La città invisibile

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Lari e Penati
sulla memoria dei luoghi luoghi *
di Piero Brunello
Per molti secoli la memoria si basava sulla capacità di collocare termini astratti, eventi, date, concetti eccetera
in immaginari luoghi fisici, concreti: si immaginava cioè uno spazio suddiviso in tanti luoghi – per esempio
un palazzo o un teatro con stanze, passaggi, nicchie e statue – e si abbinava a ciascun luogo un sillogismo, una
formula, un nome o il verso di una poesia, e così lo si poteva ricordare più facilmente. Forse non c’è memoria
senza luoghi, e non ci sono luoghi senza memoria. Qui mi limito a due tre osservazioni su un aspetto particolare. Cerco cioè di capire cosa succede quando in uno stesso luogo ci sono memorie diverse: nelle città italiane
del XX secolo, sulle quali sono invitato a dire qualcosa, si tratta di un caso comune.
1. Italo Calvino nelle sue Città invisibili scrive che la città di Leandra è protetta da dei di due tipi – dei così
piccoli che non si vedono e così numerosi che non si possono contare. Gli uni stanno sulla porta delle case o
all’entrata, vicino all’attaccapanni e al portaombrelli; nei traslochi seguono le famiglie. Gli altri invece vivono
nelle cucine: fanno parte della casa, e quando la famiglia se ne va, restano con i nuovi inquilini. I primi sono
i Penati; i secondi sono i Lari. I primi, i Penati, sono in movimento perché cambiano di casa al seguito delle
famiglie. I secondi invece, i Lari, non si muovono mai: se butti giù una vecchia casa per costruire un grande
casermone, i Penati rimangono, anzi si moltiplicano nelle cucine di altrettanti appartamenti – forse erano già lì
quando la casa non c’era ancora, tra le erbacce di un’area fabbricabile. Lari e Penati si assomigliano; tra di loro
parlano e discutono, spesso litigano.
I Penati credono d’essere loro l’anima della città, anche se ci sono arrivati l’anno scorso, e di portarsi Leandra
con sé quando emigrano. I Lari considerano i Penati provvisori, importuni, invadenti; la vera Leandra è la
loro, che dà forma a tutto quello che contiene, la Leandra che era lì prima che tutti questi intrusi arrivassero
e resterà quando tutti se ne saranno andati.
In comune hanno questo: che su quanto succede in famiglia e in città trovano sempre da ridire, i Penati
tirando in ballo i vecchi, i bisnonni, le prozie, la famiglia d’una volta, i Lari l’ambiente com’era prima che lo
rovinassero. Ma non è detto che vivano solo di ricordi: almanaccano progetti sulla carriera che faranno i
bambini da grandi (i Penati), su cosa potrebbe diventare quella casa o quella zona (i Lari) se fosse in buone
mani. A tendere l’orecchio, specie di notte, nelle case di Leandra, li senti parlottare fitto fitto, darsi sulla voce,
rimandarsi motteggi, sbuffi, risatine ironiche.
Il documentario sul terremoto di Napoli di Nick Dines racconta il trasferimento di molte famiglie dalle zone
popolari della città alle nuove costruzioni sorte nelle periferie. I Lari delle periferie rimpiangono la campagna
e i piccoli paesi che c’erano prima che costruissero i nuovi quartieri anonimi e invasivi; i Penati che hanno seguito le famiglie rimpiangono a loro volta i luoghi e le relazioni che hanno dovuto abbandonare – si guardano
attorno, osservano il nuovo ambiente in cui sono capitati e non lo riconoscono.
Intervento al convegno su “Memory and place in the twentieth century italian city”, Londra 29-30 aprile 2005.
I. Calvino, Le città invisibili, Mondadori, Milano 1997, pp. 78-79.
Fuggi fuggi. Memorie di un terremoto, regia di Nick Dines (2003).
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Lari e Penati di P. Brunello
Nel documentario di Laura Cerasi su Marghera, i Lari della campagna e del quartiere che confina con le fabbriche rimpiangono l’ambiente prima delle industrie e lamentano che i nuovi arrivati – i Penati delle ciminiere
– si sono comportati in modo invadente e senza rispetto: per fortuna – dicono – sono Altrochemestre provvisori, meno di un secolo, fra un po’ se ne andranno e la zona tornerà a essere quello che è nel profondo, quello
che è sempre stata.
A Marghera c’è una strada a due carreggiate divise in mezzo da un’aiola spartitraffico, lunga più di due chilometri. È fatta per macchine, per camion, per autobus. Attraversarla a piedi da un lato all’altro è quasi impossibile.
È uno dei tanti confini della città. In questo caso il confine corre tra il quartiere di Marghera e la terraferma da
una parte, e le fabbriche di Porto Marghera e la laguna dall’altro. Se il vento viene dalla laguna, qui capita di
sentire un odore di creme bruciate misto a povere di carbone con un retrogusto acido. I Lari e i Penati si mettono lungo i lati opposti della strada, nelle corsie di emergenza perché non ci sono marciapiedi, gli uni contro
gli altri e cominciano a gridare. I Penati fanno suonare le sirene delle fabbriche. I Lari diffondono dal sound
system una canzone reggae che inneggia a Porto Marghera trasformato in campi di marijuana.
2. A Marghera non è sempre stato così come avviene oggi, e come Laura Cerasi documenta nel suo video.
La città costruita attorno alle fabbriche è una città che ripartisce individui, ceti, classi, generi, gruppi professionali. Fino al XVII secolo i vagabondi e i mendicanti vengono rinchiusi negli ospizi e messi a lavorare, e non
ci si preoccupa dove vivono e dove dormono; poi, a un certo punto il proletariato urbano viene controllato
ed educato sia nei luoghi di lavoro che in quelli di residenza. È la città, e non solo la fabbrica, a diventare un
luogo di controllo sociale. In alcune scuole si impara a fare i capi reparto, in altre si impara un mestiere; il figlio
subentra nel posto di lavoro al padre; i bambini vanno in vacanza nelle colonie estive della fabbrica; succede
che il padrone della fabbrica sia anche il padrone della casa, e così via. Se nelle famiglie e nelle scuole si impara
a diventare operai, nelle fabbriche si diventa uomini. I ruoli e le gerarchie prodotte dal sistema di fabbrica si
riflettono nei quartieri, nei materiali edilizi, nell’architettura, nel tipo di relazioni sociali e famigliari. Sorgono
aree separate per impiegati (villini), capi operai (casette isolate), operai (case operaie); ancora più in là, ci finiscono i disoccupati (casette minime). Le case degli impiegati prevedono il bagno e l’acqua, mentre nei “villaggi
rurali” il bagno è esterno e serve due famiglie, e l’acqua si prende dalle fontane. Ciascun quartiere ha la chiesa
che gli spetta. Quartieri operai avranno la chiesa di san Giuseppe artigiano o di Cristo lavoratore; i quartieribene avranno una chiesa-bene, e il centro il duomo; quartieri di periferia avranno una chiesa in prefabbricato,
adatta alla retorica della frontiera, eccetera.
È il movimento operaio a rompere questa segregazione sociale e spaziale. Presidia i confini simbolici che ogni
città sa riconoscere al proprio interno – strade, binari ferroviari, ponti, cavalcavia –, e lì accende fuochi. Fa
baccano dove è previsto silenzio o rumori del traffico: batte tamburi, suona fischietti, lancia slogan, canta canzoni. Quello che è previsto debba restare al margine si insedia al centro. Percorre a piedi le strade assegnate
agli autobus e alle macchine. Costruisce relazioni di solidarietà in luoghi volti al controllo, alla frantumazione
sociale e al disciplinamento. Penati e Lari ne approfittano per attraversare la strada, ballare assieme e cantare
le stesse canzoni: continuano ad avere memoria di cose diverse, ma non gliene importa, perché condividono
la stessa idea di futuro.
3. Le vicende che hanno interessato Marghera sono avvenute in altre città industriali del Novecento. Nel fil-
Porto Marghera. Città nella città, regia di Laura Cerasi (2005). Cfr. L. Cerasi, Dentro Porto Marghera fra storia e memoria, “Venetica.
Rivista di storia contemporanea”, s. III, 9 (2004), pp. 171-176.
P. Brunello, Via Fratelli Bandiera, “Altrochemestre”, 1 (1994), pp. 12-13.
Pitura Freska, Marghera (1997).
D. Canciani, Chiese e quartieri, “Altrochemestre. Storia e documentazione del tempo presente”, 2 (1994), pp. 32-35.
Riprendo da P. Brunello, Una città disciplinare, “Venetica. Rivista di storia contemporanea”, s. III, 9 (2004), pp. 161-167, e rinvio a A.
Casellato, Con Propp a Marghera, ibid., pp. 167-170.
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Lari e Penati di P. Brunello
mato di John Foot su Milano, chiunque abbia più di quarant’anni ricorda i confini di una città che sfumava
nei campi (le coltivazioni di lamponi, le ville padronali), o meglio ricorda una città che aveva confini – segnati
dalla fabbrica, dalla campagna e dalla ferrovia. I Lari di Milano, nel filmato di John Foot, ricordano esperienze
e luoghi di donne e di bambini – lavori negli orti e giochi nei cortili. I Penati invece, seguono gli uomini adulti
che a orari determinati entrano ed escono dalle fabbriche; di conseguenza, a differenza dei Lari, i Penati conservano il ricordo di percorsi e di luoghi maschili. Ma anche a Milano, come a Marghera, i Lari ricordano che
in quei tempi tutta la città, e non solo gli operai, si regolavano sul suono delle sirene. Una donna che gestiva con
il marito un negozio di tabacchi, racconta i fiumi di operai che passavano a ore fisse davanti casa, ed entravano
per comperare le sigarette – anche una sola, dentro una bustina.
4. I Penati non sono tutti uguali tra di loro, e non sempre tra di loro vanno d’accordo. In un paese come l’Italia i
Penati hanno viaggiato per il mondo, seguendo le famiglie per più generazioni: hanno accompagnato i bisnonni lungo le ferrovie delle pianure, fin dentro le foreste tropicali, nelle piantagioni di caffè e di canna da zucchero; hanno seguito i genitori nelle miniere di carbone, nelle fabbriche di automobili e nei quartieri di enormi
città; e infine hanno fatto compagnia ai figli, lungo oleodotti nel deserto e sulle dighe nei grandi fiumi. Ma da
circa una generazione i Penati sono fermi sul pianerottolo di casa e vedono a loro volta arrivare altri Penati, da
altre parti del mondo, che parlano altre lingue. I Penati del pianerottolo guardano verso la strada e si sentono
a casa; osservano con timore e con sufficienza gli altri Penati, quelli appena arrivati, e li considerano estranei;
preferiscono parlare con i Lari. Adesso che sono fermi, dopo tanto viaggiare, amano raccontare di quando andavano in giro per il mondo. Ai Lari piace sentirli parlare; anzi, spesso succede che i Lari li lascino parlare a loro
nome. I Lari dicono: le storie dei nostri Penati sono le nostre, e viceversa. Mentre ricordano vicende passate, i
racconti rendono estranei i nuovi arrivati e dicono loro come devono comportarsi.
Post scriptum
Finirei qui. Cambiando registro, potrei forse aggiungere che le vicende alle quali ho accennato alla fine, parlando dei Penati sul pianerottolo, sono legate ai cambiamenti nel rapporto tra città e fabbrica. In una città industriale di ventimila abitanti come Monfalcone, non lontana da Trieste, il cantiere navale della Fincantieri ha
circa duemila dipendenti diretti, e, secondo i momenti, due-tremila operai che lavorano per piccolissime ditte
in appalto. I dipendenti diretti sono italiani; gli operai delle ditte in appalto sono soprattutto stranieri (in primo
luogo bengalesi, e poi croati e albanesi), ma anche italiani immigrati dal sud Italia. Dentro il cantiere navale i
due gruppi – i dipendenti e i lavoratori delle ditte – hanno orari e luoghi di lavoro differenti: tutto è organizzato
in modo che non si incontrino mai. Sono due popolazioni: i primi sono visibili, i secondo invisibili. Le famiglie
di Monfalcone, che provengono da famiglie immigrate negli anni Venti del Novecento dal Veneto e più tardi
dalla Puglia, tendono a portare via i figli dalle scuole cittadine perché non abbiano rapporti con i figli degli
stranieri che lavorano alla Fincantieri, e a iscriverli nei paesi vicini. D’altro canto la comunità dei bengalesi, che
a Monfalcone supera le cinquecento persone, tende a chiudersi in se stessa, tanto che, rispetto ai primi tempi,
sempre meno bengalesi imparano l’italiano10.
Ringhiera. Storie di una casa, regia di J. Foot (2004).
Rinvio a P. Brunello, Memoria dell’emigrazione, memoria del lavoro, in La memoria del lavoro. Atti del Convegno, Bergamo 4-5 dicembre 2001, “Studi e ricerche di storia contemporanea”, 59 (giugno 2003), pp. 171-176.
10
Devo queste considerazioni a chiacchierate informali con Lucia Bignucolo, in treno sulla linea Mogliano-Venezia o prendendo
un caffè prima delle lezioni, e alla sua passione per l’inchiesta operaia; qui la ringrazio per la sua generosità. Ringrazio anche Luigi
Di Noia e Filippo Perazza per l’intervento a un incontro sull’inchiesta operaia promosso da storiAmestre e dall’Etam-animazione di
comunità tenutosi a Marghera.
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