ai compiti ha progressivamente dimostrato la sua incompatibilità con l’evoluzione del contesto di riferimento delle amministrazioni pubbliche, caratterizzato da fenomeni come la globalizzazione dei mercati con la connessa competizione tra sistemi paese; la diversificazione dei bisogni nelle società evolute che ha determinato una riqualificazione dei confini tra Stato e mercato; la radicale evoluzione legislativa che ha introdotto nuovi modelli di funzionamento delle amministrazioni pubbliche. Tutto ciò ha avuto un forte impatto sull’economia, la società e le istituzioni ed ha fatto emergere l’assoluta necessità di un orientamento ai risultati delle organizzazioni operanti nel settore pubblico. Osservando la Fig. 1 si nota come il processo di orientamento ai risultati delle amministrazioni pubbliche faccia segnare due stadi: un primo stadio “manageriale” ed un secondo che coinvolge la “governance pubblica”. Il processo di “aziendalizzazione” delle amministrazioni pubbliche (fortemente promosso dalla legislazione degli anni ’90) ha portato a ridefinire l’ambito di utilizzo delle informazioni di performance, evidenziando come esse siano necessarie per rendere concreta l’autonomia dei dirigenti pubblici. Essi ne hanno bisogno per prendere decisioni che consentano di migliorare l’efficienza nella produzione dei servizi pubblici, responsabilizzando le persone (accountability interna). L’enfasi del sistema di misurazione è sui beni e servizi prodotti (output). Dato che sono i manager i principali utilizzatori delle misurazioni ne consegue che le modalità di costruzione del sistema di misurazione e la periodicità della rilevazione delle informazioni debbano essere tarate sulle esigenze di gestione interne e non solo sulle esigenze di controllo esterno. Alle soglie del nuovo millennio le logiche manageriali, che hanno caratterizzato le riforme dei primi anni ’90, sono state integrate da un nuovo approccio emergente, la governance pubblica, fortemente concentrato sulla promozione delle interazioni con gli attori presenti nel contesto politico e sociale; sul problema del governo e coordinamento di reti complesse nel sistema sociale; e sulla adozione di nuovi processi e strumenti in grado di favorire un orientamento all’esterno delle amministrazioni pubbliche. In questa logica l’ambito di utilizzo principale delle informazioni di performance è quello della definizione delle politiche pubbliche e della definizione di processi di accountability esterna; mentre la logica di utilizzo delle informazioni di performance è quella di aumentare il livello di conoscenza sul valore (sociale) creato attraverso l’agire pubblico ed informare le strategie dell’amministrazione proprio verso la creazione di tale valore. L’enfasi del sistema di misurazione è sui risultati (outcome) a cui sono interessati soprattutto i politici, i cittadini e le imprese. Qui il riferimento all’efficacia del rapporto Giannini (2.1) è quanto mai diretto. È fondamentale che le informazioni di performance, non essendo rivolte “agli addetti ai lavori” siano comprensibili e fruibili oltre che attendibili e complete, obiettivo che può essere più facilmente raggiunto proprio attraverso un processo di coinvolgimento dei diversi stakeholder nella definizione del sistema di misurazione e nella definizione della periodicità della rilevazione delle informazioni. La conclusione, dopo aver fornito uno strumento per censire l’evoluzione della funzione misurazione nel tempo, è un laconico “eppur si muove”. Poco, ma si muove e 7 questo dimostra una cosa importante: che misurare è possibile dal momento che nella galassia delle P.A italiane più di qualcuno lo ha già fatto. Il problema è che in questi anni si è lavorato troppo sulle norme e poco sulla cultura. Anche quando lo si è fatto con la formazione per intendersi – lo si è fatto male e con disattenzione con l’effetto di trasferire risorse a soggetti esterni alle amministrazioni (consulenti, enti di formazione) senza creare un reale valore aggiunto per il sistema pubblico. 3 L’importanza della misurazione e le differenti valenze che può assumere (misurare perché) Il modello esposto nel paragrafo precedente evidenzia che la misurazione delle performance può avere due valenze fondamentali: 1. migliorare e rendere più razionale la decisione nell’ambito dei processi amministrativi e politici (misurare per decidere e migliorare); 2. rendere più trasparente la rendicontazione sia agli organi esterni di controllo, ma sopratutto ai cittadini, i primi portatori di interessi e di diritti rispetto l’attività dell’ amministrazione pubblica (misurare per rendere conto). 3.1 Misurare per decidere e migliorare Storicamente è stato commesso un grande errore concettuale: aver voluto leggere la misurazione come un elemento strumentale al solo controllo invece che al governo ed al miglioramento della gestione. È chiaro che la misurazione serve ad entrambi, ma se l’enfasi è solo sul controllo per gli organi esterni, l’atteggiamento degli operatori sarà del tipo “meno si misura e meglio è”. Viceversa, se l’enfasi della misurazione si sposta dalla correttezza del processo, che interessa solo gli organismi di controllo, al risultato concreto che interessa sia a chi dirige sia all’opinione pubblica, può determinarsi una convergenza di interessi ad approntare i necessari sistemi di misurazione. Non a caso Giannini nel suo rapporto ricordava i risultati ottenuti in quelle aziende pubbliche che offrono servizi reali ai cittadini e dove la pressione sui risultati è insita nel tipo di attività che si svolge (poste, ferrovie, servizi di pubblica utilità, ecc.), Per cogliere la valenza della funzione misurazione nel processo gestionale vale la pena ripercorrere brevemente lo schema classico teorico di un qualsiasi ciclo gestionale valido anche per le pubbliche amministrazioni (Fig. 2). Il ciclo gestionale si articola nelle seguenti fasi: 1. la prima fase è quella della determinazione degli obiettivi che, per essere tali in termini economico-aziendali, devono essere quantificabili, misurabili e condivisi. Spesso nonostante l’invito di tante direttive della Presidenza del Consiglio di determinare obiettivi, piani e programmi, questa fase rimane ancora molto vaga, piena di parole ed aggettivi, ma con pochi numeri. In realtà questa fase è già la negoziazione di un risultato: si pensi agli sforzi compiuti sul fronte della finanza pubblica; se si eludeva l’esigenza di quantificare il rapporto debito pubblico/ PIL come obiettivo quantificabile e misurabile non si poteva ottenere nessun risultato su questo fronte. Il problema consiste nel trasporre la stessa logica nel processo di individuazione di obiettivi in tutte le missioni pubbliche: sanità, ricerca, istruzione, cultura, sicurezza ecc. Inoltre le priorità politiche e gli obiettivi strategici sono in alcuni casi poco allineati con i bisogni reali della collettività. In questi casi anche laddove tutti gli obiettivi vengano poi 8 raggiunti, ben poco è il valore sociale creato. Sul piano politico la cosa ha una grande rilevanza: tra maggioranza ed opposizione ci si limita a discutere solo sulle risorse assegnate alimentando un dibattito sterile sul “troppo poco” e sul “troppo” senza confrontarsi mai sui risultati e la risoluzione di problemi che interessano effettivamente ai cittadini. 2. La seconda fase è la programmazione, dove gli obiettivi diventano piani e programmi con accanto le risorse assegnate. È una fase normalmente gestita molto attentamente, ma come al solito solo nella sua dimensione finanziaria: ci sono sempre budget di spesa e pochi budget con indicazione di risultati da ottenere. Figura 2 LIMITI LIMITI ESTERNI ESTERNI LIMITI LIMITI INTERNI INTERNI DETERMINAZIONE DETERMINAZIONE DEGLI DEGLI OBIETTIVI OBIETTIVI Pianificazione e controllo strategico Pianificazione e controllo operativo PIANIFICAZIONE ORGANIZZAZIONE ORGANIZZAZIONE CONTROLLO CONTROLLO CICLO GESTIONALE MISURAZIONE MISURAZIONE COMUNICAZIONE COMUNICAZIONE AZIONE AZIONE 3. Le fasi successive, quelle relative all’organizzazione e alla comunicazione, risentono del vizio iniziale: ci si organizza per risorse assegnate e si comunicano i fondi da spendere e poco gli obiettivi da raggiungere, anche se, almeno nella comunicazione, il ricorso alle direttive con obiettivi strategici e ai piani ha fatto registrare un passo avanti in quelle amministrazioni che le hanno adottate. La direttiva del vertice aziendale, sia esso ministero o ente, è purtroppo ancora vissuta come un adempimento burocratico richiesto dai SECIN, più che come un reale strumento di gestione. Ancora una volta torna il problema della cultura gestionale. 4. La fase dell’azione, pur risentendo delle carenze delle fasi precedenti registra comunque una certa vitalità. Forse è una fase migliorabile, ma certamente non disattesa. 5. La fase della misurazione, quella che in questo contesto più interessa, appare invece limitata perchè gli strumenti su cui si fonda (indicatori, sistemi di 9 rilevazione, ecc.) sono ancora assai limitati e sopratutto unidimensionali: anche qui si misura prevalentemente la dimensione finanziaria dei fattori produttivi, trascurando la dimensione economica del costo legata all’effettivo utilizzo di tali fattori nell’ambito dei processi produttivi. Tutto ciò in una transizione dalla contabilità finanziaria alla contabilità economico-patrimoninale che non si è ancora realizzata con successo. Praticamente è ancora assente la misurazione della produttività, dell’efficienza e dell’efficacia dell’azione amministrativa tanto predicata da Giannini e da tutti i suoi successori nella gestione della Funzione Pubblica, inclusi naturalmente i riferimenti presenti nel recente rinnovo del contratto dei dipendenti pubblici.7 Le altre dimensioni sulle quali molte aziende, anche pubbliche si sono orientate (modelli ispirati al concetto di balaced scorecard) sono per lo più ancora di fatto sconosciute o imitate solo superficialmente. 6. Infine la fase di valutazione e controllo. Se la misurazione è limitata, il controllo che su di essa si poggia non può che essere limitato e questo spiega in parte il fallimento del D.Lsgs 29/93e del D.Lgs 286/99 che avevano come obiettivo l’introduzione del sistema dei controlli interni. Da tutto quanto fin qui affermato si deduce che, nel ciclo gestionale di una organizzazione produttiva dell’importanza e delle dimensioni della PA, esiste un anello debole: la misurazione. Essa inficia l’affidabilità di tutto il sistema di gestione e lo rende instabile. Per un’amministrazione pubblica ciò è ancora più grave che per un’impresa privata. Nell’impresa che produce per il mercato un problema sul ciclo gestionale si ripercuote sull’economicità e determina primo o poi un’uscita dal mercato. Il fallimento gestionale è comunque visibile prima o poi sul conto economico. Nella P.A. questo non accade: in assenza di un idoneo sistema di misurazione (e cioè ad oggi sempre) essa non si accorge dei propri difetti gestionali e, mancando le dinamiche del mercato, sprofonda “nell’inefficienza inconsapevole”. 3.2 Misurare per rendere conto Nell’ambito del “perché misurare”, un cenno va fatto al “misurare per rendere conto”. Il concetto che qui si evoca non è stato espressamente richiamato da Giannini nel suo rapporto, ma se ne intravede la presenza in più di un passaggio. È il concetto dell’accountability: un termine inglese che si sostanzia nella necessità di “rendere conto a qualcuno di qualche cosa”. Si intuisce subito che per rendere conto bisogna prima misurare, altrimenti non sarebbe “un resa del conto”, ma un semplice “racconto” con parole ed aggettivi. Sono le favole e non i risultati che si raccontano. Tralasciando l’ampia bibliografia che esiste in materia8, ai fini della trattazione conviene qui concentrarsi solo su alcune tipologie di accountability: • Esiste un’accountability burocratica che si colloca all’interno delle organizzazioni pubbliche. Consiste nelle relazioni che legano i dipendenti 7 Cfr: Il Sole 24 ore del l’8 aprile 2007 dove le pagg. 4 e 5 sono state dedicate a interviste e commenti su questo delicato aspetto. Si cedano inoltre gli articoli comparsi su alcuni settimanali anche normalmente molto lontani dai temi della pubblica amministrazione: M. Carrieri, Rivoluzione della moquette e G Pietrosanti, Chi non lavora non fa lo statale in LEFT , n.16, 20 aprile 2007. 8 Per una ricostruzione della problematica dell’accountability nelle PA si rinvia alla tesi di Dottorato di Fabio Monteduro, dal titolo “L’accountability delle amministrazioni pubbliche. Interpretazione, evoluzione ed applicazione in una prospettiva internazionale”, discussa nell’AA. 2006/2007 presso la Facoltà di Economia dell’Università di Roma “Tor Vergata”. 10 pubblici al vertice amministrativo e nelle quali il superiore chiede al subordinato di “dar conto” delle attività svolte connesse all’esercizio delle autorità delegate. • Esiste poi un’accountability ispettiva che si colloca all’esterno delle singole amministrazioni, ma all’interno del sistema pubblico. Si concretizza nelle istanze di “resa del conto” a diverse istituzioni indipendenti (Corti dei conti, autorità, agenzie etc.). • Esiste un’accountability democratica che è la traiettoria tradizionale dei sistemi democratici. Essi si basano sull’assegnazione di un mandato politico da parte dei cittadini ai rappresentanti politici eletti e su una delega di autorità da parte di questi all’organo esecutivo, il quale a sua volta assegna delle responsabilità ai vertici amministrativi. Ne consegue una catena di rapporti basati sul “dar conto” che opera nella direzione opposta risalendo tutta la filiera degli aventi interesse ed aventi diritto a conoscere. • Esiste poi un’accountability pubblica che consiste nell’impegno delle amministrazioni pubbliche di “dar conto” in via diretta a soggetti esterni interessati, i cittadini in senso lato, del buon andamento dell’attività amministrativa. È quella che ha visto negli ultimi anni alimentare la prassi dei bilanci sociali delle amministrazioni pubbliche9 sottolineata ed auspicata anche dalla emanazione di una precisa direttiva da parte del Ministro della Funzione Pubblica in materia di rendicontazione sociale nelle amministrazioni pubbliche10. • Esiste infine una accountability reticolare ed una negoziale che riguardano, la prima, le relazioni che legano i diversi attori che collaborano nel soddisfacimento dei bisogni pubblici (tipici i patrnerariati pubblico, privato e non profit) e, la seconda, le amministrazioni pubbliche (ministeri, regioni ed enti locali) ad enti ed agenzie legate tra loro da contatti di servizio o da programmi nell’ambito dei quali si rende necessario “dar conto” del raggiungimento degli obiettivi o della corretta esecuzione dei compiti assegnati. Ora in tutte queste relazioni di accountability occorre che l’oggetto della resa del conto non si limiti, come invece avviene oggi, all’utilizzo appropriato delle risorse finanziarie o al rispetto delle procedure e delle norme relative all’imparzialità dell’agire pubblico. Occorre invece che esso contempli i risultati in termini di: • efficienza: capacità di realizzare gli output, ai dovuti livelli qualitativi, con il minor impiego delle risorse disponibili • efficacia: capacità di programmare e realizzare obiettivi coerenti con le attese della collettività e dei diversi interlocutori istituzionali. Da quanto fino a qui emerso ci si rende conto che il sistema di misurazione, tanto caro anche al Giannini, deve necessariamente essere valorizzato anche in termini di comunicazione esterna. In una logica di accountability ci si deve posizionare nell’ottica di chi riceve l’informazione e non di chi la produce. Questo sottintende non solo una visione diversa dal modello di amministrazione al centro e non al servizio, ma anche un elemento di trasparenza e di democrazia forte. Fino a poco tempo fa la quasi totalità della pubblica amministrazione rendeva conto solo dei fondi spesi e solo alla Corte dei conti, utilizzando come strumento di 9 Cfr: L. Hinna, Il bilancio sociale nelle amministrazioni pubbliche: processi, strumenti, strutture e valenze, Franco Angeli, 2004; L. Hinna, F. Monteduro, (a cura di), Nuovi profili di Accountability nelle P.A: teoria e strumenti, Quaderni Formez n. 40, vol I, Roma, 2005. 10 Direttiva del Ministro della Funzione Pubblica sulla rendicontazione sociale nelle amministrazioni pubbliche, del 17 febbraio 2006. 11 comunicazione il bilancio pubblico il quale non è di semplice comprensione neanche per gli addetti ai lavori. Mai rendeva conto ai cittadini in maniera semplice, diretta e comprensibile dei risultati ottenuti con quei fondi spesi. Oggi, le P.A. italiane, scoprendo la funzione comunicazione, chiedono ai sistemi di misurazione di fornire dati ed informazioni di performance. Forse il fine della comunicazione è più orientato ad una gestione del consenso che ad una reale accountability, ma questo nuovo fenomeno è certamente un’opportunità che chi si interessa di misurazione può cogliere per far crescere una diversa e meno strumentale cultura politica ed amministrativa. 4 Misurare l’input, l’output e l’outcome dei processi gestionali (misurare che cosa) Giannini nel suo rapporto identificava molto bene che cosa doveva essere oggetto di misurazione. L’esperienza di questi anni ha dimostrato invece uno strabismo di fondo tra ciò che si doveva misurare (in quanto sancito da norme, regolamenti e direttive) e che cosa invece si è effettivamente misurato. Anche in questo caso si propone un modello esemplificativo (Fig 3) ormai consolidato negli studi e nella prassi a livello internazionale. Il modello può essere applicato: • a livello generale (Pubblica Amministrazione), • a particolari politiche pubbliche, • a singole aziende o amministrazioni pubbliche. Il presupposto di fondo è che le istituzioni e/o le politiche pubbliche siano finalizzate a rispondere a specifici problemi socio-economici che si manifestano come bisogni della collettività. Attraverso i meccanismi tipici dei sistemi democratici alcuni bisogni della collettività vengono individuati dalle amministrazioni pubbliche come finalità generali e come obiettivi strategici (pianificazione strategica). A loro volta gli obiettivi strategici sono dettagliati, attraverso la programmazione ed il budgeting, in obiettivi operativi. A questo punto si acquisiscono gli input (e cioè le risorse: umane, strumentali, finanziarie, ecc.) con i quali si svolgono le attività volte al raggiungimento degli obiettivi. Attraverso i “processi” si mettono in relazione tra loro i diversi attori e si svolgono le attività necessarie per generare gli output (beni, servizi, regolamentazioni, processi amministrativi). L’insegnamento scolastico, un’operazione chirurgica o la compilazione di un certificato sono esempi di processi. Gli output sono i prodotti di questi processi, ciò che le amministrazioni pubbliche forniscono all’esterno: il numero dei titoli universitari rilasciati, il numero delle pagelle scolastiche predisposte, il numero degli interventi chirurgici eseguiti, il numero dei certificati di residenza emessi, ecc. Questi output interagiscono al loro volta con l’ambiente ed, in particolare con gli individui ai quali sono indirizzati, e conducono a risultati (outcome) intermedi e finali (gli studenti ottengono un lavoro, i pazienti operati riacquistano un più alto livello di salute ed allungano la speranza di vita, ecc.). Il valore generato dall’agire pubblico, che non è il valore economico come in una normale impresa, risiede in ultima analisi proprio in questi outcome intermedi e finali che per definizione sono risultati sociali. 12 Figura 3 Problemi socioeconomici Bisogni della OUTCOME collettività (risultati intermedi e finali) Finalità ed obiettivi strategici Obiettivi operativi Rilevanza INPUT processo OUTPUT Efficienza Efficacia Economicità Adattato da: Pollitt C., Bouckaert G., Public Management Reform: a Comparative Analysis, Oxford University Press, Oxford, 2000. Da quanto fino a qui illustrato emergono quattro fondamentali concetti. • la rilevanza che si ricollega alla coerenza tra gli obiettivi che si danno le istituzioni pubbliche e i bisogni della collettività, di cui gli obiettivi dovrebbero essere espressione; • l’efficienza che è la capacità di realizzare gli obiettivi di produzione di beni e servizi (output) impiegando la minor quantità di risorse (input). Oppure alternativamente un processo può essere definito efficiente quando consente di realizzare il massimo possibile output, dato un certo livello di input. • l’efficacia è connessa al raggiungimento degli obiettivi strategici dell’amministrazione, soprattutto in termini di soddisfazione dei bisogni espressi dalla comunità di riferimento. È evidente come in questa accezione l’efficacia sia una dimensione più complessa da quantificare e valutare rispetto all’efficienza, ma rappresenti al contempo anche la dimensione di risultato più importante e significativa. Giannini nel suo rapporto aveva dettagliato molto bene questi concetti. Un altro concetto, tuttavia, va aggiunto a quelli qui accennati, il concetto di economicità, oggetto di studio e dell’economia di azienda. Con particolare riferimento alle amministrazioni pubbliche, l’economicità della gestione è da intendersi come la capacità mantenuta nel lungo periodo di soddisfare in modo adeguato i bisogni considerati di pubblico interesse dalla comunità di riferimento, prelevando un ammontare di ricchezza dalla comunità stessa tale da essere socialmente accettabile. L’economicità è una condizione di aziendalità e pertanto non è 13 sintetizzabile in un indicatore, ma è un concetto con il quale si intende far riferimento alla realizzazione contestuale di tutti gli altri elementi finora considerati: rilevanza, efficienza e efficacia. Un azienda è economica quando il valore dei suoi output e dei suoi outcome è superiore al valore dei suoi input. Se il valore dei suoi input è superiore al valore dei suoi output/outcome significa che quella azienda non ha creato ricchezza ma la ha distrutta. I problemi particolarmente difficili da risolvere nella azienda pubblica sono due. Il primo è che è relativamente facile quantificare l’input, ma è oggettivamente difficile misurare l’output con la stessa unità di misura dell’input dal momento che la maggior parte delle aziende pubbliche non hanno ricavi e non vendono prodotti. Il secondo è che è piuttosto difficile trovare misure attendibili per gli outcome. Sono necessari sforzi, esperienza e competenze adeguate. Da quanto fin qui illustrato si evince che oggetto di misurazione per una P.A. dovrebbe essere non in alternativa, ma in combinazione: • l’input, inteso come l’ammontare delle risorse impiegate, tipicamente espresse in termini finanziari (spese) ed economici (costi) oppure in termini fisici (in genere ci si riferisce alla risorsa più rilevante (es. n. di personale impiegato, ore lavorate) e che a seconda dei sistemi di misurazione adottati ( tipi di contabilità) possono riferirsi ad un processo o ad una intera unità organizzativa sia essa un semplice ufficio; • l’output, che misura l’ammontare dei beni e servizi prodotti in un dato arco temporale da una determinata unità organizzativa. L’output può essere misurato con due sottocategorie di indicatori: output intermedi ed output finali. I primi si riferiscono ad attività o prodotti/servizi intermedi realizzati dall’organizzazione per il raggiungimento dell’output finale. Un tipico esempio è fornito dal numero di contravvenzioni elevate o dalle ore di pattugliamento su strada della polizia municipale. Gli indicatori di output finale, invece, si propongono di esprimere l’output in termini che risultano direttamente correlabili agli obiettivi operativi dell’organizzazione. Ne sono esempi collegati a quelli precedenti: la scorrevolezza del traffico, la diminuzione degli incidenti mortali, il risparmio di tempo per la collettività. • l’outcome è una grandezza di non facile rilevazione ma che consente, come affermava Giannini, di misurare l’efficacia delle politiche pubbliche. Spesso si confonde l’output (il numero delle multe) con l’outcome (la diminuzione degli incidenti o le ore di traffico risparmiate) Alla domanda che cosa misurano le Pubbliche Amministrazioni italiane a trenta anni dal rapporto Giannini la risposta è: • prevalentemente l’input e quasi esclusivamente nella dimensione finanziaria, • a volte l’output, ma in maniera non strutturata e sistematica, • quasi mai l’outcome. Questo sbilanciamento nell’oggetto di misurazione rende impossibile qualsiasi considerazione sul buon funzionamento dell’amministrazione. Rende impossibile inoltre il riscontro del raggiungimento delle missioni istituzionali, le quali però ogni anno vengono regolarmente finanziate con la legge finanziaria. Gli errori commessi a tale proposito sono ovviamente facili da individuare, più difficile da correggere: • enfasi sull’assegnazione di fondi e disinteresse per i risultati ottenuti con i fondi impiegati, 14 enfasi sulla correttezza delle procedure di spesa, anche se “tangentopoli” ha di fatto dimostrato il contrario, • scarsa attenzione sulla misurazione del “rendimento” dell’elemento più importante della gestione: la risorsa umana (mediamente tra il 60 e l’85% del totale delle risorse impiegate a seconda del tipo di amministrazione pubblica) Una responsabilità importante in questo contesto va addebitata agli organismi di controllo che non hanno colto appieno le opportunità offerte dal nuovo quadro normativo. • 5 Gli strumenti ed i sistemi di misurazione (misurare come) Guardando all’attuale realtà operativa delle amministrazioni pubbliche si riscontra un diffuso consenso sulla necessità di realizzare un effettivo orientamento ai risultati del sistema pubblico. Si riscontrano però anche serie difficoltà a passare dalle parole ai fatti. È evidente che non ci si può realmente orientare ai risultati se non si risolvono due fondamentali categorie di problemi: • come misurare le performance di un’amministrazione, un programma o servizio? • come far sì che le misure di performance siano poi effettivamente utilizzate nell’ambito delle decisioni strategiche ed operative? Non può sfuggire come i recenti e tanto discussi accordi tra governo e sindacati sul pubblico impiego, pongano al centro dell’attenzione, senza peraltro formulare un risposta, proprio questi due quesiti. A tali interrogativi si può rispondere offrendo alcuni riferimenti generali. In primo luogo, è noto che le amministrazioni pubbliche appartengono a quella particolare categoria di organizzazioni che producono/distribuiscono ricchezza in assenza di mercato, con la conseguenza non banale che manca una grandezza idonea a dare una visione unitaria dei risultati in termini di raggiungimento delle finalità aziendali. Ciò non significa l’impossibilità di verificare i suddetti risultati ma semplicemente che, a differenza delle imprese che operano per il mercato, nelle amministrazioni pubbliche non si ha tramite il mercato né una misura dell’efficacia né un’integrazione di efficienza ed efficacia in un unico risultato di sintesi ( che nelle imprese è il reddito prodotto). Efficienza ed efficacia vanno quindi individuate indagandole separatamente. Per la Pubblica Amministrazione quindi esiste il rischio concreto che, senza idonei strumenti di misurazione, venga distribuita ricchezza non realmente prodotta, ma solo debiti per i nostri figli. In seconda istanza, sono ormai piuttosto numerose le indagini empiriche che dimostrano come, anche laddove siano stati compiuti ingenti sforzi per sviluppare dettagliati sistemi di misurazione, non sempre sia corrisposto un effettivo contributo degli stessi a beneficio dei processi decisionali. Il fenomeno sembra essere stato causato da una serie di problematiche connesse, da un lato, alle modalità di costruzione ed utilizzo dei sistemi di misurazione e, dall’altro, alle peculiarità del contesto interno (ruolo della sfera politica, formalizzazione dei processi, culture interne) ed esterno (tipologia e comportamenti degli stakeholder) delle amministrazioni pubbliche. Realizzare tutto questo non è semplice neanche nel settore privato, con il quale spesso anche a sproposito ci si confronta, e richiede competenze e conoscenze non indifferenti, ma non vi è dubbio che evidenzia ulteriormente la distanza che esiste tra le conoscenze necessarie e le competenze presenti nelle pubbliche amministrazioni a tutti i livelli. È il problema atavico già sollevato da Giannini dei “non numerosi esperti che esistono in Italia” all’interno delle PA. La classe dirigente pubblica è ancora prevalentemente di 15 estrazione giuridica ed è quindi inevitabile che molti degli elementi considerati facciano parte più del bagaglio delle nozioni apprese, spesso neanche studiate, che delle reali competenze. Per poter misurare è necessario disporre di strumenti di misurazione. La qualità, il livello di sofisticazione, la tempestività e l’accuratezza di questi strumenti sono gli elementi che garantiscono il livello qualitativo della misurazione e che consentono di arricchire l’intero processo gestionale. Se un qualsiasi mezzo di trasporto dispone di un cruscotto che segnali in ritardo il livello di carburante presente nel serbatoio, la velocità, i consumi, ecc., gli effetti possono essere anche drammatici. La gravità delle conseguenze, comunque, dipenderà dalla tipologia del mezzo di trasporto: non è la stessa se il mezzo è una vespa o un jumbo 747. La pubblica amministrazione è un “jumbo” con tre milioni e seicentomila persone a bordo, ma con un cruscotto di strumenti di misurazione11 inferiori a quelli di una “vespa”. Molte delle scienze (la medicina, la fisica o la biologia) hanno registrato negli ultimi decenni grandi progressi grazie a nuovi strumenti di misurazione che sono stati messi a punto, attraverso la sperimentazione e l’innovazione costante e facendo leva sulle esigenze avvertite dagli stessi operatori. La caratteristica di questi sistemi è che hanno consentito la misurazione in termini quantitativi anche di aspetti qualitativi. La storia ha dimostrato che non ci sono misurazioni impossibili. Esse “diventano” impossibili quando non si ha la giusta cultura o la giusta motivazione. Questa è un po’ la situazione nella pubblica amministrazione italiana: • quasi sempre vi è solo la contabilità generale, spesso solo finanziaria, che non catturando il costo, ma solo il movimento finanziario, non consente alcune analisi di economicità, né nel tempo ne nello spazio; • ci sono a volte “tracce” di contabilità economico patrimoniale; • sono stati mossi i primi passi verso sistemi di contabilità analitica, ma raramente tali sistemi sono realmente tempestivi ed efficaci e comunque sono quasi sempre orienta alla dimensione finanziaria; • manca quasi totalmente la misurazione dei risultati, ovvero la dimensione di output e di outcome intesa come contabilità analitica dei risultati; 12 • i sistemi multidimensionali quali la balanced scorecard sono rarissimi , • la misurazione della qualità percepita dal cliente, è diffusa solo in pochi comparti (trasporti, servizi pubblici locali e comunque legata alla carta dei servizi). Tuttavia anche quando è presente essa è scarsamente integrata con gli altri strumenti di misurazione • manca quasi sempre una “catena di senso” che leghi le missioni alle attività, ai progetti, ai risultati (vedi Fig 4). • la risorsa più importante - la risorsa umana - viene relevata dai sistemi di misurazione come semplice uscita di cassa o come semplice costo: esattamente come le spese di cancelleria ed il materiale di consumo, mentre rappresenta il vero cuore della gestione dell’azienda pubblica. La misurazione del capitale intellettuale, la motivazione, il tasso di innovazione, la mappatura delle 11 Sull’immagine del cruscotto de nella PA e l’impatto della tecnologia cfr: A. Marini, strumenti conti pubblici. Un cruscotto per il bilancio, in Il Sole 24 Ore, Nova, 22 marzo 2007. 12 Cfr L. Hinna, F. Monteduro, (a cura di), Nuovi profili di Accountability nelle P.A: analisi di casi, Quaderni Formez n. 40, vol I, Roma, 2005. 16 competenze, la produttività, l’efficienza sono tutte parole che rimangono vuote senza strumenti di misurazione sottostanti. Figura 4 tempo t0 Mission Mission Linee d’intervento Linea d’intervento A Linea d’intervento B Linea d’intervento C Attività Attività Attività Attività Attività Attività Attività Macro Attività Attività Attività trasversali Attività Attività Attività Risultati Risultati Risultati Risultati Risultati Effetti Effetti tempo tn Come si possono dunque costruire i sistemi di misurazione? Dati gli scopi e la collocazione del presente contributo è possibile strutturare delle indicazioni di carattere metodologico rinviando ad altri lavori per considerazione di carattere più tecnicooperativo13. 1. La costruzione dei sistemi di misurazione può avvalersi della leva dell’outsourcing. Il ricorso all’outsourcing per quel che riguarda i sistemi di rilevazione e di misurazione è una possibilità da valutare con attenzione, tenendo però sempre presente che si può esternalizzare solo la gestione del sistema e non anche la definizione delle esigenze. Se grandi aziende multinazionali, banche, grandi aziende di telecomunicazioni, sempre molto attente al rapporto qualità/costo dei processi hanno deciso da diversi anni di dare in outsourcing a società esterne la tenuta della contabilità per il bilancio ed il sistema di rilevazione e misurazione dei fatti di gestione, non si capisce perchè le pubbliche amministrazioni si sforzino di gestire male ed in casa funzioni per le quali non hanno competenza, magari distogliendo risorse dalla loro attività principali. 13 In particolare ci si riferisce al già citato manuale “Misurare per decidere: la misurazione della performance per migliorare le politiche pubbliche ed i servizi” realizzato dal Dipartimento della Funzione Pubblica. 17 In materia di outsourcing dei sistemi di misurazione, e più in generale di sistemi di supporto alla gestione, c’è già qualche interessante best practice non solo in grandi aziende profit italiane, ma anche nelle P.A. italiane. Per la gestione dei sistemi di misurazione in casa o in outsourcing serve comunque una cultura diversa anche da parte degli organismi di controllo i quali, avendo poca dimestichezza con l’analisi costi-benefici minacciano costantemente l’attivazione di azioni di responsabilità. 2. La costruzione dei sistemi di misurazione può basarsi sulla creazione di network di operatori particolarmente propensi all’innovazione Il Dipartimento della Funzione Pubblica negli ultimi anni con l’iniziativa di “Cantieri” ha cercato di favorire la creazione di una comunità professionale di innovatori della P.A. Tuttavia, come dice il proverbio arabo, “puoi portare il cammello alla fonte, ma non puoi pretendere che beva”. Ed il cammello non ha bevuto, o ha bevuto troppo poco. Come se non bastasse l’iniziativa Cantieri sembra recentemente si sia arenata su problemi di deleghe e competenze all’interno del Dipartimento della Funzione Pubblica. 3. La costruzione dei sistemi di misurazione può avvalersi delle opportunità offerte dalla nuove tecnologie Il supporto informatico, un tema proposto nel rapporto Giannini, che avrebbe potuto dare un grande contributo all’evoluzione degli strumenti di misurazione, ha registrato in realtà i risultati maggiori nella interoperabilità, la comunicazione, l’accesso e la gestione dei processi, ma poco o nulla si è realizzato per i processi di misurazione nonostante gli sforzi del CNIPA. L’attenzione si è concentra solo sulla contabilità generale, o quella analitica e così si è finito per spendere milioni di euro per misurare ciò che gli strumenti informatici possono misurare e non ciò che serve realmente misurare. I sistemi informativi sono strumenti che soddisfano esigenze ma se le esigenze non vengono esplicitate, i sistemi non possono inventarle. Possono tutto al più, sulla base delle esperienze maturate in altri comparti produttivi, immaginarle, ma il processo di adattamento è sempre molto delicato. E’ un processo culturale compito dell’aziendalista, invece finisce per essere un processo tecnico dell’ingegnere che si basa sull’osservazione della norma che indica il giurista. Il risultato è scontato: alla cultura giuridica si unisce la cultura ingegneristica senza a monte una cultura aziendale e quindi lo strumento diventa vincolo invece che opportunità. Se può consolare, è stato così anche in altri comparti: nel settore dei servizi di grandi dimensioni (banche ed assicurazioni) dove per anni si è confusa l’informatizzazione con l’organizzazione ed il driver di tutti i processi non è stata l’esigenza organizzativa ma la soluzione informatica e tecnologica. In conclusione la PA deve costruire i sistemi di misurazione sulla base delle proprie esigenze recuperando una capacità di ascolto ed una visone prospettica. Bisogna superare la piatta “obbedienza della norma” e tornare a rivendicare un’autonomia tecnica, disciplinare e culturale centrale e non residuale al processo di innovazione. Per far ciò deve utilizzare con più incisività ed accortezza di quanto finora fatto le competenze esterne (attraverso la leva dell’outsourcing), quelle interne (networking di innovatori) e le potenzialità tecnologiche. Insomma anche in questo caso il problema è stato ed è di natura culturale prima che tecnica. Pertanto un contributo positivo può venire anche dal mondo accademico, ma 18 occorre che la cultura giuridica e quella aziendale smettano di essere antagoniste e ragionino insieme per migliorare il funzionamento del sistema pubblico. C’è stata una stagione importante nella P.A. italiana: quella dell’aziendalizzazione culturale che intuita in tempi diversi da giuristi di spessore (Giannini, Cassese, Bassanini, Frattini) fu declinata dagli aziendalisti che facevano capo a grandi strutture universitarie che per anni hanno avuto il monopolio intellettuale della economia aziendale pubblica. Queste strutture, nello slancio di cercare nuovi spazi operativi da presidiare, hanno promosso ed introdotto gli stilemi organizzativi e gestionali del privato senza che allora conoscessero ancora bene la realtà del pubblico. Il paradigma concettuale che seguivano era che quello che ciò che ha funzionato nel privato poteva andare bene anche nel pubblico. Quel paradigma ha avuto scarso successo perché sono state trascurate tutte le dimensioni antropologiche, sociologiche, motivazionali e storiche. I danni sono stati devastanti: il “rigetto” è ancora molto forte ed attuale. Al ricordo di tale stagione si soffre ancora: sono state bandite espressioni, messe all’indice parole, tecnicismi e si è fatta in molti casi terra bruciata con il risultato che è più difficile coltivare gli enzimi dell’economia di azienda nelle amministrazioni pubbliche. Oggi, però, le avanguardie culturali di allora hanno imparato dai propri errori ed hanno fatto passi da gigante che potrebbero rivelarsi molto utili. Nonostante questo ci sono ancora grandi sacche di diffidenza che frenano il processo di innovazione anche nel contesto degli strumenti di misurazione. Sono i “batteri dell’organicocco” che si è insidiato nella PA e per il quale non si è trovato ancora un antibiotico efficace che non sia il tempo. 6 La misurazione per norma e la misurazione per esigenza Fino a qui è stata analizzata la funzione misurazione ed il ruolo che essa riveste nell’ambito del funzionamento delle pubbliche amministrazioni; più in particolare ci si è soffermati a considerare “perché” misurare. Si è poi passato all’oggetto di misurazione, ovvero il “che cosa” ed, infine, si sono considerati gli strumenti ovvero “come” misurare e con quale approccio culturale. Prima di approfondire il tema più rilevante per la misurazione delle aziende pubbliche (la misurazione del capitale umano), è necessario proporre un’ulteriore distinzione tra la “misurazione per norma” e “la misurazione per esigenza”. Per carenza di cultura gestionale le pubbliche amministrazioni tendono burocraticamente ad allinearsi alle esigenze di misurazione dettate dalle norme invece che alle esigenze della gestione. Le P.A. hanno spesso eluso la norma con adempimenti burocratici volti a soddisfare la forma ed ad aggirare la sostanza. Sconta forse una scarsa conoscenza del settore pubblico o rientra nella classica retorica politica, il recente ottimismo sulle capacità di slancio e recupero che le ultime novità normative o negoziali sapranno infondere alla misurazione dei risultati nella Pubblica Amministrazione. Forse bisognerebbe leggere con più attenzione la dettagliata ma non certo esaltante analisi stato dell’arte in materia di controlli (e quindi anche di strumenti di misurazione) effettuata a più riprese dal Comitato Tecnico Scientifico della Presidenza del Consiglio, previsto dallo stesso D.Lgs 286/99. 7 La misurazione nell’area risorse umane Per la Pubblica Amministrazione rinunciare a misurare gli aspetti che riguardano la gestione delle risorse umane, significa abdicare all’intera funzione gestionale. 19 Nel settore pubblico si riscontra uno strano paradosso: le risorse umane sono l’unico fronte dove si possono realmente ottenere dei miglioramenti ma è anche quello dove invece si è rinunciato ad esplorare, un obiettivo che avrebbe una ricaduta economica sul paese ed una ricaduta sociale sugli stessi lavoratori del comparto pubblico. Il motivo è semplice: non si è voluto, o non si è stati capaci, di introdurre sistemi di misurazione. Nella pubblica amministrazione, infatti, lavorano circa tremilioni e seicentomila persone, lo stesso Stato non sa di preciso quanti sono i suoi dipendenti anche se essi rappresentano un percentuale che oscilla tra il 60 e l’80 % delle risorse globali gestite da una qualsiasi azienda pubblica. Tremilioni e seicentomila persone inoltre rappresentano il 30% della popolazione attiva dell’intero paese (12 milioni di lavoratori attivi ai quali si deve aggiungere quasi 5 milioni di lavoratori “in nero”). Dalla efficienza e produttività di queste persone dipendono tante cose: la qualità dei servizi, il recupero di produttività del paese, il benessere dell’intera società civile. Ai dipendenti della pubblica amministrazione sono state assegnate numerose e poco lusinghiere etichette: la palla al piede dello sviluppo; una casta autoreferente che rappresenta l’unico vero cliente della pubblica amministrazione; i “nullafacenti” come li chiama Ichino14; il “partito trasversale” capace di influenzare sette milioni di voti, di fronte ai quali, secondo alcuni15, ogni proposito di riforma ha scarse probabilità di successo. In realtà le risorse umane della PA se adeguatamente gestite - e si sottolinea se gestite possono rappresentate una grande opportunità per le amministrazioni dove lavorano, per l’intero paese, oltre che naturalmente per gli stessi individui. Gli elementi che ci inducono a considerare le risorse umane della P.A. come una opportunità sono le seguenti16: • la numerosità della popolazione che consente anche a piccole variazioni di ottenere grandi risultati: si pensi che un recupero di efficienza di pochi punti percentuali può incidere in termini di 1-2 punti del PIL17; • le risorse umane sono una risorsa di fatto mai gestita e, quindi, appena si comincia lavorare con tecniche e professionalità è inevitabile che i risultati arrivino; • il livello di scolarizzazione della P.A. è del 10-12 % superiore agli altri settori economici, quindi esiste una “materia prima” di grande potenziale sulla quale lavorare; • il popolo della PA non è “mercenario”, nel senso che, da indagini realizzate, si sa che è poco incentivato ed incentivabile sull’elemento economico, ma tende invece ad aggregarsi e motivarsi su valori antropologici. Per questo è un personale che si può considerare “poco volatile”. Considerando l’età media ed i probabili limiti per l’età pensionabile, vale la pena investirci con interesse; • i valori aggreganti del personale della P.A. si legano normalmente ai cosiddetti fringe benfit sociali (sicurezza e vicinanza del posto di lavoro, scarsa pressione sui risultati, assicurazione di carriera sulla base dell’anzianità, ecc).; • c’è una domanda, latente e diffusa, di partecipazione al processo organizzativo. Tale domanda non è mai stata intercettata dal settore pubblico per carenza di 14 Cfr. P. Ichino, I nullafacenti, Mondatori, Milano 2006 Cfr. G. Gentili, Accordo statali, fa scuola la prima repubblica, in Il Sole 24 Ore, 10 aprile 2007 16 Sul tema si confronti la proposta di E. Borgonovi, Pubblico. Ripartire dalle virtù, in Il Sole 24 Ore, 27 febbraio 2007 17 Cfr. N. Rossi, intervista a L’imprenditore, numero 3, marzo 2007, pag 23 15 20 managerialità, mentre è stata intercettata dal settore del volontariato civile. Esso, al contrario di quello pubblico, ha saputo proporre valori sociali aggreganti. La percentuale dei dipendenti pubblici coinvolti in attività di volontariato è molto alta. Ciò significa che c’è la volontà di lasciarsi coinvolgere in progetti di cui si percepisce l’utilità sociale. Ovviamente tutto questo contrasta con l’immagine dei “nullafacenti” che spesso i media – e non solo – tendono ad accreditare; • esistono dei precedenti importanti che dimostrano come si possano ottenere risultati positivi attraverso una gestione attenta, con appropriati strumenti di misurazione e sotto la guida di manager capaci. Il caso delle Poste Italiane è sotto gli occhi di tutti: un tempo gli impiegati delle poste erano sinonimo di inefficienza e scarsa produttività. Oggi le Poste, con sessantamila persone in meno, hanno lanciato nuovi prodotti, recuperato in produttività ed efficienza e, naturalmente, grazie a qualche immissione di uomini in posti chiave, hanno recuperato in professionalità e slancio organizzativo. Tutto ciò ha consentito di passare, nel volgere di pochissimo tempo, da perdite croniche a risultati di esercizio positivi. Oggi le poste si propongono sul mercato con un volto completamente nuovo ed una dinamicità da fare invidia a molte banche. Solo qualche anno fa erano una “P.A. tradizionale”. 18 • il livello di precariato è elevato: secondo il Censis si tratta del 9,4% del totale degli addetti. Si tratta certamente di giovani in cerca di primo impiego, ma anche e soprattutto di persone motivate ed in cerca di uno sviluppo professionale, per far parte di diritto della società delle competenze. Queste risorse, che stazionano nell’anticamera delle pubbliche amministrazioni senza ancora farne parte, in attesa del loro turno di stabilizzazione, normalmente sono molto giovani, e sono da stimolo e confronto a chi è già inserito da tempo. Questa immissione di nuovi valori, nuove attese ed aspettative determina ricadute di segno positivo ed assicura quello scambio culturale con il mercato del lavoro che è mancato per troppo tempo nella PA italiana. Certamente esistono anche delle criticità da gestire: una per tutte il ruolo storico che le organizzazioni sindacali hanno giocato nel comparto pubblico. Compiuto il loro ciclo evolutivo sulla battaglia dei diritti - giusta e sacrosanta - oggi esse corrono il rischio di portare avanti battaglie per garantire rendite di posizione. Le organizzazioni sindacali non sono riuscite a convertirsi, a proporsi come partner dello sviluppo nell’interesse dei loro iscritti e delle aziende. Esse perciò rischiano di perdere il ruolo di intermediario culturale che, invece, andrebbe recuperato proprio sul terreno di una gestione più attenta delle risorse umane. Terreno questo sul quale esiste una pressione forte - tutta interna al sindacato - che vede contrapposte le organizzazioni sindacali che operano nel settore privato che si trovano sempre più in difficoltà a chieder sacrifici ai loro lavoratori iscritti quando altri lavoratori ed altre organizzazioni sindacali - del settore pubblico - non sembrano chiamati a farne. Giannini nel suo rapporto, passando in rassegna le varie riforme (contrattazione collettiva, la legge quadro, la qualifica funzionale, i sistemi di reclutamento, la dirigenza) aveva già identificato il nodo centrale da sciogliere: passare dalla semplice “amministrazione del personale” (ovvero gestione dei concorsi, delle presenze, delle qualifiche, delle retribuzioni, permessi, pensionamento) alla “gestione delle risorse umane” con tutto ciò che di diverso questo comporta. 18 Cfr. G. Paliotti, Precari, tra stato e impresa, 146mila stabilizzazioni, in Il sole 24 ore pag 4 08-04-07 21 La società, così come anche le esigenze da essa espresse in questi anni, sono cambiate. Gli strumenti per l’amministrazione del personale sono invece rimasti sostanzialmente gli stessi, più o meno in tutti i comparti produttivi; tanto da far decidere a molte aziende di esternalizzare tale funzione, strettamente contabile ed amministrativa, per liberare risorse da dedicare alla gestione delle risorse umane, più nobile e con maggior valore organizzativo aggiunto. Ciò che in questi anni è cambiato, anche in maniera tumultuosa, è proprio la gestione delle risorse umane ed i suoi strumenti, marcando in maniera forte la differenza tra gestione ed amministrazione del personale. Nell’area della gestione delle risorse umane, infatti, sono stati compiuti grandi progressi seguendo l’evoluzione sociale del paese: dalla formazione all’analisi delle esigenze, dalla mappatura delle competenze alla misurazione delle performance, dal censimento delle attitudini e delle motivazioni allo sviluppo professionale, dai tracciati di carriera al counselling ed il coaching fino alla misurazione del capitale intellettuale. Nel tempo la gestione delle risorse umane si è sempre più legata a filo doppio alla funzione organizzazione. Ancora una volta Giannini aveva visto bene, ma è stato disatteso nei fatti. La conclusione è che nell’albo dei presenti alla grande corsa per la gestione delle risorse umane manca ancora la P.A. Se si farà tesoro dei grandi progressi realizzati negli ultimi 20-30 anni in materia di gestione ed organizzazione delle risorse umane, anche la P.A. italiana non potrà che registrare grandi risultati. Gestire bene un ammontare che sia aggira intorno all’80% delle totale delle risorse assegnate a ciascuna azienda pubblica, è un dovere nei confronti del paese e, trattandosi di risorse umane, è un dovere anche nei confronti dei lavoratori della PA, i quali anche sul piano professionale e culturale hanno pari diritti rispetto agli altri lavoratori. Questo è un elemento che le organizzazioni sindacali non sembrano aver colto. Quei tre milioni e seicentomila dipendenti hanno il diritto di pretendere una gestione del personale in linea con i tempi che stiamo vivendo e non da tardo medioevo organizzativo. Lo sviluppo professionale per l’unica vita lavorativa di cui un individuo dispone non è un opzione etica della P.A ma è un diritto che essa deve tutelare. La transizione da “amministrazione del personale” (che richiede semplici sistemi contabili) alla “gestione delle risorse umane” implica la necessità di modificare la cultura organizzativa esistente anche avvalendosi di una moderna strumentazione focalizzata sulla misurazione e la valutazione delle performance19. Occorre però prestare attenzione a tutte le varie fasi del processo in cui si articola la gestione delle risorse umane. Qui di seguito vengono considerati alcuni passaggi critici di queste fasi con particolare riferimento al reclutamento, la formazione, la misurazione del capitale intellettuale, la valutazione della dirigenza, e la gestione dei pensionati come risorsa aggiuntiva non adeguatamente utilizzata. 7.1 La misurazione per la selezione ed il reclutamento Il sistema di reclutamento della pubblica amministrazione è stato anch’esso oggetto di considerazione nel rapporto Giannini. Storicamente esso si è basato su un presupposto giuridico sul quale occorrerebbe oggi riflettere: il reclutamento con procedure concorsuali. 19 Cfr: G. Valotti, creare la cultura organizzativa focalizzata sulla performance, in Misurare per decidere, op cit pag. 170 e segg. 22 Tali procedure ai giorni d’oggi presentano una serie di criticità che qui vengono elencate solo per evidenziare la mancanza di idonei strumenti di misurazione. • La durata dei concorsi: le poche misurazioni esistenti su tale aspetto (procedure prevalentemente orientate al processo, che poi è un rito, piuttosto che al risultato) dimostrano che di fatto la PA non sceglie, ma è scelta. Scelta da coloro che non hanno trovato prima un’altra collocazione. 20 • Il costo dei concorsi: i costi per lo svolgimento dei concorsi sono molto elevati anche a causa dell’elevato numero dei partecipanti. Spesso decine di migliaia concorrono per pochi posti. In un recente concorso al quale hanno partecipato oltre sessantamila persone per 68 posti, si è venuta a creare una situazione in cui ciascun selezionato avrebbe teoricamente dovuto lavorare qualche centinaio di anni (550 per la precisione) per ripagare i costi della sola selezione. È evidente che la misurazione del “value for money” (ovvero l’analisi dei risultati che si ottengono per il denaro che si spende) non viene fatta, altrimenti qualche proposta di modifica sarebbe stata avanzata. • I criteri della selezione: o Sono normalmente orientati a misurare le conoscenze dei candidati e quasi mai le attitudini, le caratteristiche personali, la potenzialità, le motivazioni. Ciò vale anche per alti livelli di dirigenti e funzionari. Ora, dal momento che le selezioni vengono fatte sulle conoscenze e spesso sulle stesse materie che sono state oggetto di studio durante i percorsi universitari, il tutto appare come una perdita di tempo sia per i candidati che per le organizzazioni. Forse si dovrebbe dare più credito alle università che hanno già verificato le conoscenze e ci si dovrebbe concentrare sulle attitudini personali. Oppure l’alternativa potrebbe essere quella di dare un rating alle università e richiedere votazioni di sbarramento (differenziate per università e per materia). o Non vengono mai misurate le motivazioni, le potenzialità e le attitudini dei candidati. Eppure esistono sistemi che potrebbero essere utilizzati con vantaggio21 e peraltro sono diffusi da alcuni anni anche in ambito pubblico. o La P.A. non scegliendo sulla base di profili di entrata precisi e griglie di valutazione qualitative, utilizza spesso il criterio della equipollenza delle lauree con l’effetto di avere concorsi oceanici che alimentano false illusioni ed aspettative. Il concetto della equipollenza in certi settori dove i profili di entrata sono chiari non si applica (sanità, magistratura, università): nessuno si farebbe operare al cuore da un medico con laurea equipollente e a nessuno verrebbe in mente di nominare magistrato un signore con una laurea equipollente a giurisprudenza. o Spesso il grande numero di partecipanti ai concorsi suggerisce l’utilizzo di sistemi di sbarramento alle prove scritte basate su quiz con centinaia e centinaia di domande da barrare (normalmente un giusta e due o tre errate) da correggere velocemente con il lettore ottico. Quando il numero domande è molto elevato può capitare, come dicono gli statistici che, se 20 Si pensi a quanto onerose siano i costi legati alla selezione, alla costituzione ed alla retribuzione delle commissioni, alle trasferte, all’affitto dei locali, alle correzioni dei compiti, ecc. 21 Si veda a tale proposito la ricerca “Primo rapporto della LUISS sulla generazione di una leadership forte” ed i commenti avanzati sul Sole 24 Ore del 28 febbraio 2007 nell’inserto Job 24 23 non si introduce un criterio di gradualità (una domanda assolutamente giusta, una quasi giusta, una sbagliata ed una assolutamente sbagliata), la probabilità di rispondere correttamente segnando a caso le risposte sia molto vicina a quella che si sarebbe ottenuta rispondendo in maniera meditata. Queste tecniche finiscono per far sì che, almeno per la prova scritta, la PA non selezioni nemmeno sulla base delle conoscenze, ma di fatto selezioni a “sorteggio”. Questo non solo non è serio, ma scoraggia la partecipazione delle risorse migliori ottenendo l’obiettivo opposto a quello che invece il concorso voleva perseguire. Anche in questo caso le tecniche di misurazione per le selezioni, anche di massa, hanno registrato grandi tassi di innovazione dei quali la P.A. non sembra si sia accorta. • Inserimento in azienda: o Una volta superata la selezione sulla base delle conoscenze, il candidato viene assunto e, anche ai livelli dirigenziali, lo si obbliga poi a seguire corsi di formazione a tempo pieno, di uno o due anni, dove studierà ancora le stesse materie che ha studiato all’università e che ha poi studiato per il concorso. Alla fine il candidato anche per la ripetitività delle materie sarà fortemente segnato da stanchezza intellettuale e demotivazione e scarso entusiasmo. Allora la domanda legittima è chiedersi che cosa ha comprato la PA sul mercato del lavoro: certamente non le attitudini personali, perchè non le prende in considerazione, ma neanche le conoscenze dal momento che dopo averle verificate mette ancora i selezionati in formazione. Il sospetto è che tutto questo non sia un processo gestionale, ma solo un rito e per giunta costoso sia in termini economici che sociali. Forse i criteri di selezione andrebbero rivisti completamente. La conclusione è che la PA non usa minimamente gli strumenti di misurazione utilizzati da tutte le altre aziende per la selezione del proprio personale e quando lo fa le utilizza male. Il processo non è serio, è umiliante e mina alle basi qualsiasi sistema di gestione delle risorse umane rischiando di deteriorare la stessa preziosa “materia prima” che è chiamato a selezionare. I vecchi sistemi di selezione non funzionano più neanche nel privato. È opinione ormai diffusa che se non si rinnovano gli strumenti di selezione del personale, si continueranno a cooptare i mediocri e questo è il tema sul quale ci si sta interrogando da più parti e da tempo 22. La domanda che viene spontaneo porsi è: perchè per l’acquisizione di un sistema informativo (che viene cambiato in media ogni otto dieci anni) è previsto che si chieda un pare al CNIPA e non si chiede un analogo parere per selezionare quantità notevoli di profili professionali che durano trenta trentacinque anni? È forse meno importante della acquisizione di un computer? No, semplicemente manca ancora una “magistratura organizzativa”: c’è quella amministrativa, quella contabile, quella informatica, ma manca ancora quella organizzativa. Va detto per completezza, tuttavia, che ci sono pubbliche amministrazioni che riescono, pur facendo slalom tra le norme, a mettere in piedi sistemi di selezione rapidi e che assicurano competenze e conoscenze ad altissimi livelli. Bisognerebbe imitarle, ma forse non c’è l’interesse. 22 Cfr: P.L.Celli, I mediocri scelgono i peggiori, intervista rilasciata al Sole 24 Ore del 28 febbraio 2007 inserto Job 24 24 È tempo che una riforma profonda venga promossa. Ciò anche in considerazione dei buchi procedurali che si sono creati con i sistemi di precariato e di stabilizzazione che di fatto costringono i giovani, anche nel pubblico, a sottoporsi a del “volontariato retribuito” nella speranza di contabilizzare prima o poi un “credito” morale con la pubblica amministrazione.Il sistema del concorso è superaro se sono veri i dati che evidenzaino come il 60 % dei dipendenti della PA sono entrati senza concorso nonostante esista una norma costituzionale a riguardo. Tutto questo non è serio, il posto pubblico non può essere come è stato per anni un ammortizzatore sociale. Molto meglio prevedere i sussidi di disoccupazione e contare su risorse selezionate, motivate e preparate per raccogliere la sfida che la P.A. deve necessariamente raccogliere. 7.2 La misurazione per la formazione La P.A spende fiumi di denaro in formazione. Senza una attenta analisi ex ante ed un controllo ex post (valutazione della qualità della docenza, della ricaduta culturale e tecnica realizzata) si rischia di spendere ma con un ritorno solo per le società di consulenza che operano nel business della formazione. Ciò è inaccettabile soprattutto in un periodo di contenimento e razionalizzazione della spesa pubblica. In una qualsiasi azienda la formazione riveste un compito importante nel processo di gestione delle risorse umane. La formazione incide sulla “manutenzione e l’aggiornamento dei saperi” ed è direttamente proporzionale al tasso di innovazione e cambiamento che il settore di appartenenza registra. Se poi l’azienda è una azienda di knowhow - ovvero registra grandi concentrazioni di conoscenza - la formazione è un ingrediente dell’attività di cui non si può fare a meno. La PA può essere assimilata ad un’azienda di knowhow. È importante sapere che in questo tipo di aziende l’incidenza della formazione può raggiungere anche il 10-12% del costo totale del personale ed assume la caratteristica di formazione permanente. Ora, considerando le cifre in gioco nel costo del personale della pubblica amministrazione, anche percentuali di spesa molto più contenute, fanno della formazione una funzione molto rilevante sia sotto il profilo strettamente economico che sotto quello più squisitamente organizzativo e gestionale. Una funzione comunque in crescita se si considera che sono attesi tassi di cambiamento notevoli nel settore pubblico che si trascinerà dietro una domanda crescente di formazione. Il problema è capire quando la formazione è un investimento o quando è uno spreco. Un importante contributo in tal senso può provenire dai sistemi di misurazione dell’efficienza, efficacia ed economicità che oggi tuttavia non sono presenti nella PA, fatta eccezione per alcune analisi strettamente quantitative ed organizzative23. L’impressione che si registra da questi studi è che il livello qualitativo della formazione non sia allineato sull’alto: c’è una formazione fatta solo quando ci sono fondi, ma fortunatamente c’è anche una formazione di eccellenza realizzata con il “volontariato” dei soggetti coinvolti. La formazione ha subito nel tempo un’evoluzione già osservata in altri contesti (banche ed assicurazioni) ed in altri contesti esteri24. Vale la pena di passarne in rassegna le tappe principali per ritrovare quelle che la PA sta oggi vivendo: 23 Cfr. L’annuale “Rapporto sulla Formazione nella Pubblica Amministrazione” a cura della SSPA. Sulla innovazione registrata dalla PA francese in materia di formazione, ed in particolare in materia di formazione permanente ai dirigenti cfr. S. Carruba, Burocrazia, cambiarla non è impossibile, in Il Sole 24 Ore del 2 marzo 2007. 24 25 • • • • • • • La prima stagione è quella da “gita scolastica”: ovvero spirito di partecipazione assimilabile all’ora di ginnastica e religione, all’ultima ora del sabato. La formazione viene letta come opzione, caratterizzata da scarsa attenzione sulla qualità, scarso impegno dei partecipanti, nessun sistema di misurazione ex post delle variabili (docenza, contenuti, risultati, programmi, ecc). L’esito: uno spreco più che un investimento. La seconda stagione è quella della formazione come “diritto”: l’accento è fortemente sindacale e l’attenzione è più sulla quantità che la qualità (% delle ore di formazione sul totale delle ore lavorate). Siccome i diritti non si misurano, nessuno strumento di misurazione e valutazione viene adottato tranne la rilevazione delle presenze in aula. L’esito: molto limitato. Il terzo momento è “la formazione come passaggio obbligato per la carriera”: si organizzano corsi di riqualificazione aperti a tutti, realizzando una formazione di massa. L’attenzione è sulle prove finali (spesso facendo ricorso a quiz), sul montante ore, e sul contenimento della spesa (visto il numero elevato di destinatari). Scarsa attenzione è assegnata alla qualità anche se maggiore è l’impegno dei partecipanti. L’esito: anche in questo caso molto limitato. La quarta stagione è “la formazione come momento di selezione e valutazione”: una formazione pensata non tanto per trasmettere conoscenze, ma per valutare le persone sotto profilo del potenziale, delle attitudini personali e professionali. Metodi didattici interattivi ad alto coinvolgimento dei partecipanti, massimo impegno degli stessi, comparsa di sistemi anche sofisticati di valutazione. Risultato: un investimento più per la funzione gestione delle risorse umane che per i partecipanti. Il quinto momento è la formazione intesa come “investiamo insieme nella professionalità”. Esso si caratterizza per i seguenti aspetti: grande attenzione all’analisi dei fabbisogni formativi; stretto collegamento con i compiti ed ai ruoli; selettività; interattività; massimo impegno dei partecipanti; utilizzo di voucher a volte con contribuzione dei partecipanti alle spese; attenzione sulla qualità, coinvolgimento attivo dei partecipanti nella misurazione dei risultati. Risultato: un investimento per le persone e per la struttura organizzativa. Sesta stagione “la formazione come momento di trasferimento di conoscenze”. Esso si caratterizza per i seguenti aspetti: coinvolgimento dei dirigenti interni come formatori; logica delle Accademie dove i senior insegnano ai junior; coinvolgimento di docenti esterni solo per la progettazione o per la docenza sui temi di frontiera; utilizzo di metodi didattici ad alto contenuto tecnologico; massimo impegno dei partecipanti; grande attenzione sulla qualità, adozione di strumenti di misurazione sofisticati. Esito: un investimento per le persone ed un grande investimento per l’azienda. L’ultima fase è quella tipica del modello “Corporate University” basata spesso su “strutture virtuali”, reti di conoscenze e laboratori, circoli di qualità, ecc. Si tratta della fase più sofisticata che prevede il ricorso a formazione esterna con “ruolo di esplorazione”, solo per censire e classificare le strutture, dando un rating ai docenti, alle metodologie, ai contenuti ed ai temi. L’obiettivo delle Corporate University nella loro più recente evoluzione è quello di mettere a rete le strutture di eccellenza che si interessano di formazione senza essere concorrenti. Il risultato è un investimento in conoscenze, sulla rete di relazioni 26 (patrimonio relazionale della formazione) che richiede certamente risorse finanziarie ma, sopratutto grandi risorse manageriali e di coordinamento. Nelle P.A. italiane non è difficile constatare tutte e sette le situazioni sintetizzate e si evince come man mano che cresce di qualità la funzione, crescono anche gli strumenti di misurazione. Di scuole ed accademie nella pubblica amministrazione italiana ne esistono diverse, alcune sono tranquillamente assimilabili alle Corporate University delle grandi aziende private, altre ne hanno solo il nome. Solo per citare qualche nome, vanno ricordate: la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione; la SADIBA della Banca d’Italia; la Scuola di Economia e Finanza (la ex Vanoni); le Accademie e le Scuole militari della PS, dei Carabinieri, della Guardia di Finanza; la Scuola Superiore per l’Amministrazione degli Interni (SSAI); le scuole del Ministero degli Esteri; la Fondazione Caracciolo dell’ACI; l’università virtuale organizzata dal CNIPA; il campus dell’ICE; ecc. La costituenda Agenzia per la formazione nella Pubblica Amministrazione avrà il compito di coordinare queste strutture assai diverse tra loro sia per qualità che per dimensioni ed operatività25. Ci si augura inoltre che proponga dei sistemi di misurazione che consentano il miglioramento della qualità. Invece la formazione che si colloca al di fuori delle scuole e delle accademie costituisce un’area critica che andrebbe indagata profondamente. Oggi la confusione è massima e ci sarebbe spazio per diverse ed ampie azioni di responsabilità: complicate procedure di selezione ed acquisizione dei fornitori della formazione, certificazioni di qualità a volte richieste a volte no, coinvolgimento senza gara di strutture pubbliche o semipubbliche che sfuggono alla censura dei controllori della Corte dei conti, ecc. Il risultato è che molte strutture di consulenza e formazione private, abili nel partecipare a gare, si aggiudicano a prezzi, anche molto bassi, commesse di formazione creando spesso il disappunto e lo scontento dell’ente committente. Scontento che però non viene memorizzato dalla P.A. nel suo complesso. Sarebbe interessante verificare chi si aggiudica le gare di formazione in PA, a quali prezzi e con quale qualità realmente offerta. Non essendoci sistemi di misurazione ex post, al di là delle solite valutazioni pro forma, quella stesse aziende continuano tranquillamente a partecipare a gare e a vincerle, senza un controllo reale delle prestazioni e della qualità. E senza che nessun organo di controllo possa intervenire. Forse tra i compiti della nuova agenzia potrebbe esserci anche quello di indagare questa area delicata e di grande valenza. Giannini nel suo rapporto dedicava un comma (4.11) alla formazione ed alla SSPA ed affermava che “la formazione e l’aggiornamento del personale sono oggi disciplinati in modo inappagante”, perchè la scuola superiore della Pubblica amministrazione e le alte scuole di singole amministrazioni sono state tutte ingabbiate in reti di norme e prescrizioni, per cui hanno scarsa possibilità di azione. A quasi trenta anni di distanza la lista delle cose che meriterebbe di essere analizzata è piena26. Le aree principali suscettibili di miglioramento possono essere così sintetizzate: • l’immagine di alcune scuole non è eccellente: non sono interpretate né come università né come Accademie; 25 Cfr: S. Sepe, L’arcipelago delle scuole fa sistema, Il sole 24 Ore, 26 aprile 2007. Sul tema “Corporate University” pubbliche è aperto attualmente un Desk presso il LIIPA, laboratorio internazionale per l’innovazione nelle PA dell’Università di Roma Tor Vergata, Facoltà di Giurisprudenza nell’ambito del quale sono stati organizzati dei workshop sul tema “Organizzare la formazione”. 26 27 • • • • • • • • • • • • pur essendo pubbliche non riconoscono crediti formativi come le altre istituzioni pubbliche; non si pongono come attori nel mercato della formazione, ma spesso subappaltano a soggetti pubblici e privati commesse di formazione loro assegnate; a differenza del privato utilizzano poco le risorse del Fondo Sociale Europeo; i vertici di tali strutture non provengono dal mondo della formazione, ma da altri incarichi operativi. Essi interpretano il ruolo come un momento di passaggio nella loro carriera o come una diminutio rispetto ai compiti ai quali potrebbero essere assegnati; l’assetto organizzativo, sistemi di misurazione inclusi, non sono dei migliori: o non hanno di fatto una struttura di docenti permanenti, le faculty virtuali ed il corpo docente sono molto volatile e spesso neanche molto selezionato; o il personale non docente è anch’esso caratterizzato da una forte volatilità e rotazione. Spesso vi sono alte professionalità ma con scarsa conoscenza del settore specifico o con scarse abilità didattiche; o non ci sono professionisti della formazione né manager didattici né ancora analisti e ricercatori; o l’attenzione alla progettazione è molto scarsa mentre è alta l’attenzione al calendario e alla copertura delle docenze; o ci sono solo amministrativi e tutor di aula spesso molto giovani, poco motivati, a contratto e normalmente alla loro prima esperienza lavorativa; i docenti “stabilizzati” presso queste scuole sono pochi e raramente provengono dalla carriera accademica. Esistono spesso dei coordinatori di area che operano part time con altre università. A seconda della loro localizzazione le varie scuole sono molto captive per alcuni docenti; non esistono biblioteche di casi, lezioni, conferenze, e materiale diverso (video, cd rom, DVD, esercitazioni, ecc) e per effetto della rotazione dei vertici manca la memoria storica; l’utilizzo di tecniche di formazione a distanza (e-learning, e-learning blended) che consentono di garantire omogeneità nell’offerta formativa, costi contenuti, economie di tempo e risorse legate a trasferimenti ed alloggi) è molto limitato anche se in sensibile crescita27; i collegamenti, i confronti e gli scambi con l’estero non sembrano molto diffusi se non a livello di semplice rappresentanza; analizzando i loro bilanci si scopre facilmente che una grande quota di risorse è destinata alla manutenzione ed alla ristrutturazione degli immobili; poi segue il costo del personale amministrativo. Ultima voce per importanza i costi della docenza; manca una mappatura globale delle strutture logistiche destinate alla formazione. Il risultato è che ci sono strutture sovraffollate e fatiscenti e strutture splendide e quasi inutilizzate; la ricerca scientifica su temi di interesse della P.A., che dovrebbe alimentare la formazione è praticamente assente. Spesso è delegata ad altri organismi quali ad 27 Secondo il CNIPA gli investimenti per declinate formazione e tecnologia sono in crescita: solo nel 2006 per gli enti locali sono stati finanziati dieci progetti di e-learning con cofinanziamenti per oltre duemilioni di euro 28 esempio il Formez, Università, Dipartimento della Funzione Pubblica, senza tuttavia mantenere con essi rapporti coordinati. La conclusione é che il confronto tra le nostre strutture di formazione e quelle similari (come l’ENA francese o altre strutture di formazione interne ad aziende private) è “perdente”. Le strutture di formazione della PA richiedono la certificazione di qualità ai propri fornitori, ma poche di esse supererebbero oggi il più blando processo di accreditamento e certificazione dei processi formativi interni. L’assenza di strumenti efficaci di misurazione dell’attività formativa di cui invece si stanno dotando le università su spinta del ministero competente è un elemento sul quale bisognerebbe riflettere. Alla nuova Agenzia spetterà un compito non facile anche se fondamentale: vedremo se ad orientare le scelte sarà la competenza tecnica o l’appartenenza politica come invece troppo spesso è avvenuto nel passato. 7.3 La misurazione del capitale intellettuale Nel rapporto Giannini, non c’era alcun riferimento, né diretto né indiretto, a tale elemento. Esso è però un aspetto che potrà condizionare fortemente la gestione futura delle pubbliche amministrazioni. Si ritiene utile proporre in questo contesto alcuni brevi cenni. La misurazione del capitale intellettuale consiste “nel dare un valore” e quindi misurare le conoscenze degli individui, quelle delle organizzazioni e la rete di relazioni che gli individui stessi più o meno inconsciamente intrattengono all’interno ed all’esterno della struttura. Questo valore tende ad oscillare nel tempo per effetto di alcune dinamiche: immissioni di nuove persone, pensionamenti, trasferimenti, comandi, avvio di progetti innovativi, interventi di formazione, ecc. Se questo valore non viene rilevato, non si può sapere se l‘azienda sta accrescendo le proprie conoscenze o le sta perdendo. Questo non è affatto trascurabile per una struttura di tremilioni e seicentomila persone. Tutto questo processo di misurazione si lega al concetto più generale della gestione delle conoscenze (il knowledge management) che suggerisce la necessità di misurare un ulteriore aspetto cruciale: l’innovazione. L’innovazione da misurare si suddivide a sua volta in innovazione culturale, innovazione organizzativa ed innovazione tecnologica. Alla base dell’innovazione ovviamente c’è la conoscenza che è quella cumulata dell’azienda e dai suoi dipendenti. Essa è costituita: • dalla conoscenza esplicita: ciò che l’azienda sa di sapere (brevetti, metodologie, procedure, servizi, ecc); • dalla conoscenza tacita: quella che l’azienda non sa di avere o presume di avere (competenze, valori, intuizioni, capacità, clima, motivazioni, ecc) • dalla conoscenza creabile: la conoscenza che potrebbe essere creata operando una connessione tra conoscenze esplicite e tacite con l’ambiente esterno all’azienda stessa. Il capitale intellettuale è una conoscenza tacita oggi per le pubbliche amministrazioni che può/deve diventare esplicita per essere misurata, gestita e migliorata. Già da queste poche battute si intuisce quanto la pubblica amministrazione sia lontana da questi concetti e quanto progresso invece abbiano registrato le discipline aziendalistiche nell’area gestione delle risorse umane e dell’organizzazione aziendale. 29 Inizialmente la misurazione del capitale intellettuale è stata messa a punto da alcune imprese quotate in borsa per cercare di quantificare quelle componenti intangibili della gestione che, pur non figurando nel bilancio e pur non essendo alla base delle scelte di investimento, contribuivano in maniera sostanziale alla creazione di ricchezza. È ovvio che un’azienda con personale motivato, formato e creativo ha delle possibilità maggiori di creare innovazione e ricchezza rispetto ad altre aziende. È quindi importante comunicarlo agli azionisti. La prima azienda a realizzare tale sistema è stata un’azienda svedese, la Skandia, che ha messo a punto una propria metodologia denominata Intellectual Capital Value. Tale tecnica è stata poi oggetto di diversi adattamenti ed è stata utilizzata da molte altre imprese, anche italiane. L’azienda svedese, propose al mercato un metodo assolutamente auto-refereziale, non certificabile e non condiviso, ma tuttavia, fu premiata ugualmente dagli investitori: il titolo in borsa registrò un’impennata che poi mantenne nel tempo. Successivamente, chi si è avvicinato a tale strumento di misurazione non lo ha fatto più per dare informazioni alle borse, ma per creare al proprio interno uno strumento potente per la gestione delle risorse umane. Esso consentiva di misurare il capitale intangibile, nella sua dimensione interna all’azienda e in quella esterna del mercato. Si tratta di un filone molto interessante per la pubblica amministrazione. La metodologia di misurazione consente di definire una serie di indicatori chiave per valutare lo stato di vitalità dell’organizzazione, ed offre un supporto per la valutazione delle prestazioni manageriali tema, questo, tanto dibattuto nelle pubiche amministrazioni italiane. Al momento solo un pugno di amministrazioni pubbliche italiane, tutte classificabili come aziende di knowhow pubbliche, si apprestano a sperimentare con un protocollo di ricerca comune, in collaborazione con centri di ricerca e laboratori di università specializzate28, la misurazione del capitale intellettuale per una gestione più avanzata delle risorse umane. Quando la sperimentazione sarà conclusa e la metodologia sarà largamente condivisa, tutte le pubbliche amministrazioni forse potranno utilizzare tale strumento di misurazione ed allora i risultati che emergeranno non potranno che essere sorprendenti considerando le cifre in gioco. 7.4 La misurazione per la valutazione della dirigenza ed il riconoscimento dell’indennità di risultato Le critiche sul livello della classe dirigente del paese coinvolgono anche la dirigenza delle pubbliche amministrazioni che ne fa parte a pieno titolo. In tutte le discipline sportive, i migliori atleti debbono gran parte del loro successo alle tecniche di allenamento. Senza una misurazione delle performance non sarebbe possibile assegnare le medaglie ai vincitori e soprattutto sarebbe impossibile ogni tentativo di migliorarsi. La valutazione della dirigenza, ed in generale del personale, è un elemento fondamentale per una corretta gestione delle risorse umane. Non si tratta solo di premiare i più bravi o di punire i lavativi, ma soprattutto di innescare un percorso di crescita individuale e collettiva. Chi è disposto a farsi valutare cresce più velocemente di chi si rifiuta. Il sistema di misurazione dei risultati e la conseguente valutazione è 28 Presso il già citato LIIPA è stato avviato un desk con alcune amministrazioni pubbliche su questo tema 30 perciò uno strumento che - piaccia o meno - riveste anche una forte valenza individuale oltre che aziendale. Un giovane volenteroso di crescere professionalmente, potendo scegliere tra più aziende, non vi è dubbio che sceglierebbe quella dove ci sono strumenti di valutazione perchè quelli, anche se a volte possono essere frustranti, gli consentiranno comunque di crescere e di migliorare. Ogni capo valuta i propri i collaboratori ed i collaboratori a loro volta valutano i loro capi. Questo avviene da sempre, ma nella sfera intima di ciascuno. Il problema sorge quando il sistema - che ovviamente non è trasparente, democratico e condiviso - deve invece essere normato e diventare condiviso, democratico e trasparente. Solo i criteri generali e forse i campi oggetto di misurazione possono essere condivisi e democratici ma la valutazione è per sua natura sempre soggettiva come soggettivo era il diciotto del professore all’università o il sette della maestra alla scuola elementare. Da qui l’affermazione più volte avanzata29 che inserire in norma la valutazione dei dirigenti nel D.Lgs 286/99 è stato, con il senno di poi, un errore per una serie di elementi: • la norma ha anestetizzato l’esigenza reale; • il sistema di valutazione è diventato oggetto di negoziazione sindacale; • il sistema di valutazione ha frenato lo sviluppo del controllo di gestione che ha finito per essere interpretato come strumento di verifica dei singoli dirigenti e non come utile strumento per gli stessi per il governo della gestione di loro competenza. Probabilmente, una volta perfezionato il controllo strategico e di gestione, il sistema per la valutazione dei dirigenti sarebbe stata una conseguenza quasi automatica, un sottoprodotto del sistema. Infatti, non è difficile valutare un responsabile di una qualsiasi unità organizzativa se: • si riesce a misurare il contributo dello stesso alla realizzazione della missione istituzionale dell’ente al quale appartiene attraverso la misurazione del raggiungimento degli obiettivi strategici (controllo strategico), • si riesce a misurare le risorse assegnate attraverso la contabilità analitica, • si riesce misurare attraverso indicatori di output (dati, fatti, statistiche) i risultati operativi ottenuti, • si riesce a misurare il rapporto che esiste tra le risorse assegnate ed risultati ottenuti, • si riesce, adottando qualche standard o indicatore di qualità, anche a misurare il livello di qualità raggiunto, • si riesce a misurare con qualche indicatore il clima aziendale che ha contribuito a creare, il consenso e la stima di cui gode, il numero di persone che ha fatto crescere, le conoscenze che ha trasferito, ecc. Se si dispone di tutti questi dati, e sul piano operativo non è difficile, forse non serviva ipotizzare la presenza per norma della valutazione della dirigenza. Se si voleva valutare i dirigenti lo si poteva fare benissimo anche senza una norma che lo esplicitasse. Era sufficiente affermare, anche in norma, che l’indennità di risultato spettava solo al 30, al 40, al 50 % della dirigenza, ma non a tutti. Era sufficiente evitare di riconoscere premi a 29 Cfr: L Hinna, Intervento In occasione della presentazione del Rapporto di legislatura del Comitato Tecnico Scientifico per il Coordinamento in Materia di Valutazione e Controllo Strategico nelle Amministrazioni dello Stato su Processi di programmazione strategica e controlli interni nei ministeri stato e prospettive, CNEL, 19 Maggio 2006 31 tutti per prestazioni forse dovute e normali e premiare invece chi realmente aveva ottenuto risultati straordinari. Ci si rende conto che oggi sarebbe impopolare fare marcia indietro, ma non si intravedono molte strade se si vuole valutare e premiare realmente la dirigenza migliore. Ogni capo ha tutti gli elementi per valutare un proprio collaboratore; così come un ministro può fare lo stesso con i dirigenti di primo livello. Vale la pena sottolineare che in alcune amministrazioni, anche si prima che si introducesse per norma la valutazione della dirigenza, sono stati messi a punto sistemi anche sofisticati ed efficienti. La Banca d’Italia è una di queste ed è riconosciuto che sia stata ed sia ancor oggi un buon vivaio dal quale attingere per la classe dirigente del paese. La conclusione è che la valutazione è un atto organizzativo dovuto che spetta “al capo sul collaboratore” e non è un processo che può essere delegato ad un sistema, negoziato o meno con i sindacati. Ciò che è giusto concordare con il sindacato sono invece i “campi di valutazione”, ma qui diventa un fatto di cultura aziendale. Non è un caso che le aziende più dinamiche hanno sistemi di appraisal del personale codificati, strutturati e rivisitati ogni anno in base alle esigenze. Sono ovviamente sistemi scomodi e frustranti, ma fanno crescere. Oggi lentamente si cominciano a vedere sistemi di valutazione, ma letti più come adempimento burocratico dovuto, che come reale strumento di gestione e sviluppo delle risorse umane. Uno strumento che consente ai vari SECIN di affermare che sono stati raggiunti i risultati concordati inizialmente con la direttiva, o con altri strumenti similari, consentendo la liquidazione delle indennità di risultato senza che la Corte dei conti abbia nulla da eccepire. L’indennità di risultato, infatti, senza un sistema oggettivo di misurazione è un arbitrio. Il Comitato Tecnico Scientifico della Presidenza del Consiglio - il Comitato Zampini, oggi comitato Torchia, per intenderci - fin dal suo primo rapporto denunciò l’assenza di una valutazione della dirigenza e, quindi, a caduta di tutto personale anche quello non direttivo, sulla base di criteri moderni che andassero al di là delle vecchie e solite “note di qualifica”. La mancanza di sistemi di misurazione della dirigenza e del personale equivale, di fatto, a rinunciare a gestire la risorsa più grande e più importante della pubblica amministrazione. L’attenzione ai sistemi di valutazione della dirigenza quindi è direttamente correlata all’attenzione che esiste sul riconoscimento della indennità di risultato che si “affianca” all’indennità di posizione. Spostandosi dalla valutazione dalla dirigenza a quella del personale, si possono rilevare più o meno gli stessi fenomeni ma con un’aggravante in più. Il dirigente tende ad eludere la valutazione del proprio personale perchè sa che questo gli crea un contenzioso interno ed una conflittualità da gestire, un deterioramento del clima aziendale e lo costringe a dare delle spiegazioni anche scomode, subendo il confronto con chi al contrario ha valutato tutti con il massimo del punteggio. Siccome, a differenza del settore privato, un dirigente pubblico, se valuta con attenzione e serietà non ci guadagna nulla ma al contrario ci può solo che rimettere, esso preferisce tenersi le valutazioni a livello personale e nella valutazione formale riconoscere a tutti il massimo. Così quel dirigente perde il consenso dei suoi “migliori” collaboratori ma, come nelle favole, vivono tutti felici e contenti, anche se incapaci. 32 Questo è il motivo per cui i sistemi di misurazione e di conseguenza i sistemi di valutazione della dirigenza e del personale non funzionano. Non per aspetti tecnici ma ancora una volta per elementi culturali e motivazioni contorte. 7.5 La misurazione per il coinvolgimento del personale in pensione Dal momento che il patrimonio umano, quello organizzativo e quello relazionale non viene gestito, quando il personale della pubblica amministrazione va in pensione si porta con sé un patrimonio di conoscenza ed una memoria storica che molto spesso non vengono trasferiti all’organizzazione od ai successori. Le persone con anni esperienze sono una risorsa che può essere utilizzata con grande soddisfazione per tutti: aziende, dipendenti attivi e pensionati. La condizione è che i pensionati possano utilizzare strutture e strumenti idonei. Si tratta di creare, come hanno già realizzato diverse aziende private, un sistema informativo dei pensionati o di coloro che si apprestano ad andare in pensione per censirne competenze, curricula, settori di specializzazione, aspettative ed attitudini ed aree nelle quali intendono svolgere la loro attività di “volontariato tecnico”. La cosa può sembrare bizzarra, ma non va dimenticato che una percentuale molto alta dei brevetti registrati dalle aziende giapponesi proviene da personale in pensione che conosce bene la realtà delle aziende, ha più tempo per pensare e riflettere e trova una motivazione in più per rimanere legato ai valori ed alla realtà con la quale si è confrontato per decenni. Ora la pubblica amministrazione difficilmente registra brevetti, ma ha un bisogno enorme di proposte che provengono “dal di dentro”, da chi conosce in dettaglio realtà, limiti ed opportunità delle strutture organizzative. Certamente questo ruolo di consulenti interni in pensione non riguarderà tutti, ma gli esperimenti realizzati in altri comparti economici hanno dimostrato la grande validità dell’iniziativa. Si possono strutturare iniziative ( riconoscimenti, premi e nomination) che costano poco o nulla, ma che possono offrire un grande valore aggiunto. Ogni volta che si sono aperte nuove finestre per pensionamenti si sono perdute conoscenze, relazioni e memorie. In futuro la cosa non andrà sottovalutata sopratutto se, come si dice, si potrà registrare una grande mobilità di persone30. Anche in questo caso si tratta di misurare. In particolare si tratta di misurare le ricadute di una risorsa che ormai si colloca all’esterno dell’amministrazione, ma non per questo meno preziosa. I pensionati non sono una risorsa solo per il volontariato, ma per l’intero paese, per i colleghi più giovani che rimangono e per le organizzazioni. La struttura tecnologica per tenerli in rete certamente non manca e costruire un sito ed un forum condiviso costa poco, più difficile motivare bene l’iniziativa. La funzione misurazione nella P.A. è ancora una cenerentola per ciò che riguarda l’oggetto, i sistemi ed i supporti, ma certamente la misurazione per la “gestione” e non solo per l’“amministrazione” delle risorse umane costituisce il reale campo di confronto sul quale si gioca la credibilità dei governi ed il futuro del paese. 30 Cfr: le posizioni più volte avanzate da Nicola Rossi e riprese anche recentemente dalla stampa. Cfr. inoltre E. Marro, C’è l’impegno su soldi ma la riforma resta ferma, in Corriere della Sera, 7 Aprile 2007, pag 9. 33 8 Alcuni suggerimenti sulla funzione misurazione «La situazione è si gravissima, ma non irreversibile…». Questa fu la conclusione ottimistica proposta da Giannini nel suo rapporto. Una conclusione che con un’ottica riformista non può che essere condivisa anche in questo contesto. «Un problema senza una soluzione è una lamentela» afferma uno dei vecchi detti del management. In questa sede, anche se i problemi sono grandi, qualche proposta concreta può essere avanzata. Ma in via preliminare occorre provare a rispondere ad una domanda che, dopo le analisi proposte, affiora in maniera pressante: perchè il tema della misurazione registra nella pubblica amministrazione una così forte arretratezza rispetto ad altri comparti produttivi? La risposta può essere fornita con l’aiuto di un modello di traslazione. Perchè una innovazione si verifichi è necessario che ci siano alcune importanti condizioni. In particolare occorre che alcune “pressioni” si bilancino tra di loro. In caso contrario la situazione collassa come è in realtà è accaduto. Le pressioni sono in genere determinate da due categorie di attori: attori “a monte” ed attori “a valle” del processo. Tra gli attori “a monte” possiamo annoverare: 1) gli attori che generano conoscenza: le Università, i centri di ricerca, gli studiosi dei vari laboratori ed osservatori. Essi studiano, commentano e divulgano esperienze ed idee. In sintesi, valutano la trasferibilità di certe esperienze. 2) le agenzie di regolazione: vale a dire le strutture che emettono norme, direttive, regolamenti, ecc. Sapere e normare, però, non sono condizioni sufficienti. In tema di misurazione le norme non mancano, come non mancano gli esempi e le migliori pratiche all’interno e all’esterno della P.A. Servono altri attori, quelli che si collocano “a valle del processo” di traslazione e che sono: 3) i “fornitori” delle soluzioni tecniche per realizzare la misurazione: ovvero la lobby delle società di consulenza che hanno un interesse diretto all’introduzione di norme che “obblighino” all’adozione di nuovi strumenti di misurazione. Ciò determina infatti nuove opportunità di mercato; 4) le famiglie professionali: sono costituite da chi all’interno del strutture pubbliche è addetto alla misurazione, al controllo di gestione ed ai controlli esterni. La lobby dei fornitori è prevalentemente interessata a vendere modelli e supporti informatici, magari anche complessi o sovradimensionati. Le famiglie professionali sono ancora solo acquirenti senza una professionalità specifica. In questo scenario non sorprende che i risultati non siano arrivati. Se a ciò si aggiunge che: • a volte la norma non è corretta, • i fornitori non conoscono la realtà del pubblico, • la famiglia professionale è ancora numericamente limitata • le strutture tecniche e politiche, dalle quali dipendono i professionisti interni, non hanno alcun interesse allo sviluppo di tali metodologie, si comprende meglio lo stato della cose. *** Veniamo ora alla parte costruttiva del lavoro: quella delle proposte concrete. Si tratta di uno sforzo di strutturare un’ “agenda aperta” sulle principali azioni che si potranno compiere. Le proposte che seguono non vogliono essere una sorta di manuale tecnico 34 ma solo degli argomenti di dibattito politico e tecnico. Si è ritenuto utile strutturarle lungo tre direttrici: 1) traiettorie culturali e di contesto; 2) traiettorie tecnico-operative; 3) traiettorie normative e di regolamentazione. 8.1 Le traiettorie culturali e di contesto In questa sezione ci si concentra sullo scenario di fondo – la cultura – da cui dipende in ultima istanza la qualità della PA che lasceremo ai nostri figli. Per incidere positivamente sulla “cultura” è necessario realizzare alcune importanti innovazioni: • passare da una cultura della “colpa” ad una cultura della “vergogna”: occorre che i comportamenti si leghino non alla paura di una sanzione per gli errori commessi, ma al timore di perdere il consenso delle persone (colleghi o cittadini) che operano nella società di cui si fa parte; • passare dal controllo per il giudizio al controllo per il miglioramento: come logica conseguenza di quanto affermato al punto precedente; • passare dai compiti ai risultati: rendendo concrete le indicazioni di tutto il quadro normativo vigente; • passare dalla appartenenza politica alla competenza tecnica; • passare dalla sola cultura giuridica al poli-culturalismo; • passare dalla gestione dei dati e delle informazioni alla gestione della conoscenza; • passare dalla misurazione dei soli input finanziari alla misurazione dell’output e possibilmente dell’outcome: ovvero passare dalla misurazione dei fondi spesi alla misurazione dei risultati ottenuti con quei fondi; • passare dalla logica degli insuccessi alla logica della sperimentazione che capitalizza sugli errori invece che nasconderli; • passare dalla cultura della norma alla cultura dell’esigenza; • passare dalla realizzazione in casa a costi alti e bassa qualità al ricorso all’outsourcing attentamente controllato sulla base di analisi costi-benefici; • passare dalla frammentazione e dalla improvvisazione degli interventi a programmi studiati, concordati e monitorati in fase di realizzazione. Tutto e subito? Certamente no; ma è auspicabile e necessario un movimento progressivo e continui su tutto il fronte delle traiettorie. Solo se questi passaggi culturali verranno promossi ed alimentati - ovviamente non con norme ma con comportamenti essi torneranno utili non solo per l’introduzione degli strumenti di misurazione che oggi mancano, ma anche per gestire tutto il processo di riforma e rilancio della P.A. di cui tanto si parla. Qui di seguito – volutamente senza commenti e nella annunciata logica provocatoria – vengono avanzate alcune proposte o, meglio, semplici di idee che potranno esser riprese ed articolate in momenti successivi e nelle sedi opportune. 1) Tornare a pensare in grande e non legiferare in maniera frammentaria 1.1) In materia di riforme in PA è necessario ritornare alla programmazione di ampio raggio e di medio e lungo termine, simile a quella del dopoguerra 35 che, al di là dei settori di intervento, ha permesso di creare le infrastrutture sul quale il paese ancora oggi vive di rendita. La PA è una “infrastruttura” che necessita di un piano imprenditoriale di medio e lungo termine, da stilare in maniera particolareggiata e meditata e non sulla scia delle emozioni o della cronaca. Piuttosto che creare tante agenzie, dipartimenti ed autorità, si rende necessario creare una “struttura di coordinamento” che sia “cavaliere più che cavallo”. In altri termini al di là dello status giuridico (agenzia, authority, ecc.) ciò che conta è la capacità di “federare” i tanti soggetti - i cavalli - che in ordine sparso si interessano dei vari “frammenti” del processo di riforma. Tale struttura dovrà essere di grande competenza tecnica e protetta dalle tentazioni dei politici di nominare, magari in maniera bi-partisan, persone a loro vicine. Per essere riconosciuta sul piano tecnico e per relazionarsi con autorevolezza alle strutture che dovrà coordinare occorre almeno eguagliarne e superane le competenze tecnica, le professionalità e le esperienze. 1.2) Serve che il programma organico di medio lungo periodo (piano strategico della PA), venga concordato tra maggioranza ed opposizione per consentire di operare in continuità sia sui comportamenti che sulle tecniche. In fondo c’è stata dal 1993 ad oggi un certa continuità di visone e di operatività in materia di Pubblica Amministrazione tra governi anche di diversa connotazione politica. Forse qualche ministro ha brillato per la sua assenza ed inerzia, altri per la loro dinamicità, ma nel complesso non ci sono stati forti cambiamenti di rotta. Una volta approvato il piano strategico della PA esso va affidato per la sua attuazione alla struttura di coordinamento ed innovazione della PA di cui si è fatto cenno. Il “grande traghettatore culturale” come lo definisce qualcuno. 1.3) Partendo dalle norme che hanno costituito i presupposti della riforma della PA – ma troppo spesso solo i presupposti – si rende necessario renderne operativi i contenuti, senza emanare altre norme, ma usando gli strumenti tipici dell’organizzazione. 1.4) La struttura di coordinamento ed innovazione della PA dovrà essere di supporto e non di controllo se non si vuole ancora una volta raffreddare qualsiasi slancio ed entusiasmo organizzativo. 2) Ritorno alle competenze 2.5) La classe politica più si preoccupa di essere “partisan” o “bipartisan” e meno si preoccupa delle competenze. Occorre che si vigili che nelle autorità, nei comitati, ecc., esistano le reali competenze tecniche e non solo le appartenenze politiche e le “cordate culturali”. 2.6) Anche nelle nomine politiche di alto livello si dovrebbe tenere conto almeno per i dicasteri tecnici e strategici di reali competenze: non è un caso che le riforme migliori su tutti i campi sono state realizzate quando come ministri c’erano persone competenti o che sapevano scegliere consulenti competenti. Quando la competenza è mancata si sono create solo parole e non fatti. 2.7) Dopo gli anni in cui si è predicata la separazione tra politica ed amministrazione è giunto il momento di predicare la separazione tra 36 competenza tecnica sulla carta per “definizione politica” e competenza tecnica reale. 2.8) Questo sposta il tema su un altro argomento: l’egemonia culturale dei giuristi sui gli aziendalisti. Ci sono materie di competenza dei giuristi e materia di competenza degli aziendalisti ed in particolare di chi studia l’economia delle aziende e delle amministrazioni pubbliche. Molti di coloro che dovrebbero adottare nuovi strumenti di misurazione per la valutazione a supporto della gestione, la valutazione della produttività del personale, ecc., parlano di strumenti gestionali che non solo non conoscono e non hanno mai applicato, ma spesso non li hanno neanche studiati all’università. La sensibilità e la capacita di acculturamento veloce non sono doti sufficienti per fare i bravi tecnici, a volte non sono neanche sufficienti per fare i bravi politici. L’equipollenza va abolita, altrimenti diventa arroganza. 3) Evitare il ricorso alle norme in materia organizzativa e gestionale 3.1) I vari tentativi di riforma della PA, hanno lavorato per curare i mille sintomi e non le cause. Alla fine ci si intossica di farmaci senza guarire. Le amministrazioni pubbliche si sono intossicate di norme con effetti collaterali non voluti, tanto da far parlare di “accanimento normativo”31. È necessario lasciare alle singole amministrazioni l’iniziativa di introdurre i sistemi di misurazione più adatti alle esigenze e fare pressione dall’esterno sui risultati invece che sulla osservanza delle norme (dal compliance audit al performance audit). In quest’ottica la recente proposta di delegare al CNEL la valutazione delle performance del lavoro pubblico32, appare come l’inizio di un ennesimo fallimento: non si tiene conto del numero impressionante di amministrazioni, tutte diverse le une dalle altre, che debbono essere valutate e della struttura professionale quali-quantitativa di cui dispone il Cnel. È il solito problema: per rincorrere l’oggettività e l’imparzialità coinvolgendo un ente terzo, si rischia l’incompetenza. 4) Favorire l’outsourcing 4.1) Occorre abbandonare l’idea che si debba fare tutto in casa anche ciò che si fa male e a costi alti. 4.2) Occorre parallelamente prevedere controlli severi sulla reale ricaduta economica, sociale e tecnica del ricorso all’outsourcing, prevedendo per ammontari di una certa rilevanza, l’emissione di pareri preventivi da parte di organi competenti e qualificati (modello pareri CNIPA) e non solo il veto ex post della Corte dei conti. 5) Favorire la sperimentazione 5.1) 31 32 Censire ogni ente della PA che inizia una sperimentazione, sul modello dell’iniziativa “Cantieri” attivata dalla Funzione Pubblica. Allargare la “rete degli innovatori” e dei “cantieri” promossa e sviluppata con successo negli ultimi anni. Cfr: M. Zampini, Chi accende il motore pubblico, in La Stampa, 20 aprile 2007 Cfr: G. Pogliotti, Nicolais: per gli statali la valutazione al Cnel, in Il Sole 24 ore, 18 aprile 2007 37 5.2) 6) Utilizzare le nuove tecnologie ed i sistemi di knowledge management per governare il processo di sperimentazione ed in qualche misura pilotarlo facendolo conoscere a tutti e stimolando comportamenti emulativi, come è avvenuto per altre iniziative. Ridisegnare i ruoli e prevedere il coinvolgimento di nuovi soggetti 6.1) 6.2) Coinvolgere i cittadini sui risultati. Negli ultimi anni non sono mancate campagne per cercare di coinvolgere i cittadini. Tuttavia hanno avuto più successo i diversi programmi televisivi di denuncia che i tanti URP. Si rende necessario ricreare una cultura della “res publica”, difficile in una nazione dove non si insegna più neanche educazione civica, dove esiste una PA che dopo tangentopoli si è deleggitimata agli occhi dell’opinione pubblica, dove domina la cultura del reato e del peccato, del condono e del perdono e manca ancora quella dell’impegno con la società civile. Tutti si comportano come le famose tre scimmiette che non vedono, non parlano e non sentono. Non si tratta di istigare alla delazione ma si tratta di difendere e garantire i valori condivisi da tutti, attivando canali di coinvolgimento dei cittadini, i veri clienti della PA, mettendoli in “concorrenza” con i “clienti di fatto” della stessa: i dipendenti che ci lavorano. È necessario aprire le orecchie, bocca ed occhi in modo da aumentare la pressione sui risultati che faccia crescere la cultura della vergogna e dell’impegno sociale. La cultura della colpa non paga, si basa sui reati e sui peccati e quindi sui condoni e sui perdoni. Meglio la cultura della vergogna che prevede come sanzione l’infamia che non ammette appello. Si tratta di far “votare” ai cittadini i servizi della PA, come fanno nelle strutture sanitarie in Inghilterra, e riscoprire il senso della competitività e del confronto sul fronte delle amministrazioni e della partecipazione sul fronte dei cittadini. Le nuove tecnologie per gestire il coinvolgimento non mancano (e-democracy), quello che manca è un progetto sociologico che faccia leva sulla antropologia della PA. Coinvolgere il personale della PA. I sistemi premianti ed i sistemi punitivi non possono funzionare per riformare le amministrazioni pubbliche. È difficile cambiare gli atteggiamenti di enti dove operano di 3,6 milioni di dipendenti fortemente sindacalizzati. È illusorio pensare di farlo con un atteggiamento semplicistico e punitivo, soprattutto dopo che per anni l’impiego pubblico è stato considerato un ammortizzatore sociale ed un bacino di consenso politico. Qui non serve più neanche l’aziendalista, serve il sociologo. La riforma va necessariamente impostata con il coinvolgimento dall’interno facendo leva su un “manifesto dei valori” da studiare attentamente e condividere e facendo attenzione a non creare reazioni di rigetto con azioni calate dall’alto ed imposte dall’esterno. Il coinvolgimento del personale nel processo di innovazione può e edeve passare attraverso la creazione di premi da assegnare annualmente ai dipendenti con apposita giuria interna per coloro che avranno proposto soluzioni o suggerimenti, anche denunciando sprechi, atti a far risparmiare economicamente o a recuperare efficienza all’amministrazione di appartenenza. I premi, riconducibili al vecchio concetto della “cassetta 38 6.3) 6.4) 6.5) 33 delle idee”, potranno essere in proporzione alle economie realizzate e la qualità dei suggerimenti proposti, ma comunque dando a tali iniziative il massimo della divulgazione, attraverso anche i sistemi che la informatica mette a disposizione, si può innescare un positivo processo emulativo. Innovatori possono essere tutti, inclusi i cittadini, pensionati ed i fornitori della PA. Coinvolgimento delle risorse pensionate. Promuovere la creazione in ogni amministrazione di reti, anche attraverso supporti informatici (siti, blog, forum condivisi, houseorgan informatici, ecc), per coinvolgere il personale una volta dipendente ed ora pensionato attraverso apposite associazioni di “volontariato tecnico” per la raccolta di proposte, idee, suggerimenti e modelli, allargando in tal modo la comunità degli innovatori. Occorre proporre un diverso ruolo del Dipartimento della funzione pubblica. Al di là di come si potrà collocare il Dipartimento nella nuova prospettiva dell’Autorità o Agenzia per l’innovazione della PA, si tratta comunque di riavviare le iniziative valide che si sono purtroppo arenate per problemi di deleghe e risorse umane e finanziarie. Favorire la ripresa del “progetto Cantieri” ed incrementare la rete degli innovatori facendola diventare da fenomeno limitato e di èlite a fenomeno di massa. Occorre continuare a favorire la divulgazione delle buone pratiche; favorire la ricerca e al sperimentazione collegandosi meglio al Formez. Occorre rivedere l’operatività dello stesso Formez per fare in modo che delle due anime che oggi vi convivono - l’anima nobile della ricerca e quella più di basso profilo di intermediazione di progetti e di formazione - venga esaltata la prima e soppressa la seconda33. Diverso coinvolgimento del sindacato. Si tratta, come è avvenuto in alcuni casi di successo della PA, di rivedere i rapporti con il sindacato in una logica di partnership su basi nuove e diverse. Ciò anche per evitare che si arrivi ad un punto di rottura all’interno dello stesso sindacato (contrasto tra sindacato del privato e del pubblico), alimentato anche dagli ultimi episodi legati al rinnovo contrattuale e agli aumenti previsti per il pubblico impiego in assenza di chiarezza circa un reale incremento di produttività. Un differente coinvolgimento nel processo di innovazione (propositivo invece che di solo veto) potrebbe far leggere il sindacato non solo “come il difensore degli indifendibili” o “il difensore delle rendite di posizione” come afferma qualcuno - ma come la “sentinella dell’efficienza e della produttività”; il partner dello sviluppo e della crescita nell’interesse di tutti. Coinvolgere il sindacato, non sulle valutazioni del personale e della dirigenza ma, nella definizione dei campi di misurazione per la valutazione e nella definizione degli strumenti, al limite rivisitando il memorandum e sfruttando le competenze e la conoscenza capillare che esso ha delle strutture. Coinvolgerlo in maniera trasparente per riprendere il ruolo di intermediario culturale di valori invece che intermediario di soli interessi economici. Il ruolo di intermediario di valori rischia di essergli scippato ogni giorno di più dalle associazioni dei consumatori, alcune delle quali sono spesso strutture improvvisate e senza competenze e Cfr: V Melis, Formazione arriva l’Agenzia, in Il sole 24 Ore 26 aprile 2007 39 tradizioni. Infine si potrebbe coinvolgere il sindacato nella introduzione di metodi per la misurazione del capitale intellettuale, restituendo al dipendente pubblico quella dignità professionale perduta nel tempo che invece gli spetta di diritto. 8.2 Le traiettorie tecnico-operative Le traiettorie tecnico-operative sono quelle che provano a mettere insieme le varie iniziative individuate nel corso dell’analisi condotta e che possono essere attivate in aree diverse: l’area del personale, l’area dei sistemi di rilevazione, l’area dei sistemi di controllo, l’area delle spese per i servizi intangibili e l’area dei supporti informatici. Area del Personale 7.1) Gestione delle risorse umane. Si potrebbe istituire in ogni amministrazione, qualora non esistesse, una precisa funzione “gestione e sviluppo delle risorse umane”, separata e distinta dalla funzione amministrazione. I contenuti di tale funzione potranno essere identificati da apposito ente competente che ne verifica anche il livello professionale per evitare l’atavico errore di gestire funzioni nuove con professionalità vecchie e quindi con caduta della professionalità e dei risultati. 7.2) Acquisizione e selezione del personale. Bisognerebbe rivedere completamente i sistemi di selezione sopratutto per i livelli medio-alti con criteri di selezione veloci e qualificanti basati su percorsi formativi precisi da identificare attraverso accordi con università di riferimento. Per posizioni dirigenziali bisognerebbe utilizzare strutture dedicate (tipo “cacciatori di teste” del privato) opportunamente selezionate da una agenzia pubblica per evitare la solita migrazione interna che risponde alle solite aspettative (legittime) delle persone in caccia di gradi e posizioni migliori e non alle esigenze reali e degli enti. Abolire il precariato dei dirigenti (contratti a termine da mercenari di passaggio), ma prevedere come nel privato licenziamenti per giusta causa o ristrutturazioni. Per procedure concorsuali si potrebbe prevedere un parere da parte di un organo competente sulla impostazione del concorso (analisi dei profili, conoscenze e competenze, formula di selezione, ecc). Si dovrebbe abolire l’equipollenza dei titoli di studio per posizioni alte e medio-alte e valutare invece le caratteristiche personali oltre che le conoscenze. Inoltre si potrebbero prevedere percorsi di entrata per i giovani, la cui selezione potrebbe avvenire anche attraverso accordi con le Università per favorire coloro che hanno maturato un particolare percorso formativo (master, dottorati di ricerca specifici con stage preso le stese amministrazioni etc) e manifestato uno spiccato interesse per i temi gestionali della PA. Si può valutare l’opportunità di accentrare la funzione selezione del personale in un’unica struttura altamente professionalizzata, indipendente e capace di gestire anche selezioni di massa che operi al servizio di tutte le PA. 7.3) Formazione. Si potrebbe prevedere l’inserimento di crediti formativi da certi livelli in poi per i “professional della PA” al pari dei medici, degli avvocati e dei commercialisti. Tali crediti formativi, che sono comunque sistemi di misurazione, vanno conseguiti presso enti e scuole accreditate dalla SSPA o dalla costituenda Agenzia per la formazione prevedendo in 40 7.4) 7.5) 7.6) 7) alcuni casi anche un contributo economico da parte del dipendente di alto livello. Si dovrebbe rivisitare il sistema della valutazione della dirigenza ed introdurre una doppia valutazione: della dirigenza sui collaboratori e dei collaboratori sui propri capi sulla base di campi di valutazione predeterminati e concordati, prevedendo momenti di confronto, ed anche scontro, che sono l’enzima della managerialità. Si potrebbe inoltre introdurre nella valutazione delle unità organizzative, a cura dei servizi di controllo interno, anche la misurazione della percezione della qualità dei servizi resi sia ai pubblici interni e che ai pubblici esterni. Si potrebbero prevedere sistemi di rating alle scuole pubbliche e delle università specializzate in particolari materie ed aree e prevedere la possibilità di distribuire voucher formativi da spendere sia per i crediti formativi che per formazione ed aggiornamento presso strutture pubbliche ed private. Si dovrebbero coinvolgere in progetti di formazione, in via preferenziale e a parità di condizioni, le università e, solo dopo aver accertato che non ci sono competenze, le strutture di formazione private. È assurdo che le università pubbliche che non hanno più fondi siano in concorrenza diretta con le strutture di formazione private, spesso scatole vuote, forti solo commercialmente, che a loro volta utilizzano i professori delle università. Limitare l’indennità di risultato ad una percentuale del 30-40% del numero dei dirigenti per creare all’interno una competizione ed un minino di confronto /scontro. Prevedere la valutazione dei dirigenti anche da parte dei loro diretti collaboratori. Così, mentre le imprese private si rivolgono alle università pubbliche per le loro esigenze di formazione (laboratori, osservatori, corsi, master etc) contemporaneamente le pubbliche amministrazioni si rivolgono ai privati invece che ai loro colleghi del settore pubblico. Garantendo il rapporto qualità-prezzo delle prestazioni è importante offrire alle università una corsia preferenziale ed una maggiore vicinanza tra aziende pubbliche ed Atenei specializzati nella gestione delle PA. Area dei sistemi di rilevazione 8.1) Gli indicatori di risultato. Bisognerebbe prevedere un forte raccordo tra il processo di definizione degli indicatori di risultato ed importanti aspetti a monte della misurazione come: i bisogni degli utenti, la missione istituzionale, le strategie, ecc. Molto spesso si vedono batterie di indicatori che non misurano niente di importante. Occorre cioè ricostruire una “catena di senso” che consenta una corretta esplicitazione degli indicatori (si veda la Fig. 4 nel par. 5). Questa catena di senso andrebbe realizzata sia in sede di pianificazione che in sede di rendicontazione a consuntivo. Inoltre questo schema potrà essere utilizzato sia in sede di controllo di gestione che in sede di predisposizione di documenti rendicontazione (bilancio sociale) agli stakeholder34. Ogni amministrazione deve 34 Il documento di rendicontazione è il bilancio sociale, quello che all’estero viene chiamato o “citizen report”; sul tema cfr L. Hinna, Il bilancio sociale nelle amministrazioni pubbliche, Franco Angeli, Milano, 2003. 41 intervenire nel processo di costruzione degli indicatori che riguardano la propria realtà operativa. Non è condivisibile che una sola struttura fissi gli indicatori per tutte le PA, sia perché sarebbero decontestualizzati sia perché sarebbero vissuti in chiave di controllo per il giudizio e quindi rifiutati. Gli indicatori devono seguire la peculiarità e le esigenze dell’ente e nessuno meglio degli stessi operatori è in grado di determinarli. Il ruolo dell’eventuale soggetto esterno, terzo ed indipendente, potrebbe essere quello di verificare che la “catena di senso” ed il sistema degli indicatori vengano costantemente migliorati nel tempo, e non siano un semplice procedimento pro forma. Inoltre occorre avviare sistemi di coinvolgimento degli stakeholder (stakeholder engagement) attraverso i quali condividere l’utilità delle strategie seguite e la coerenza del sistema di misurazione in un’ottica di comunicazione e coinvolgimento (public review). Sistemi di rilevazione. Occorre valutare di volta in volta con gli enti competenti l’introduzione di nuovi sistemi di rilevazione in aggiunta a quelli esistenti. In particolare occorrerebbe orientarsi e promuovere sistemi multi-dimensionali, ispirati al modello della balanced scorecard, che sappiano andare oltre la sola rilevazione degli input, ma prendere in considerazione anche elementi di output ed outcome. In quest’ambito occorre introdurre anche la misurazione del capitale intellettuale di cui si è già fatto cenno. Si deve valutare la possibilità di gestire in outsourcing i sistemi di misurazione tenendo conto del rapporto costi-benefici e del numero di risorse che potrebbero essere liberate. 8.2) 8) Area dei sistemi di controllo e verifica 9.1) • • • • • • 9.2) Mappatura dei controlli interni. Ciascuna amministrazione dovrà predisporre ed inviare all’organo vigilante superiore “la mappatura dei controlli”: un documento redatto sulla base di apposite Linee guida. Tale documento dovrà illustrare: la struttura quali e quantitativa dei controlli interni; la mappatura dei rischi da presidiare con i controlli; le competenze dei vari servizi coinvolti, evidenziando le aree di sovrapposizione o aree che rimangono scoperte; i soggetti coinvolti e le loro esperienze (curriculum degli addetti); gli strumenti operativi di rilevazione utilizzati (CO.GE, CO.AN., indicatori, ecc.) gli strumenti utilizzati per monitorare l’efficacia e l’efficienza della funzione controllo nel suo complesso. Albo dei controllori interni. Un apposito albo dei controllori dovrà essere tenuto preso la Corte dei conti o presso il Comitato Tecnico Scientifico (ex modello referenti informatici del AIPA) per evitare che la funzione controllo, come oggi purtroppo spesso avviene, venga utilizzata dai vertici aziendali come “parcheggio” per dirigenti senza incarico o la collocazione di persone con grandissime competenze in alcuni campi ma senza 42 9.3) 9) esperienza in quella dei controlli35. Il collocamento gerarchico della struttura di misurazione e controllo dovrà essere al massimo vertice aziendale per evitare che il vertice politico si “autoassolva” solo con la nomina e non anche con il reale funzionamento della funzione . Profili professionali per la Corte dei conti e standard di controllo. Rivedere i profili professionali dei dirigenti della Corte dei conti, prevedendo in via sperimentale e a tempo determinato l’inserimento di esperti in materie economico-aziendali in ambiente pubblico con ruolo di affiancamento e consulenza interna a tutte le varie sezioni (advisor). L’inserimento si rende necessario dal momento che di fatto la Corte, nonostante le norme lo prevedano, non ha mai inserito aziendalisti tra le sue fila. Rivedere i compiti della Corte dei conti affiancando alla storica funzione di “compliance audit”, una funzione di “performance audit” sui singoli enti con un ruolo propositivo e di miglioramento prevedendo anche un diverso profilo di “magistrati-consulenti” (advisor). Rivedere i processi di controllo della Corte ponendoli in linea con le tecniche e gli standard di auditing più avanzate ed ispirandosi alla operatività di altre autorità italiane e di altre strutture similari estere. Area verifica della spesa per forniture di servizi intangibili 10.1) Per ciascun progetto di consulenza e formazione commissionato all’esterno che superi un determinato ammontare, si può pensare di prevedere una relazione emessa dagli organi controllo interno esistenti (SECIN, commissione di garanzia, collegio dei revisori, ecc) da inviare alla Corte dei conti per una verifica del “valore aggiunto organizzativo” creato. 10.2) Per evitare che strutture poco professionali continuino a vincere gare sul territorio nazionale solo perchè hanno un ufficio gare attento ed una ottima struttura di marketing, sarebbe opportuno istituire presso un organismo delegato un albo dei “cattivi fornitori” da consultare prima di qualsiasi scelta. Si sente, infatti, spesso parlare male di alcune società di consulenza e non si riesce a capire se a torto o a ragione. Essendo l’area dei servizi intangibili una di quelle che più si prestano ad operazioni a dir poco discutibili, l’albo potrebbe costituire un deterrente sia per chi opera male che per chi “parla male” e senza ragione. 10.3) Per la stessa natura di spese, inoltre, prevedendo un limite congruo, bisognerebbe introdurre obbligatoriamente la funzione di monitoraggio da parte di un soggetto terzo indipendente (una percentuale sull’ammontare della commessa pagata dal fornitore ed inclusa nel prezzo), come nel modello monitoraggio informatico del CNIPA, per garantire la corretta esecuzione dei lavori. 35 All’ultima riunione dei servizi di controllo interno dei ministeri ( Secin) convocata dal Comitato Tecnico Scientifico della Presidenza del consiglio a fine dicembre 2006 hanno partecipato tra l’altro alcune persone di grande personalità, profilo professionale e livello culturale - un ambasciatore ed un ammiraglio - ma, per loro stessa ammissione, completamente digiuni di esperienza nel settore dei controlli. 43 10) Aree supporti operativi e reti informatiche 11.1) La pubblica amministrazione ha registrato un grande passo avanti nelle reti informatiche. Ora si tratta di utilizzarle e legarle alla grande possibilità del digitale terrestre anche per scopi e finalità nuove rispetto a quelle tradizionali. Si dovrebbe strutturare un grande sistema di ascolto che amplifichi le funzioni degli URP e metta a rete tutti i soggetti coinvolti in progetti innovativi, garantendo la massima trasparenza ed accessibilità. Esistono già diversi esempi interessanti che vanno imitati ed ampliati. Alla rete degli innovatori dovranno poter accedere tutti, perchè tutti possono essere innovatori se si trasformano le critiche in suggerimenti costruttivi. 11.2) Le nuove reti da creare e/o potenziare sono: la rete dei pensionati della PA; la rete dei dipendenti innovatori; la “rete dei contenti” e la “rete degli scontenti” dei servizi della PA (imprese, clienti interni, privati cittadini ecc). 11.3) Occorre accompagnare il processo con una campagna di comunicazione accattivante e coinvolgente curata da un eventuale ed improbabile, ma possibile “ufficio marketing della PA”. Tale ufficio potrebbe anche curare e sviluppare, con la distribuzione di gadget a chi entra a far parte della rete trasmettendo un messaggio forte: “Io tifo per la mia PA”. 8.3 La traiettoria delle modifiche normative Tutto quanto fin qui esposto si può realizzare senza ricorrere a norme, ma con semplici provvedimenti organizzativi interni ed un po’ di fantasia e volontà. Tuttavia ci sono delle norme già esistenti che possono essere di ostacolo alla realizzazione del nuovo ed allora è lì che si rende necessario attingere agli strumenti del giurista. Le aree dove si renderà necessario un riordino normativo sono: 11) Coordinamento di strutture che operano per la riforma della PA 12.1) Per mettere a sistema le strutture che attualmente operano per la riforma della PA occorre un disegno strategico, attento, organico e di grande portata. 12) Inserimento di nuove figure professionali 12.2) Occorre rendere realtà il suggerimento di Giannini ed inserire in ogni amministrazione un esperto di organizzazione della PA. Esiste ormai una famiglia professionale, anche se non molto numerosa, che ha accumulato importanti esperienze in alcuni ministeri “tecnici” (Economia e Finanze, Dipartimento della funzione pubblica, ecc). I ruoli possono essere diversi come diversi possono essere le collocazioni: • responsabile della segreteria tecnica (non giuridica) del ministro, affiancando il capo di Gabinetto ed il Capo dell’Ufficio legislativo; • advisor sugli aspetti organizzativi e gestionali per gli organismi di controllo esterno; • responsabile dei SECIN e dei vari organismi di controllo interno. 44 13) Modifica dei sistemi di assunzione 12.3) Occorre rivedere il sistema di selezione del personale ed i riferimenti legislativi sulle modalità di selezione dello stesso. 12.4) Occorre prevedere la possibilità di licenziamento per le ristrutturazioni di pubbliche amministrazioni utilizzando appositi ammortizzatori sociali ed evitare di “inquinare” la produttività e l’efficienza pubblica con l’altrettanto importante funzione della “assistenza sociale”, responsabilità di altro ministero ed afferente ad altri capitoli di bilancio. 12.5) Occorre prevedere forme di mobilità interna alla PA in maniera più snella facendo ricorso, invece che alla negoziazione sindacale ed ai ricorsi amministrativi, a forme di conciliazione interne più veloci, meno burocratiche e meno costose come sta avvenendo nel settore privato. 14) Modifica del sistema di programmazione ed assegnazione dei fondi 12.6) Si deve introdurre, come avviene in altri paesi, una programmazione trasversale a più ministeri, che individui unitamente alle risorse anche gli indicatori di risultato attesi. 12.7) Occorre spostare il focus del controllo della Corte dei conti sull’audit delle performance. 12.8) Occorre legare la disponibilità dei fondi alla reale realizzazione degli obiettivi intermedi previsti e controllati da una struttura di controllo terza ed indipendente. Questo metterebbe in contrapposizione di interessi il controllato con il controllore. Le prime infatti si dovranno attivare a sottoporre velocemente gli indicatori di risultato per poter disporre realmente dei fondi e non bloccare l’attività. Il controllore, da parte sua, dovrà attivarsi per verificare la congruità degli indicatori e per poter liberare i fondi assegnati alle organizzazioni. Il modello qui proposto è ispirato al modello inglese dei performance agreement che comporta alcuni importanti vantaggi: • la politica si riappropria della individuazione delle declinazione delle missioni e non della sola capacità di spesa; • le strutture organizzative diventano finalmente delle strutture concentrate sui risultati e non sulla sola capacità di impegnare i fondi; • l’organismo di controllo si concentra finalmente sulle performance ed i risultati ottenuti con i fondi spesi e non solo la correttezza delle procedure relative alla spesa; • dal confronto/scontro sugli indicatori tra organizzazioni “che fanno” ed organismi “che controllano” può nascere finalmente la cultura del confronto e della misurazione. 12.9) Tutto ciò significa aggiungere un nuovo ruolo (o cambiare quello che già esiste) alle agenzie di controllo, ma sarebbe in linea con ciò che avviene nei paesi più avanzati. Conclusione I cittadini devono tornare a guardare la PA come una struttura che crea ricchezza sociale e contribuisce ad una migliore qualità della vita. I dipendenti della Pubblica 45 Amministrazione hanno diritto di tornare ad essere orgogliosi di operare per essa. Le avanguardie culturali devono guardare alla PA come ad un settore dove sono attesi dei forti cambiamenti e che costituisce un terreno “fertile” a cui appassionarsi. Una stagione interessante ci attende: la situazione può solo migliorare, ma perchè questo accada servono alcuni enzimi di cambiamento. Questi enzimi sono semplici da trovare anche se difficili da combinare: competenze, coordinamento, visione, volontà politica, capacità di governare, responsabilità. Al timoniere di turno di “questa guerra stellare” che ci attende, trenta anni dopo il rapporto Giannini, va rivolto un incoraggiamento ed un augurio: “che la Forza sia con te!”. 46