Che tempi sono questi 1

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Che tempi sono questi 1
Che tempi sono questi, quando
parlare d’alberi è quasi un delitto,
perché su troppe stragi comporta un silenzio!
Bertolt Brecht
PREMESSA
All'eventuale lettore sento il dovere di preannunciare cosa troverà in queste pagine:
un'autobiografia politica, non di un personaggio importante come Rossana Rossanda
o Pietro Ingrao, ma di uno dei tanti intellettuali militanti conosciuti, e neanche
troppo, solo nell'ambito della propria città.
Si ferma al '90, alla “svolta”. Ma neanche quelle di Rossanda e Ingrao arrivano
all'oggi: Rossanda chiude col '69, Ingrao col '79. Perché? C'è un elemento comune
che lo spiega, si parva licet: finiamo tutti con un distacco dal partito: o brutalmente
imposto, come alla Rossanda, o dopo un allontanamento progressivo, come per
Ingrao; per me, l'allontanamento inizia subito dopo la “svolta”, per la delusione
seguita alle grandi speranze da essa destate .
Così, il percorso dal PCI al PDS ai DS mi ha portato a non rinnovare, ormai da anni,
la tessera, anche se continuo a votare, a finanziare, a collaborare, a partecipare a
varie iniziative di quello che continuo a sentire come il 'mio' partito, vivendo una
situazione un po' schizofrenica, per i frequenti, a volte gravi dissensi sulle scelte
politiche, e per le zone grigie nella gestione del potere locale.
Debbo poi avvertire che questa autobiografia politica non ha, non vuole avere un
carattere storico saggistico: è uno sfogo. Per questo il tono è spesso apodittico: sono
opinioni personali molto sentite, sofferte. E tante, troppe insofferenze,
idiosincrasie...
Credo comunque di non essere solo in questa situazione: spesso, parlando con dei
compagni, registro, ed è conforto e insieme amarezza, insofferenze e frustrazioni
simili alle mie. Mi illudo siano segnali -S.O.S, “Aiuto, affogo!”?- della “sinistra
sommersa”, un tempo famosa e ora mai più nominata, dove spero di trovare i
classici 24 lettori, miei semblables et mes frères.
LA NUBE PURPUREA
Che tempi sono questi ha preso forma lentamente, sulla scorta dei miei ricordi per
gli anni più lontani, e di una gran massa di note quasi quotidiane, con riflessioni,
dubbi, incazzature, repellenze, a partire dagli anni '80.
Bocconi amari
Mes semblables, mes frères...
Gli anni '80... Ricordate? Il reagan tatcherismo in fase calante ma ancora vincente,
l’apice del craxismo, fino all’ ‘89, con la “vittoria” del capitalismo...
Cominciano allora massicce dosi giornaliere di veleno, i bocconi amari, le
prepotenze e le ingiustizie che ci tocca d’ingozzare del Ciampa pirandelliano. Non
le mie -sono tra i pochi fortunati-, quelle sugli altri, che, comunque, mi infracidano
lo stomaco, e che mi hanno imposto il titolo Che tempi sono questi, oggi, purtroppo,
più che mai attuale.
No, la “vittoria” (non riesco a scriverla senza virgolette) non ha cancellato ma
aumentato le ingiustizie, facendo risorgere più forti insofferenza, indignazione, e, in
perversa spirale, l’impotenza.
L’impotenza. Da dove viene? Dalla mancanza di politica attiva. Tra le speranze
destate dalla “svolta”, la delusione più grave infatti riguarda quella di poter
ricominciare a far politica davvero, io e tanti altri come me, la famosa “sinistra
sommersa”, destinata forse a rimanere sommersa fino all’annegamento.
Il mio tempo -passato- di politica attiva
C’è stato un tempo per me pieno di politica intensa, forse efficace -almeno, così la
sentivo-, certo gratificante: l’attività di teatro politico durata circa otto anni, dal ‘69
al 72 nel campo extraparlamentare, poi, fino al ‘77, nel Movimento Operaio.
Foligno, notte di S. Silvestro 1970 71
Officine meccaniche Rapanelli occupate dagli operai per impedirne la
smobilitazione; il nostro gruppo partecipa alla veglia e rappresenta Itinerari turistici
meridionali, uno spettacolo sulla condizione e le lotte operaie.
Il palco si alza in fondo alla navata centrale, il pubblico siede tra file di tornii e altre
macchine disseminate nel grande spazio dell’officina; sul soffitto dei carrelli e gru
da cui pendono catene.
E’ l’ambiente ideale, perché lo spettacolo ricostruisce gli itinerari -“turistici”paralleli di due emigrati dal sud, uno divenuto operaio, l’altro poliziotto. Io sono
accanto al palco per comandare luci e registratore; da lì vedo i visi degli operai in
prima fila, e, dietro, la sala con i suoi macchinari, acquattati come bestie
gigantesche nella penombra: nel passo che chiamiamo “concertato”, dove brani di
testimonianze operaie sulle durissime condizioni di lavoro vengono gridate dagli
attori, tagliati da luci violente, su un lacerante sottofondo di musica concreta, e col
contrappunto del coro che itera i passi più duri, provo un momento di emozione
intensa, che mi stringe la gola.
Lo spettacolo segue l’itinerario dell’operaio attraverso la sua presa di coscienza
politica, fino alla lotta, una dimostrazione con scontri con la polizia, durante la
quale muore l’altro emigrato, il poliziotto -la morte di Annarumma era dell’inverno
precedente, quando lo spettacolo era stato elaborato-. Un funerale di stato, con la
marcia funebre di Sigfrido e le parole del forcaiolo telegramma di Saragat,
introduceva al finale: la lettura lenta, scandita dei nomi dei più di 100 operai e
contadini uccisi dalla polizia dal ‘45 ad allora; in sottofondo gli spari e gli urli della
folla, registrati casualmente da un privato, a Reggio Emilia, quando, nel luglio’60, i
poliziotti falciarono cinque dimostranti.
E’ un elenco interminabile; dopo l’ultimo nome, un lungo silenzio, nessuno
applaude. Riaccendo le luci della sala e mi accorgo che tutti hanno provato la mia
stessa emozione. Ci vuole un po’ di tempo per scioglierla e cominciare a parlare, e
allora non è il momento rituale, obbligato nel teatro politico, della “discussione
finale” (il sacrosanto urlo “no, il dibattito no!” di Nanni Moretti), ma semplicemente
parlare, un incontro vero tra un gruppo di intellettuali e la mitica classe operaia; un
avvenimento talmente raro che lo vivo quasi incredulo, commosso, turbinando nella
mente le immagini di Majakovski che legge le sue poesie nelle fabbriche, degli
spettacoli di Piscator per le masse operaie di Berlino, di quelli del gruppo Ottobre
nella Parigi del Front Populaire nel ‘36, della Barraca di Lorca. Gli altri rari, e
brevi, momenti in cui una spaccatura millenaria si era ricucita.
Spello, autunno 1972
Il gruppo rappresenta Scrivere sulla nuda terra in mezzo a chi è in basso accanto a
chi lotta, un montaggio di testi, teatrali e poetici, di Brecht. Tutto è già chiaro dai
versi del titolo: dal grande corpus brechtiano ho estratto puntigliosamente i passi più
duri, estremisti. Il primo tempo si compone di ampi stralci di “Santa Giovanna dei
macelli”, col coro “Combattete! Sperimenterete/ che si riesce soltanto/ con la
violenza, e se/ siete voi stessi ad agire”. Il secondo è una sintesi de “La madre”, e il
finale è il coro dei Comunardi: “Dato che il cannone lo intendete/ ed ad ogni altra
lingua siete sordi/ sì, contro di voi, ora, quei cannoni/ noi si volterà”.
Il gruppo è composto in gran parte da giovani, reclutati da una “leva attori” nell’area
dell’ultrasinistra; lo spettacolo è il risultato finale di un laboratorio, dove i testi di
Brecht sono serviti come base sia alle esercitazioni tecniche che al lavoro politico.
La situazione stavolta è “normale”, perché lo spettacolo fa parte di una piccola
stagione teatrale organizzata dall’Amministrazione comunale di Spello, che, per la
mancanza di un teatro nella città, ha attrezzato una grande sala del Municipio; il
pubblico, in gran parte giovanile, è prevalentemente di sinistra -Spello è da sempre
una città “rossa”-, ma è presente anche una minoranza “borghese”. Questa, al
reiterarsi di passi duri, dottrinarii, comincia ad esprimere qualche insofferenza, che
ha l’effetto di gasare ancora di più i giovani attori, spingendoli a sottolineare con
maggior forza le battute provocatorie; quando qualcuno si alza e lascia la sala, glie
le ripetono dietro urlandole. Nel finale poi, durante il coro dei Comunardi, salutano
a pugno chiuso il pubblico rimasto, che, consapevole dell’importanza simbolica
dell’uscita dei “borghesi”, è stato trascinato dalla crescente eccitazione degli attori e
si ferma a lungo ad applaudire, con parecchi giovani che salutano anch’essi a pugno
chiuso.
L’episodio entrò subito nella leggenda, raccontato più volte agli sfortunati assenti, a
compagni ed amici, alle successive nuove leve, fino a divenire una specie di mito
fondante, di identità eroica del gruppo.
Bastia, estate 1975
All’interno di Umbria Fiere, una mostra mercato di prodotti agricoli promossa
dall’amministrazione, di sinistra, il gruppo rappresenta, per un pubblico composto
quasi unicamente di contadini o ex contadini, Sega la vecchia agricoltura, uno
spettacolo sui gravissimi problemi dell’agricoltura italiana; in esso l’analisi della
sciagurata politica dei governi DC e delle malefatte delle Federconsorzi viene messa
in scena nei modi dell’antichissima rappresentazione contadina umbra di 'Sega la
vecchia', riproposta dal gruppo nella sua forma originaria negli anni precedenti. La
scrittura del testo è stata preceduta da una lunga fase di raccolta di informazioni,
colloqui con specialisti, sindacalisti, contadini. Il contenuto “didattico” -l’analisi dei
perversi meccanismi che soffocano l’agricoltura- si fonde alla perfezione con i
personaggi e il particolare stile del 'Sega la vecchia' contadino; il rapporto scena pubblico è subito intensissimo: il personaggio del padrone viene bersagliato
d’insulti, e, siccome lo spiazzo tra gli stand è gremito di pubblico in piedi e la prima
fila si appoggia direttamente al palco, quando l’attore che lo impersona viene a
proscenio riceve forti pugni sui piedi!
La partecipazione cresce; quando il protagonista, un vecchio contadino, in un
monologo rievoca le durissime condizioni di vita delle campagne umbre di appena
vent’anni prima, le angherie e i soprusi del padrone, la platea si scatena; uno grida:
“e allora a me, che quel maiale m’ha...” e racconta un’altra prepotenza; l’attore,
d’istinto, gli dà spago, se ne aggiunge un altro, poi l’attore va avanti, ma il nuovo
episodio raccontato innesca altri sfoghi. Lo stesso accade nella seconda parte con un
altro monologo sulle lotte contadine umbre. Gli attori hanno la voce rotta per
l’emozione, i tempi e i toni previsti saltano, si recita col pubblico, non esiste più
divisione: lo spettacolo che in prova durava meno di un’ora e mezzo ora richiede
più di due ore. E’ il miracolo, il “teatro perduto” di Barba ritrovato.
Un mese dopo, a Molino Vitelli vicino a Umbertide, lo spettacolo è ancora
rappresentato per un pubblico di contadini; il coinvolgimento nei monologhi è lo
stesso, ma alla fine accade un altro miracolo: contadini che iniziano a lavorare alle
sei del mattino rimangono a discutere fino alle una di notte -e proprio in
considerazione dei tempi della campagna lo spettacolo era iniziato alle 7 di sera-!
Riflessioni autocritiche
Esperienze indimenticabili, esperienze che segnano, ma, a parte che il rimpianto è
quanto di meno politico si possa immaginare, oggi mi rendo conto delle loro
contraddizioni.
A Foligno, gli operai già sapevano tutto quel che siamo andati a raccontargli; l’unica
speranza è di avergli dato un po’ più di forza per sostenere la lotta, ma non posso
fare a meno di pensare che l’esperienza è servita a dar forza -e anche un po’ di
narcisistica gratificazione- soprattutto a noi. Per essere utili davvero avremmo
dovuto andare a recitare non nella fabbrica -ma era quello il luogo mitico, sacro!ma fuori, a teatro, per strada, per i cittadini di Foligno, allo scopo di creare
solidarietà all’occupazione.
A Spello poi era stata un’orgia di compiaciuto settarismo; tra l’altro, visti gli effetti
sul pubblico rimasto, pericolosamente contagioso. Lo spettacolo diveniva una messa
per un pubblico di fedeli (quante ne abbiamo celebrate con lo stesso Dario Fo!): la
cosa più importante sarebbe stata parlare proprio con quelli che uscivano.
A Bastia e MolinoVitelli sento invece che c’era qualcosa di più, fermo restando che
sarebbe stato importante parlare a tutti e non solo ai contadini; 'Sega la vecchia' era
cultura loro, le cose raccontate dal vecchio contadino erano vita loro, ridestavano la
rabbia per le antiche ingiustizie, rafforzavano l’identità, la “coscienza di classe”
(oddio, un’altra parola che posso usare solo tra virgolette!); lo spettacolo analizzava
i loro problemi, contribuiva a chiarirli, era utile.
E’ un caso che questa esperienza sia avvenuta all’interno del Movimento operaio,
dove io e il gruppo eravamo riapprodati da due anni?
E le altre due esperienze, specie la seconda, contenevano un’altra contraddizione,
forse la più grave. Poggiavano saldamente su quel complesso di miti -la
Rivoluzione, il Palazzo d’inverno, il Partito, il Proletariato- efficacemente definito
come Nube Purpurea. Ci vivevamo tutti dentro, come in un ventre materno caldo,
sicuro, e quelle esperienze l’hanno radicata a fondo anche dentro di noi. La storia ormai senza maiuscola- ha fatto da levatrice, ma non nel senso promesso dalle
profezie; un doppio parto dolorosissimo: strappati dal ventre caldo e strappate da
noi le radici.
E’ dunque necessario, ineludibile fare i conti con la Nube Purpurea, tentar di
sciogliere questo duro, difficile nodo.
Il crollo
I conti li stavo facendo da tempo, ma poi la storia si è messa a correre a precipizio
imponendo una contabilità da bancarotta.
Nel 1988 era già chiaro infatti che di tutte le illusioni sul ‘socialismo reale’ non
restava in piedi niente, che la Nube si stava rapidamente dissolvendo.
Era un moltiplicarsi di sintomi sempre più gravi, che obbligavano a tirar
conseguenze dure da ingoiare. Come quando Gorbaciov disse: Tito aveva ragione;
ma se Tito aveva ragione, una logica implacabile portava ad affermare che nel ‘48 è
stata una fortuna perdere le elezioni, visto che la rigida ortodossia filosovietica del
PCI aveva scomunicato con orrore Tito. Logica implacabile, tanto difficile da
accettare che ancora tre anni dopo, a ‘svolta’ occhettiana consumata, un alto
dirigente regionale la respinge inorridito.
Oppure la riabilitazione di Nagy, confrontata con gli insulti de L’Unità nel ‘56. E’
un rospo infetto, di cui non si può non render conto.
Poi l’ ‘89, il crollo definitivo, mi dettò una serie di note sugli avvenimenti più
traumatici, sulle tragiche, spietate ironie della storia, che rovesciavano con crudeltà
quasi intenzionale i miti e i simboli più radicati della Nube: la penuria alimentare
nel Paradiso Terrestre sovietico, le mitiche masse che manifestano contro il Partito
Comunista nella non meno mitica piazza Tien An Men, arrivando ad erigervi una
Statua della Libertà, le statue di Lenin abbattute come quella dello zar in Ottobre di
Eisenstein, le “balle della CIA” -Katin ecc.- che si rivelano vere... C'è stato perfino
l’Assalto al Palazzo d’Inverno di uno zar rosso, Ceausescu!
Ma soprattutto si rovesciava la Profezia fondamentale: era il capitalismo che doveva
crollare, per una inesorabile fatalità storica. Questo veniva rimosso dai più, ma
mordeva comunque dentro.
Mordeva, e morde ancora, anche dentro di me, sul vivo delle mie radici.
Dunque è dalle mie radici, dalla mia vicenda politica, la stessa di tanti, con tappe,
speranze, rabbie e delusioni comuni, che debbo cominciare.
LE RADICI DELLA NUBE PURPUREA
Radici
Mi piace vantare i miei quattro quarti di plebità: mio padre operaio alla SAI di
Passignano, mia madre operaia alle maioliche della Salamandra, il nonno paterno
operaio alla SAFFA, la nonna paterna casalinga e saltuariamente donna di servizio,
il nonno materno, siciliano, calzolaio, la nonna materna operaia in un laboratorio di
ricamo.
Il nonno paterno è una figura mitica: anarchico, picchiato dai fascisti, lo ricordo,
durante la guerra, ascoltare radio Londra a luci spente, solo la piccola luce del
quadrante nella stanza buia, l’orecchio poggiato sull’altoparlante, perché in casa
sono a pensione delle studentesse tedesche, una delle quali fanatica hitlerjugend.
Ricordo i primi comizi del dopoguerra: a Porta Pesa, vecchio covo di antifascisti,
Pio Baldelli dall’alto del muro sopra il vecchio dazio; Fernanda Maretici in piazza
S.Agostino, nel popolare rione di Porta S.Angelo. Ci andavo con tutta la famiglia:
capivo poco -avevo dieci undici anni-, ma provavo un forte senso di schieramento,
di appartenenza.
Poi, le domeniche coi nonni nelle osterie, allora “fuori porta”; mangiate, vino,
bocce, carte e discorsi politici: le armi dei partigiani nascoste, critiche al Togliatti
troppo morbido; risposta: “lascia fare a lui, li prende in giro... se vinciamo le
elezioni col cavolo che poi le rifacciamo!”.
Stalingrado, grosso nodo di emozioni; dopo le esaltanti notizie quotidiane di radio
Londra sulla sua resistenza e poi sulla sconfitta nazista, nel primo dopoguerra un
film documentario sovietico me lo radicò dentro come mito eroico: all’inizio, dopo
un lunghissimo rullo con nomi russi, la scritta “il film é dedicato alla memoria di
questi operatori, caduti mentre filmavano. Alcune delle riprese che vedrete sono
state ritrovate nella cinepresa accanto al loro corpo”.
Le elezioni del ‘48: euforia nelle osterie, sicurezza di vincere. La sera dei risultati
io, tredicenne, trattengo a stento le lacrime: molti adulti piangono senza ritegno.
Una quindicina d’anni dopo, la canzone di Ivan Della Mea me le riporta sul ciglio, e
ancora oggi nel canticchiarla mi si stringe la gola. Cito a memoria:
Sent un po’, Gioan, te se recordet / del quarantott, bei temp de buriana / veniven giò de la
rocca de Berghem / i tusan mbraccià sù tut’insema / tut’insema cantaven, cantaven /
Bandiera rossa, Gioan, te se recordet.
Negli occhi dei tusan c’era la “speranza più bella e più vera”; poi l’amarezza per la
sconfitta -l’ha vint el pret con t’i bale e oraziun- e la conclusione: ma n t’i occ’ dei
tusan gh’era la guera / Bandiera rossa, Gioan, te se recordet.
Ecco: la gente delle osterie, dei comizi nei quartieri popolari, le lacrime sulle facce
oneste, segnate, come le rivedrò poi ai funerali di Togliatti, di Berlinguer, da allora
si sono radicate in me come Stalingrado. Stalingrado si è poi progressivamente
cancellata, altre radici sono state traumaticamente strappate, ma quelle facce sono
sempre vive. Debbo a loro, credo, se giudicare le persone dalla faccia -coll’interno
disagio di fare una cosa arbitraria, anche se poi il primo giudizio è quasi sempre
confortato dalle successive acquisizioni- è divenuta un’abitudine cui mi affido con
crescente sicurezza.
Un ultimo ricordo di questo periodo: leggo un articolo (Unità? Vie Nuove?) sulla
vittoria della rivoluzione cinese, mi si gonfia il petto e ripeto tra me: “ho fede! ho
fede!” Di essere dalla parte giusta, quella che avrebbe vinto. Fede: usavo proprio
questa parola, ne sono sicuro.
Al liceo ho i primi contatti col ‘partito’, non molto felici invero; ricordo una
riunione in una piccolissima stanza della Federazione, portato da un amico, figlio di
uno dei fondatori del PCI a Perugia (non era facile allora entrare nel partito); la
riunione è breve e non capisco praticamente niente di quel che viene detto: non ci
torno più.
Affiorano altre contraddizioni: mi è scoppiata la passione per il cinema, vedo
praticamente tutti i film che passano per Perugia, alcuni più volte, comincio ad
annotare critiche e riflessioni, a leggere riviste specializzate di sinistra, Cinema e
Cinema Nuovo. E’ qui che i conti non tornano per la contraddizione tra la condanna
ideologica di quasi tutto il cinema americano (e siamo tra il ‘51 e il ‘53!) e la mia
passione per quei film. Un esempio illuminante -ed è prima volta che rifiuto
coscientemente il verbo del “partito”-: Mano pericolosa di Sam Fuller -un piccolo
gioiello che ho rivisto da poco con grande piacere- nel 1953 vince il Leone di
bronzo a Venezia; coro indignato su Unità e riviste per lo scandalo di aver premiato
un film “ferocemente anticomunista e maccartista”. Ora -ho potuto controllarlo
rivedendolo- nel film non c’era niente di questo; è la storia di un borseggiatore che
ruba la borsetta contenente un microfilm a una ragazza, inconsapevole corriere di
una rete di spionaggio; in quel tempo è chiaro che le spie non possono essere che
russe, ma queste, nel film, oltre ad essere del tutto marginali, non ne hanno affatto
lo stereotipo, neanche l’assurdo accento!
Avevo letto le critiche prima di vedere il film, e non ci sarei andato se non fosse
stato interpretato da Richard Widmark, l’attore allora da me preferito; acquistai il
biglietto con un senso del peccato che per mia fortuna non ho mai provato sul
versante cattolico, e, continuando ad aspettare l’anticomunismo e il maccartismo, mi
rovinai un film che mi stava piacendo -e che infatti, il giorno dopo, sono tornato a
vedere senza complessi-.
Al liceo ho la prima esperienza teatrale, una rivista, De omnibus canamus, di cui
sono autore e regista, con Italo Moretti presentatore. La ricordo solo perché, in una
replica a Umbertide -sede di durissime lotte contadine (era il 1952!)-, durante uno
sketch che potrei definire di comicità goliardica pre-demenziale, nel silenzio del
teatro -nessuno rideva- dal loggione risuonò forte un “vagabondi, gite a lavorà!” che
mi provocò un forte attacco di riso.
All’università entro nel gruppo Università Democratica, che riuniva poche decine di
studenti di sinistra; con gli studenti fascisti del FUAN ci sono in quegli anni scontri
fisici, poi mitizzati, in verità sempre perdenti per noi, sia per l’inferiorità numerica
che per la nostra scarsa aggressività: una volta fummo salvati dal roccioso servizio
d’ordine della Federazione, sotto la quale, per nostra fortuna, era scoppiata la rissa.
Ma il mio impatto coi compagni più autorevoli della FGCI continua ad essere
frustrante per l’assoluta prevalenza di discorsi astratti, generali (e a me sembravano
generici), mentre le mie, certo ingenue, osservazioni su precise ingiustizie e
assurdità non vengono raccolte: si assente con condiscendenza e si torna al generale.
Smetto dunque presto di andare a queste riunioni, e sono tra i fondatori del CUC,
ovvero Centro Universitario Cinematografico, godendo e soffrendo insieme con
pochi altri disperati cinedipendenti, nel gelo di un cinemino parrocchiale, i
capolavori della decima musa.
La cultura continua a dividermi dalle mie radici; pur ignorando del tutto, allora, le
vicende del Politecnico, mi trovo sempre meno a mio agio nella vulgata storicisticoidealista, che, Alicata imperante, è allora la cultura ufficiale del PCI; non riesco a
leggere le cose prescritte, ma scopro con entusiasmo crescente la grande cultura
“borghese”: Mann, Kafka, Adorno, Freud, Schonberg...
Sono assiduo ai concerti degli Amici della Musica, una stagione che non ha uguali
in Italia; lì incontro con emozione tutti i grandi: Rubinstein, Backhaus, Furtwangler,
Karajan, Segovia ecc. ecc. Ma molti giovani comunisti, e dei più intelligenti,
appassionati di musica, essendo presidente dell’Associazione Alba Buitoni, moglie
dell’industriale, non vengono ai concerti per non farsi corrompere dal nemico di
classe!
Il drammatico ‘56, col XX Congresso, il rapporto Kruscev, l’Ungheria, mi trova
completamente assorbito in vicende sentimentali, quindi abbastanza distratto;
d’istinto sto con gli insorti, ma mi colpiscono molto le terribili immagini del “terrore
bianco”, la foto del cardinal Midsenty con gli occhi spiritati, da Torquemada, e mi
accodo dunque alla tranquillizzante interpretazione prevalente, anche se non
ufficiale, nel PCI: la rivolta era giusta, ma c’erano gravi rischi di una
controrivoluzione reazionaria, quindi l’intervento sovietico è stato doloroso ma
inevitabile.
Non ricordo il momento preciso dell’incontro con Brecht (ed è strano, trattandosi di
un autore poi per me così decisivo), quindi non deve essere stato particolarmente
emozionante; probabilmente è da collocare subito dopo questo periodo. Sintomatico
comunque che, facendo nel ‘58 la mia prima esperienza registica di teatro di prosa,
non scegliessi lui ma il borghesissimo Giraudoux de L’Apollo di Bellac; nel ‘60 è la
volta di Rotocalco, scritta con l’amico Frondini, una “rivista da camera”, satira di
costume del tutto priva di contenuto “politico”, sulla scia, molto annacquata, del
mitico Il Dito nell’occhio di Fo.
L’entrata nel Partito
Il luglio ‘60, i morti sulle piazze per cacciare Tambroni sono invece per me uno
shock positivo: mi decido a iscrivermi al PCI, presentato dall’amico Mario,
funzionario, simpatico mattocchio, artista e trotzkista, allora cripto. La canzone di
Amodei per i morti di Reggio Emilia -A diciannove anni, è morto Ovidio Franchi...
Morti di Reggio Emilia, uscite dalla fossa, fuori a cantar con noi Bandiera Rossa!si aggiunge al Te se recordet di Della Mea nel radicarmi nel profondo emozioni,
sentimenti: ascoltandola ho il groppo in gola, il nonno siciliano piange.
Un’altra profonda emozione me la dà il disco, fattomi conoscere da Mario, con i
canti della guerra civile spagnola; l’emozione si raddoppia scoprendo che le melodie
popolari usate in queste canzoni erano state trascritte da Lorca, il primo vero poeta
da me amato, dopo che il liceo era riuscito a rendermi noioso anche Leopardi. Los
quatros muleros diviene Los quatros generales traditori, Anda Jaleo diviene El
exercito de l’Ebro. E come si gonfia il petto d’orgoglio nell’ascoltare: el dechocho
de junio en el patio de un convento, el Partido Comunista fondò el quinto
regimiento!
Nello stesso periodo Mario mi rivela i crimini stalinisti in Spagna, ma lui stesso, in
alcuni viaggi in auto a Roma per il partito, canta a squarciagola quelle canzoni
insieme a me e a un compagno dirigente.
Questo nodo di sentimenti viene ridestato pochi anni fa dal famoso documentario di
Ivens sulla guerra di Spagna, che fino allora non ero riuscito a vedere. Sono
intensamente commosso fin dalle prime inquadrature, malgrado la mia parte
razionale ne rilevasse spesso la retorica e anche la falsità: nella scena della partenza
delle Brigate Internazionali col sottofondo del saluto della Pasionaria mi si stringe la
gola nel ben noto groppo.
Ma le radici si rafforzano poi, più che per cento film o canzoni, per un episodio
accadutomi alla fine del ‘62. Recitiamo al Comunale di Reggio Emilia; io sono nella
cabina a comandare luci e sonoro; con me c’è l’elettricista del teatro, volto serio, un
po’chiuso: una delle mie “facce”. Su una parete un grande ritratto di Stalin; gli dico
che sono compagno anch’io, ma si scioglie un po’ solo quando gli faccio vedere la
tessera; gli chiedo dei morti del luglio ‘60, risponde con poche parole generiche,
ma, finito lo spettacolo, mi prende per un braccio e mi porta sulla piazza della
strage, vicino al teatro, deserta a quell’ora, e mi ricostruisce tutto con precisione: “là
è caduto Farioli, loro erano laggiù...”. Poche, lente parole, a voce bassissima. E
piange: ex partigiano, volto duro, segnato, baffoni alla Stalin, e piange. Ho
l’impressione che ormai solo nella sinistra si sappia ancora piangere per qualcosa
che non sia un dolore personale.
In questo periodo scrivo un paio di articoli per il periodico della Federazione,
Cronache Umbre; gravi perplessità, con vivaci discussioni, provoca il primo,
ingenuo ma anticipatore, tra Minima moralia di Adorno e Persuasori occulti di
Packard, sul controllo delle coscienze, il peso della pubblicità, il consumismo -l’uso
di questo termine inizia allora, divenendo presto di moda-. E’ questo, pressapoco, il
tema anche del mio primo intervento pubblico; in un congresso provinciale all'inizio
degli anni '60: in una Sala dei Notari gremita di delegati, metto in guardia dal
consumismo richiamando a un impegno culturale su questo fronte, con qualche
frecciata all’astrattezza del Contemporaneo, molto apprezzata da alcuni compagni
intellettuali. Sarà stata l’originalità -in quei tempi- del tema, sarà stata la
convinzione profonda unita all’emozione (credo fosse la prima volta che parlavo in
pubblico) a dare ritmo e forza alla mia voce, ma riesco a farmi ascoltare da un
uditorio, che, secondo un antico malcostume purtroppo ancora oggi in vigore, segue
in modo molto distratto, immerso in rumoroso brusio, la maggior parte degli
interventi.
Ricordo anche alcune accanite discussioni con un dirigente, medico molto colto,
sulla psicanalisi, da me scoperta da poco e giudicata una necessaria integrazione
dell’analisi marxista, e da lui negata in blocco come “scienza borghese”.
All’inizio del ‘63 divengo funzionario part time della Federazione (la mattina
insegno) per curare il settore culturale e collaborare col responsabile della
propaganda. Per la parte culturale non faccio praticamente niente, assorbito dal
lavoro per le campagne elettorali delle elezioni politiche del ‘63 e amministrative
del ‘64, per le quali mi specializzo in ‘giornali parlati’ registrati, credo abbastanza
efficaci.
Alla campagna del ‘63 appartiene il mio comizio mancato. L’unico comizio della
mia vita -non ci sono più state occasioni- e mancato.
Un pomeriggio in Federazione, mentre lavoro a un giornale parlato, mi dicono che
la sera, in non so più quale frazione per indisponibilità del compagno designato,
avrei dovuto fare un comizio. Panico. Certo, fanno comizi compagni con minor
facilità di parola di me, ma hanno esperienza, seguono regole che io ignoro,
conoscono bene il loro uditorio, ne fanno parte. Io vanto i miei quattro quarti di
plebità, è vero, ma ormai sono un intellettuale: cosa dirgli e, soprattutto, come
dirglielo?
Affannosamente butto giù una scaletta; non ne ricordo i termini, legati alla
situazione politica del momento, ma c’era, ne sono sicuro, una specie di prologo a
metter le mani avanti. La rielaboro ansiosamente più volte, anche mentre aspetto,
seduto sul divanetto di plastica dell’ingresso della Federazione, il compagno che
deve portarmi in auto sul posto. Poi, all’ultimo momento, la notizia liberatoria: al
mio posto può andare un compagno più esperto. Sollievo, ma anche, subito, una
punta di delusione, che col tempo è cresciuta fino a divenire rimpianto.
Il momento culminante della campagna elettorale del ‘63 è un comizio di Togliatti
in piazza IV novembre. Trentamila persone, mai tante per un comizio a Perugia;
giro a lungo per la piazza, facendomi largo lentamente nella massa; guardo i visi -le
mie facce, in gran parte contadini-, levate verso l’alto, rapite ma serie, concentrate:
non adorano un santo, sono volti di chi sta imparando. Il comizio rivela la sua vera
natura di grande lezione di democrazia, superando felicemente la funzione naturale
di dare forza e entusiasmo: è un’altra potente rincalzata alle mie radici.
La deriva verso l’estremismo
Ma la deriva verso l’estremismo era iniziata poco dopo la mia entrata nel partito. Vi
concorrono molti fattori; il più importante è l’amicizia con Mario, trotzkista sempre
meno cripto, che ora dorme a casa mia; discussioni fino a tarda notte: mi fa leggere
Trotzki -La rivoluzione tradita e degli scritti sulla letteratura-, e divengo un
convinto antistalinista, irridente l’alibi, in verità penoso, che spiega lo stalinismo col
“culto della personalità”. Mi convinco anche che la rivoluzione non è stata tradita
solo in URSS, perché -il “socialismo in un solo paese”- la III internazionale ha
frenato le rivoluzioni in occidente, anche in Italia.
Un dirigente della Federazione, col quale ho un rapporto di reciproca simpatia,
risponde pacatamente, con argomenti convincenti ai miei attacchi, certo molto rozzi:
la scelta democratica, la creazione del tessuto di sindacati, enti locali, cooperative e
associazioni che ha fatto più forte il movimento operaio, il grande miglioramento
delle condizioni di vita delle classi popolari -ma per il mio adornismo volgare,
questo era quasi un lato negativo!-. Sento ancora oggi un’onda di vergogna
ricordando l’imbarazzo con cui accolse un mio articolo sulla repressione poliziesca
delle dimostrazioni operaie spontanee di Torino, nel luglio del ‘62, pieno di insulti
per il sindacato.
Altro fattore, l’amicizia, fattasi in quegli anni molto stretta, con Pio Baldelli,
autorevole critico cinematografico, uscito dal PCI nel ‘56, allora nella sinistra del
PSI su posizioni estreme. Con lui e pochi altri fondiamo una Cooperativa Culturale
che organizza alcune iniziative in una sala della Rocca Paolina; lì comincia il
tormentone dei film di sinistra criticati da sinistra, mai abbastanza lucidi e
rivoluzionarii: Kapò di Pontecorvo, Salvatore Giuliano di Rosi, I compagni di
Monicelli. Per non parlare, ovviamente, di tutte le commedie all’italiana e,
addirittura, di Fellini: mi sono rovinato per questo le prime visioni di quasi tutti i
suoi capolavori! E’ strano come, negli anni ‘60, io non abbia più quell’autonomia
di giudizio che mi aveva permesso, negli anni ‘50, di gustare tranquillamente i film
americani. Forse Baldelli è più convincente di Aristarco, anche perché ci parlo quasi
tutti i giorni. Per di più, il cinema non è più per me una passione totalizzante: al
liceo sognavo di fare il regista cinematografico, ma motivi familiari, bloccandomi a
Perugia, mi hanno impedito di tentare quella strada -ho dovuto cominciare a
insegnare francese (con la laurea in legge!)-, e ora stavo trovando nel teatro un
sostituto.
Ma per le mie regie di teatro di prosa col gruppo “Fontemaggiore”, dopo Giraudoux,
continuo a scegliere testi apolitici, come La cantatrice calva di Ionesco. Qualche
brivido lo provo presentando nel ‘61, in pieno franchismo, un testo di Lorca in un
festival a Barcellona, ma si tratta de L’amore di don Perlimplino, assolutamente
privo della più lontana implicazione politica!
L’unico momento di vero impegno politico nel teatro in questi anni è, nel ’62, alla
Rocca Paolina, una manifestazione di solidarietà con Dario Fo costretto dalla
censura ad abbandonare “Canzonissima”, con la presenza di Ivano Cipriani, critico
TV di Rinascita, e la lettura da parte di due attori del mio gruppo degli sketches
censurati.
Poi, nel ‘63, dopo aver debuttato con grande successo al Festival dei Due Mondi
con un prestigioso spettacolo di pantomime di Frondini, Tirando a morire,
aderiamo, su mia iniziativa, ai Teatri Universitari, che si pongono esplicitamente
l’obiettivo del teatro politico.
Leggo Marx, non Il capitale ma il Manifesto, Il 48 in Francia e in Germania, e La
situazione della classe operaia in Inghilterra di Engels, che mi sconvolge, qualche
volgarizzazione di Gruppi su Marx e Lenin, il Gramsci del Risorgimento e di
Letteratura e vita nazionale. Compero Il contemporaneo, ma riesco a leggerne, e
con difficoltà, solo pochi articoli, mentre la rubrica settimanale di Pasolini su Vie
nuove mi coinvolge profondamente. Emozionante I dieci giorni che sconvolsero il
mondo di Reed, che va ad alimentare le radici profonde e la Nube purpurea.
La lettura di Marx, che mi entusiasma per la lucidità con cui analizza i più nascosti
meccanismi economici e politici, coincide con quella delle superficiali analisi di
Rinascita sulla prima crisi italiana seguita al boom, la “congiuntura”, e l’enorme
differenza di livello è un altro elemento che contribuisce al progressivo distacco dal
Partito.
Ad accelerarlo, nel ‘63 arriva il conflitto URSS - Cina, e Mario è subito filocinese,
trascinando anche me; fonda un’Associazione Italia - Cina con un bollettino dove
scrivo la recensione di un libro di poesie di pace cinesi; quelle antiche sono
bellissime, quelle di oggi retoriche, ma riesco ugualmente a parlarne bene
favoleggiando di “vera pace” della concezione cinese (la “vera” libertà, la “vera”
democrazia...), guadagnandomi grandi lodi dai funzionari dell’ambasciata cinese di
Berna, dove Mario era andato in pellegrinaggio.
Incredibile, a ripensarci, la disinvoltura con cui Mario, trotzkista di ferro, rimuoveva
il proclamato stalinismo dei cinesi: un doppio strumentalismo, quello attribuito ai
cinesi, che avrebbero usato lo stalinismo per accentuare la polemica con l’URSS, e
quello nostrano, che pretendeva di usare i cinesi contro l’URSS, nemico principale!
Un papocchio su cui nutrivo forti dubbi fin d’allora.
La pubblicazione del bollettino porta all’espulsione di Mario, perché, nell’articolo
di fondo, ha espresso pesanti giudizi sul PCI. Partecipo -non ricordo in che ruolo,
forse di testimone- alla riunione della commissione di controllo che decide
l’espulsione; questa, in sé, è giusta, perché l’articolo è davvero incompatibile con la
militanza nel PCI, ma il modo seguito mi disgusta: Mario non è presente, si va giù
pesanti sul piano personale, e molte cose -ne avevo la prova- sono vere e proprie
calunnie. Ribatto con forza suscitando sorrisi di compatimento. La calunnia
personale è vizio antico nei partiti comunisti, anche Marx la usò contro Bakunin, ma
farne l’esperienza diretta -anche nei confronti di Pio Baldelli- è l’ultima goccia che
mi distacca dal partito.
A spiegare questa mia deriva verso l’estremismo debbo aggiungere un altro
elemento. Già nel ’54, la lettura di Doktor Faustus di Mann è un evento che mi
segna profondamente aprendomi le porte della grande cultura europea; essa mi fa
scoprire anche il “consigliere segreto” di Mann per questo romanzo, Adorno, di cui,
in attesa della pubblicazione di Filosofia della nuova musica, pertinente ai temi
musicali del Doktor Faustus, comincio a leggere Minima Moralia. E’ una lettura
che mi accompagnerà per vent’anni: torno più volte su ogni frammento con chiose
successive, sciogliendo lentamente un linguaggio denso, difficile, da cui poi escono
illuminazioni folgoranti. Il nodo principale, che assorbo profondamente, è il rifiuto
“morale” dell’esistente negativo, la non accettazione dell’ingiustizia, dell’assurdo:
niente può essere giustificato solo perché esiste. Prepara il terreno favorevole per
l’estremismo degli anni seguenti, ma va oltre la sua fiammata e la successiva
delusione: è ancora una delle principali molle di Che tempi sono questi.
Un ultimo elemento che incrementa il mio radicalismo è la scoperta del surrealismo
francese, dovuta a un altro caro amico, Pierre, di Ginevra, -conosciuto perché,
studente all'Università per Stranieri, era stato ospite a casa nostra-, profondo ed
entusiasta conoscitore di quel movimento; la produzione letteraria di Breton e
compagni nel complesso mi lascia abbastanza freddo, la sento corta di fiato, sempre
sull’orlo del gioco letterario, ma la loro intransigenza politica nei rapporti col PCF,
il rifiuto etico mi coinvolgono, trovando un terreno già preparato.
In una lettera di Pierre trovo un titolo di Benjamin Peret, Je ne mange pas de ce
pain là, che mi colpisce con tanta forza da spingermi a scrivere una poesia con lo
stesso titolo. Oggi mi pare mediocre, a volte enfatica a volte prosaica, ma credo
opportuno riportarne ampi passi, sia perché esprimono bene il mio atteggiamento di
allora, sia perché anche qui sono già contenute, sotto il segno dominante di Adorno
e Brecht, tutte le ragioni di fondo di Che tempi sono questi:
Je ne mange pas de ce pain là
non mangio il loro pane io traduco
tra le righe dell’amico fraterno
titolo-verso che improvviso chiarisce
tutti i vecchi confusi sussulti
la vecchia rabbia e il rifiuto a capire
le mille sporche ragioni del mondo
marcio sostegno condensato in adagi
alla cattiva coscienza tranquilla.
E se ogni tanto riemerge l’antico furore
per la notizia assurda dove il dominio
per un istante mostra il vero volto
quanto lunga può essere la rabbia
compagno Brecht se tutti in poco tempo
quella notizia l’avranno scordata
con cattiva coscienza tranquilla.
Je ne mange pas de ce pain là
non mangio il loro pane arriva allora
come un’antica massima morale
che però non porti saggezza serena
alla cattiva coscienza tranquilla
ma lungo furore lucido e calmo
che covi sempre sotto il flusso dei minuti
mordendo amaro ad ogni tentativo
dell’assurdo di assolvere se stesso
col solo fatto di essere reale
e di vivere in ognuno dei minuti
di un lungo giorno di ventiquattrore.
E se anche questo non sempre è possibile
che non possiamo negarci per sempre
a ogni sorriso di un albero in fiore
anche se su troppe stragi comporta un silenzio
sapere almeno con tutto se stessi
che non si mangerà del loro pane.
Il loro pane è il prezzo del silenzio
ed è impastato delle buone occasioni
della persona che ti può esser utile
del posticino da mezzo milione
e di tutta la rete di coloro
che di quel pane mangiano ogni giorno
quelli che hanno trovato ragionevole
questo stato di cose modellandovi
con cattiva coscienza tranquilla
il loro credo estetico scoprendo
che ci son tante cose da cantare
oltre le stragi e tutte più poetiche.
Je ne mange pas de ce pain là
non mangio il loro pane è già deciso
anche se il prezzo è caro da pagare
ogni occasione si debba rifiutare
col dubbio lacerante che si tratti
della difesa incoscia di un fallito
che si sottrae alla prova del successo
con la coscienza amara di sapere
di chiudere a se stesso il dir qualcosa
a tutti gli altri e con in più il ridicolo
del vecchio gioco al poeta incompreso.
Ma se parlare a tutti per un ciclo infernale
vuol dir vendere pane avvelenato
alle cattive coscienze tranquille
dobbiamo solo urlare dalle viscere
Je ne mange pas de ce pain là
Non mangio il loro pane!
La poesia deve essere del ‘64 o del ‘65. In essa probabilmente sfogavo anche la
rabbia e la vergogna per un precedente mio piccolo tradimento dell’intransigenza
rivoluzionaria; si tratta di un episodio, del tutto rimosso e riemerso solo ora,
innescato dagli altri ricordi, e che ancora provo imbarazzo a raccontare.
Alla fine degli anni ‘50, si era aperta a Perugia una sede RAI che metteva in onda
settimanalmente una rivista radiofonica, alla quale collaboravano alcuni scrittori di
teatro perugini; per me era importante entrare nel gioco per aprire una prospettiva di
lavoro nel mio specifico, che mi avrebbe forse permesso di lasciare la scuola. Vado
dunque a parlare col direttore della sede, uomo abbastanza importante del
sottogoverno DC, che con la massima franchezza mi dice che in RAI avrei ottime
possibilità, in futuro anche a livello nazionale, ma che la mia militanza comunista è
un ostacolo insormontabile. Sono cose che sapevo, ma farne esperienza diretta mi
sconvolge; passo giorni di nera depressione e, per una coincidenza, un giovane del
mio quartiere che conosce la mia passione per il cinema mi chiede di venire a
commentare un film proiettato in parrocchia. Si tratta de Lo spretato di Joannon, un
polpettone catechistico la cui visione mi provoca una vera repellenza morale; si
riaccendono
le luci, tutti aspettano il mio commento; il film mi inviterebbe a
ricorrere alle armi del Voltaire più cattivo, invece mi costringo a farne
un’imbarazzata, confusa parafrasi, che ne accettava implicitamente il segno
confessionale.
Fu una specie di umiliazione simbolica, vissuta con un certo masochismo, legata
certo al colloquio col dirigente RAI, e le cui conseguenze pratiche però non mi
erano affatto chiare: altri atti simili avrebbero dovuto seguire, ridare la tessera,
cessare la militanza, ed era un prezzo che non mi sentivo di pagare. Anzi, questo
mio cedimento incrementò appunto la mia intransigenza. In seguito, per mia fortuna,
non mi sono trovato di fronte ad altre drastiche scelte, ma non ho più mascherato le
mie idee in nessuna occasione, anche nella scuola, dove questo, nei primi anni,
costava pur qualcosa.
Il distacco dal PCI avviene nel ‘64, dopo il cattivo esito delle elezioni
amministrative, che fanno perdere, per la prima e ultima volta, il comune di Perugia
alla sinistra. Avevo già lasciato il mio funzionariato part time, partecipando in modo
non troppo convinto a una campagna elettorale che lo stesso partito condusse con
grande faciloneria, sicuro che l’adesione del PSI al centro sinistra sarebbe stata
rifiutata dalla sua base; “stavolta li smezziamo” era la frase ricorrente tra i
compagni, mentre invece i voti socialisti aumentarono. Valutando il centro sinistra
in modo più negativo di quanto non facesse lo stesso PCI, la cosa sorprese anche
me.
Ma non sento il distacco come un evento importante. Non avendo mai avuto la
religione del partito fuori del quale non esiste nulla, vivo la cosa come un semplice
passaggio: non avevo trovato nel PCI quel che speravo, e andavo a cercarlo da
qualche altra parte.
Oggi giudico quel passaggio come una svolta nella mia vita politica, ma, prima di
ripercorrere la mia avventura estremista, sento il bisogno di fermarmi a riflettere, a
cercar di capire le cause profonde dell’assurdo rovesciamento della speranza in
orrore, che l’ ‘89 ha di colpo messo sotto gli occhi di tutti.
CERCAR DI CAPIRE
Cercar di capire. Ho cominciato a farlo subito dopo il crollo, e dunque, dopo aver
raccontato come si è radicata in me la Nube purpurea, è a quel momento che debbo
tornare, saltando per ora gli anni della sbronza estremista e del rientro nel partito.
Effetti del crollo
Nell’ ‘89 avevo da un pezzo cessato di riporre la speranza del futuro nel mondo
socialista, e il crollo fu quindi per me meno traumatico che per altri, ma non certo
indolore.
Nelle note di quel periodo trovo sgomento per le sue dimensioni e la sua rapidità:
avevamo dunque avuto anche troppa ragione! Cassandra non è mai stato un mestiere
allegro. Forse per questo, al momento, rimuovo le conseguenze ultime dell’evento,
il suo carattere di sconfitta storica; nell’immediato a preoccuparmi sono soprattutto
le conseguenze del crollo sul PCI.
Infatti, in una nota dell’autunno ‘89, scrivo che il crollo pesa come un macigno sulla
crisi del PCI, e non, come sanzionano i politologi, come permanenza del fattore K,
ma come crisi d’identità e conseguente incapacità di iniziativa politica.
Comincio a cercare, sia pure frastornato, a tentoni, le cause del crollo, e in una nota
successiva osservo che la denuncia dei crimini di Stalin era cominciata presto, e che
dunque, volendo, si poteva sapere tutto dall’inizio, ma lo impediva la ragione di
fondo dell’adesione al comunismo, la speranza millenaria divenuta finalmente
realtà; una realtà lontana, mitica, come lontano è il Paradiso: una realtà in pericolo,
da difendere quindi ad ogni costo.
Cerco anche di reagire in qualche modo al furore liquidatorio dell’avversario,
scrivendo che sarebbe urgente tornare a riveder le bucce del primo Dio che ha
fallito, la Chiesa: l’Inquisizione, gli Albigesi... Aggiungevo: sono fortunati, è
passato troppo tempo. Poi Woityla ha domandato perdono, ed è stata una grande
lezione etica, ma San Domenico, ritratto da Burruguete in un quadro che si trova al
Prado mentre, molto cristianamente, presiede il rogo di due eretici, proprio ad Albi,
continua ad essere uno dei più grandi santi della chiesa (e bruciare eretici è la
perfetta corrispondenza dei processi staliniani)..
Così trovo briciole di conforto (!) nei suicidi, durante il crollo, di alcuni dirigenti del
‘socialismo realizzato’, rilevando che mai nella storia si era visto un gruppo
dirigente al potere, e senza che niente nell’immediato minacciasse questo potere
dall’esterno, rifiutare, con la sola eccezione della Cina, la via della stretta
repressiva, della difesa feroce. La sola spiegazione possibile è che l’obiettivo fosse
un altro, che non volessero costruire l’assurdo edificio che li coinvolgeva nel suo
crollo: che insomma, nel profondo, credessero ancora in qualcos’altro.
Molte storture del socialismo reale erano già note, ma, durante il crollo, ne siamo
sommersi: è il rigurgito di una fogna scoperchiata che torna a farmi indignare; per
esempio i privilegi -dacie, negozi ecc.- della nomenklatura. Annoto: preti, la Chiesa
ricca nella massa di poveri.
E i 2000 comunisti tedeschi rifugiati in Urss e consegnati a Hitler dopo il patto
Ribentropp – Stalin. E’ per me, forse, il massimo dell’orrore: non posso impedirmi
l’empatia, sentire la loro angosciosa delusione, più grave, credo, della terribile sorte
che li attendeva.
Nelle note di allora trovo anche scatti d’insofferenza per delle risibili, altrettanto
pretesche interpretazioni del crollo, come un articolo di Bettelheim che spiega tutto
col fatto che in URSS non c’era il socialismo ma il capitalismo, riproponendo le
vecchie etichette tranquillizzanti: erano posseduti dal demone capitalista, ecco
perché! Tutto si spiega.
Infatti il mito, nato dalla millenaria speranza di riscatto, malgrado tutto, è ancora
forte; annoto l’istintiva diffidenza per l’articolo in cui Gunter Grass racconta
entusiasta la sua visita nel Nicaragua sandinista: pochi giorni, sempre insieme a
ministri, e già in partenza volendo vedere solo quel che conferma i propri desideri,
le antiche immagini mitiche.
Il mito è spontaneo, ma è stato anche lucidamente costruito con mezzi artificiali;
sempre nell’ ’89, annoto il racconto di un amico cileno: il grande Ivens viene in Cile
per un documentario su Unidad Popular: deve riprendere l’ambiente del porto di
Valparaiso, le puttane di lì non gli vanno bene e impiega delle attrici! In questo caso
si è trattato probabilmente di una scelta estetizzante per rendere più efficaci i segni
forzando le regole del documentario. Invece per l' esaltazione della Cina post
Rivoluzione culturale fatta dallo stesso Ivens in Come Yukong spostò le montagne,
trasmesso negli anni ‘70 dalla RAI e rivelatasi, alla luce di quel che si è saputo
dopo, totalmente falsa, ha giocato, penso, l'atteggiamento di Grass; i filmati sono
pieni di situazioni idilliche, da kolkos del realismo socialista, e questo non credo
possa essere imputato a Ivens, ma ai cinesi che hanno costruito situazioni da fiction,
da lui bevute senza dubbi per il suo whishful thinking..
Dubbio di oggi: Ivens avrà costruito nello stesso modo anche il documentario sulla
Spagna che mi ha tanto emozionato a crollo già avvenuto? Anche in me dunque,
come in Grass e Ivens, agiva la stessa molla profonda: bisogno di credere.
Bisogno di credere. La speranza millenaria spietatamente delusa: una grande
tragedia storica.
Provo dunque irritazione per chi fa dell’ironia su questo; come Ajello, che, parlando
della delusione di Gide per l’URSS, si chiede come avesse fatto uno come lui a
infatuarsene. Annoto che non era solo Gide, e che bisognerebbe dunque cercarne la
ragione seriamente, non scuotendo il capo con compatimento.
Intanto una prima risposta seria la dà Hobsbawm in un'intervista:
Emergevano in occidente tendenze irrazionalistiche, dal rogo dei libri sulle piazze,
all’irrisione dei valori del progresso. Invece in URSS la fiducia di Condorcet nel
progresso, la voce della ragione illuministica, sembravano parlare per bocca di Stalin.
La crisi del capitalismo oltre che politica, morale e intellettuale fu anche economica,
mentre in URSS il piano quinquennale sembrava aver promosso un balzo in avanti.
Già: 'sembrava', questo è il nodo.
Le note dell’ ‘88 ‘89 dànno solo -e non poteva essere diversamente- frammenti di
riflessione condizionati dai violenti sentimenti del momento. Ma è allora che nasce
il bisogno di capire più a fondo per quale diabolico meccanismo la speranza
millenaria abbia potuto rovesciarsi nel suo mostruoso contrario.
L'equivalenza comunismo - nazismo
Il crollo dei paesi ‘socialisti’ è stata una grande tragedia storica. Ho un bel mettere
le virgolette per significare che quei paesi socialisti non erano, o chiamarli
socialismo ‘realizzato’ o ‘reale’, affermare che erano addirittura il contrario del
socialismo: per tutti, amici e nemici, quel crollo ha significato il crollo del
socialismo senza aggettivi.
Recentemente i più oltranzisti dei “vincitori”, poggiando sulla contabilità dei morti e
dell’orrore, hanno lanciato la tesi di un’equivalenza tra il nazismo e non solo lo
stalinismo, ma il comunismo, ovunque instaurato. E' una tesi inaccettabile,
infondata: l’Olocausto è stato un orrore lucidamente perseguito, volevano fare
proprio quello che hanno fatto; Himmler scrive:
Che i popoli vivano nella prosperità o crepino di fame m’interessa solo in quanto noi
abbiamo bisogno di loro come schiavi per la nostra Kultur. Se 10 000 donne russe nello
scavare una trincea anticarro cadono sfinite, m’interessa solo in quanto quella trincea
venga portata a termine per la Germania.
E nel “Discorso di Posen” esprime la sua riconoscenza alle SS per lo sterminio degli
ebrei affermando: Questa è una pagina gloriosa della nostra storia.
Al contrario, un minimo di onestà intellettuale deve riconoscere che gli orrori
seguiti all’Ottobre non erano in programma. Anzi, l’obiettivo era l’utopia della
liberazione dell’uomo: sotto le mura del Cremlino i bolscevici avevano eretto una
statua a Thomas More; Primo Levi, testimone insospettabile, scrive che è
impensabile un nazismo senza camere a gas, si può pensare un comunismo senza i
campi. Lo stesso alfiere del revisionismo, Nolte, ha dovuto alla fine ammettere
l'improponibilità dell'equiparazione tra nazismo e comunismo.
Il nazismo ha fatto subito fuggire dalla Germania la maggior parte degli artisti e
degli intellettuali, l’Ottobre ha dato vita a una delle più straordinarie fioriture
artistiche del ‘900: dalla poesia di Majakovskj al cinema di Eisenstein e Pudovkin,
al teatro di Mejerhold e Vachtangov. Anche per tutto il periodo stalinista, l'URSS ha
continuato ad avere una grande cultura: scrittori come Pasternak, Bulgakov,
Platonov, Achmatova, Zoscenko e tanti altri; musicisti come Prokofiev e
Shostakovich, unanimemente considerati tra i più grandi del '900, con una
straordinaria schiera d'interpreti, solisti e orchestre; un grande cinema, un grande
teatro. Certo, molti di questi artisti hanno avuto con il regime vita difficile -a volte
tragica, come Meyerhold-, ma sono rimasti in URSS continuando ad esprimerne i
sentimenti profondi e le contraddizioni. Questo non costituisce certo un'attenuante
alle stragi, vuol solo precisare l'enorme differenza storica tra comunismo e nazismo.
Ancora: il nazismo è stato unanimemente condannato da tutta la cultura mondiale,
mentre la maggioranza degli artisti e intellettuali occidentali ha a lungo sostenuto
con calore l’URSS: era solo per la loro connaturata ingenuità e per la diabolica
abilità della propaganda stalinista? No, era l’adesione convinta al sogno di riscatto
millenario, di una società di liberi e uguali. Credere che questo fosse finalmente
possibile dopo secoli di ingiustizie, prepotenze, orrori, uniti a quelli tuttora presenti,
faceva convergere sull’URSS uno smisurato investimento di speranze non solo da
parte degli intellettuali, ma di immense masse di tutto il mondo, e ha reso atroce
scoprire che la realtà era il contrario del sogno. Nel bel film di Mihailkov, Sole
ingannatore, realizzato dopo il crollo dell’URSS, il momento che mi ha più,
dolorosamente, commosso non è il pur amarissimo finale, in cui l’eroe dell’Ottobre
viene arrestato e brutalmente picchiato nelle purghe staliniste del ’36, ma quando in
precedenza egli, tenendo in mano un piedino della sua bambina, le dice che ha
combattuto perché quei piedini potessero avere calze di seta e belle scarpe, proprio
quello che l’URSS non riuscirà a dare ai suoi cittadini.
Le conseguenze morali di questa terribile delusione -ignorando per ora quelle
politiche e sociali- sono solo negative: conformismo, accettazione dell’ingiustizia
come fato, impotenza e depressione di chi quest’ingiustizia sente come intollerabile.
Cercar di capire.
Cercar di capire come sia potuto avvenire questo assurdo rovesciamento diventa
dunque vitale per chi ha condiviso quel sogno, perché il crollo ha fatto nascere nel
nostro più segreto interno una domanda che abbiamo paura di formulare
esplicitamente: col crollo è finita anche la stessa speranza? Si trattava di
un’illusione che non aveva nessuna possibilità di realizzarsi? Non c’era -non c’èniente da fare?
E’ il drammatico interrogativo di tanti. Rossanda, subito dopo la strage di piazza
Tien An Men, lo esprime efficacemente con le sue accorate domande:
Quale maledizione, quale errore insegue una generazione come la mia, che si è voluta
comunista? Ma il nostro errore, il nostro verme, dove stava?
Ma anche un non comunista come Norberto Bobbio nel De senectute scrive che una
volta, per dei democratici come lui, di fronte all’esperienza dei paesi socialisti,
la scelta tra apologia e condanna era più difficile. Ora è più facile. Allora agitavamo tra
noi il dubbio: “e se la prova riuscisse?” Ora la risposta è meno incerta: “la prova non è
riuscita” Ma non è riuscita perché il disegno era perverso o perché era troppo ambizioso?
Il fallimento deve essere spiegato come la giusta sconfitta di un immane crimine, o come
l’”utopia capovolta”? Delle due risposte la più tragica di fronte alle grandi sfide della
storia è certamente la seconda.
Cercar di capire.
Alcune risposte alle domande di Bobbio le ho trovate in un piccolo libro. La
parabola del comunismo di Massimo Salvadori, che si dà un compito
apparentemente modesto, addirittura banale, ma assolutamente indispensabile e del
tutto trascurato oggi, tra le condanne totali dei vincitori e le rimozioni dei vinti:
mettere in fila le tappe che hanno segnato lo sviluppo dell’idea comunista, cercando
d’individuarvi le contraddizioni chiave, che hanno innescato le aporie sfociate nel
crollo. Lo stesso ricordare fatti ed elementi, troppo presto dimenticati, è spesso
illuminante, una base di partenza necessaria -almeno per me-.
Marx ritiene possibile la rivoluzione solo al termine dello sviluppo capitalistico, quando
concentrazione della produzione e crescita della ricchezza porranno le basi indispensabili
per il passaggio al comunismo.
Le cose sono andate in modo opposto: la rivoluzione ha vinto nel paese capitalisticamente
più arretrato, ed è questa la contraddizione decisiva per il suo successivo, aberrante
sviluppo.
Il paradosso deriva da una previsione del tutto errata:
la scomparsa, nel capitalismo maturo, dei ceti medi, con lo scontro tra una minoranza di
capitalisti e una maggioranza di proletari.
Nell’esperienza sovietica esplodono subito le contraddizioni che portano allo stalinismo: la
rivoluzione guidata da una élite, il Partito, la dittatura del proletariato, cioè il rifiuto della
democrazia, e infine la spirale della violenza.
Un evento esemplare: nelle elezioni del 1918 i bolscevichi sono minoranza (175 seggi su
707) nel paese ma maggioranza nelle zone operaie; sciolgono dunque con la forza
l’Assemblea sostenendo che la parte più avanzata non poteva piegarsi al voto della
maggioranza arretrata, e che il consenso della maggioranza sarebbe venuto dopo i primi
benefici del nuovo potere.
Ma la dittatura del proletariato, per la teoria della élite rivoluzionaria, non può che divenire
dittatura del partito, e, in perversa spirale, dittatura dei vertici del partito.
Per quel che riguarda la violenza, Lenin distingue all’inizio tra violenza politica, contro le
istituzioni borghesi, da attuare, e violenza fisica, contro le persone, da rifiutare, ma durante
la guerra civile, Trotzki in Terrorismo e comunismo pone il Terrore come modello classico
per ogni rivoluzione.
Senza con questo voler giustificare neanche una vita cancellata, si deve rilevare che,
come nel '93 a Parigi -cui si richiamava esplicitamente la proclamazione del Terrore
rosso il 2 ottobre 1918 dopo l'inizio degli interventi stranieri-, ancora una volta a
dare avvio al terrore è la reazione violenta, internazionale, delle classi privilegiate:
l’URSS “fortezza assediata” era l’alibi dello stalinismo, ma era anche una realtà.
Stalin, nel 1936, annuncia per la prima volta che l’URSS ha realizzato il socialismo.
E’ una nuova contraddizione che si rivelerà decisiva per il crollo: la menzogna, lo
scarto crescente tra questo trionfalismo e lo squallore della realtà porterà a quella
che Havel chiama la sindrome del Re Nudo, alla perdita completa del consenso.
In Cina il maoismo opera un ancor più radicale stravolgimento del marxismo ponendo come
soggetto rivoluzionario i contadini poveri; cosa che, automaticamente, accresce ancora il
ruolo del partito e fa del soggettivismo -“la fede muove le montagne”- la guida dell’azione
politica.
E’ incredibile come il maoismo occidentale non abbia mai rilevato questo dato
macroscopico, che rendeva un vero e proprio non sense -e una feroce presa in girol’insulto ‘revisionista’ distribuito a piene mani dai cinesi.
Salvadori illustra infine le contraddizioni dei partiti comunisti occidentali:
Per i partiti comunisti dell’occidente, decisivo è il fallimento di tutti i tentativi rivoluzionari
seguiti al conflitto ‘15 - ‘18 -fondati sull’errata previsione che la guerra avrebbe causato il
crollo definitivo del capitalismo-, e che provocarono invece il sorgere di alcuni stati
autoritari.
La crisi del ‘29 produce ancora una volta la fiducia nel crollo imminente del capitalismo; per
questo le socialdemocrazie, che ritardano quel crollo, sono individuate come i principali
nemici, e nasce la perniciosa teoria del ‘socialfascismo’, una delle principali cause della
vittoria di Hitler.
Il fallimento della rivoluzione in occidente fa puntare tutto sul rafforzamento dell’URSS,
divenuta la ‘patria dei lavoratori di tutto il mondo’, nella fiducia che la rivoluzione verrà dal
confronto tra i successi sovietici e la crisi capitalista.
La sopravvivenza dell’URSS diviene dunque l’unica preoccupazione dei partiti
comunisti occidentali, imponendo una serie di svolte e controsvolte indecorose,
anche queste troppo presto dimenticate: dal 'socialfascismo' ai fronti popolari, dalla
denuncia dell'imperialismo anglofrancese come responsabile della guerra , ai partiti
comunisti perno della resistenza al nazismo dopo l'attacco all'URSS.
Nelle conclusioni di Salvadori è importante il passo in cui afferma che
l’utopia concepita all’inizio dell’età moderna dall’idealista Tommaso Moro e portata allo
snaturamento e al fallimento dal totalitarismo di Stalin e dei suoi eredi è caduta
lasciando però vivere le ragioni che l’avevano fatta nascere.
La sottolineatura è mia. Infatti è quel che sento con forza anch’io.
Autocritica di Morin
La mostruosità degli esiti continua a riproporre la domanda: come è stato possibile
un simile autoaccecamento, non solo delle grandi masse ma in tanti intellettuali di
grande prestigio? Eppure almeno dagli anni ‘30 era possibile conoscere gran parte
dell’orrore reale del mito sovietico.
Finora ci si è limitati a facili, supponenti ironie come quella di Ajello; unica
testimonianza seria, a mia conoscenza, è quella di Morin in Autocritica.
E’ un documento drammatico, di spietata sincerità, che dà la risposta più chiara alla
precedente domanda, perché Morin analizza lucidamente su se stesso tutte le molle,
le paure, i complessi che chiudevano l’intellettuale comunista in una gabbia di ferro,
costringendolo ad angosciose acrobazie per giustificare le atrocità staliniane. E’ un
peccato che il libro, pubblicato da una casa editrice minore con una infelice
traduzione, abbia avuto in Italia poco rilievo.
Credo opportuno quindi riportarne ampi passi testuali, a volte appena “aggiustati”.
Lo stato di guerra
Lo stalinismo era la risposta comunista all’accerchiamento capitalista.
La lotta delle classi su scala mondiale: ecco perché il volto dell’URSS è guerriero, statale,
burocratico. Lo Stato, la burocrazia, la polizia, i campi di concentramento sono i prodotti
di una determinata lotta. E’ la vittoria del socialismo che permetterà di liquidare queste
sovrastrutture soffocanti.
Così tutto ciò che ci ripugnava dello stalinismo veniva trasferito sul capitalismo mondiale.
Non si possono denunciare i campi staliniani, si nuocerebbe all’URSS, quindi alla causa:
‘non fare il gioco dell’avversario’, ‘non cadere nella trappola, nella provocazione’...
Il permanere delle ingiustizie del capitalismo
Alle accuse si reagiva con un ping pong: i campi russi? Parliamo piuttosto di
colonialismo, di razzismo! E alla fine l’unica risposta diveniva: farabutti!
Per scusare le eliminazioni del NKVD si faceva la contabilità dei morti. Del colonialismo,
delle guerre imperialiste ecc.: ‘E allora voi...’
Il senso di colpa degli intellettuali
Nell’adesione degli intellettuali al comunismo c’è sempre stata una sorta di autosacrificio
non era forse la mia vanità intellettuale che mi faceva arricciare il naso davanti a compiti
meschini? (A proposito di un libro che il partito gli ha imposto di scrivere)
Siamo stati tutti spinti verso il partito dal desiderio di sfuggire a una certa forma di
colpevolezza: essere un privilegiato in confronto alle masse, un buono a nulla in confronto
ai militanti. ‘Noi siamo borghesi, siamo dei porci’, il leit motiv sartriano spiega ed
esprime questo senso di colpa.
Praga 1948: la rivoluzione avrebbe potuto evitare d’imbavagliare l’intellighenzia. Ma
che? Si trattava soltanto dell’intellighenzia, vale a dire di noi.
Sì, avrei continuato a volere che si instaurasse in Francia questo regime che in definitiva
significava il mio assassinio. Poiché significava soprattutto il trionfo della classe operaia.
Il nostro sacrificio avrebbe fatto soffiare il vento sulla flotta d’Aulide...
Come devoti credevamo di doverci proteggere da noi stessi: la salvezza era nel Partito del
Proletariato.
Cercavo la salvezza del mio essere particolare, l’integrazione in seno alla totalità. Essere
nel Partito significava la reintegrazione nella prassi, la riconciliazione con se stessi e con
il mondo. Fuori del Partito non c’è salvezza, meglio sbagliare col Partito che aver ragione
da soli.
Quando i rapporti col Partito si fanno critici, emerge la paura che uscire significhi
rinunciare a trasformare il mondo, rinunciare alla parte migliore di se stessi; la
repellenza per l’anticomunismo di quelli già esclusi, la paura di divenire come loro. E
soprattutto la paura di perdere il grande calore dei compagni.
Il fondamento di ogni adesione al partito è l’identificazione mistica con il proletariato:
identificazione con i milioni di lavoratori francesi, con i 170 milioni di sovietici e, dopo il
1950, con 400 milioni di cinesi.
Il mito dell’efficienza
Bisognava smettere di essere romantici. L’efficienza! La legge implacabile dell’efficienza!
I sacrifici necessari all’efficienza.
Si doveva screditare ogni morale autonoma come sentimentalismo, soggettivismo, paura
del reale. Era il dover-essere disprezzato da Hegel, una protesta impotente. La morale era
dunque l’efficienza.
Adattarsi al reale. La paura dell’impotenza: l’impotenza del trotzkismo, l’impotenza delle
anime belle - e la mia stessa impotenza a modificare in qualsiasi maniera il cammino delle
cose.
Ingoiammo tutto, Rajk, i processi ecc. pur di non ricadere nel nichilismo
La grande Religione Politica
La sinistra ci guardava come martiri cristiani del XX secolo
Il comunismo era l’erede di tutti gli oppressi che gemevano nei bassifondi dei secoli fin
dall’inizio della storia.
Il comunismo aveva secreto una nuova religione che captava le speranze più virulente
dell’umanità. Molti subirono per un certo tempo e alcuni in modo duraturo il fascino
cattolico ed ecumenico della Grande Religione Politica.
Che fantastica avventura! Avevamo dei fratelli in tutte le città, guardavamo con orgoglio
le fabbriche, davamo la caccia al male, eravamo a cavallo della storia, scalavamo i secoli.
Fantastico! Per quanto in un certo senso fossimo più lucidi di quelli che credono nella vita
eterna, eravamo al tempo stesso più ciechi di loro, poiché la nostra fede era sulla terra e
noi non cercavamo di verificare la terra.
Che storia fantastica! Nel cuore del XX secolo noi abbiamo vissuto in pochi decenni
l’equivalente irsuto di 1500 anni di cristianesimo, il comunismo delle catacombe, il
comunismo teologico e medioevale, i roghi di Torquemada, le eresie e la Controriforma.
La chiesa e le sue conseguenze
Così si sviluppò nell’intellighenzia un polo di cinismo e un polo di religione. Uno
apologetico e aderente senza riserve alla linea del partito. L’altro sacrilego, che si
burlava di Stalin.
Come si sa è in seno alle chiese che si risveglia il peggior fermento della natura umana:
l’ipocrisia; l’apostolato diviene una carriera.
Tuttavia ciò che aveva trascinato questi intellettuali nel partito comunista era il meglio di
loro stessi, il meglio di noi tutti, il meglio dell’uomo, certo cieco, incerto, fragile, ma era il
‘bon mouvement’, quello che vuole cambiare la vita.
Una vera e propria atrofia mentale che ci rese indifferenti alla persecuzione algerina -il
PCF tacque sul massacro di Setif- che ci fece accettare Hiroshima e Nagasaki, al solito
come ‘prezzo’.
La logica mistico-religiosa trovava uno dei suoi brodi di coltura nell’ignoranza politica.
Già da lungo tempo si era cessato di analizzare i problemi economici, sociali, politici.
Niente sul Terzo Mondo: ignoranza assoluta dei problemi francesi.
(Una serie di ‘perle’: l’impossibilità per un artista anticomunista di avere talento; Lysenko e
la ‘biologia reazionaria’; Nouvel observateur giornale dell’Intelligence service...)
L’espulsione
Nella riunione che decreta la mia espulsione una compagna dichiara che non bisogna mai
frequentare un espulso e neanche rivolgergli la parola.
Avevo perduto per sempre la comunione, la fraternità. Ero escluso da tutto, da tutti, dalla
vita, dal calore, dal partito. Mi misi a singhiozzare.
Mi avevano strappato dal partito che concentrava in se stesso la potestà paterna e
materna, ed ero divenuto orfano. Il partito era la comunione cosmica, l’amore
dell’umanità...
La ricerca di una nuova chiesa
La Cina aveva sostituito l’URSS nei miei entusiasmi. Essa doveva avere in seguito un
ruolo sempre più importante per coloro che, disperando dello stalinismo, avrebbero
cercato la nuova Mecca.
Dopo aver perso la fede nella classe operaia dell’Occidente credetti di salvare in extremis
la fiaccola di Prometeo riversando sui popoli coloniali la missione rivoluzionaria del
proletariato.
Le conclusioni e le prospettive
Non si teme tanto di negare un’idea (che né il proletariato né i popoli coloniali potevano
realizzare il compito messianico stabilito dal marxismo). Si teme il ‘dunque’ che
oltrepassa il parapetto. E ciò che temevo era il ‘dunque non sei più un rivoluzionario’. E
anche, e soprattutto, il ‘dunque’ che segna la fine della grande speranza.
Erano forse insensate tutte le nostre speranze deluse, era forse insensato il mondo in se
stesso? O tutto ciò era ineluttabile?
Bisognava scacciare i sogni che avevo rubato alle religioni. Bisognava scacciare le loro
illusioni, ma io per vivere avevo bisogno della loro linfa.
Sono cose divenute “mie”: c’è una sintonia perfetta con la stessa idea guida di Che
tempi sono questi, addirittura una coincidenza quasi letterale con alcune note,
scritte peraltro prima della lettura di Autocritica.
Cosa ho capito?
Allora, cosa ho capito? Quali erano le cause nascoste del rovesciamento, le tare
segrete che hanno portato al crollo? Posso fare un bilancio del mio “cercar di
capire”?
Una catena. Una spirale perversa.
All’inizio c’è l’ossessione dell’efficacia a causa dell’incubo delle tante rivolte
sempre fallite in migliaia d’anni, la paura dell’impotenza.
I padroni dominano anche le coscienze: da questa constatazione nasce l’esigenza del
partito avanguardia, del partito arma, che, se vuol finalmente vincere dopo tante
sconfitte la durissima lotta, ha bisogno di un’assoluta compattezza, non può
concedersi il lusso della democrazia interna, della discussione, cose da anime belle,
che compromettono l’efficacia.
Da qui, per salvare poi la vittoria, la dittatura del proletariato, la repressione,
l’imposizione del consenso, rimandando l’adesione spontanea ai primi successi del
socialismo. Da qui, prima la necessità, poi la teorizzazione della violenza.
E il partito, per garantire la compattezza, l’efficacia, chiede la fede del militante che d’altronde ne ha bisogno-, crea quindi un’ideologia dogma, trasformandosi in
chiesa, con le sue inquisizioni, i suoi preti, presto privilegiati...
Sì, forse così si è sviluppata la spirale perversa, ma mi accorgo che averlo capito
non mi consola affatto: il mostruoso rovesciamento, lo sgomento del crollo restano
lì incombenti, inalterati, e questo vuol dire che ho capito solo razionalmente. Anzi, i
dubbi angosciosi sulla impossibilità di sconfiggere l’ingiustizia si aggravano: se la
prima molla della spirale dell’orrore è stata l’ossessione di non essere per
l’ennesima volta sconfitti...
Il PCI come chiesa e il vescovo Togliatti
Sento ora necessario verificare quanto il principale carattere negativo del
comunismo sovietico, l’essersi trasformato in chiesa non meno dogmatica e
intollerante di quella delle crociate, delle scomuniche e dei roghi, quella che s’era
meritata l’ecrasez l’infame di Voltaire, avesse toccato anche il PCI, il mio partito,
per cui più temevo infatti le conseguenze del crollo.
Non si è macchiato di delitti -i maligni dicono perché non è andato al potere-, ma la
chiusura, il dogmatismo e l’intolleranza erano simili. Sì, anche il PCI era una
chiesa; è una vecchia accusa, allora respinta con indignazione, che oggi possiamo
affrontare serenamente: il PCI era una chiesa, o meglio una diocesi, e Togliatti era il
suo vescovo.
In una nota dell’ ‘88 commento le registrazioni delle Tribune politiche con Togliatti
rimandate in onda dalla RAI. Lo trovo curiale, un vescovo in partibus: la pacatezza
ostentata, imposta dalla situazione, non riesce a nascondere l’interna durezza, che,
in altre situazioni... Rilevo alcune grosse contraddizioni, come quando insiste che il
PCI non ha niente a che fare con l’URSS e poi si lancia con orgoglio (e qui il
paragone col vescovo è perfetto) a dire “noi governiamo un terzo del mondo”,
insistendo a lungo su quel “noi”.
Nell’autunno ‘89, c’è una serie di attacchi a Togliatti sulla stampa. Rilevo che, pur
se strumentali ed enfatizzati, hanno sostanzialmente ragione: l’avallo pieno,
incondizionato all'URSS di Stalin è incontestabile, con in più la responsabilità di
aver anche accettato la liquidazione di compagni italiani ‘scomodi’, emigrati in
URSS.
Le giustificazioni di tanti compagni -“non poteva fare altro”, “erano altri tempi”sono inconsistenti, stanchi colpi di coda dell’antico vizio giustificazionista: a questo
livello doveva scattare il rifiuto etico.
Ma dove si può cogliere in pieno il carattere clericale di Togliatti è nei Corsivi di
Roderigo, da lui scritti per Rinascita dal ‘44 alla morte.
I corsivi di Roderigo
Per ‘corsivo’ s’intende un pezzo polemico, e apparentemente quelli di Roderigo
sono tali, di un tono, anzi, particolarmente violento. Ma è proprio questa violenza la
spia che me ne ha fatto capire la vera natura.
Contro Croce: Recensire questo scrittarello è cosa alquanto penosa... asserzioni esposte
con molta boria che inducono al sorriso chiunque abbia una conoscenza qualsiasi...
Povero Benedetto Croce... si vorrebbe passar oltre scuotendo le spalle... Quanti altri
autori di filosofia invecchiati non hanno dato prova di aver perduto il senno? ...è cosa
che dà nel comico... trascinato da invidia e dispetto accecanti.
Su Orwell: 1984 è una buffonata informe e noiosa... uno strumento di lotta di uno spione
Su Silone: ...doppio gioco per assicurarsi i posti di dirigente...
Sugli autori de Il Dio che è fallito: ...sei falliti... Un abisso di corruzione e degenerazione...
(e si trattava di gente come Silone, Spender, Wright, Gide!)
Sono insulti pesanti, dallo stupido rincoglionito all’infame degenerato; è lo sforzo
insistito di bollare, marchiare, perfetto equivalente moderno della scomunica. Non è
una polemica rivolta all’avversario, non c’è il minimo sforzo di fornire argomenti
che possano mettere in crisi quelli contrari, e, almeno tendenzialmente, convincere.
Sono giudizi a uso interno, servono a tagliare in partenza ogni possibile dubbio dei
fedeli, dicendo in pratica: non vale la pena di leggere quella roba, me ne son preso
io il nauseante incarico.
La stessa tecnica usata per le persone è impiegata per le loro opere; lo abbiamo
visto: 1984 è una buffonata informe e noiosa… asserzioni esposte con molta boria
che inducono al sorriso… E’ la liquidazione preventiva degli argomenti
dell’avversario, spesso attribuita a una pretesa, ormai scontata unanimità di giudizio
storico; così si può fare a meno di criticarli con precisione -il che imporrebbe anche
di esporli, cosa pericolosa per i fedeli-.
Su Croce:
...sofismi e luoghi comuni di cui e la realtà e la storia già si sono incaricate di fare piazza
pulita
Su Il Dio che è fallito:
...madornali sciocchezze che non possono aver presa se non su un pubblico di pecore
idiote... i temi dell’anticomunismo si ritrovano ciascuno in questi scritti tutti, sempre
eguali, triti, ritriti, sino alla nausea. ...Biascican tutti le stesse frasi, rimastican tutti lo
stesso pasto stantio...
E’ il caso di ricordare che quelle “madornali sciocchezze” erano nient’altro che la
verità, e che Togliatti lo sapeva?
Eliminato così in partenza ogni possibile dubbio, si possono cantare tranquillamente
le lodi di Dio: un’apologia dell’URSS così priva di misura, pudore che, a rileggerla
oggi, non si sa se ridere o piangere:
Assurdo sarebbe in un racconto di giovani sovietici voler trovare i vizi dell’”eroe” di
certo romanzo nostrano, perché essi sono fuori della vita reale di una umanità che nella
lotta per costruire un mondo nuovo si rinnova.
Irride Silone perché tra i motivi del suo distacco pone il fatto che:
i sindacati dell’Unione Sovietica non organizzano scioperi, che non esiste in Unione
Sovietica un Parlamento, come quelli borghesi, dove i deputati lottino contro il governo...
La risposta è implicita: perché lì i lavoratori non hanno bisogno di scioperare e
perché lì non c’è bisogno di opposizione; sono queste infatti quelle che definisce
madornali sciocchezze per un pubblico di pecore idiote, aggiungendo che basta un
minimo di educazione politica o di istinto di classe per passar oltre scuotendo le
spalle. E’ un ricatto in piena regola: militante, se non sei una pecora idiota, se hai
un minimo di educazione politica e di istinto di classe, devi passar oltre scuotendo
le spalle.
Decisiva è stata ed è la trasformazione dell’uomo. Quel dirigente la organizzazione della
produzione, dello Stato, del partito, che ti accoglie alla frontiera, nella sede cittadina, nel
reparto di fabbrica, nella redazione, nella clinica, nella scuola, sui campi, che anche se
vecchio d’anni è giovanile, sicuro di sé, sereno, pieno di slancio, padrone del suo lavoro
sino all’ultimo particolare locale e sino alla notazione esatta del posto che quel
particolare ha nel quadro della vita nazionale, attento ai bisogni e all’animo degli uomini
che lo circondano, spronato da uno spirito critico sempre sveglio e persino esasperato,
disinteressato personalmente ma non privo di vita personale libera e molteplice, -questo è
un uomo nuovo ed è la vera e sostanziale conquista del regime comunista.
A parte le amare risate provocate da questo santino vedendo cosa si è rivelato essere
l’uomo nuovo sovietico appena finita l’URSS, c’è da rilevare l’abilità nel descrivere
con precisione proprio l’immagine che voleva dare di sé il funzionario preposto
all’accoglienza dei “pellegrini politici”, che poi trovavano in Roderigo le loro
impressioni elevate a teoria.
La fedeltà all’URSS è assoluta, acritica; non è solo un obbligo imposto dalla
divisione del mondo, ma un’adesione piena, entusiasta. Prendo a caso un numero di
Rinascita, quello del maggio 1961, e trovo un’orgogliosa rivendicazione di Togliatti
-proprio il contrario della separazione affermata in TV-, rispondendo a delle critiche
di Nenni:
Non ci disturba affatto di essere giudicati, come comunisti, sulla base dell’azione
comunista nei paesi dove i partiti comunisti esercitano il potere. (...) Sono i soli paesi dove
la personalità degli uomini si può affermare in modo sempre più ampio; i soli, cioè, dove
si compie un vero processo di libertà.
Sul tema della libertà c'è in Roderigo un passo sulla maggiore sfera di libertà
personale -non semplicemente “libertà”!- dei cittadini sovietici rispetto a quelli
dell’Occidente con le acrobazie sulle:
transitorie e inevitabili limitazioni delle astratte libertà formali (...) il problema delle
garanzie giuridiche si converte nell’azione che tende a trasformare profondamente i
rapporti politici e sociali per creare le nuove condizioni di una nuova libertà per tutti gli
uomini.
Cioè: per ora niente garanzie ma domani, vedrai!, non ne avrai bisogno per essere
libero.
Come si vede, qui esce l’ineliminabile marchio di ogni chiesa, ricordato da Morin:
l’ipocrisia. Essa è clamorosa quando Togliatti rimprovera agli interlocutori di
servirsi, per l’URSS, di fonti occidentali, invitandoli ad accedere alle fonti
sovietiche, che egli sapeva benissimo come fossero confezionate (ma, a pensarci
bene, in realtà anche questo invito è a uso interno, rivolto ai fedeli).
Qui appare una differenza tra Togliatti e l’ipotetico vescovo cui lo paragono: questi
poteva credere in buona fede al paradiso che predicava, l’ipocrisia stava nel predicar
bene e razzolare male; Togliatti sapeva come andavano veramente le cose in URSS,
quindi mentiva cosciente di mentire. La ragione l’ha spiegata Morin -la logica
militare causa delle storture sovietiche, il Paradiso sicuro dopo la vittoria-, ma lo
scarto tra quel che Togliatti predica e quel che egli sa essere la realtà è troppo forte,
non riesco a capirne tutte le ragioni; forse c’è anche dell’imbonimento,
probabilmente per lo sforzo di dar la carica ai propri fedeli nel vuoto immediato di
strategia, ma lo scarto resta comunque misterioso: è il credo quia absurdum di
S.Anselmo? Lo farebbe pensare la risposta, sottovoce, sgomenta, ai dubbi di Giolitti
sulla condanna staliniana di Tito: “Guai ad avere dubbi, guai! Non è che ci si possa
chiedere se Tito abbia una qualche ragione, non può che avere tutti i torti!”. Una
fede tormentata? Lo spero.
La polemica con Massimo Mila
Debbo ricordare un clamoroso infortunio di Roderigo nella risposta al negativo
giudizio di Mila -antifascista, uomo di sinistra e indiscussa autorità musicale, critico
musicale de L'Unità- sulla Conferenza di Mosca del 1948 sui problemi della
musica, durante la quale Zdanov aveva attaccato pesantemente Prokofiev e
Shostakovich. Mila aveva giustamente sottolineato che la conferenza era stata uno
“spettacolo penoso d’incompetenza”, dove avevano esibito se stessi “mediocri
compositori privi di originalità e di successo, botoletti ringhiosi pieni d’invidia e
d’ambizione”.
La risposta di Togliatti è stupefacente; lo è in modo particolarmente penoso per me,
appassionato di musica, in particolare contemporanea, e, visto che Che tempi sono
questi è soprattutto un mio sfogo, decido di dedicarle un po' di spazio, anche se il
discorso sul vescovo Roderigo era già abbastanza chiaro.
Togliatti inizia, al solito, invitando Mila a non fidarsi delle fonti occidentali, a
procurarsi quelle sovietiche, dalle quali risulta una discussione “libera e
spregiudicata”; è un affermazione che oggi fa venire i brividi (si veda, in
Genealogia di Metter, l’allucinante racconto dell’Assemblea degli scrittori con
l’attacco “d’una rozzezza da trivio, d’una ignoranza letteraria da semianalfabeta” di
Zdanov contro Zoscenko e l’Achmatova, e, soprattutto, la descrizione delle
conseguenze sull’uditorio, letteralmente paralizzato).
Ma è solo un assaggio. Vale la pena di riportare ampiamente il passo successivo:
Ciò che nella riunione di Mosca è stato criticato, è quella particolare degenerazione della
musica che la grande maggioranza degli uomini oggi critica e respinge. (O non si è
accorto, Massimo Mila, che anche nei concerti per raffinati, in Italia si comincia a urlare
Schonberg e a fischiare Malipiero?)
Nella sua risposta Mila ha buon gioco nel cogliere Togliatti in contraddizione: le
fonti sovietiche dovrebbero secondo lui contenere altra cosa dalle fonti occidentali,
ma Roderigo non ha fatto che ripetere pari pari gli attacchi alla nuova musica
riportate da queste, quindi Mila può mantenere il giudizio di “penosa incompetenza”
offerto dalla Conferenza, e quello sull’ “ignoranza” di Zdanov, che diventa così
anche quella di Togliatti; infatti Mila informa Roderigo che, per Schonberg e
Malipiero, “è vero esattamente il contrario: in Italia si finisce di urlare Schonberg e
di fischiare Malipiero”.
E Mila non può passare sotto silenzio il punto più aberrante della risposta di
Togliatti, l’aver usato per condannare Schonberg la stessa definizione usata dai
nazisti contro di lui, per giunta ebreo, e altri artisti: arte degenerata! E pensare che
Togliatti, in apertura, aveva messo in guardia Mila:
ancora un passo e vi troverete in compagnia di Benedetto Croce, a giudicare il
marxismo coi criteri razzistici di Adolfo Hitler.
Per finire, anche il corsivo per il distacco di Vittorini appare oggi incredibile;
Togliatti, come sempre, si guarda bene dal rispondere alle critiche di Vittorini, e si
abbandona a una volgare presa in giro, dove in pratica non fa che ripetere: chi se ne
frega, tanto non valeva niente!, come risulta già dal titolo, “Vittorini se n’è ghiuto,
E soli ci ha lasciato (canzone napoletana)”, e dall’attacco:
A dire il vero, nelle nostre file pochi se ne sono accorti. Pochi si erano accorti,
egualmente, che nelle nostre file egli ci fosse ancora.
Trovo in una mia nota dell’autunno ‘89:
Assurdo il modo dissennato, forsennato con cui Togliatti-Roderigo si è alienato il
meglio dell’intellighenzja italiana, scavando un solco che non si è ancora del tutto
colmato. E che grande ricchezza sprecata proprio per la “causa”, che impoverimento
per gli stessi intellettuali! Certo la posizione di un intellettuale lucido e onesto allora
non era comoda: o accettare la stomachevole vulgata culturale di Alicata e il ruolo di
“compagno di strada”, o, non volendo assimilarsi ai peggiori nella becera sottocultura
clericale, condannarsi all’isolamento, all’impotenza.
E’la stessa contraddizione drammaticamente analizzata da Morin.
Ancora sul partito-chiesa: Mistero napoletano di Ermanno Rea
Io sono entrato nel PCI nel ‘60 e non ho quindi fatto esperienza del partito più
duramente stalinista, se non per il racconto di qualche compagno uscito nel ‘56; Pio
Baldelli, ad esempio, mi raccontava che il segretario dell’immediato dopoguerra -un
curriculum prestigioso: fabbro, anni nelle galere fasciste, Russia, guerra di Spagna
con un ruolo di primo piano nelle Brigate internazionali-, convocatolo per
rimproverargli le sue critiche “distruttive”, mise la pistola sulla scrivania dicendogli:
“ecco, se fossimo in Russia potrei spararti tranquillamente”. Non credo che Baldelli
si sia inventato l’episodio, forse lo ha un po’ colorito, ma anche senza la presenza
fisica della pistola, le sole parole sono allucinanti!
Ne trovo un’indiretta conferma nel quadro del partito napoletano fatto da Ermanno
Rea nel suo Mistero napoletano.
Il libro ricostruisce mediante colloqui, ricordi personali e documenti la vicenda,
tragicamente conclusa col suicidio, di Francesca, donna brillante, anticonformista,
collaboratrice -come lo stesso Rea- della pagina di Napoli de L’Unità, compagna di
Renzo Lapiccirella, intellettuale di spicco del PCI napoletano degli anni ‘50: una
lunga, pesante inquisizione ed emarginazione da parte dei dirigenti della
Federazione, che usarono la “diversità” della donna come un’arma contro un
compagno scomodo.
Dal libro, inevitabilmente, esce anche un quadro abbastanza completo della
militanza comunista napoletana in quegli anni, un quadro pieno di luci ed ombre,
meschinità e generosità. Per quel che riguarda il vertice del partito, le luci sono
purtroppo quasi assenti; particolarmente male ne esce il segretario federale,
Salvatore Cacciapuoti, anch’esso operaio dal prestigioso curriculum; il suo odio per
gli intellettuali è violento:
La sua ingiuria preferita è secca ma, stando all’ardore dei suoi occhi, estremamente
sferzante: “Intellettuali!”
All’ultimo posto, nella sua personale scala di valori, c’erano gli intellettuali: li
disprezzava dal profondo dell’anima...
La cosa può sorprendere, ma se pensiamo ai corsivi di Roderigo comprendiamo che
in essi Cacciapuoti trovava l’avallo, addirittura l’incoraggiamento, a una sua
pulsione personale.
A Napoli egli è protagonista dello stalinismo di quegli anni:
Parlo dello stalinismo come gestione dispotica del potere, come strumento di
polverizzazione di ogni forma di dissenso, come complotto, trama, morta gora.
Emarginazione e calunnia erano tagliole perennemente aperte innanzi alle intelligenze
meno inclini al conformismo e all’ubbidienza: non aspettavano che un piccolo passo falso
per scattare come mannaie.
Anche qui è la spirale perversa del Grande Scopo a giustificare tutto:
Il “Grande Scopo” offusca le coscienze, menoma il rispetto comunque dovuto al proprio
prossimo, autorizza ogni sospetto e sopruso.
Su questi due nodi è molto lucido il lungo sfogo di Maurizio Valenzi, allora
dirigente del PCI, poi primo sindaco di sinistra di Napoli:
La verità è che nella follia stalinista ci siamo stati tutti quanti dentro fino al collo, siamo
stati tutti nello stesso tempo vittime e persecutori, compiendo azioni e pensando cose che
non avremmo mai voluto fare né pensare. (...) non dimentichiamoci gli intrecci
internazionali, il gioco delle subordinazioni ideali e di fatto, tanti fattori che noi potevamo
accogliere o respingere, ma in blocco, senza possibili distinguo. Come mai accettammo
tutto con assoluta umiltà, spesso a occhi bendati? Non è facile capirlo, oggi. Non è facile
capire il nostro impetuoso desiderio di dire a noi stessi: non sono più un borghese. Mi fa
schifo tutto quello che è borghese, l’ipocrisia, l’egoismo, la mediocrità di una certa
condizione sociale. E poiché mi fa schifo, vado con i proletari, ci vado con la testa
cosparsa di cenere perché io ho la colpa di esser nato piccolo borghese. Allora devo fare
quello che vogliono gli operai, cioè il partito, cioè Cacciapuoti, che è stato cinque anni in
carcere e proviene proprio da quel mondo del quale io voglio entrare a far parte, il mondo
degli sfruttati. Il mio imperativo diventa così sottomettermi. (...) Mi interrogo tutte le
mattine, e sono interrogato da altri, per sapere sino a che punto ho veramente vomitato,
sino in fondo, la mia anima borghese... La principale cartina di tornasole della mia onestà
è l’obbedienza, cioè il conformismo. Devi pensare con la testa del partito, non con la tua.
E l’obbedienza avrebbe potuto arrivare al delitto; dopo il 56:
“Se qui ci fosse stato il socialismo, voi mi avreste ingiunto di ammazzarlo, il Lapiccirella.
E il guaio è che io, sciagurato, l’avrei effettivamente ammazzato”. Lo disse un operaio
davanti alla sala gremita del comitato federale: raggelò tutti. Nessuno ebbe voglia di
contraddirlo. Soprattutto, nessuno osò contraddirlo.
Ma gli intellettuali restavano nel partito. Con disperazione, come Morin. Perché?
Renzo Lapiccirella, bravissimo medico, pensa da tempo di lasciare la politica per
tornare alla professione, e si sta organizzando in tal senso. Ma dopo la sconfitta del
‘48:
...adesso ecco l’imprevedibile scoglio: che cosa avrebbe raccontato ai compagni della
sezione Mercato che stavano ancora lì a leccarsi le ferite mentre crescevano le voci di
ritorsioni e di licenziamenti, di smantellamento di intere fabbriche?
Dopo c’era sempre qualche vecchio operaio che allungava il braccio per stringergli la
mano, oppure per scuotergli i gomiti ossificati dal lavoro a tavolino e dai prolungati
digiuni, dargli un colpetto alla spalla: così, senza ragione, per il puro piacere di stabilire
un contatto fisico, per ribadire un rapporto di appartenenza.
Cosa è rimasto?
Ecco, quest’ultimo passo rende acuto il dubbio che mi ronza dentro dall’inizio di
questo capitolo: non esce forse da queste pagine una rappresentazione del PCI
totalmente negativa? Se Togliatti era un burocrate ottuso e ipocrita, se il PCI era una
chiesa, allora...
Rileggo, e debbo rispondere sì a tutti i “se”. Ma non ne segue che “allora...”. Perché
Togliatti era anche quello del comizio del ‘63, cioè il principale artefice di una vera
e propria svolta storica, che ha fatto entrare nella vita politica del paese masse fino
ad allora sempre escluse: una grande opera di educazione politica, attuata con la
costruzione di quel tessuto di amministrazioni locali, cooperative, associazioni, che
costituisce la base più solida della democrazia italiana.
E’ la stessa contraddizione avvertita da Miriam Mafai, che nel suo libro sul palazzo
di Botteghe Oscure ribadisce ancora una volta il carattere di chiesa spesso
oppressiva del PCI, ma che, alla domanda “cosa è rimasto?” riporta la risposta di un
dirigente degli anni ‘50, oggi docente universitario:
Cosa è rimasto? Una certa educazione alla dignità. Abbiamo insegnato agli italiani che
un contadino vale quanto un padrone.
E la Mafai conclude: “Non è poco”.
E c’è di più. Se il comunismo sovietico è stato persecutore, non si può dimenticare
che i comunisti di ogni paese sono stati sempre perseguitati spietatamente nei modi
più diversi, dall’uccisione e dalle torture alle discriminazioni.
Bisogna ricordare, in quest’epoca di perdita della memoria, le stragi di Nanchino,
centinaia di migliaia di comunisti uccisi, montagne di cadaveri bruciati nei forni
delle locomotive; i cinquecentomila sterminati in Indonesia nel 1965 dopo il golpe
di Suharto (e quando si parla di centinaia di migliaia vuol dire che non erano solo i
dirigenti, il “cattivo seme” da estirpare: erano popolo, povera gente, contadini!);
altre centinaia di migliaia in tutte le parti del mondo, dalla Spagna al Cile, a tutto il
centro e sud America, all’Africa, compresi i più di 100 lavoratori uccisi dalla polizia
qui in Italia. Poi la discriminazione, i licenziamenti alla FIAT, alla Terni, in tante
fabbriche, l’esclusione da certi uffici pubblici, sperimentata anche sulla mia pelle.
Cosa mi è rimasto?
E a me cosa rimane? A me, che in apertura scrivevo: “...quello che continuo a
sentire come il 'mio' partito, vivendo una situazione un po' schizofrenica per i
frequenti, a volte gravi dissensi sulle scelte politiche e per le zone grigie nella
gestione del potere locale”?
Scelgo tra i ricordi che hanno radicato in me questa appartenenza.
Il PCI, come chiesa, aveva i suoi riti, a volte omologhi a quelli cattolici. Durante il
mio funzionariato part time morì un prestigioso dirigente, vecchio antifascista, e nel
salone della Federazione fu allestita una camera ardente, dove quattro compagni
vegliavano ai quattro angoli della bara; si aveva ovviamente un avvicendamento, e a
un certo punto toccò anche a me. Allora, a conferma della contraddizione, avvenne
un fatto strano. Fino a quel momento avevo guardato quel rito con distacco e anche
con un po’ d’ironia, ma quando mi trovai in piedi, immobile, vicino alla bara, nel
silenzioso salone pieno di bandiere rosse, qualcosa cominciò gonfiarmi il petto,
un’emozione all’inizio indistinta, ma che crescendo poi d’intensità chiariva il senso
profondo della mia scelta: le mie facce, le canzoni, la lotta millenaria di cui sentivo
di star vivendo un momento strettamente legato a tutti gli altri momenti, piccoli e
grandi, e di viverlo insieme agli infiniti protagonisti di oggi, ieri e domani. La
“comunione dei fedeli”? Certo, ma il dissolversi della Nube purpurea non ha portato
via con sé quel momento, che per me resta valido, autentico ancora oggi, come la
commozione profonda, ogni volta rinnovata, vedendo le immagini dei funerali di
Togliatti e Berlinguer.
Oppure la Marcia della pace del 1981. All’inizio, a S.Maria degli Angeli, aspettando
di mettermi in coda al corteo, vedo sfilarmi davanti, a migliaia, le “mie facce”, mi
sforzo di penetrarle, fissarle una per una, sentendo concretamente la “diversità”
proclamata da Berlinguer.
Quando mi metto in marcia, noto che gli slogans sono fiacchi: c’è un compagno che
testardamente continua a rilanciarli con forza arrabbiandosi per la scarsa risposta. Io
invece lo sento come un fatto positivo: è una tranquilla passeggiata; l’anziana
popolana che cammina poco avanti a me potrebbe essere mia nonna, quella delle
osterie, che si sarebbe certo goduta questa occasione. Faccio la strada con un
compagno della sezione, uno dei tanti contadini che il partito ha trasformato in
dirigenti -è stato sindacalista, consigliere comunale-, grande cuore e umanità. Lo
sento vicino come non mai, ha solo sette otto anni più di me, ma lo vivo come il
nonno calzolaio siciliano, mi preoccupo perché è sudato e vuol sedersi perché
stanco, ma c’è un vento freddo e ha avuto da poco la bronchite… Gli cammino
accanto, e la bandiera rossa che porta appoggiata alla spalla, mossa dal vento, mi
accarezza la testa; poi la porto per un tratto anch’io per aiutarlo, un po’
vergognandomi un po’ orgoglioso.
Una vera e propria commozione scatta a volte ancora oggi in alcune occasioni; per
esempio quando ho letto pochi anni fa per la prima volta in Pratolini la rievocazione
del grande sciopero degli edili fiorentini in Metello; ma scatta anche, come un
riflesso condizionato, per qualche immagine o piccolo fatto, come, addirittura, per
la scena del funerale con banda e bandiera rossa nel film di Nichetti Luna e l’altra,
per il manifesto visto qualche anno fa sui muri di Barcellona, con la scritta
“Homenatge a les Brigades Internacionals”, o riascoltando la vecchia canzone di
Pietrangeli, dove, al bar, un avventore chiede al vicino:
Mi presta il suo giornale per un momento?
Ma sei compagno! Compagno sono anch’io.
E quello strano sguardo particolare
per cui ci si conosce senza parlare
non mi è servito mai come in questo momento
( …)
Ricordi stamattina quel momento,
moltiplica per mille e poi per cento,
è questo il mio partito.
Tu sei compagno
siamo compagni:
vedrai ce la faremo.
Dunque, nella contraddizione alla fine prevale il termine positivo, e non riesco a
spiegare chiaramente perché. Sento però con forza che il colpetto sulla spalla di
Lapiccirella da parte del vecchio compagno e le mie emozioni sopra descritte non
sono sentimentalismo, mito: è ciò che delle radici resta vivo sotto le macerie, e che
mi fa reagire al crollo.
Rossanda chiude il suo sfogo con parole che esprimono i miei sentimenti e quelli, io
credo, di tanti, con una consonanza piena, intensa:
E io ho detto che non è finito tutto. L’ho detto e ci credo. Sono soltanto, per qualche
giorno, per qualche tempo, stramazzata. Non lo resterò per molto. Lo scherno altrui mi
farà rialzare. La collera è una passione forte.
La reazione politica al crollo è stata la “svolta”, la trasformazione del PCI in PDS,
da me entusiasticamente accolta a differenza di Rossanda e Pintor. Eppure sono
ancora loro a esprimere meglio di altri il mio sentimento che tutto è crollato ma che
tutto è ancora in piedi. Come Rossanda, ancora nel suo sfogo su Tien An Men:
Ancora un tentativo perché l’uomo non sia merce dell’uomo -perché parli, si prenda in
mano, non distrugga furiosamente, infantilmente.
E Pintor, due giorni dopo:
E’ che non conosciamo, e nessuno ci sa indicare, un ideale o desiderio umano più degno
che l’aspirazione a una civiltà di liberi e eguali. Se le rivoluzioni di questo secolo, che
hanno abbattuto feudalità colonialismi e fascismi, si sono allontanate da quell’ideale fino
a ribaltarlo, non pensiamo affatto che il patrimonio di sacrificio e di lotta di milioni di
uomini animati da quei propositi possa andare disperso. E’ questo patrimonio che
chiamiamo comunismo, altri lo chiami come vuole. Se non esistesse, non sapremmo a
cos’altro ancorare la nostra dignità.
Nello stesso articolo, dopo un inaccettabile, assurdo rimpianto di Mao, Rossanda ha
un altro bellissimo passo:
Uno resta comunista da solo, che è come dire niente. Guardato dagli altri come una razza
estinta. Ma, stridendo e sfidando, in lotta più che con gli altri con la propria
inadeguatezza, può restarlo
.
Ma non posso fare a meno di pensare che forse, per Rossanda e Pintor, c’è anche ed è un’altra conseguenza del crollo- una certa vocazione a “restare comunisti da
soli”: gli orrori del partito che ha ragione anche quando sbaglia ci condannano
dunque oggi all’aver ragione da soli, e quindi all’impotenza? Perché debbo avere
tanti punti di dissenso proprio con chi sento oggi più vicino a me per passione
politica?
ALLA RICERCA DELLA NUBE PURPUREA:
LA SBANDATA ESTREMISTA
La Cina aveva sostituito l’URSS nei miei
entusiasmi. Essa doveva avere un ruolo
sempre più importante per coloro che,
disperando dello stalinismo, avrebbero
cercato la nuova Mecca.
Morin
Gli inizi
Riprendo a ricostruire la mia vicenda politica da quando, nel ‘64, finita la mia
militanza nel PCI, ero entrato nell’area dell’estremismo filocinese.
Nella ricerca delle mie personali radici della nube purpurea, ho già indicato alcune
cause di questa svolta; principale l’influenza dell’amico trotzkista, di Baldelli, della
lettura di alcuni testi, dallo stesso Trotzki ad Adorno, al surrealismo.
Ma tutto sarebbe rimasto senza conseguenze se non ci fosse stato in me un terreno
favorevole per la delusione provocatami, fin dai primi giorni di militanza, dallo
scarto tra le mie mitiche aspettative e la realtà quotidiana del partito: vi cercavo la
realizzazione della Nube Purpurea e trovavo piccole cose mediocri, che la Nube mi
impediva di vedere nella loro realtà di modesti, a volte incerti ma positivi passi sulla
famosa via democratica al socialismo. E, in verità, a parte, in modo necessariamente
saltuario, l’amico dirigente di cui ho parlato, nessuno si preoccupava di spiegarmela
questa via, anche perché ho l’impressione che quasi tutti, nell’intimo, la
considerassero solo un’ellissi necessaria per fare alla fine come la Russia, ancora
modello ossessivamente esaltato. A conferma, ricordo che con un amico socialista
eravamo tranquillamente d'accordo che la differenza tra i nostri due partiti era
arrivare al socialismo con la rivoluzione per il PCI, con le riforme per il PSI.
La Nube Purpurea, ignorata nella pratica, restava così nell’orizzonte mitico, ma io,
come altri giovani, la sentivo troppo lontana da quel che il partito ci chiedeva di
fare, anche per i dubbi crescenti che l’URSS ne fosse la realizzazione. Così,
l’analisi trotzkista che la Russia di Stalin avesse tradito la rivoluzione con una serie
di compromessi sia interni che internazionali, spiegava in modo apparentemente
convincente anche perché nel PCI trovassimo solo piccole cose mediocri.
Negli anni della deriva verso l’estremismo, nelle discussioni con Mario era
assillante la nostra ricerca di prove del tradimento della rivoluzione da parte di
Stalin e dei partiti comunisti stalinisti. Una di queste, secondo noi, era la rivoluzione
dei comunisti greci, subito dopo la cacciata dei tedeschi, schiacciata dall’esercito
inglese. Imputavamo a Stalin, fedele alla spartizione del mondo fatta a Yalta, di
avere impedito ai partigiani bulgari, iugoslavi ecc. di correre in aiuto ai comunisti
greci. Significativa l’aberrante concatenazione logica: Togliatti avrebbe dovuto fare
come il PC greco, lanciare i partigiani comunisti all’insurrezione; gli alleati
sarebbero intervenuti come in Grecia? Facile: avrebbe dovuto far la stessa cosa il
PC francese, i partigiani di Tito avrebbero aiutato quelli italiani e così via...
insomma far scoppiare la III guerra mondiale subito dopo la II! Rimuovevamo che
l’eventuale successo di questa delirante strategia avrebbe messo tutta l’Europa sotto
il regime stalinista, le cui nefandezze non cessavamo di condannare. Ma c’era una
risposta anche a questo: miracolosamente, nella grande fiammata rivoluzionaria
europea, la classe operaia avrebbe fatto piazza pulita non solo dei capitalisti, ma
anche dei burocrati staliniani (e poi, per far questo, Stalin non avrebbe dovuto
essere stalinista!: la tipica discussione da strateghi da caffé...).
Ugualmente patetica e con le stesse contraddizioni era la ricerca di dirigenti
“rivoluzionari” all’interno del PCI, con la mitizzazione di Secchia, favoleggiando
anche di complotti ai suoi danni, rimuovendo del tutto che si trattava del
rappresentante dello stalinismo più duro all’interno del PCI!
Altra preoccupazione era cercare conferme al dogma che la socialdemocrazia era
non solo un tradimento della rivoluzione, ma un’alternativa impossibile, e che
dunque la rivoluzione era l’unica strada (o, piuttosto, avevamo paura che una sua
realizzazione dimostrasse inutile e sbagliata la via rivoluzionaria). Ne registravamo
con gusto i tradimenti, come i voti a favore della prima guerra mondiale, la denuncia
di Liebknecht e della Luxemburg, ma soprattutto i fallimenti. Un unico caso ci
metteva in difficoltà, la Svezia, ma la soluzione era presto trovata: le conquiste
sociali svedesi, che non potevamo negare, erano pagate dai sindacati USA
d’accordo con la CIA, allo scopo di creare un miraggio alla classe operaia europea,
castrandola della sua forza rivoluzionaria!
Il dissenso Cina - URSS arrivò giusto in tempo per ricaricare di fascino la Nube
Purpurea quasi dissolta dallo stalinismo, e ci offrì la possibilità di trovare, nei
gruppetti estremisti che allora cominciarono a formarsi, non piccole cose mediocri,
ma il sogno di una nuova Nube, di cui si parlava e parlava nelle riunioni, un sogno
quasi reale: la Cina è vicina.
Ma per me questo è un periodo di attività politica assai ridotta: qualche riunione con
quattro o cinque trotzkisti in case private, a discutere i contradditori rapporti col
grande fratello cinese, sempre più dichiaratamente stalinista, vagheggiando la
creazione di fogli, riviste. Tento dunque di sfogare nel teatro il mio bisogno di
politica, cominciando a pormi seriamente il problema del teatro politico, e
spingendo il gruppo su questa strada. Così, da questo momento, per molti anni, la
mia vicenda politica coinciderà con quella teatrale, della quale riporterò solo gli
episodi politicamente significativi, soprattutto quelli della fase estremista.
Il teatro politico
“Sfogare nel teatro il mio bisogno di politica”. E’ un’aporia, perché il teatro politico
-in senso stretto-, in ogni tempo, è esistito solo in riferimento, e spesso in
collegamento, con un movimento politico concreto, e questo, al momento, è
inconsistente. Non a caso, quel “prima” teatrale entusiasmante da me rievocato
all’inizio nasce quando l’estremismo diventa una realtà politica, poi nel movimento
operaio. Per questo la strada intrapresa rimane a lungo velleitaria e partorisce solo
documenti.
Esemplare a questo riguardo è l’attività dei CUT -teatri universitari-: al Festival di
Zagabria del ‘63, nell'assemblea dell'UITU (Unione internazionale teatri
universitari), i teatri universitari italiani, più politicizzati di quelli stranieri, riescono
a far votare un documento, abbastanza avanzato per quei tempi, che, ponendo
esplicitamente come punto di riferimento la coesistenza pacifica, vede nel teatro
universitario uno strumento di dialogo tra popoli e sistemi politici diversi. Ma
l’unico spettacolo prodotto dai teatri universitari italiani è il nostro, le pantomime di
Frondini, che sul piano politico non vanno oltre la satira di costume.
Nel gruppo del resto solo io e Frondini siamo convinti sostenitori del teatro politico;
gli altri si dividono tra una minoranza incerta ma disponibile, una maggioranza
qualunquista e alcuni che, addirittura di destra, seguono obtorto collo per la loro
acuta intossicazione teatrale. Il lunghissimo viaggio in treno e i sette giorni a
Zagabria vedono dunque accese discussioni, che, per il momento, non modificano le
varie posizioni politiche.
Subito dopo Zagabria, portiamo le pantomime a Bratislava, nel quadro degli scambi
per il gemellaggio con Perugia: è il mio primo e unico contatto con un paese
“veramente” socialista (la Jugoslavia non la consideravamo tale).
Ci arrivo pieno di prevenzioni, ma l’accoglienza -al di fuori delle rituali occasioni
ufficiali con discorsi, brindisi, scambi di doni- è talmente calorosa e sincera che
queste scompaiono presto: poi due momenti le ridestano e le confermano.
Incontriamo attori e registi della più importante compagnia teatrale della città
scambiandoci idee ed esperienze: noi parliamo dell’impegno, del teatro politico, e
loro rispondono che lì, col socialismo realizzato, non ce n’è più bisogno. Il loro
teatro infatti è pura evasione, anche se di alto livello. Lì per lì dico: ecco la prova
dell’imborghesimento, del tradimento della rivoluzione. In realtà, ho capito dopo,
erano saturi del cattivo teatro politico del realismo socialista, da poco non più
imposto come unico teatro possibile, e il “non ce n'è bisogno” era dunque un alibi:
un teatro politico sui veri problemi del paese era impossibile, e allora non rimaneva
altro che, almeno, divertirsi.
L’altro momento in cui mi apparve la realtà del socialismo reale fu la sfilata per
l’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre: in una livida mattina d’inizio novembre,
lunghe file di gente convergevano sul centro pigramente, con l’aria di chi sta per
entrare in fabbrica, le bandiere rosse poggiate stancamente sulle spalle come
vanghe: la precettazione saltava agli occhi.
I CUT politicizzati fanno anche una critica radicale del teatro italiano, teatri stabili
in testa; è allora che ho sperimentato la prima autorepressione ideologica, a volte
con lati ridicoli, come i rovesciamenti di giudizio sul Galilei di Brecht messo in
scena da Strehler. In una lettera a Pierre della fine del ‘63 lo definisco, senza averlo
visto, un “carrozzone commerciale gastronomico”; poi lo vedo all’Eliseo di Roma,
vivendo quattro ore di indimenticabile eccitazione intellettuale, per cui nella
successiva lettera a Pierre ne parlo entusiasticamente scusandomi per il precedente
giudizio, dovuto a “informazioni non troppo attendibili”; infine, siccome i nuovi
amici compagni dei CUT disprezzano quello spettacolo come un tradimento del
messaggio brechtiano -non ho mai capito per quali ragioni, a parte il costo record
dell’allestimento, ma anche al mitico Berliner Ensemble non erano certo parchi-,
anch’io, per spirito di corpo, per non sentirmi più stupido, o, peggio, più a destra,
mi convinco che è brutto e sbagliato. Oggi ricordo il Galilei di Strehler come una
delle più importanti esperienze teatrali della mia vita.
Spinte verso un teatro politico sempre più radicale vengono in questo periodo dalla
lettura di Brecht, specie degli scritti teorici, e da Pio Baldelli, divenuto maitre a
penser dei CUT in periodici incontri a Perugia.
Ho ritrovato nelle copie di alcune lettere l'incredibile velleitarismo di questo
periodo: “buttare bombe contro il teatro italiano”, “indicando la vera alternativa
rivoluzionaria”; “nel quadro dell’operazione per far saltare in aria il teatro ufficiale,
abbiamo in programma a Perugia la I Rassegna di teatro universitario”, e una rivista
“che rappresenterà un fatto rivoluzionario nel mondo dello spettacolo italiano, vista
l’impostazione dinamitarda condivisa da tutti i membri della redazione, di cui faccio
parte”... Il contrasto tra questo linguaggio, già di per sé ridicolo, e le modeste cose
in programma, oggi mi fa ridere e vergognare insieme, visto che poi sia la rassegna
che la rivista sono rimaste nel libro dei sogni.
Ci sono CUT più politicizzati del nostro (Catania, Milano), ma hanno una minore, e
spesso nulla, attività produttiva teatrale; ci riconoscono quindi un ruolo di punta,
spingendoci a superare la semplice satira di costume delle prime pantomime e a
impegnarci in un vero teatro politico.
Nella primavera del ’64, Frondini realizza un secondo spettacolo di pantomime, E
vissero felici e contenti…, dove entra una satira sociale abbastanza forte; infatti al
Festival dei Due Mondi piace meno del primo a Menotti, ma viene comunque
considerato politicamente insufficiente dagli altri CUT. Frondini comincia subito a
provarne un altro, ma il dovere di accentuarne il contenuto politico mette in crisi la
sua creatività; ricordo con disagio quelle prove, dove Giampiero, di solito così
sicuro, procedeva a tentoni, scartando un abbozzo dietro l’altro perché banalmente
didascalico: un penoso girare a vuoto. Mi ricorda -si parva licet- il tentativo fallito
da parte del grande Henry Roth di scrivere, dopo Chiamalo sonno -capolavoro
criticato da sinistra come “borghese”-, un romanzo “proletario”. Frondini, dal punto
di vista politico, era pienamente convinto, ma lo strato profondo della sua creatività,
che attingeva a Chaplin e a Beckett, non lo era altrettanto.
Comunque io riesco a mettere in scena, all’inizio del ‘65, un Tartufo di Molière in
abiti moderni, rigorosamente brechtiano, in cui Tartufo diviene un uomo del
sottogoverno DC -e l’attore assomigliava molto a un Andreotti giovane!-. Replicato
a Roma al Teatro delle Arti, attira una grandine di critiche scandalizzate, a base di
“Molière che si rivolta nella tomba”, che mi riempono di soddisfazione.
In questo periodo scrivo degli articoli sul teatro politico per Giovane Critica, rivista
del Centro Universitario Cinematografico di Catania, che Giampiero Mughini fa
praticamente da solo, riuscendo però a coinvolgere critici di punta come Pio
Baldelli, Adelio Ferrero e altri. E’ certo una delle voci più vive e stimolanti di
quegli anni.
Il ricordo dell’amicizia con Mughini, delle lunghe, accese discussioni, della sua
figura scarna, appassionata, della sua risentita tensione morale (la candida,
imbarazzata ritrosia con cui rifiutava -fedele alla sua fidanzata siciliana- le avances
di una bellissima zingarella in una notte di festival a Porretta Terme; il pudore
orgoglioso con cui spiegava che il braccio rotto durante il Maggio francese -stava
frequentando la Sorbona- era dovuto “solo” a una caduta scappando) si scontra, con
sgomento, con l’immagine odierna del Mughini clown televisivo, cinico, volgare,
esibizionista. Cerco inutilmente di dare un senso alla radicale inconciliabilità delle
due immagini ricorrendo ad esempi letterari: Jekill e Hide, Dorian Grey...
Non credo che Giampiero leggerà mai queste righe; se lo farà, sia che reagisca con
sprezzante irrisione -come è probabile-, o ferito, spero capisca che sono dettate solo
da affetto.
Tentativi
Gli altri teatri universitari continuano a non avere in pratica nessuna attività
produttiva. Anche il discorso generale, sfumati uno dopo l’altro i castelli in aria,
entra in crisi; ricordo giorni di riunioni non stop della Segreteria nazionale dei CUT
a Milano, a Bologna, a Perugia, in casa dei vari membri, dove il problema attività
teatrale viene appena sfiorato, ma si parla molto di Lukacs e Goldmann. Poi tutto si
ferma per due anni.
Siamo dunque l’unico CUT a fare teatro, ma, girando a vuoto i progetti “politici”, la
sola attività del gruppo sono gli spettacoli che la necessità di sopravvivere -la
vecchia contraddizione tra il dire e il fare...- ci fa realizzare per il mercato: dopo
Tartufo, per due anni, in pratica faccio solo adattamenti da Boccaccio per il “Teatro
in piazza” di Perugia, e questo mi provoca inquietudine, scontentezza, che sfogo in
pagine e pagine di appunti su ambiziosi progetti di teatro politico
Ad aggravare la scontentezza, comincia a manifestarsi in me una contraddizione,
che mi ha accompagnato fino ad oggi, tra la spinta morale verso il teatro impegnato
e l’attrazione per il “parlar d’alberi”; come per Frondini, il teatro politico era per me
una scelta etico intellettuale, che implicava uno sforzo di volontà, avendo altrove le
radici della creatività spontanea: in Chaplin lui, in Joyce e Mann io, nonostante la
sbronza per Brecht. Allora chiamavo queste tendenze spontanee “gustini” -il
termine, tra moralismo e minimizzazione, è significativo- e li reprimevo duramente,
concedendomi solo lo sfogo onanistico di qualche appunto. E siccome non era certo
Calandrino -la cui realizzazione comunque mi dette momenti di colpevole piacereche poteva soddisfarli, l’inquietudine e la scontentezza si complicavano e si
accrescevano.
Nel novembre del ‘66 si ha un rilancio dei CUT, perché Dario Fo, in polemica col
ministero dello spettacolo per la grave, discriminante sottovalutazione della sua
quota di rimborsi -5 milioni-, la cede ai CUT; lo stesso Fo promuove, appunto in
novembre, un convegno dei CUT a Prato.
Nei due anni passati, la deriva verso l’ultrasinistra si è accentuata, e tutto si risolve
in un’orgia di sparate estremiste: il discorso di apertura di Jean Vilar viene
sprezzantemente irriso come vecchio e socialdemocratico, lo spettacolo di canti
popolari diretto da Fo Ci ragiono e canto, che debutta per l’occasione, viene fatto a
pezzi come zdanovista e consolatorio; non mancano momenti di vera e propria
paranoia politica, come l’almanaccare sui bassi, coperti interessi di qualche
partecipante se dice cose diverse dalle nostre -agenti segreti dei teatri stabili!-, o sul
complotto di ARCI, PCI, PSI, Comune di Prato ecc. per impedire la presentazione
di uno spettacolo di cabaret politico estremista durante il convegno.
Coi soldi di Fo, organizziamo a Perugia, nella primavera del ‘67, un seminario col
Living Theater, 15 giorni di discussioni con Beck, Malina e compagni, e di prove
aperte di Antigone, sia pure per pochi eletti. Nelle discussioni, da sinistra, piovono
dure critiche sull’ingenuo pacifismo del Living e sulla ‘cultura della droga’, che i
suoi esponenti non si stancano di esaltare in ogni seduta (in effetti sembra l’unico
discorso che li interessi davvero).
Ma gli spettacoli del Living mi dànno emozioni tra le più forti da me provate in
teatro, e allargano di colpo il mio orizzonte teatrale illuminando nuove,
imprevedibili strade.
L’incontro col Living è l’unica cosa concreta realizzata coi soldi di Dario: le
riunioni per cominciare ad attuare l’ambizioso programma comune uscito dal
convegno di Prato sono del tutto inutili, oscillando tra velleità e controversie
dottrinarie. Così, permanendo anche lo stallo del gruppo, entro di nuovo in crisi,
meditando addirittura di lasciare il teatro; risolvo la crisi riempiendo, come al solito,
pagine di appunti dai quali esce la decisione di costruire da zero un nuovo gruppo
grazie a una ‘leva attori’ politicizzata, che per il momento rimane senza
conseguenze pratiche.
Il ‘68
Arriva il ‘68, e Perugia è ormai divenuta il luogo fisso delle riunioni dei CUT; in
una delle prime si decide solennemente di autodefinirsi ‘teatro del movimento
studentesco’ col prevalente compito della controinformazione, della quale però,
come sempre, non si vede poi la minima attuazione. Credo che il nostro gruppo sia
stato l’unico a mettere almeno in cantiere qualcosa del genere, un montaggio
scenico di testi -documenti, articoli, testimonianze- sulle lotte degli studenti, che
non vede mai la luce; il gruppo di giovani che ci lavora -appartenenti al Movimento
studentesco perugino- realizza però subito dopo una lettura scenica di Lettera a una
professoressa della scuola di Barbiana di Don Milani, violenta, efficacissima
requisitoria contro il carattere di classe della scuola italiana. La lettura però, dopo
poche repliche, viene sospesa dagli stessi responsabili per le contraddizioni
scoppiate in seno alla compagnia tra gli studenti e alcuni attori del vecchio gruppo.
Al Festival internazionale di teatro universitario di Parma, nella primavera del ’68,
le reazioni del pubblico a una messinscena jugoslava del mitico Viet Rock dell’Open
Theatre è sintomatica dell’atmosfera del periodo; gli attori recitano ovviamente in
serbo croato, quindi nessuno capisce niente, ma, appena risuonano parole come
imperialismo, rivoluzione e simili, che hanno radici uguali in tutte le lingue, quando
sulla scena si sventolano bandiere rosse o si svolgono goffe azioni di repressione o
di guerriglia, la platea, come per un riflesso condizionato, esplode in un delirio di
applausi ed urla.
Nell’autunno ‘68, Dario Fo, anch’egli ormai definitivamente entrato nell’area
dell’ultrasinistra, compie un gesto clamoroso uscendo dai teatri borghesi -dove per
anni ha avuto il record degli incassi-; crea una nuova compagnia, Nuova Scena, e,
con l’ARCI, organizza un circuito alternativo in palestre, case del popolo, cinema.
E’ una sferzata per il nostro gruppo, che, dopo la mancata realizzazione del
montaggio sul movimento studentesco e il blocco di Lettera a una professoressa,
continua a girare a vuoto sul piano politico, continuando a pagare prezzi salati alla
sopravvivenza, che in pratica ne assorbe quasi tutta l’attività.
Comunque organizziamo a Perugia gli spettacoli di Fo; così, il 12 dicembre del
1969, Fo recita Mistero buffo in un cinema di periferia, per il rifiuto opposto da tutti
i teatri del centro.
E’ una serata indimenticabile. Indimenticabile lo spettacolo, un’esperienza
fulminante, che, a parte le risate -alla fine mi fanno male i muscoli dell’addome-, mi
ridà l’eccitazione intellettuale del Galilei, del Living, di quando cioè si ha la
sensazione che nella mente scatti un interruttore che fa illuminare strade nuove,
insospettate; ma indimenticabile anche la data, quella di piazza Fontana.
E’ un ricordo indelebile: vado a prendere Fo all’albergo alle sette di sera, e dalla
vicina saletta TV sentiamo arrivare la voce dello speaker del telegiornale diversa,
grave; ci affacciamo, sentiamo la notizia della strage e il commento immediato di Fo
è: sono stati i fascisti d’accordo con la polizia. L’autorizzazione della questura è in
forse fino all’ultimo momento; Fo all’inizio invita alla vigilanza, e lo spettacolo
procede in un’atmosfera strana, un po’ stravolta, nel contrasto tra la travolgente
carica di comicità e l’angoscia di fondo che riemerge ad ogni pausa.
Il teatro militante
Mistero buffo è una frustata che ci fa vergognare dei nostri compromessi, e ha
conseguenze importanti sia su di me che sul gruppo; io scrivo un testo teatrale, Due
miliardi, sulla fame, appunto, di due miliardi di persone del terzo mondo, e sullo
sfruttamento neocoloniale che la provoca.
Rileggendolo oggi, trovo che l’analisi dei meccanismi perversi che fanno crescere la
forbice tra paesi ricchi e paesi poveri rimanga tragicamente attuale, ma mi fanno un
po' vergognare l’estremismo dei “due, tre mille Vietnam contro l’imperialismo”, e
del vagheggiamento della lotta armata.
Tento di realizzarlo, ma non vado oltre le prime letture; nello stesso periodo
Frondini ha una buona idea per uno spettacolo politico, e io stesso appoggio la
decisione di impegnare il gruppo su quest’ipotesi, perché meno complessa e costosa
della mia, che viene rimandata e mai più ripresa.
Così, finalmente, nel febbraio ‘70, il tanto a lungo vagheggiato teatro politico, anzi
militante, vede la luce con Itinerari turistici meridionali, descritto in apertura.
Diversi fattori concorrono al lieto evento: il clima politico, molto più coinvolgente
di quello del ’68, sia per l'entusiasmo destato dalle lotte e dalle vittorie dell’autunno
caldo -Itinerari mette infatti in scena le condizioni e le lotte operaie-, sia per la
preoccupazione provocata dalla strategia della tensione ad esse seguita; infine,
determinante, la maturazione del gruppo, divenuto politicamente omogeneo per
l’ingresso degli elementi del Movimento studentesco che avevano realizzato la
lettura di Lettera a una professoressa, due dei quali io e Frondini cooptiamo di fatto
nella direzione del gruppo.
Itinerari turistici meridionali è costruito direttamente, pezzo per pezzo, sulla scena
con gli attori; la prima idea e l’invenzione scenica sono di Frondini, i testi, tratti da
materiali diversi, sono scelti ed elaborati da me, ma sul manifesto lo spettacolo
risulta ‘elaborazione collettiva’: l’autore è nozione borghese e autoritaria, quindi va
cancellato, anche se solo dal manifesto.
E’ quel che fa anche Fo nei primi tempi di Mistero buffo, affermando di non essere
autore ma solo interprete di documenti della cultura popolare medioevale, spesso
inesistenti, o, nel migliore dei casi, costituiti da frammenti lontani anni luce da
quello che egli recita. E’ una cosa incredibile: Fo nascondeva di essere l’autore,
come in effetti era -di tutto: idee, parole, azione- di uno dei più importanti spettacoli
del teatro mondiale degli ultimi 30 anni! E’ un’altra conferma di quale forza di
autentica fede, in un momento di scontro politico drammatico, ‘vero’, avesse quel
complesso mitico e razionale insieme che chiamo Nube Purpurea.
Inizia dunque l’epoca del teatro militante; un impegno duro, che occupa ogni
momento di tempo libero a gente che lavora -insegnanti, impiegati, studenti che
studiano davvero-, con l’abolizione -questa sì reale- dei ruoli tecnici. Tutti fanno
tutto, dal recitare al montaggio tecnico, al facchinaggio: è il gruppo ‘maoista’.
Continue e lunghissime le assemblee.
Il Teatrino dei Raspanti -da noi ricavato, coprendoci di debiti, da un ex lavanderia
nel centro storico di Perugia (i Raspanti erano la fazione borghese, quindi per quei
tempi ‘di sinistra’, della Perugia medioevale), inaugurato alla fine del ‘69- diviene il
luogo di quasi tutte le assemblee e feste politiche dei gruppi di dissidenti di varie
dittature -greci, palestinesi, iraniani, sudamericani-, presenti a Perugia in gran
numero come studenti dell’Università per stranieri.
Nel convegno di fine stagione, nel luglio ‘70 al Teso -Appennino pistoiese-, Fo
rompe definitivamente con l’ARCI, crea un nuovo gruppo, La Comune, e
radicalizza ancor di più i suoi spettacoli, le cui repliche noi continuiamo a
organizzare a Perugia.
Un episodio significativo: nel programma di spettacoli de La Comune c’è anche
Feddayn, con Franca Rame e un gruppo di attori e musicisti palestinesi, ma, per
telefono, la Rame mi dice che non possono venire perché sono sorti dei casini nel
gruppo. Il testo, stampato come sempre da La Comune, è tutto un attacco ad Al
Fatah ‘traditore’ e un’esaltazione del Fronte popolare palestinese di Hamas. Circa
quindici anni dopo, a cena, durante le prove dell’Arlecchino al Lido di Venezia, Fo
e la Rame ammettono di aver sbagliato tutto con quello spettacolo, e raccontano
come fossero stati costretti a bloccarlo per i casini -droga, risse- provocati dai
palestinesi del Fronte.
Itinerari, in primavera, partecipa al Festival di Parma in un clima di grande
tensione, col timore di un intervento della polizia; in estate viene poi replicato in
parecchie feste de L’Unità umbre, in alcuni Festival provinciali fuori dell’Umbria e
al Festival Nazionale a Firenze.
Le feste de L’Unità
Le Feste de l'Unità all’inizio, dal dopoguerra agli anni ‘50, erano soprattutto
un’affermazione di identità: bandiere rosse dappertutto, pannelli con slogan,
diffusione de L’Unità, coccarde rosse appuntate all’ingresso per una modica
sottoscrizione da sorridenti compagne o imbarazzati compagni, il rituale comizio
finale col ‘compagno dirigente’. Nello stesso tempo erano anche autentiche feste
popolari, un bisogno di mangiare e divertirsi insieme, che la festa del patrono -nella
quale però, almeno nei paesi umbri, gli stessi compagni erano in prima fila a portare
la statua del santo- non soddisfaceva. Per non parlar del ballo.
Quando il nostro gruppo comincia a rappresentarvi i suoi spettacoli, alla fine degli
anni ‘60, le feste si stanno trasformando, in sintonia con la crescita del partito, che,
dopo la condanna dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia nel ‘68, sta
conquistando larghe fasce di ceto medio. Le feste si aprono, non servono più solo a
rafforzare l’identità e a raccogliere soldi, ma divengono importanti occasioni
politiche, che contribuiscono alla conquista del consenso.
La parte politica e culturale si allarga progressivamente con incontri, tavole rotonde,
mostre, film, spettacoli, concerti; e questo non solo nei grandi festival provinciali o
in quello nazionale, ma anche in quelli minori: il nostro gruppo, in quel periodo, ha
fatto spettacoli anche nelle feste di centri piccolissimi. Per alcuni anni le feste de
L’Unità sono state il mercato teatrale estivo più importante, decisivo per la
sopravvivenza di tanti gruppi come il nostro.
Certo, la funzione ricreativa continuava, e questo provocava non pochi disagi ad
attori e cantanti: ricordo un articolo su l’Unità -mi pare di Venditti- che pregava i
compagni delle feste, durante gli spettacoli, almeno di far tacere il 'porcellino', cioè
una popolarissima lotteria affidata ai robusti polmoni adeguatamente amplificati del
compagno imbonitore. Noi ne facevamo sofferta e, alla fin fine, rassegnata
esperienza ogni volta. Al festival nazionale del 1970, alle Cascine di Firenze,
proprio con Itinerari turistici meridionali, ci salvò dall’equivalente del porcellino,
istallato a pochi metri dalla scena, Natta, che aveva appena fatto un comizio nello
stesso spazio destinato al nostro spettacolo: subito dopo il casino era ripreso, e
tacque di nuovo solo grazie al suo intervento.
Settarismo e contraddizioni
In quell’occasione, al tavolo di un ristorante della festa, un dirigente nazionale del
PCI, pur conoscendo le nostre posizioni, ci offre di realizzare uno spettacolo per il
cinquantesimo del partito dell’anno successivo. Accettiamo, e non riesco a ricordare
grazie a quali arzigogolati alibi di strumentalizzazione, visto che era chiaro già nella
proposta che al PCI non avrebbero accettato una lettura estremista. Riceviamo
addirittura un anticipo, che incasso personalmente a Botteghe Oscure, per iniziare il
lavoro di documentazione; l’ipotesi comincia e finisce con l’acquisto delle opere di
Togliatti e di altri testi sulla storia del PCI, che mi limito a sfogliare velocemente.
Comunque la nostra partecipazione ai festival de L’Unità è duramente criticata negli
ambienti dell’ultrasinistra; è un altro segno di assurdo settarismo: lo spettacolo in sé
veniva giudicato efficace e corretto, gli organizzatori non facevano nessuna censura,
ai festival potevamo parlare alla mitica classe operaia... No! fornivamo alibi al PCI!
Così, in autunno, uno dei due leader sessantottini riesce a imporre il blocco di
Itinerari, subordinandone la ripresa a un non meglio precisato chiarimento della
linea del gruppo e a una verifica della sua omogeneità politica; in pratica si chiedeva
l’epurazione, che rifiutiamo, dei pochi elementi moderati rimasti.
Segue, infallibile conseguenza di ogni massimalismo, un momento di arretramento
dei contenuti politici nei nuovi spettacoli; traduco infatti in perugino La Betia di
Ruzzante: il testo è un’esplosione di gioioso paganesimo, ma, come discorso
esplicitamente politico, mi dà solo la possibilità di accentuare il classismo culturale
del Prologo. Ma causa principale di contraddizione tra linea politica e spettacoli
rimane il pesante condizionamento economico derivante dai debiti per realizzare i
Raspanti; un autore perugino mi fa leggere una sua commedia, non male, ma
qualunquista come quasi tutto il teatro dialettale, e non solo l’inseriamo nella
programmazione, ma ne faccio addirittura io la regia!
La rivolta di Reggio
Un altro esempio di contraddizione riguarda solo me e un evento della recente storia
italiana troppo presto dimenticato, la rivolta di Reggio Calabria.
Alberto La Volpe, della direzione PSI, allora conduttore del TG2 e sindaco di
Bastia, è un aficionado dei Raspanti; persona simpatica e colta, crea col gruppo e
specialmente con me un rapporto cordiale, e, all’inizio del ‘71, mi propone di
scrivere, per conto del segretario del PSI Giacomo Mancini, un testo teatrale sulla
rivolta di Reggio, che dura dall’autunno precedente e di cui Mancini è stato la testa
di turco; il testo avrebbe dovuto chiarire i fatti, le loro cause e il segno politico, fare
insomma della controinformazione. Anche La Volpe conosce le mie posizioni,
anche lui pone condizioni precise, e ancora una volta non riesco a ricordare -tanto
erano evidentemente pretestuosi- grazie a quali alibi accettassi. Non credo quello
cinico di esser pagato abbastanza bene, che mi è sempre stato estraneo. Forse il fatto
che dall’altra parte c’erano i fascisti.
Comunque, dopo delle riunioni a Roma con Mancini e col segretario regionale
calabrese in cui mi vengono chiariti i termini politici della questione, parto in aereo
per Reggio, insieme a un compagno del gruppo, per raccogliere materiale. I tre
giorni passati a Reggio sono per me un’esperienza politica e umana
importantissima; potrei scriverne a lungo, ma in questa sede debbo cercar di
limitarmi all’essenziale.
Arriviamo a Reggio il giorno dopo la demolizione delle ultime barricate nei
quartieri popolari di Sbarre e Santa Caterina; la città è in stato d’assedio: a ogni
incrocio ci sono soldati in assetto di guerra, blindati passano continuamente per le
strade. La prima tappa obbligata è la federazione del PSI; il portone è bruciato e c’è
di guardia un soldato col mitragliatore spianato; altri segni di fiamme sulle scale,
anche la porta della federazione è bruciata; ci affacciamo, sentiamo delle voci,
apriamo una porta: è la sala delle assemblee, trasformata in un bivacco di soldati. La
federazione vera e propria è ridotta in una piccola stanza, dove una segretaria, sola,
ci annuncia l’imminente arrivo del federale. E’ un avvocato, e mi verrebbe
spontaneo aggiungere gli aggettivi ‘tipico’ e ‘meridionale’: oggi li sento banali, ma
così me ne è rimasta l’immagine nella memoria, confermata del resto dalla scena
che segue.
Ci chiede scusa perché prima di parlare con noi deve sbrigare alcune cose; inizia
allora davanti alla sua scrivania una sfilata di poveri cristi, con le facce -le mie
facce- disegnate per Rinascita da Bruno Caruso; li presenta uno per uno un
guardiaspalle in piedi accanto a lui, dal volto scuro, impenetrabile -da mafioso,
giudichiamo allora-. Per ognuno, l’avvocato alza il telefono e chiama a Roma il
ministro o sottosegretario socialista corrispondente alla richiesta del postulante:
casellante, bidello, pensione d’invalidità. Per il segretario siamo due compagni della
direzione, giornalisti (da Roma ci hanno presentato così per semplificare le cose: di
fatto dobbiamo fare un’inchiesta), quindi chiede ripetutamente ai postulanti di dargli
del tu -siamo compagni, no? dice verso di noi con un sorriso sforzato-, e strazia il
cuore vedere le penose acrobazie verbali per non usare il tu, lo sforzo per sputarlo a
forza, a mezza voce quando proprio non possono farne a meno, da parte di quei
disgraziati, per cui l’uomo dietro la scrivania è il Potere, ‘voscenza’, da cui dipende
il pane. Alla fine l’avvocato ci spiega che solo così si riesce a non essere schiacciati
dal sottogoverno DC.
Ci racconta la rivolta, e il suo giudizio è che si trattava di poche centinaia di
pregiudicati e di facinorosi fascisti.
Il giorno dopo, il questore di Reggio, Santillo, mi dà una versione esattamente
opposta: una rivolta di massa, col caloroso consenso di tutta la città, coi parroci che
suonano a stormo le campane.
Santillo è certo un personaggio fuori del comune; per presentarci ha telefonato il
sottosegretario socialista agli Interni Mariani, e lui ci accoglie con un gran senso del
teatro: dopo pochi minuti d’attesa entriamo in una grande stanza, Santillo si alza
dalla scrivania in fondo e ci viene incontro per parecchi metri sorridendo, la mano
protesa.
Il rappresentante dell’odiato Potere fa un’ottima impressione sul velleitario
estremista, ennesima, tipica contraddizione che rinuncio ad analizzare. Poi la sua
analisi della rivolta -politica, economica, sociologica e culturale- è un modello di
lucidità e completezza, confermata da tutta la mia inchiesta seguente. Illustra i
record negativi di Reggio: il reddito più basso d’Italia, il numero più alto di licenze
di commercio, il più alto tasso di disoccupazione giovanile; da Reggio capitale della
Calabria si sperava un incremento di assistenzialismo: non è un caso che la rivolta
veda in primo piano -a parte i fascisti che colgono l’occasione per rompere il loro
isolamento- DC e ceti professionali e impiegatizi.
Racconta il comizio di Ingrao: pochi militanti ad ascoltare e cariche di polizia a tutti
gli accessi della piazza contro i rivoltosi; aggiunge -credendo forse di far piacere a
dei socialisti- che, dopo, la strada davanti al palco era tappezzata di tessere PCI
strappate; riconosce però il coraggio di Ingrao, unico politico nazionale venuto a
Reggio in quei giorni, e per dire cose giuste ma pericolosamente impopolari sulla
rivolta. Ha una puntata maligna per Sofri, sceso a Reggio per “strappare ai fascisti
l’egemonia di una rivolta autenticamente popolare”, e rimasto chiuso per due giorni
nell’unico buon albergo di Reggio -dove stiamo anche noi- con una giornalista
francese.
Scrivo Reggio in fiamme e lo consegno in agosto a La Volpe e a Marco Leto, il
regista incaricato della realizzazione. Che non avverrà mai per il siluramento di
Mancini dalla segreteria del PSI.
Verso la fine
Sotto la mia spinta il gruppo nel ’72, dopo La Betia, decide di ridare slancio al
teatro politico in crisi e bandisce finalmente quella Leva Attori politicamente
selezionata da me teorizzata almeno cinque anni prima, e dalla quale esce il
montaggio brechtiano già descritto all’inizio.
Viviamo intanto come assolutamente normale la contraddizione col teatro
commerciale dialettale, ancora programmato con continuità ai Raspanti. Addirittura
la sanzioniamo in una assemblea, teorizzando, non ricordo grazie a quali acrobazie
dialettiche, un “doppio binario”: è l’antico vizio dell’opportunismo, per cui ogni
compromesso immediato si giustifica nella prospettiva della rivoluzione, da fare in
un futuro lontano. Così è il gruppo degli attori dialettali a darci una lezione di
coerenza politica: se ne vanno formando una nuova compagnia, perché, alla faccia
del nostro “doppio binario”, reputano impossibile la coabitazione con la nuova,
insistentemente proclamata radicalizzazione.
La leva attori mi dà un organico sufficiente a realizzare anche un mio testo in
dialetto perugino, Che ‘l vilan, bono o malnato, sempre a l’inferno è destinato, che
prende spunto da una rivolta di contadini intorno a Perugia nel 1525, di cui si sa
solo che è stata repressa duramente. Ci metto dentro tutta la mitologia
rivoluzionaria, seguendo Brecht per la struttura e Fo nel fare del giullare,
protagonista, un agitatore rivoluzionario -e gli faccio infatti eseguire ampi stralci di
Mistero buffo tradotto in perugino-.
Lo spettacolo è efficace, ma nel ricordarlo oggi provo imbarazzo per le sue sparate
anticulturali, stile Rivoluzione culturale cinese: i contadini distruggono opere d’arte
del Rinascimento nella villa del padrone, mentre un frate, capo -insieme al giullaredella rivolta, teorizza che la “cultura dei padroni” è servita solo a tenere più schiavi
i contadini, ed è quindi inutile e addirittura pericolosa per loro. Va in scena nel
marzo ‘73, in paradossale coincidenza con l’inizio di una tormentata fase di
ripensamento politico che ci fa riavvicinare al PCI, nel quale rientreremo l’anno
seguente.
Ultimo ricordo significativo di questo periodo, il golpe cileno nell’autunno;
mettiamo subito in cantiere uno spettacolo su questo nodo, due compagni vengono
incaricati di raccogliere materiale, e concludono la loro relazione affermando che il
golpe va considerato una vittoria, perché con esso l’imperialismo ha gettato la
maschera mostrando il suo vero volto! Non mi ci volle molto a dimostrare l’idiozia
di questa interpretazione, ma è sintomatico del clima di quegli anni che durante la
sua esposizione il resto del gruppo apparisse consenziente.
Ovviamente lo spettacolo non venne realizzato.
Il distacco
Il distacco dall’estremismo è proprio di quei tempi; cerco di sintetizzarne le cause,
come sempre molteplici, e già in gran parte emerse nel racconto.
Già negli anni tra il ‘64 e il ‘68 avevo consumato l’iniziale entusiasmo per la nuova
Nube Purpurea, che cominciava a mostrare ammassi neri preoccupanti. Gli sventolii
del libretto rosso toccasana di ogni male, per il mio coté Mann Joyce Adorno
divengono dubbi radicali che mi tenevo dentro con un senso di colpa, e che
continuavano a mordere come lime sorde. Ero anche stanco del velleitarismo
verbale delle riunioni sia dei gruppetti politici, che della segreteria dei CUT.
Quando, dopo il ‘68, cominciano a nascere nuovi movimenti, soprattutto Lotta
continua, sento che si tratta di una realtà radicalmente diversa dai precedenti
gruppetti, ma il permanere dell’estremismo verbale, anzi l’accentuarsi della sua
violenza, alimenta in me molti dubbi. Ho ritrovato la copia di una lettera a un
giovane compagno del gruppo teatrale, dirigente di Lotta continua a Perugia, che mi
sollecitava a entrarvi come militante, visto che ne ero già simpatizzante. In essa, tra
altre cose sulla linea del gruppo teatrale (il mio rifiuto del blocco di Itinerari),
scrivevo che, dopo aver fatto per anni il frustrante mestiere di ‘entrista’ nel PCI, mi
pareva ridicolo farlo in un gruppo extraparlamentare.
Mi decido infine, spinto dall’inconsistenza degli altri gruppi, dall’efficacia della
controinchiesta su piazza Fontana (un modello di campagna di opinione da sempre
purtroppo estraneo al PCI e al PDS: negativamente esemplari, come ricorda il libro
di Rea, le mancate campagne contro Lauro e contro l’intenzionale smantellamento
delle industrie napoletane). E, come già ho confessato, per conformismo, perché
tutti i giovani del gruppo teatrale sono Lotta continua e mi fanno pesare il mio
restarne ai margini.
Ma la mia militanza è molto breve e, anzi, accelera il distacco dalle idee estremiste.
Nelle poche riunioni cui partecipo, mi repelle il gioco dello scavalcamento a
sinistra: il compagno che ha parlato prima non è mai abbastanza rivoluzionario,
come dire un potenziale traditore; risultato finale è il conformismo, l’appiattirsi su
sparate oltranziste per ogni problema. Ho provato sulla mia pelle questo terrorismo
psicologico in una riunione sul problema della scuola: un dirigente teorizzava che
ormai la scuola era solo un luogo da sfruttare per un’azione politica rivoluzionaria,
che i compagni insegnanti avrebbero dovuto attuare verso studenti e colleghi.
Quando feci notare che questo avrebbe provocato provvedimenti disciplinari fino
alla perdita del posto, il dirigente, non insegnante ma studente figlio di un
professionista, mi rispose, con un tono che mi bollava come vigliacco, che questi
erano i prezzi da pagare alla rivoluzione.
Queste sparate rimanevano lettera morta, ma quando l’estremismo verbale cominciò
a tradursi in comportamenti concreti, come nel prepararsi agli scontri con la polizia,
quindi nel ricercarli, teorizzando una “violenza rivoluzionaria” di cui non riuscivo a
vedere l’utilità anche ai fini di una molto ipotetica rivoluzione, il mio distacco si
accelerò.
Ricordo l’imbarazzo, quasi la vergogna, il senso di totale estraneità -ma che ci
faccio qui?- delle due uniche manifestazioni cui ho partecipato (un po' di vergogna
l’ho provato anche portando la bandiera rossa nella Marcia della pace, ma era solo
una conseguenza della mia congenita timidezza, e la superai presto perché non c’era
l’estraneità, anzi…).
Ricordo gli slogan assurdi che non riuscivo a ripetere (sentivo che per farlo avrei
dovuto rinunciare del tutto alla mia ragione, ubriacarmi fino a fondermi con gli
altri), il clima ossessivo di tensione aspettando una carica della polizia, col frenetico
andirivieni ai lati del corteo dei volti aggrondati del servizio d’ordine, il raddoppiare
degli slogan e della tensione sotto le carceri, salutando a pugno chiuso verso le
sbarre -dietro le quali c’erano solo delinquenti comuni, promossi però a ‘soggetti
rivoluzionari’-, considerando una vittoria politica l’intravedere attraverso le
inferriate uno o due visi curiosi. Così come una vittoria veniva vissuta, addirittura,
l’evidente ostilità della gente in mezzo alla quale passavamo, i negozi chiusi prima
del
nostro
arrivo,
rimuovendo
dunque
l’effetto
controproducente
delle
manifestazioni, che pure, nel giornale di Lotta Continua, vista l’esclusione dai
media, venivano indicate come la forma principale di comunicazione politica! Ma la
necessità di difendere questa forma di comunicazione era solo un alibi per gli
scontri con la polizia, incuranti del fatto che proprio gli scontri erano la più
controproducente delle comunicazioni (un mio amico, ora di sinistra, da giovane era
di idee nazionaliste e anticomuniste, ed ebbe la sua via di Damasco -su cui poi poté
innestarsi efficacemente la mia persuasione- una domenica mattina in corso
Vannucci, quando la Celere caricò con violenza una pacifica manifestazione di
mezzadri, che si presero dignitosamente, senza reagire, le botte, mentre un
parlamentare comunista, spintonato violentemente dai poliziotti, urlava sventolando
davanti al commissario il suo tesserino: sono sicuro che se i mezzadri avessero
cominciato a sprangare i celerini con le aste dei cartelli, l’amico ne avrebbe tratto
conferma al proprio anticomunismo).
Ma la vera funzione del corteo era a uso interno: che la gente fosse ostile era una
gratificante conferma di quanto si era rivoluzionari, e gli scontri con la polizia
servivano a “temprare” i militanti.
L’ultrasinistra, insomma, come i bolscevichi, non si è mai posto l’obiettivo di
conquistare il consenso; era ancora una volta il mito dell’efficacia: convincere è
lungo, difficile, meglio andare alla conquista rapida, militare del potere per poi
imporlo, il consenso.
Anche gli spettacoli di Fo in questo periodo erano messe per rafforzare la fede dei
militanti; ho già confessato di averne celebrate anch’io, ma abbastanza presto ne ho
sentito, in modo sempre più fastidioso, il carattere consolatorio, euforizzante.
Traumatico poi in quei giorni fu il racconto, da parte di un collaboratore di Fo, di
un’assemblea di compagnia de La Comune, in cui i giovani attori, molti alla loro
prima esperienza, posero seriamente l’interrogativo: perché Franca prima attrice?,
dove non so se è più grande l’idiozia o la presunzione. E Dario e Franca a discutere
con calma, come se si trattasse di un problema serio...
Mi ripugnavano infine certe prove di cinismo ostentato, teorizzato di alcuni
militanti: come fare, per soldi, la campagna elettorale per il socialdemocratico Pietro
Longo, di cui già allora si conosceva la corruzione, o intascarsi i soldi di una
colletta per la fame in India.
Lo strappo definitivo fu provocato dal golpe cileno nell’autunno del ‘73: le analisi
del PCI sul ruolo negativo dell’estremismo del MIR nell’isolare il governo e
provocare la reazione mi parvero molto più convincenti di quelle dei gruppi, che
davano la colpa della sconfitta ad Allende per non aver dato le armi (quali? e con
quali risultati, visto che l’esercito era compatto dall’altra parte?) al popolo.
I libri sacri
A conclusione di questa fase credo necessario precisare quelli che erano allora per
noi -e soprattutto per me, che poi li trasmettevo- i libri sacri.
Principali le opere di Brecht; importantissima tra queste la poesia La letteratura
sarà esaminata, che dà il titolo al primo dei miei montaggi brechtiani. Mi pare
giusto dunque che io oggi sottoponga ad esame anche la letteratura del suo autore,
per tanti anni mio vangelo politico ed estetico. Sarà un esame abbastanza lungo, ma
per me necessario: Brecht è stato infatti il mio principale libro sacro non solo per il
teatro, ma per la politica tout court, una delle principali componenti della mia
personale Nube Purpurea.
Nel rileggere i testi da me inseriti nei montaggi, provo reazioni contrastanti; per
alcuni un rifiuto totale, mentre altri hanno ancora la mia adesione -come del resto
testimonia il titolo Che tempi sono questi-, sia pure non più totalizzante.
Il rifiuto riguarda anzitutto alcune poesie estremiste, per esempio Demolizione della
nave Oskawa ad opera dell’equipaggio; i marinai, pagati troppo poco, prima si
ubriacano col carico di champagne, poi, con manovre intenzionalmente sbagliate,
bruciano la dinamo facendo marcire il carico di carne nei frigoriferi, provocano
incendi, danneggiano insomma seriamente in vari modi la nave, per concludere:
“anche un bambino avrebbe capito che le nostre paghe erano davvero troppo basse”.
Brecht mitizza reazioni infantili chiaramente controproducenti: quei marinai,
nonché non ottenere paghe più alte non avrebbero più trovato lavoro!
Ritroviamo questo atteggiamento, all’inizio degli anni 70, nel Canzoniere pisano di
Potere Operaio: “sabotar la produzione, non c’è altra soluzione”.
Esce subito dunque il ruolo di ‘cattivo maestro’, che anche Brecht ha certo giocato
nella spirale della violenza estremistica e dello stesso terrorismo degli ultimi
vent’anni; Oreste Scalzone ne citava dei passi -non ricordo quali- per giustificare
l’uccisione a freddo di un giovane fascista in un bar.
In Santa Giovanna dei Macelli, a parte il finale, oggi non so se più patetico o
ridicolo, in cui le notizie catastrofiche della crisi del ‘29 sono contrappuntate da
altre sui ‘successi’ del primo Piano Quinquennale, un operaio dice agli altri:
Imparate anzitutto
che si riesce soltanto
con la violenza, e se
siete voi stessi ad agire.
Ovvero, la “sacrosanta violenza proletaria” di Lotta continua e poi di Autonomia
Operaia. Ancora, nella poesia Nessuno o tutti, il ritornello ribadisce:
O i fucili o le catene
Nessuno o tutti
O tutto o niente.
Infine ne La risoluzione dei Comunardi:
Dato che noialtri avremo fame
se ci lasceremo derubare,
verificheremo che fra il pane buono
che ci manca, e noi, solo un vetro sta.
Ovvero, gli espropri proletari. Non a caso questa poesia viene parafrasata con
precisione in un foglio del movimento del ’77 a Bologna, Il caccolone:
Dato che la fame non l’abbiamo più se la roba ce la prenderemo, abbiamo visto che tra il
desiderio che ci criminalizzate e noi solo un vetro sta.
Sono elementi dell’anarchismo del Brecht delle origini, rimasti come grosse
contraddizioni nel Brecht leninista -le stesse, del resto, dei gruppi-, quello che canta
il Partito Chiesa, quello del fideismo perinde ac cadaver, del fine giustifica i mezzi
ad majorem Dei gloriam.
Un esempio, oggi addirittura repellente, ne è La linea di condotta, dove un Coro di
controllo, voce del Partito, per giustificare i cordiali rapporti con un bieco affarista
che vuol dare soldi al partito teorizza:
A quale bassezza non giungeresti, per
sterminare la bassezza?
Affoga nella lordura,
abbraccia il boia, ma
trasforma il mondo: ne ha bisogno!
Ribadendo poi:
Chi lotta per il comunismo
deve saper lottare e non più lottare
dire la verità e non dirla
tener fede e non tener fede.
Chi lotta per il comunismo
non ha che una virtù fra tutte: quella
di lottare per il comunismo.
Nel finale -dove uno dei quattro agitatori protagonisti, ferito, viene ucciso dai
compagni per non essere scoperti, con la benedizione del Coro di controllo- torna la
teorizzazione della violenza necessaria:
E’ terribile uccidere,
ma non solo gli altri, uccidiamo se occorre anche noi stessi
poiché solo con la violenza si può
trasformare questo mondo omicida
Un altro Coro di controllo parlando del Partito, afferma:
Non fare senza di noi la via giusta:
senza di noi è la più sbagliata.
Non separarti da noi!
Ancora sul Partito:
... conduce la sua lotta
con i metodi dei classici, che sorsero
dalla conoscenza della realtà.
E i ‘classici’ sono verità che non possono essere messe in discussione; un po’
ipocrita suona dunque la poesia Lode del dubbio, dove è chiaro che le “verità
incontrovertibili” del “libro redatto da Dio in persona” su cui s’invita a dubitare
sono solo quelle avversarie, mentre in tutta l’opera di Brecht non c’è un rigo di
dubbio sui ‘classici’, divenuti anch’essi ‘libri redatti da Dio in persona’, e sulla loro
interpretazione. Insomma è lui il primo a non seguire il metodo di lavoro proposto
dal suo Galileo ai discepoli quando riprende la ricerca sul sistema solare:
Sì, rimetteremo tutto, tutto in dubbio. Quello che troviamo oggi, domani lo cancelleremo
dalla lavagna e non lo riscriveremo più, a meno che posdomani lo ritroviamo un’altra
volta. Se qualche scoperta seconderà le nostre previsioni, la considereremo con
particolare diffidenza. E dunque, prepariamoci ora ad osservare il sole con l’inflessibile
determinazione di dimostrare che la terra è immobile! E solo quando avremo fallito,
quando, battuti senza speranza, saremo ridotti a leccarci le ferite, allora, con la morte
nell’anima cominceremo a domandarci se per caso non avevamo ragione, se davvero è la
terra che gira!
E’ un passo bellissimo: c’è anche Popper! L’ho tenuto, in tutti quegli anni, su un
cartello a grosse lettere sopra la scrivania, ma anch’io, allora, facevo l’opposto: la
minima conferma ribadiva le mie idee.
C’è una scena, ne I giorni della Comune, che evidenzia l’aporia principale del
leninismo, l’avvio della spirale perversa del socialismo reale, cioè la drastica
cancellazione del problema del consenso, rimandato a dopo i primi successi del
nuovo stato socialista e intanto imposto con la forza. Nella sala delle assemblee, uno
dei protagonisti parla con la fidanzata e dice che la Comune sarà sconfitta perché ha
rispettato le libertà ‘borghesi’ scritte su grandi cartelli appesi ai muri. Le passa in
esame a una a una:
Si presentano tutte molto bene, ma che sono in realtà? La libertà individuale, per esempio:
significa anche la libertà di concludere affari, di vivere sul popolo, di intrigare a suo
danno, di servire i suoi nemici?La libertà di coscienza: ma cosa ordina loro la coscienza?
Te lo dico io: quello che gli hanno ordinato i signori fin dall’infanzia.
Libertà di stampa: è forse garantita anche la liberta della menzogna? E nelle libere
elezioni, ammettiamo che siano eletti dei truffatori! Da un popolo frastornato da scuola,
chiesa, stampa e politicanti!
Cioè, il popolo è un bambino incapace di governarsi da solo -come affermano da
sempre i reazionari!- e deve affidarsi dunque al Partito, sua avanguardia.
Eppure quel passo era per me luce di verità, la cosa che mi aveva convinto
definitivamente del carattere mistificatorio delle libertà ‘borghesi’.
Così come luce di verità sulla mistificazione della ‘cosiddetta unità antifascista’ era
per me il discorso -di cui misi i passi più provocatori all’inizio di una lettura scenica
di Dialoghi di profughi- tenuto da Brecht a Parigi nel 1936, all’assemblea degli
scrittori antifascisti, in cui egli negava che si potesse combattere il fascismo insieme
ai rappresentanti del sistema economico che lo aveva generato: una riproposizione
della teoria staliniana del socialfascismo, che testimonia come Brecht continuasse a
sottovalutare la pericolosità del fascismo. Non a caso in quel periodo scrive Teste
rotonde e teste a punte sull’antisemitismo nazista, e oggi è agghiacciante leggervi la
profezia che padroni ebrei e padroni ariani alla fine si sarebbero messi d’accordo
sulla pelle dei loro dominati!
Ci sono poi passi che noi, critici radicali del ‘socialismo reale’, rimuovevamo con
imbarazzo; come Non questa intepretazione, una poesia degli ultimi anni, in cui
Brecht attacca l’Accademia delle Arti della DDR per aver chiesto alle “autorità di
ristrette vedute” -l’ironia delle virgolette è un segno che per lui non lo erano!“libertà di espressione artistica”; gli argomenti sono gli stessi de I giorni della
Comune:
Libertà! risuonava. Libertà agli artisti!
Libertà intorno a noi! Libertà per tutti!
Libertà agli sfruttatori! Libertà ai guerrafondai!
Libertà ai trust della Ruhr! Libertà ai generali di Hitler!
Fa senso oggi sentire in questi versi una tale carica di livore scaricata sulla parola
‘libertà’; più avanti c’è addirittura, come conseguenza di un'eventuale concessione
di libertà, l’immagine -da Krokodil staliniano: quel “ghignando”!- dell’incendiario,
che strascica il bidone di benzina, si avvicina ghignando all’Accademia delle arti.
Ma c’è qualcosa di ancor più repellente. Dal 1937 Brecht era stato informato delle
purghe staliniane, ma aveva rifiutato di crederci, poi gli amici comunisti che lo
avevano accolto in un suo viaggio a Mosca, Carola Neher e Tretjakov, furono
giustiziati. Dopo un iniziale rifiuto, Brecht giustificò la cosa con questi versi, da cui
emerge, pari pari, la paranoia stalinista
:
Il nemico va travestito.
Si tira sul viso un berretto da lavoratore. I suoi amici
Lo conoscono come un lavoratore zelante. Sua moglie
Mostra le suole bucate delle sue scarpe
Che egli ha consumato al servizio del popolo.
Eppure è un nemico. Lo era anche il mio maestro?
E ammesso che sia innocente?
Infine, quando nel 1953 gli operai di Berlino scesero in piazza -per essere
schiacciati dai carri sovietici-, non essendo questa rivolta prevista dai ‘classici’,
Brecht si schierò di fatto dall’altra parte, rifiutando di sostenere con la propria
autorità le rivendicazioni degli operai, come questi gli avevano chiesto.
C’è però -e non è piccola- una parte dell’opera di Brecht che resta in piedi, e che
anzi esce rafforzata da quel che è successo da allora. A parte capolavori teatrali
assoluti come Madre Coraggio e i suoi figli, Vita di Galilei, Il cerchio di gesso del
Caucaso, si tratta di cose oggi controcorrente, tra le tante quelle sul ruolo della
letteratura: ne riporto dei passi, a cominciare dai versi, oggi di ancor più
sconvolgente attualità, da me presi come titolo.
Da A coloro che verranno:
Quali tempi sono questi, quando
parlare d’alberi è quasi un delitto,
perché su troppe stragi comporta un silenzio!
“Mangia e bevi!”, mi dicono: “E sii contento di averne”.
Ma come posso io mangiare e bere, quando
quel che mangio, a chi ha fame lo strappo, e
manca a chi ha sete il mio bicchiere d’acqua?
Eppure mangio e bevo.
Da La letteratura sarà esaminata:
Coloro che furono posti, per scrivere, in sedie dorate
saranno interrogati da coloro
che gli hanno tessuto i vestiti.
(...)
Musica preziosa di parole darà appena notizia
che per molti da mangiare non c’era.
Ma sarà data lode a coloro
che sulla nuda terra si posero per scrivere
che si posero in mezzo a chi era in basso
che si posero a fianco di chi lottava
che dettero notizia delle pene di chi era in basso
che dettero notizia delle gesta di chi lottava,
con arte, nel nobile linguaggio
innanzi riservato
alle glorie dei re.
Da Brutti tempi per la lirica:
In me combattono
l’entusiasmo per il melo in fiore
e l’orrore per i discorsi dell’Imbianchino.
Ma solo il secondo mi spinge al tavolo di lavoro.
Sono cose che ancora ci riguardano da vicino -non si può certo scrollare le spalle
dicendo: altri tempi, oggi è diverso!-. Mi hanno accompagnato in tutti questi anni,
quasi un senso di colpa sepolto sul fondo, ma sempre risorgente con morsi dolorosi.
(A questo proposito, un’epifania della scorsa primavera; in estasi davanti a un
albero in fiore, mi tornano alla mente i versi di Brecht evocandomi una specie di
scena cinematografica: girando lentamente intorno all’albero, perso nella
contemplazione della sua bellezza, immagino di scoprire all’improvviso dei corpi
d’impiccati pendere tra i fiori, lo ‘strange fruit’ di Billie Holiday).
Brecht è stato dunque esaminato e nel complesso assolto, sia pur non con formula
piena; infatti, a parte le sue colpe come cattivo maestro, la parte ancora valida della
sua opera, quella sul ruolo della letteratura, ponendo un principio etico, chiama
necessariamente in causa anche la vita dello scrittore -cosa fuggita con orrore da chi
privilegia parlar d’alberi-. E la vita di Brecht -anche volendo dimenticare i versi che
giustificano l’assassinio dei suoi amici, e l’episodio della rivolta operaia di Berlinorivela un uomo cinico proprio nel rapporto con gli altri -il fine che giustifica i
mezzi, anche sul piano personale-, mai, nella realtà, “seduto sulla nuda terra in
mezzo a chi era in basso”.
*
Brecht è stato il più importante ma non l’unico dei miei libri sacri (ho già parlato di
Minima Moralia di Adorno). L’inaccettabilità dell’ingiustizia, l’indignazione per i
suoi orrori hanno trovato alimento, per esempio, in La situazione della classe
operaia in Inghilterra di Engels, e, addirittura, nella Storia dell’età moderna di
Spini pubblicata da Einaudi, per le sue efficacissime descrizioni delle stragi
compiute in ogni tempo dal potere, delle condizioni disperate della stragrande
maggioranza, in contrasto col lusso sfrontato e la corruzione dei potenti. Stragi e
ingiustizie che sono il segno distintivo dell’Europa moderna, in una storia
finalmente non neutrale, quella teorizzata da Benjamin nelle Tesi di filosofia della
storia:
Se ci si chiede in chi propriamente “si immedesima” lo storico dello storicismo, la
risposta suona inevitabilmente: nel vincitore. Ma i padroni di ogni volta sono gli eredi di
tutti quelli che hanno vinto. L’immedesimazione nel vincitore torna quindi ogni volta di
vantaggio ai padroni del momento. (...)
La preda, come si è sempre usato, è trascinata nel trionfo. Essa è designata con
l’espressione “patrimonio culturale”. (...) Tutto il patrimonio culturale che lo storico
abbraccia con lo sguardo ha immancabilmente un’origine a cui non può pensare senza
orrore. Esso deve la propria esistenza non solo alla fatica dei grandi geni che lo hanno
creato, ma anche alla schiavitù senza nome dei loro contemporanei.
(Ecco un altro referente dell'anticulturalismo di Che 'l vilan bono o malnato, sempre
a l'inferno è destinato...)
la classe operaia, per Marx è l’ultima classe schiava, la classe vendicatrice, che porta a
termine l’opera della liberazione in nome di generazioni di vinti.
Per Benjamin questa coscienza è ostica alla socialdemocrazia che
assegnando alla classe operaia la parte di redentrice delle generazioni future le spezza il
nerbo della sua forza, cioè l’odio e il sacrificio, che si alimentano all’immagine degli avi
asserviti, e non all’ideale dei liberi nipoti
E' la stessa mescolanza, analizzata in Brecht, di verità e pericolose estremizzazioni,
e l'ultimo brano, introducendo il tema dell’odio, su cui dovrò tornare, ne è l'esempio
più negativo.
MISERIE E VELENI DELLA NUOVA NUBE
Il ventennale del ‘68
Dopo aver raccontato le mie radici, mi son fermato per “cercar di capire” le cause
del tragico fallimento del comunismo. Dopo il racconto della mia sbandata
estremista, sento il bisogno di capire le cause della mia totale, istintiva condanna di
questa esperienza, già subito dopo il distacco, quindi molto diversa dalla dolorosa
critica cui ho sottoposto le mie radici.
In questa condanna giocava, e gioca, da una parte l'irritazione per essere stato -come
ho raccontato- tanto stupido, per debolezza conformista, da lasciarmi coinvolgere
per qualche tempo, dall'altra l'insofferenza nel vedere che man mano che il tempo
passava, quel periodo, invece di essere sottoposto a critica, veniva sempre più
mitizzato. Già nell' '88, per il “ventennale”, ci fu un'inflazione di rievocazioni
nostalgiche, un dilagare di chiacchiere, uno sguazzare compiaciuto nei ricordi
(Placido tira fuori addirittura Proust!) senza affrontare seriamente nessun nodo. Poi,
col “trentennale” del '98 è arrivato un altro revival mediatico mitizzante: ha
cominciato il Manifesto con un CD Rom “’68, una rivoluzione mondiale” (il sogno
dei trotzkisti: ma allora abbiamo vinto e non ce ne siamo accorti!), ed è poi seguita
una vera alluvione di titoli:
E quel maggio fu rivoluzione – Le culture del sessantotto – La prospettiva del ’68 – Prima
e dopo il ’68, antologia dei “Quaderni piacentini – I movimenti del ’68 in Europa e in
America – Il ’68 di chi non c’era- Le scelte del sessantotto – Lettera a mio figlio sul
sessantotto (di Capanna) –Come noi coi fantasmi: lettere sull’anno sessantottesimo del
secolo tra due che erano giovani un tempo – Il ’68 senza Lenin ovvero: la politica
ridefinita – Il ’68 e il Potere operaio di Pisa (di Sofri) – Per il sessantotto…
Sono solo una piccola parte, tutti più o meno esaltanti: ne ho intravisti solo un paio
contrari. Ma è logico; questi libri li comprano soprattutto i reduci: il ’68 come mito,
rimpianto, rimozione del fallimento, fuga dal presente.)
Il ventennale dell' '88 mi provocò dunque una serie di note in cui esprimevo la mia
condanna in toni molto pesanti; eccone una scelta:
Il ‘68 mi appare oggi un grande gioco col mito rivoluzionario, l’assemblea come “recita”
dello Smolny. Enfatizzazione-drammatizzazione del nemico, modello Marcuse -e, al fondo,
1984 di Orwell-. Di fronte al Moloch supergiocatore di scacchi che quello che fai ti frega “si
può solo...”: “Sabotar la produzione, non c’è altra soluzione” o “buttare a mare le basi
americane”, come predicavano Canzoniere Pisano e Rudi Assuntino. E, a forza di gridare,
alla fine qualcuno ci ha provato, è “passato all’azione”. Magari con cose più facili, come
sparare a tradimento a gente disarmata. Senza essere sfiorati dal dubbio che se il Moloch è
lucido, ha previsto anche quello e lo sfrutta: il meccanismo della provocazione è cosa
vecchia!
E allora la riforma universitaria diventa il pericolo più grosso, una vera e propria
ossessionante minaccia. Però per quella demagogica di Misasi, che apre tutte le facoltà a
tutti i diplomati lasciando com’è la scuola superiore, non si fa troppa opposizione: è in linea
col voto “politico”, gli esami di gruppo. Fa senso che don Milani sia considerato un padre
del ‘68!
A ripensarlo oggi, il ‘68 mi appare soprattutto come una rivolta generazionale, un
gigantesco “abbasso la squola!”, col suo infantile rifiuto dell’adulto portatore in quanto tale
di autorità: lo slogan di Berkeley “diffidate di quelli che hanno più di trent’anni”.
L’insensato vandalismo nelle università occupate -il cui effetto controproducente avrebbe
dovuto essere evidente per chi teorizzava la ‘controinformazione’!- è una delle tante
conferme di questo infantilismo di fondo. E, pateticamente, quanti adulti intellettuali a fare i
giovanilisti, ad approvare, esaltare gli slogan più deliranti, nel terrore di essere rifiutati, di
perdere ancora una volta il treno della storia, di sentirsi vecchi. Tognazzi e Ferreri andavano
a incollare etichette per Lotta continua (ancora il senso di colpa degli intellettuali; un po’ da
patronesse della S.Vincenzo però: perché Ferreri non faceva invece un film su Lotta
continua a sue spese?); Sartre, in un’intervista all’Espresso a metà degli anni’70, racconta
che sta vivendo con dei giovani maoisti, che dà loro ragione anche quando gli sembra che
abbiano torto, e che si sente finalmente libero per aver abbandonato giacca e cravatta: ora
che ho abbandonato i più profondi principii della mia coscienza infelice ho cambiato
anche modo di vestire (no comment!).
Ci sono anche elementi di Carnevale, di festa delle matricole, che il successivo ‘77 ha
enfatizzato.
Nelle assemblee e nelle riunioni la regola era il gioco al massacro compiaciuto a smontare
l’intervento precedente, a dimostrarne la reazionarietà nascosta, avviando una spirale
perversa a chi le spara più grosse, una frenesia di scavalcamenti a sinistra, col terrorismo
psicologico verso i più cauti, i moderati. Qualcosa che assomiglia molto alle dinamiche delle
bande giovanili, basate sul coraggio -implicito del resto nella linea più “rivoluzionaria”-. Le
concordanze sono tante: la militarizzazione del servizio d’ordine, il vandalismo (la
differenza è che si è vandali con tanto di alibi ideologico), la ricerca dello scontro per lo
scontro, polizia o fascisti non importa.
Lo scontro con la polizia era divenuto un’ossessione per il Movimento studentesco, con un
vero e proprio complesso d’inferiorità nelle università che non l’avevano ancora fatto: una
specie di prova d’iniziazione, come la prima scopata senza la quale non si è ancora uomini.
Fu intenzionalmente ricercato. Ero a Torino nel maggio ‘68 per un festival di teatro
universitario; il movimento di Palazzo Campana, con Bobbio, Viale, era, e si considerava,
uno dei più avanzati d’Italia, ma sentiva come un limite da superare al più presto -il discorso
tornava insistente in tutti i colloqui coi componenti del CUT Torino- il non essersi ancora
scontrato con la polizia. Lo scontro tanto desiderato ci fu poco dopo: a piazza Castello,
divenuta una trappola per l’immediata serrata di tutti i negozi, gli studenti furono
letteralmente, metodicamente massacrati. Ma non importa: l’iniziazione era avvenuta,
l’alone del martirio gratifica e, come nella mensur tedesca, i segni delle ferite sono titoli
d’onore.
Perché questa aberrante mitologia militare? Ma lo stesso discorso politico, anche se vissuto
con grande passione -non da tutti: forte era anche il conformismo del branco- si alimentava
di miti eroici, romantici che, insieme all’ossessivo rifiuto dell’adulto, bloccavano a uno
stadio infantile il genuino entusiasmo giovanile.
Oggi c’è la tendenza a presentare queste cose come gli inevitabili “prezzi” di un movimento
di massa, che ha comunque cambiato la società italiana. Sul segno e la portata di questo
cambiamento ho molti dubbi, e quei “prezzi” mi appaiono dunque eccessivi.
Tra gli esiti intanto sono abbastanza significativi quelli personali, una serie di disinvolte
abiure, da quelle, relativamente dignitose, dei Nouveaux philosophes, a quelle indecorose,
specie in Italia, dei vari Liguori, Macciocchi, Mughini e bella compagnia, finiti in braccio a
Craxi e peggio.
Pretese conseguenze positive all’attivo del ‘68 sarebbero: antiautoritarismo, femminismo,
non violenza, ambiente, divenuti oggi valori diffusi della sinistra. Ma appena si guarda un
po’ più da vicino, la pratica antiautoritaria appare oggi dubbia già nelle mitiche assemblee,
pilotate a proprio piacere da pochi leader, e del tutto assente nella susseguente eliminazione
di ogni dissenso nei vari gruppi; ed era forse femminismo -a parte la totale assenza di leader
donna sia nel ’68 che nei gruppi derivati- che una ragazza “dovesse” perdere la verginità,
come prova di purezza ideologica -se non scopi coi “compagni” sei una borghese
reazionaria-? Della non violenza mi pare addirittura ridicolo parlare, mentre l’ambiente era
un tema del tutto assente nel ‘68.
E allora?
Dove sono infatti i pensatori, gli artisti, la cultura del ‘68? Restano solo catechismi maoisti e
guevaristi, oggi non so se più ridicoli o patetici, oppure delle incredibili stronzate
ideologiche, come la critica classista alle fiabe, con la condanna di Cenerentola che tradisce
la propria identità di classe!
In questo vuoto, erano canzoni e slogan ad avere la funzione centrale, non solo come
momenti della lotta politica, ma proprio come fonti, spesso le uniche, di cultura. E sono gli
inneschi più facili per la recherche dei media oggi.
Questi giudizi pesantemente negativi, al punto da apparire provocatori, mi hanno,
rileggendo, provocato un dubbio: possibile che un movimento quasi unanimente
esaltato non avesse niente di positivo? Eppure, se non cambiate, ha scosso le società
occidentali... dovevano dunque esserci ragioni forti, profonde.
Certo che c’erano. Strutture vecchie, oppressive -scuola in primis-, società
ingabbiata dal più soffocante conformismo... E gli inizi del Movimento studentesco,
anche in Italia, furono sacrosanti, con l’attacco a un’Università decrepita, dove
ancora vigevano incontrastati i più assurdi privilegi feudali; ricordo che a Perugia,
quando il Movimento studentesco rivelò con precisione questi privilegi su volantini
e manifesti, ebbe il consenso di tutta la città; così la denuncia -innescata da Lettera
a una professoressa- della dura selezione di classe della scuola italiana, sostenuta
da dati, esempi, argomenti, faceva breccia in molti insegnanti della scuola media: ne
ho avuto esperienza diretta, assistendo a vere e proprie vie di Damasco.
Poi, in poco tempo, cambia tutto. Il Movimento si “politicizza” (come se già
dall’inizio non fosse stato politico! Più preciso dire dunque che si ideologizza); i
temi iniziali cominciano ad apparire limitati, settoriali: la scuola fa parte della
società -il che è giusto-, quindi per cambiare la scuola bisogna prima cambiare la
società -e questo è molto meno giusto-. Rostagno scriveva:
Noi non vogliamo ottenere una scuola meravigliosa in una società che non lo è; una
scuola eguale in una società che è diseguale...
Ma non ci si ferma qui: siccome la società italiana è strettamente connessa alle altre,
al mondo e al sistema che ne domina una gran parte, non è possibile cambiare la
società italiana da sola, bisogna cambiare il mondo e abbattere il neocapitalismo che
lo domina...
Questa accelerata spirale di ideologizzazione avviene in gran parte per induzione
dall’esterno di teorie ed esperienze diverse: Guevara e i mille Vietnam, la
Rivoluzione culturale cinese, il verbo marcusiano dagli USA. Venivano
meccanicamente acquisite, enfatizzandone i caratteri più esteriori, come l’utopia
positiva del romanticismo spesso retorico del Che, o l’utopia negativa, ugualmente
romantica, di Marcuse. La chiusura conseguente a questa ideologizzazione è
testimoniata da Norberto Bobbio, che, nel De senectute, afferma:
nonostante i ripetuti tentativi, mi dovetti rassegnare al fatto che il dialogo col Movimento
studentesco non era possibile.
Dunque oggi non cambierei una virgola di quelle note, precisando che il rifiuto
riguarda la deriva ideologica e i suoi esiti perversi, non le ragioni, le molle iniziali,
giuste.
Ma la durezza dei giudizi mi provoca il dubbio di assomigliare a quegli spretati dal
PCI -personaggi a me particolarmente repellenti-, divenuti gli anticomunisti più
accaniti, ancor oggi ostinati nel loro odio ossessivo, senza accorgersi che il suo
oggetto non esiste più, è divenuto cosa del tutto diversa.
Il dubbio, fastidioso col suo fondo di senso di colpa, alimentato da quelle ragioni di
fondo giuste, mi ha spinto, da allora, a cercare conferme ai giudizi precedenti, in
libri letti solo “dopo”, come l’allora obbligatorio Marcuse, e in altri, a volte
incontrati per caso.
Le conferme:
Marcuse, pensatore a una dimensione
L’uomo a una dimensione è un libro mitico, oggi del tutto dimenticato; invece è
importante riesaminarlo, non tanto per il suo valore oggettivo, che, a mio parere,
giustificherebbe l’oblio, quanto per individuarvi gli elementi che hanno contribuito
a innescare la perversa spirale del post ‘68: gravi errori di analisi politica che, per di
più male interpretati, ritroviamo nelle aporie dei gruppi politici nati dal ‘68.
Dal suo pulpito oracolare Marcuse si lancia in una serie di previsioni -o meglio: profezietutte infallibilmente smentite dalla storia, a cominciare da quella di uno Stato del Benessere
in grado di riassorbire qualsiasi contraddizione e opposizione: con quel che succede oggi nel
mondo! Porta come prova l'integrazione dei sindacati USA al sistema, ma, parlando sempre
di 'società sviluppate', l’allarga implicitamente e arbitrariamente a tutto l’occidente: la totale
complicità dei sindacati coi padroni sarà, per i gruppi dell’extrasinistra europea, verità
rivelata, e le riviste 'teoriche', Quaderni piacentini, Potere Operaio, insisteranno a
profetizzare: il PCI verrà presto sicuramente cooptato al governo dai padroni!
Marcuse indica, come unica possibile forza alternativa alla perfetta macchina repressiva da
lui fumosamente disegnata, gli emarginati (“il sostrato dei reietti”), guardandosi bene dallo
spiegare perché e con quali prospettive: Lotta continua farà di questi ceti gli interlocutori
principali, il soggetto rivoluzionario per eccellenza.
Marcuse stesso del resto si compiacque molto di questo suo ruolo di guida
ideologica che lo appaiava, negli slogan degli studenti, a Mao e Marx; lo conferma
l’intervista tenuta, nel ‘67, tre anni dopo L’uomo a una dimensione, a Berlino tra gli
studenti in lotta; in essa Marcuse sostiene che l’utopia della rivoluzione era finita e
quindi era giunto il momento di passare a vie di fatto, attirandosi così, da Habermas,
la qualifica di “fascista di sinistra”.
Le conferme:
La violenza e la coscienza giovanile di Enrico Berti
Nel libro Università, cultura e terrorismo, pubblicato da Franco Angeli nell’ ‘84, il
contributo di Enrico Berti ricostruisce efficacemente il pesante clima dell’università
negli anni della “contestazione”:
...manifesti o volantini che esponevano singoli docenti al ludibrio, o li additavano come
nemici degli studenti o nemici della classe operaia. Ricordo i manifesti affissi nella mia
facoltà, in cui alcuni docenti “scomodi”, o perché non condividevano le idee
rivoluzionarie, o perché non si piegavano alle intimidazioni, e bocciavano, o pretendevano
che si studiasse (perché a questo si riduceva spesso la “rivoluzione”, a chiedere la
promozione gratuita o il trenta e lode per meriti politici), venivano “segnalati” al
movimento come nemici da colpire.
Berti denuncia anche la complice tolleranza di gran parte dei docenti:
Molti docenti che hanno personalmente assistito a danneggiamenti e sabotaggi del
patrimonio universitario, hanno lasciato fare senza intervenire e senza nemmeno
denunciare, come se si trattasse di cosa che non li riguardava. Ricordo di avere trovato
nelle aule scritte murali enormi, che richiedevano l’impiego di scale, effettuate durante le
ore di lezione senza che nessun docente le avesse mai impedite o denuciate. Non parliamo
poi delle continue interruzioni di lezioni, dell’imposizione delle cosiddette “assemblee” a
intere scolaresche recalcitranti da parte di sparuti gruppetti di prepotenti (…)
Al processo del maggio-luglio 1980 uno degli imputati dichiarò apertamente, allo scopo di
difendersi, che le azioni delle quali veniva accusato (interruzione violenta di lezioni,
“ronde”, insulti) erano state in precedenza sempre tollerate, anzi compiute col consenso
di alcuni docenti, per cui non capiva come ora potessero essere considerate dei reati.
Sono cose che conoscevo già, raccontatemi con indignazione da un docente,
comunista, dell’Università di Perugia ai tempi della mia sbronza, e ricordo di aver
compiuto acrobazie dialettiche, tirando in ballo i massimi sistemi, per giustificarle.
Le conferme:
I giornali dell’estrema sinistra di Patrizia Violi: “Servire il popolo”
Se il PCI era una chiesa, i gruppi usciti dal ‘68 erano delle sette, in cui
l’autoritarismo, la chiusura, il dogmatismo e l’intolleranza della chiesa si
esasperavano proprio in nome della purezza del verbo che questa avrebbe smarrito.
E’ un giudizio che mi si è confermato con forza leggendo, ne I giornali dell’estrema
sinistra, i tanti passi delle pubblicazioni dei vari gruppi in esso riportati; leggerli, o
rileggerli, mi ha destato sentimenti diversi -sorpresa, rifiuto, riso-: come
dimentichiamo presto! I giudizi benevoli di oggi seguono cliché mitici proprio
perché ignorano o dimenticano i dati di fatto. Per questo ne riporto ampi passi
significativi.
Violi esamina Potere operaio, Servire il popolo e Lotta continua, dalle origini al
‘72, cioè proprio il periodo della mia permanenza nell’area estremista.
Per Servire il popolo, pubblicato dal Partito Comunista d’Italia (marxista-leninista),
i passi riportati -e l’informazione che esistevano più di 30 gruppi marxisti-leninisti
nati da successive scissioni- provano come la definizione “setta” si attagli in modo
particolare a questo gruppo, che, rispetto agli altri, ha una netta accentuazione
religiosa a carattere confessionale, con tanto di liturgia, devozioni, agiografia,
catechismo, spesso dagli aspetti francamente comici.
La lotta politica è vista come lotta tra bene e male, tra buoni e cattivi; con una
retorica misticheggiante, a volte dagli echi fascisti (presenti del resto in quasi tutti
gli altri gruppi): si moltiplicano inviti a essere buoni, altruisti, insistendo su parole
come “amore”, “cuore”, “gioia”, “eroismo”; si prescrive di amare le masse e
temprarsi al fuoco della lotta di classe, si esalta l’eroico operaio, il futuro radioso,
la rivoluzione come fiamma inesauribile; un militante afferma io amo il P.C d’Italia
più di mia madre; il culmine è la descrizione del Paradiso terrestre socialista:
Le città si estenderanno armoniosamente integrandosi alla campagna, i monti e le rive del
mare saranno abitati dai vecchi riuniti in centri sociali, dai bambini e dai lavoratori per i
riposi ricreativi. Il vino e i buoni cibi del nostro paese saranno prodotti per tutti (...) E
l’Italia sarà un giardino fiorito.
Sulle forze del male grandinano aggettivi come ignobile, putrido, schifoso,
nauseabondo, squallido, nauseante, panzuto, disgustoso, putrefatto e via
vomitando, creando perle che neanche la parodia più spinta avrebbe potuto
immaginare:
...il putridume nauseante che avvelena la società, di individui che trascinano la loro
squallida esistenza rinnovando le orge e i bagordi di Roma imperiale... i borghesi panzuti
che fanno cene e orge da milioni... Andreotti e Gonnella capi del regno delle tenebre e dei
morti.
Ne derivano, coerentemente, i caratteri liturgici e devozionali; il corteo diventa una
processione con l’immagine del santo, come emerge da queste istruzioni:
A questo punto dei cortei ci deve essere un grande ritratto del compagno Mao Tse-Tung, il
più grande possibile, perché il popolo italiano deve amare profondamente il compagno
Mao (...) Bisogna sfilare uniti, con fazzoletti rossi al collo e col distintivo del partito
appuntato sul petto. Le parole d’ordine devono echeggiare in un coro unanime sotto la
guida dei compagni incaricati.
Il Partito risolve tutti i problemi:
Mamma, in alto il pugno, il Partito ti asciuga le lacrime! Moglie, in alto il pugno, il
Partito ti rende l’amore. Figlio, in alto il pugno, il Partito ti dà l’avvenire.
Non mancano testimonianze di miracolati e convertiti sulla via di Damasco,
esaltazioni del papa tanto amato, e matrimoni in chiesa con adeguato rituale:
Ho 27 anni, sono nato in un paese della provincia di Bari, sono figlio di contadini... Da
quando sono entrato nel Partito tutta la mia vita si è riempita di significato... ho ritrovato
la gioia di vivere...
Vi era anche una linea nera, capeggiata da un leader del Movimento Studentesco di
Napoli. Questo compagno ha capito che la sua intelligenza non esisteva al confronto di
quella dei veri comunisti e ha fatto l’autocritica trasformandosi, dicendo che cominciava a
vivere in quel momento.
La classe operaia italiana ha alla sua testa il suo figlio migliore. Noi amiamo il compagno
Aldo Brandirali perché egli più di ogni altro ama il nostro popolo italiano...
Il salone della sede provinciale milanese è addobbato in modo diverso dal solito. Su una
parete spicca la scritta “L’unità della famiglia comunista per l’unità del popolo sulla via
dell’insurrezione”. Vicino, due tavoli rivestiti di drappi rossi e sopra di essi, fra mazzi di
garofani, c’è un registro e il ritratto del compagno Mao Tse-Tung. (...) Infine la formula
di rito: “Vuoi unirti alla compagna per costituire una famiglia al servizio del popolo
italiano in marcia verso l’insurrezione popolare e l’instaurazione di un governo
rivoluzionario?” Infine il taglio della torta, decorata con una grande falce e martello.
E il ridicolo esplode infine nella più sfrenata autoesaltazione -il Partito Comunista
d’Italia è grande glorioso e giusto-, nella costante, assurda sopravalutazione della
propria azione: dopo le elezioni non si ha pudore a trasformare le poche migliaia di
voti raccolti in 85.000 baionette (!) pronte all’insurrezione.
Ridicolo infine anche il moralismo, ma con pesanti intrusioni in ogni momento della
vita privata e familiare, proprio come avviene nelle sette religiose tipo Testimoni di
Geova: dopo aver letto questa roba, sorprende ancora che Brandirali sia finito con
Comunione e Liberazione?
Le conferme:
il maoismo intellettuale
Ho usato spesso, ho dovuto usare, l’aggettivo “ridicolo”, ma il regime cui il P.C.
d’Italia si ispirava, il suo dio, Mao, hanno fatto in Cina milioni di morti col Balzo in
avanti, violenze e oppressione di massa con la Rivoluzione culturale. Questo
annulla in me, insieme al divertimento nel leggere quelle perle, il dubbio di aver
concesso troppo spazio a un gruppo marginale. Ma ridicolo e orrore, farsa e tragedia
non sono che due facce dello stesso assurdo accecamento della ragione.
Accecamento della ragione: anche un intellettuale del livello di Umberto Eco,
maestro di laicissima, disincantata intelligenza critica, è stato, in quei tempi,
contagiato dal mito del libretto rosso e della Rivoluzione culturale.
Nel 1971, al culmine della mia sbandata estremistica, trovo per caso da un amico un
libro, I fumetti di Mao, pubblicato da Laterza, con un commento di Eco. Me lo
faccio prestare, e il mio impatto coi fumetti cinesi è del tutto negativo: sono orrendi,
grondanti retorica, un vero e proprio catechismo illustrato. Leggo l’analisi di Eco -il
suo Diario minimo era già per me un libro-culto-, curioso di conoscere il suo
giudizio, e scopro deluso che è positivo.
Ho rintracciato quel libro; le acrobazie dialettiche compiute da Eco per dare una
valutazione positiva a fumetti che egli stesso trova bruttissimi (...un personaggio del
Cuore, e come tale appare insopportabile -e ad essere onesti lo è... il modo in cui
viene presentato ricorda tanti insopportabili libri di testo) non mi avevano convinto
neanche allora e oggi mi appaiono incredibili, quasi una parodia. Proprio come
quella sua, impareggiabile, in Diario minimo, dove I promessi sposi sono recensiti,
da un ipotetico rappresentante della ‘nuova critica’, come opera giovanile di Joyce,
interpretando personaggi e fatti come anticipazioni della complessa simbologia di
Finnegan Wake, per cui i capponi di Renzo indicherebbero il tema della castrazione
come non comunicazione!
Secondo Eco, quei bruttissimi fumetti svolgono una funzione positiva nei confronti
delle sterminate masse analfabete cinesi. Lui stesso li ha trovati insopportabili
paragonandoli a Cuore, ma non ne ha tirato le conseguenze: perché Cuore è
insopportabile? Perché è falso. Dunque quei fumetti diffondevano tra le masse
cinesi falsità, altro che funzione positiva!
Eco s’impegna a dimostrare, mettendo in campo tutti i suoi raffinati strumenti di
analisi della comunicazione, la superiorità etica e dialettica di un fumetto cinese nei
confronti di uno americano, il famoso Terry e i pirati di Caniff. Per far questo
sceglie nei due fumetti una situazione omologa -un superiore che dimostra la
necessità della collaborazione a un inferiore troppo individualista-, e dopo aver
analizzato i due frammenti in parallelo, fa una sintesi in nove punti (es: II:
Trasmissione autoritaria -del fumetto Usa- contrapposta a Dialogo -del fumetto
cinese-, V: Discorso d’élite contrapposto a Discorso di massa, VII: Individuo
contrapposto a Collettività), dalla quale dovrebbe emergere la superiorità -non di
qualità ma politica ed etica- del fumetto cinese, perché, secondo Eco, Terry viene
programmato mentre il cinese rimane autonomo:
...Terry sa ormai cosa dovrà fare, punto per punto. Lei feng inizia a studiare perché ha
solo ricevuto un’indicazione generale...
Ma se andiamo a leggere il fumetto cinese cui questo giudizio si riferisce, troviamo
Lei feng vittima del più dogmatico indottrinamento, in cieca adorazione del Dio
Mao:
Sulla copertina del libro di Mao, Lei Feng scrive quattro giuramenti: “Ogni giorno
studiare gli scritti del Presidente Mao - Ascoltare le parole del Presidente Mao - Seguire
le direttive del Presidente Mao - Essere un buon soldato del presidente Mao”
L’autoaccecamento di Eco non è dunque molto diverso da quello di Brandirali e
compagni; la premessa è la stessa, un atto di fede, ingenua e totalizzante quella di
Brandirali, con qualche disincantata riserva quella di Eco: la Rivoluzione culturale è
buona e la Cina è la nuova Mecca. Siamo noi ad essere cattivi e per questo non lo
capiamo: dobbiamo sforzarci di capire.
Chesnaux, autorevole sinologo, nell’altro commento al volume afferma infatti:
Essendo impossibile ricondurli alle nostre consuete formulazioni, alla nostra tradizionale
problematica, i fumetti della Cina popolare ci costringono a oltrepassare gli schemi rigidi
della nostra impostazione dualistica del pensiero. Dopotutto Cartesio non è cinese.
(...)Bisogna dunque affrontare la lettura di questi fumetti con occhi nuovi e bisogna
compiere uno sforzo mentale per “prendere le distanze” (Brecht) rispetto ai nostri criteri
di valutazione, i nostri gusti ecc.
E conclude:
I fumetti cinesi raccolti in questo volume vengono a sottrarci al nostro mondo fondato
sulla congestione dello sviluppo tecnologico, sulla ossessione del denaro e sul tragico
isolamento dell’individuo. Essi ci introducono in una società semplice e fraternamente
solidale, che non ci è dato trasporre meccanicamente in Occidente, ma il cui esempio
potrà forse aiutare l’Occidente a ritrovare un volto umano.
Più pudica ma omologa, la conclusione di Eco:
...abbiamo individuato una diversa funzione pedagogica e una concezione del mondo che è
assente dalle storie a strisce occidentali. Abbiamo intravisto il volto di una nuova razza di
lettori.
Abbiamo avuto a “fumetti”, l’incontro con un universo altro. Terry Lee e il Colonnello
Corkin dovrebbero cominciare a preoccuparsi.
Sento come un’idiozia -sconvolgente in gente di alta intelligenza- tirare in ballo
Cartesio per uno squallido catechismo. Gioca in questo anche l’aporia del
relativismo culturale, che, nato con la lodevole intenzione di combattere
l’etnocentrismo dell’Occidente, arriva a relativizzare anche l’etica dando patenti di
dignità culturale, e quindi di fatto legittimando, ai roghi di vedove e
all’infibulazione: anche Pol Pot è una “diversità culturale” che dobbiamo astenerci
dal giudicare per non macchiarci di etnocentrismo?
Infatti, a parte l’eterno alibi dell’ “alterità”, già usato per giustificare lo stalinismo, è
ingeneroso ricordare cos’è stata in realtà quella palingenesi da cui avremmo dovuto
prendere esempio? E nessuno, a quel che so, ha mai fatto autocritica di questo
autoaccecamento; neanche Eco, che però, qualche anno fa, ha attaccato giustamente
gli ex maoisti che inquinano la sinistra. Provo infatti un certo imbarazzo a tirar fuori
questo suo scheletro dall’armadio.
Il passeggero autoaccecamento di Eco va messo in conto a una delle tante
periodiche sbronze della ultrasinistra italiana, ma oggi fa ridere -amaro: tutte le
risate di questo sfogo sono amare- che il ‘68 “antiautoritario” trovasse tra i suoi
modelli
un
movimento
completamente
pilotato
dall’alto
per
rafforzare
l’autoritarismo!
Un altro assurdo che il maoismo nostrano ha rimosso con la massima indifferenza
sono le deliranti sparate cinesi sull’inevitabilità della III guerra mondiale, la
repellente contabilità di milioni di morti per minimizzarne gli effetti. Non sorprende
che tutto questo, e la cieca violenza anticulturale della Rivoluzione culturale
abbiano infine generato il mostro Pol Pot.
Non riesco dunque a capire come persone del livello politico e intellettuale di
Rossanda possano ancora rimpiangere Mao. Nel primo commento sulla strage, della
piazza Tien An Men, l'autoaccecamento le fa credere che dimostranti lottassero per
le idee di Mao!:
Una carneficina come non ne conoscevamo dagli anni venti, quasi che negli affossatori di
Mao fosse rispuntata la vecchia Cina feroce che Mao aveva vinto. E lo spettro dell’uomo
della Lunga Marcia terrorizza le loro menti senili: il loro comunicato lo vede dappertutto.
E forse a ragione. E’ la Cina democratica e rivoluzionaria che ha imparato la libertà e
non se la lascerà prendere, per terribili che siano i giorni che l’aspettano.
Come se nella Cina di Mao ci fossero libertà e democrazia, come se la Rivoluzione
culturale maoista non fosse stata ugualmente feroce! Si tratta forse della fedeltà
all’errore di cui si è parlato per Brecht a proposito della sua ostinazione nel
minimizzare il consenso tedesco al nazismo? “Fedeltà all’errore”, un ossimoro come
“compagni che sbagliano”. Ma non si tratta di veri ossimori, non equivalgono a
“ghiaccio bollente”, perché il termine positivo -fedeltà, compagni- rimane
prevalente, ed è quello il segno che arriva. Ma perché mai dovrebbe essere positivo
restar fedeli all’errore, come i reduci di Salò? Perché compagni che sbagliano
uccidendo persone innocenti dovrebbero essere ancora considerati compagni?
Anche Stalin, anche Pol Pot erano compagni che sbagliavano?
*
Ma debbo confessare che, per il passato, ho anch’io i miei scheletri, anche se per
fortuna non documentati a stampa; malgrado il mio istintivo rifiuto per i fumetti, per
le masse sventolanti il libretto rosso, mi sono aggrappato anch’io al mito della
nuova Mecca cinese. Era un’esigenza profonda, l’unico modo per far sopravvivere
la speranza, la parte migliore di noi (Morin).
Ricordo due occasioni. Un amico, musicista, che aveva creduto anche lui nel
Paradiso Sovietico, deluso e sconvolto ora respinge anche l’idea comunista; ed io
allora dài ad assicurargli che no, l’idea è viva, che negata in URSS sta dando i suoi
frutti in Cina: -Ne sei sicuro? -Sì! -Vedremo.... Abbiamo visto.
L’altra, quando due giovani del gruppo teatrale, messi in difficoltà nelle discussioni
da un loro amico liberale, una sera organizzano una specie di match tra lui e me,
con loro due ad assistere. Già la situazione mi imbarazza, poi le obiezioni del
giovane liberale mettono in difficoltà anche me. Così mi aggrappo alla Cina dopo
aver sparato sull’URSS più del mio avversario, grazie al mio passato trotzkista. Lui
tira fuori altre obiezioni, un libro di Parise sulla Cina che non conosco, ma che
cerco ugualmente di distruggere come se l’avessi letto, sulla base delle cose che lui
stesso me ne riporta. Metto in campo tutti gli artifici descritti da Morin, non
rispondendo alle obiezioni e attaccando: e allora il Vietnam?, e caricando la voce, la
foga dell’argomentazione.
E’ paradossale, ma significativo di quei tempi, che io uscissi da quel match
scontento, con la sensazione di aver perso ai punti, rimuginando a lungo gli
argomenti cui ero consapevole di non aver risposto, mentre il mio avversario, pochi
mesi dopo, entrava in Lotta continua come i due giovani spettatori!
Le conferme:
I giornali dell’estrema sinistra di Patrizia Violi: “Lotta continua”
Vi aderii anch'io per le ragioni già esposte, ma in teoria mi convinceva anche il
linguaggio del giornale, semplice e diretto, opposto ai generici e astratti gerghi che
imperavano nel PCI e, in forma diversa, negli altri gruppi. Nella pratica, invece, la
lettura rafforzava i miei dubbi; oggi, rileggendone o leggendone per la prima volta
passi nel libro di Violi, ne sento tutta la demagogia, la rinuncia a priori di ogni
forma di analisi, di approfondimento.
Il settarismo e il trionfalismo emergono in modo non meno netto che in Servire il
popolo. Oggi li sento come sintomi di una identità fragile, quasi infantile nel suo
sfogarsi a insultare, oltre agli odiati PCI e sindacati, gli altri gruppi:
Il Movimento studentesco ha generato solo utili idioti al servizio del riformismo - I gruppi
operaisti sono “infantili” e staccati dalle masse.
E gli altri gruppi rispondevano raddoppiando gli insulti: scemo! No, scemo tu!
Ma l’insulto esime dal portare argomenti, evidentemente assai confusi, e rafforza
artificialmente l’identità; il nodo centrale resta la natura di setta di questi gruppi:
sette concorrenti.
Rivisto da lontano questo settarismo giovanile presenta anche, a volte, caratteri della
vecchia goliardia: nell’autorità degli anziani, nella derisione violenta -i capi e i
crumiri acchiappati al lazzo in un corteo, o beccati nascosti in un refettorio e
presentati ai compagni tenendoli per il bavero-. Ma soprattutto nella nostalgia dei
reduci, a cominciare da Sofri, per il piacere dello “stare insieme”, considerato oggi
uno dei principali elementi positivi; Erri de Luca scrive:
Non ricordo neppure un argomento politico di allora. Ricordo certi odori, i sentimenti, i
toni di voce, certi sorrisi: L.C. era la risposta ad un bisogno di amicizia nella sua forma
più larga e profonda.
Dal settarismo come difesa di un’identità fragile, nasce il trionfalismo come bisogno
di sentirsi, credersi grandi, potenti. Il libro di Violi è pieno di esempi, che rivelano
l’infantilismo di fondo nel continuo scambiare i propri desideri per realtà, la
“mentalità magica” di cui parla Morin.
I tempi per arrivare a una “svolta politica risolutiva” sono sempre brevissimi, si
afferma perentoriamente che
Lotta continua prenderà il potere! I padroni sono ormai alle corde, sono tigri di carta...
Ancora: I sindacati sono finiti, disfatti nel crollo delle loro stesse ambizioni riformiste. I
progetti riformisti del grande capitale italiano sono andati in fumo, e con loro il governo
che doveva rappresentarli. Noi sappiamo che il governo l’abbiamo buttato giù noi... Chi
ha vinto queste lotte? Le abbiamo vinte noi!
Questa ubriacatura permanente spiega l’assurdo, clamoroso abbaglio sulla rivolta di
Reggio del 1972, egemonizzata dai fascisti, che aveva come obiettivo dichiarato di
allargare il clientelismo e il sottogoverno grazie a Reggio capitale del nuovo istituto
regionale. Vale la pena di riportarlo ampliamente, perché si ha la netta impressione
che, nel recente risveglio d’interesse dei media per Lotta continua, gli ex dirigenti
intervistati queste cose se le siano dimenticate:
La rivolta di Reggio, dove più di 10.000 poliziotti non sono riusciti a portare l’ordine e
anzi non osano entrare in alcuni quartieri, ci può far capire come le tappe di un processo
rivoluzionario possano venir bruciate rapidamente dal carattere esplosivo della situazione
italiana... La nostra impressione immediata è che nel Meridione d’Italia si presenti una
situazione ‘oggettivamente rivoluzionaria’... Il controllo militare e proletario di intere
zone, quartieri, paesi, è esso stesso una possibilità non remota.
Lotta continua e la violenza
Da questi passi esce molto chiara anche la caratteristica più negativa e pericolosa di
Lotta continua: la sistematica esaltazione della violenza.
Luigi Bobbio, in una intervista, ha affermato con forza che L.C. non è mai stato un
gruppo terroristico. E’ vero, proprio sul rifiuto del terrorismo Lotta continua ha
avuto il coraggio di sciogliersi, ma lo stesso Bobbio deve ammettere che molti
terroristi provenivano da lì -come la frangia che si staccò per dar vita a Prima
Linea.- Perché? Risponde Erri de Luca:
Noi avevamo per anni discusso di violenza. Non prendiamoci in giro, per noi, per una
intera generazione la violenza era nelle cose: ogni sabato c’era un corteo, ogni sabato gli
scontri con la polizia. E poi i fascisti. (...) Dopo Moro ci accorgemmo che eravamo
diventati uguali al nemico.
E’ una risposta confermata dalla rilettura del giornale, col suo ossessivo insistere
sugli scontri con la polizia descritti in modo esaltante:
La gente fa barricate in ogni strada. Arrivano le bottiglie la benzina: le prime Molotov
sono già pronte...
Ogni cosa era un pretesto per battersi, per esprimere la propria ribellione. Tutte le strade
della zona sono state disselciate, centinaia di bottiglie Molotov...
E la violenza viene predicata apertamente, teorizzata:
La violenza è capace di liberare il lavoratore dalle inibizioni, dalle paure, dai timori.
La violenza è sempre espressione dei bisogni concreti delle masse in quel momento, e
serve ad elevare la loro coscienza politica.
L’aggressività e la violenza proletaria è sempre più il modo di essere e di lottare degli
operai e di tutti gli sfruttati.
E la violenza non si dirige solo sulla polizia, ma spesso anche sul sindacato e gli
altri lavoratori; il tono compiaciuto con cui viene descritta la seguente scena di
ludibrio è repellente:
Alla Fiat Mirafiori i dirigenti sono stati più volte costretti a sfilare tra due file di operai
inferociti. Sulle loro teste calve, imperlate di sudore e cosparse di sputi, le monetine da
cinque lire tirate dagli operai si incollavano come coriandoli.
Ma ancora Bobbio, in una intervista a L’Unità nel ’94, dice:
Una responsabilità noi vecchi di L.C. ce l’abbiamo? non aver saputo parlare a questi
ragazzi, non aver capito che per una generazione più giovane la politica cominciava a
coincidere con una specie di militarizzazione. Non li abbiamo capiti, non ci siamo fatti
capire.
No, Bobbio, avete saputo parlare e vi siete fatti capire, ma proprio nella direzione
della militarizzazione: non era un discorso chiaro l’esaltazione delle Molotov, il
farneticare di “controllo militare e proletario di intere zone”? Un giovane
compagno, dirigente di L.C. a Perugia, tornò dalla sede centrale di Roma spaventato
dall’atmosfera militare, da fortezza assediata, con controlli da base NATO.
La lotta “bella”, la recita della rivoluzione
E dalle esaltanti -ed esaltate- descrizioni degli scontri mi pare esca chiaramente il
significato profondo, inconsapevole che aveva la “lotta”, elemento base tanto da
dare il nome al gruppo, per i dirigenti di L.C. Era un valore in sé, indipendente dagli
obiettivi, direi estetico -le lotte sono sempre “bellissime”-, come recita di un
immaginario romantico, soprattutto cinematografico.
Vedi la citazione da Sciopero di Eisenstein, quando, raccontando un corteo in
fabbrica, si descrivono:
delegati, capi, crumiri, guardiani e impiegati che fuggono, si rintanano... si acquattano
all’ombra delle macchine...
Ecco: recitavano -vivevano- un film di Eisenstein, come i nobili francesi della
Fronda recitavano coi loro “bei gesti” una tragedia di Corneille, del tutto incuranti
delle disastrose, controproducenti conseguenze politiche.
Come Julian Beck, leader del Living Theater, uno dei più geniali uomini di teatro
del dopoguerra, ma che a Perugia, nel ’67, scriveva:
non votare non pagare tasse sfida la polizia brucia il denaro fora pneumatici sollèvati
distruggi l’intera cultura lìberati dal passato caca su tutto (MEDITAZIONE
SULL’AZIONE)
Nel maggio ‘68 a Parigi, durante l’occupazione del teatro Odéon (che danneggia
seriamente il teatro, facendone così perdere la direzione a Jean Louis Barrault che
aveva aperto le porte agli occupanti) Beck descrive, inconsapevolmente lucido, la
recita della rivoluzione:
L’occupazione dell’Odéon ebbe tutti gli elementi del grande teatro: un cast di brillanti
personaggi, grandi tirate poetiche, conflitti di idee (...) l’emergere del popolo come eroe...
(...) Il dramma era nella sala, non sulla scena, ma nel teatro dove gli spettatori erano
diventati i protagonisti e rappresentavano la Tribuna della Rivoluzione, un grande
dramma in 30 giorni.
Ma presto è la violenza reale a dominare. Su Lotta continua si descrivono, con
compiacimento:
10.000 operai, ognuno con una sbarra di ferro in mano, che scandiscono: “Agnelli,
l’Indocina ce l’hai in officina”
e i bastoni divengono un ingrediente fisso dei cortei degli studenti, facendo di nuovo
scattare l’aggancio con le guerre delle bande giovanili USA. E guerra di bande fu in
realtà quella combattuta, negli anni immediatamente successivi, con i giovani
neofascisti: lo slogan urlato nei cortei Hazet 36 fascista dove sei? è allucinante,
perché rivela, nella completa assenza della minima giustificazione ideale, un
atteggiamento, appunto, da banda giovanile, da ultrà degli stadi, dove chi porta un
altro colore è un nemico da distruggere.
Hazet 36 era la chiave inglese usata negli scontri, quella che uccise, nel marzo 1975,
il neofascista Ramelli, di 19 anni; la testimonianza del suo uccisore, Maurizio
Costa, resa a Zavoli, è sconvolgente: quando si accorge che quello che ha di fronte è
un giovane come lui, non può “lasciar perdere”, costretto dalla forza che c’era in
tutti noi, la forza dell’ideologia. E conclude:
Io ho sempre avuto la sensazione che in quegli anni ci fossimo dilaniati gli uni con gli
altri, giovani contro giovani, ed è una cosa che non deve più ripetersi.
Non cè stato forse qualcuno che ha giocato all’apprendista stregone?
Anche le canzoni invitavano alla violenza, a cominciare dalla mitica Contessa. E le
canzoni, insieme agli slogan, erano la cultura politica di base, a volte l’unica, di
quei giovani. La pubblicazione della collana CD Avanti popolo mi permette di
confermare la cosa con alcune citazioni scelte tra tante:
CONTESSA: Compagni dai campi e dalle officine / prendete la falce, portate il martello
/ scendete giù in piazza, picchiate con quello / (...) Vogliamo vedervi finir sotto terra.
CACCIA ALLE STREGHE: Ed ho visto le autoblindo rovesciate e poi bruciate, / tanti
tanti poliziotti con le teste fracassate. / La violenza, la violenza, la violenza, la rivolta
BALLATA DELLA FIAT: S’è visto anche tante mani / che al sampietrino cominciano
andar
‘A FLOBERT: E con la forza della disperazione / di fascisti e di padroni / facciamo un
solo mucchio, un gran falò.
Senza contare le canzoni “internazionaliste”, con l'esaltazione ossessiva della lotta
armata come unica via.
Conclusioni
Risibile, dopo tutti i passi precedenti, l’alibi di Capanna, quando afferma che
all’inizio le manifestazioni non erano violente e lo sono divenute per la necessità di
difendere nelle strade e nelle piazze i diritti di libertà e democrazia: è una
gravissima cecità politica il non capire come la risposta violenta agli attacchi della
polizia era proprio l'obiettivo dei nemici della libertà e della democrazia per
dimostrare che l’Italia era nel caos e ci voleva il pugno duro! La storia del
Movimento Operaio è piena di queste provocazioni: se fossero state raccolte, i
“diritti di libertà e democrazia” conquistati dalle lotte operaie oggi non
esisterebbero. Quando hai picchiato i poliziotti, quando li hai respinti, quando hai
“vinto”, poi che fai: l’assalto al Palazzo d’Inverno, la Rivoluzione?
Ma la strategia di L.C. non va mai oltre lo scontro con la polizia in una
manifestazione o per difendere un’occupazione di case. Solo rivolte cieche -la storia
ne è piena- e, spesso, luddismo: gli apprendisti sfogano la propria rabbia
attraverso azioni istintive per distruggere le cose del padrone. Come il Canzoniere
Pisano che cantava: sabotar la produzione / non c’è altra soluzione.
E, come nelle rivolte e nel luddismo, le conseguenze, che provocano sempre un
peggioramento delle condizioni dei protagonisti, sono del tutto rimosse nel
momento dell’azione, il che se è comprensibile in un moto spontaneo, lo è molto
meno per un movimento organizzato, diretto da intellettuali che proclamavano di
richiamarsi al marxismo: è la conferma definitiva dell’infantilismo di fondo del loro
approccio alla politica: Estremismo malattia infantile del comunismo. Ma Lenin non
l’avevano letto, era solo un nome da gridare negli slogan.
Infantilismo. Basta vedere qual era la loro idea della teoria politica:
La capacità di trasformare le assemblee proletarie in tribunali popolari che individuano e
processano i responsabili dell’oppressione.... dei crimini che quotidianamente vengono
perpetrati contro gli sfruttati dai padroni di casa, dai negozianti (!),dai sindacalisti (!!),
dagli insegnanti (!!!)...e da tutti i crumiri, spie, ruffiani, traditori che costellano questa
società (e dopo aver emesso la sentenza qual era la pena?) è il modo concreto con cui le
masse si appropriano del marxismo.
(Testuale: nel n.11 del II anno: esclamativi, parentesi e sottolineatura sono miei)
Ancora:
La chiara visione che l’operaio deve avere può essere data solo dagli esempi tratti dalla
vita, da ciò che si dice e si sussurra nei crocchi.
E per far apparire chiaramente questo infantilismo basta porre, dopo i loro slogan, la
domanda: E dopo?
La scuola borghese non deve più bocciare: e dopo? Cosa sapranno e faranno i
diplomati di questa scuola? La casa è un diritto, perciò bisogna prenderselo: e
dopo? Forse: padrone impiccato affitto pagato? Dopo arriva la polizia e allora si
fanno le barricate: e dopo?
Che diamine, dopo si fa la rivoluzione: dall’assalto al condominio a quello al
Palazzo d’Inverno. Ci si sbronza a parlare di rivoluzione. A parlare. Un militante
dice:
Se non parli di rivoluzione fai sempre la figura del delegato; la gente deve sapere che tu
vuoi fare la rivoluzione, se non lo sanno, tu non diventi né avanguardia, né altro.
E come si fa la rivoluzione? Semplice: Per fare la rivoluzione c’è un unico modo,
far fuori i padroni.
Parlare, parlare tanto di rivoluzione, viverla come in un film, gridando L.C.prenderà
il potere.
Come? Tirando sassi ai poliziotti?
Intanto, per realizzare questa recita della rivoluzione si mandano allo sbaraglio tanti
poveracci -in un film del genere ci vogliono molte comparse-. Sarebbe interessante
andare a verificare quali sono state per loro le conseguenze di quelle “bellissime”
lotte. Significativo che nessuno, anche in occasione del revival di attualità, abbia
pensato di farlo: la storia continua a occuparsi solo dei capi.
Non è un caso che Secchia, mitizzato dai gruppi estremisti come unico dirigente
“rivoluzionario” nel PCI, avesse detto:
Togliatti aveva dimenticato l’insegnamento leninista: la lotta disperata delle masse è
necessaria per una loro ulteriore educazione.
“Disperata”!. Ovvero: farne morire dieci per educarne cento. E non è un caso che lo
stesso Secchia in quegli anni stringesse rapporti con Feltrinelli: lo stalinismo dunque
-come confermeranno i discorsi dei terroristi- andava benissimo ai gruppi estremisti,
che, alla faccia del loro sbandierato antistalinismo, ne adottano anche alcuni metodi.
PARENTESI SULLA “VIOLENZA RIVOLUZIONARIA”
Il nodo della violenza ha preso via via tanta importanza che sento il bisogno di
fermarmi per una riflessione più approfondita. E' una lunga digressione, ma nella
mia autobiografia i fatti politici non sono molti: la cosa più importante sono quindi i
sentimenti provocati dagli avvenimenti e dalla lettura di giornali e testi.
I germi
I gruppi dell’ultrasinistra postsessantottina hanno dunque svolto il ruolo di cattivi
maestri, apprendisti stregoni, anche a causa dell’assurdo scarto tra realtà e
trionfalismo: all’interno dei gruppi c'era gente che, sentendo l' incongruenza tra la
predica della rivoluzione e scontri di strada, ha cominciato a prendere alla lettera gli
slogan sul far fuori i padroni, a eseguire le sentenze dei “tribunali popolari” contro i
sindacalisti.
Ma i germi di questa sbronza di violenza verbale c’erano da prima. In una delle
patetiche, sparute riunioni nel 65-66, qualcuno affermò che ormai non restava altro
da fare che mettere bombe nelle basi americane: il “buttiamo a mare le basi
americane” di Assuntino. Imperversavano slogan come “il potere nasce dalla canna
del fucile” e “non si può fare la rivoluzione senza rompere le uova”, mentre
Guevara invocava i mille Vietnam.
Il Vietnam e Guevara hanno certo pesato in modo decisivo nel mettere in moto la
spirale della violenza. L’iniquo intervento USA, massiccio, tecnologico, all’inizio
appariva strapotente: ci esaltavamo e commuovevamo per gli eroici vietcong che
tenevano in scacco il gigante, ma la spietata escalation poneva pesanti dubbi sulle
loro possibilità di vittoria. La lettura quotidiana delle notizie dal Vietnam era fonte
di una vera, rabbiosa angoscia impotente, che si stendeva come un velo cupo su
tutta la giornata; ricordo certe mie fantasie infantili di missili portatili teleguidati
che spazzavano dal cielo i mostri: era quasi una preghiera, un’invocazione. Si
vagheggiava, anche tra alcuni esponenti del PCI, la costituzione di nuove Brigate
internazionali, ma la peculiarità della lotta dei vietcong rendeva del tutto inutile
questo aiuto: anzi, nella giungla i volontari sarebbero stati un peso, e l’idea abortì
sul nascere.
Il “Che”, col suo appello dei mille Vietnam, diede una risposta a questa tormentosa
impotenza:
la solidarietà occidentale con la lotta del popolo vietnamita somiglia a quella della plebe
romana per i gladiatori nel circo.
L’impotenza divenne senso di colpa, e il Vietnam in casa entrò nell’orizzonte
fantastico: lo scontro con la polizia ne era una prefigurazione e le manganellate
guarivano dalla vergogna. Ma nell’appello del “Che” c’erano semi velenosi che
germogliarono più tardi, paradossalmente quando i vietcong avevano già vinto:
Bisogna far la guerra in tutti i posti dove la fa il nemico: nella sua casa, nei luoghi dove si
diverte e si riposa. Bisogna fare una guerra totale. Bisogna attaccarlo dovunque lo si
incontra.
Una chiara incitazione, purtroppo seguita, al terrorismo.
Arrivò poi il Maometto di Guevara, Debray, con Rivoluzione nella rivoluzione e la
teorizzazione della guerriglia come metodo di lotta infallibilmente vincente. Ricordo
che ci convinse tutti, come fosse un teorema scientifico, logico, chiaro,
incontrovertibile -era perfino troppo facile!-: la guerriglia, colpendo l’esercito,
strumento oppressivo di un potere corrotto, crea consenso tra i contadini, facendo
così progressivamente ingrossare le proprie file, fino all’entrata trionfale nella
capitale.
Certo, fa ridere –amaro, come sempre- ripensare oggi a Debray dopo aver visto in
TV le milizie contadine autoorganizzatesi contro i guerriglieri di Sendero luminoso,
ma quel libro fu un altro potente innesco all’immaginario della violenza
rivoluzionaria, un coktail velenoso che presto trasformerà in sbronza, in alcuni casi
in delirio, la sacrosanta indignazione, non solo giovanile, per l’ingiustizia e la
prepotenza.
E fu un duro colpo quando, nell’ottobre del 67, la formazione di Guevara fu
annientata in Bolivia e il Che assassinato il giorno dopo. Stupore: ma allora?...
Incredulità per le notizie che davano i guerriglieri ridotti agli estremi, circondati
dall’indifferenza, a volte dall’ostilità, dei contadini. Incredulità per la stessa morte
del Che -un’altra balla della CIA- replicando, inconsapevolmente, il finale del film
di Kazan su Zapata, con l’indio che dice: non è morto, cavalca sulla Sierra...
E’ ovvio che poi, dopo il mio distacco dall’estremismo, le parole d’ordine del Che
mi siano apparse sempre più sbagliate e pericolose, proprio per il fascino mitico
della sua figura, anche se oggi quel fascino continuo a sentirlo anch'io, in tranquilla
coesistenza col giudizio negativo.
Per questo non mi sono scandalizzato quando è esploso il boom mediatico e
consumista con T shirt e gadget, la Chemania, come hanno fatto tanti nostalgici,
che l’hanno vissuto come un tradimento, un rovesciamento della sua figura. Al
contrario, io penso che la Chemania trovi alimento proprio nei tratti -e difettifondamentali di questa figura, principalmente nella sua concezione romantica della
politica, cui corrispondevano perfettamente gli atteggiamenti, le parole d’ordine, gli
scritti:
Che cosa ci importa dove ci sorprenderà la morte. Che essa sia la benvenuta purché il
nostro grido di guerra sia ascoltato, che un’altra mano si tenda per impugnare le nostre
armi, che altri uomini si levino per intonare i canti funebri nel crepitare delle
mitragliatrici e dei nuovi gridi di guerra e di vittoria.
Retorica bolsa, con echi fascisti, ma quel che stacca il Che dai suoi seguaci dei
gruppi è la coerenza con cui ha informato la propria vita a questa idea romantica,
pagando di persona: la rivoluzione per lui non era una recita.
Nella sua biografia del Che, Castaneda conferma questi caratteri romantici,
indicando come sue principali qualità elementi irrazionali e non politici quali il
coraggio, il carisma e il magnetismo, rilevando il suo odio per le contraddizioni, che
egli -come i gruppi che lo mitizzavano- si limitava a semplificare radicalmente. Ma
soprattutto Castaneda chiarisce come l’avventura boliviana sia al fondo una scelta di
morte; lo prova l’insistere in essa dopo che Fidel lo aveva richiamato a Cuba, e
quando era ormai evidente la mancanza di ogni appoggio da parte del partito
comunista boliviano. E non dice niente del richiamo ai compagni: non si cura -altro
segno negativo di individualismo romantico- di mandare allo sbaraglio altre persone
per realizzare il proprio sogno.
Ma, tutto sommato, sono conferme inutili: il romanticismo, politicamente velenoso,
del Che, la retorica di “vittoria o morte”, la rimozione dei terribili costi umani dell’
“uno, due, tre, mille Vietnam” erano chiari già allora dai suoi scritti. Noi non li
coglievamo, ubriacati dallo stesso sogno dell’incendio finale del Walhalla
capitalistico.
Gli esiti
Gli esiti sono noti -autonomia, terrorismo...- , da me vissuti con una netta condanna
già prima del distacco.
Nel gruppo teatrale parliamo delle azioni terroriste della RAF, io ne stigmatizzo
l’insensatezza, ma un giovane mi risponde con gli occhi brillanti: “sì, ma ne hanno
tanta paura!”. Far paura agli adulti: ancora infantilismo...
Per l’assassinio del commissario Calabresi, nel 1972, la nostra risposta immediata è
che si tratta di una provocazione fascista per sputtanare l’ultrasinistra. Il cui prodest
era d’obbligo, ma visto come sono andate in realtà le cose, quella prima, istintiva
risposta rende ancora più evidente la cecità politica del gesto. La stessa risposta
l’avevamo data due mesi prima per la morte di Feltrinelli: non riuscivamo ad
accettare, ci sembrava addirittura ridicolo che avesse voluto davvero far saltare un
traliccio dell’alta tensione!
Ma la cecità politica aveva una causa profonda, anche se aberrante, il mito della
Resistenza, specie dei GAP (nome non a caso usato da un gruppo terrorista), che
agivano nelle città giustiziando capi fascisti, spie, torturatori. Per una delirante
analisi politica, l’Italia di quegli anni veniva equiparata all’Italia occupata dai
nazisti, e, accettato questo, anche uccidere un poliziotto, far saltare un traliccio
divenivano azioni giuste, utili. Che nel ‘72 in Italia non ci fosse una guerra in corso,
che dall’altra parte non ci fossero le SS -cosa che, tra l’altro, rendeva le azioni
“eroiche” molto meno rischiose (ma si gridava “PS SS!”)- ma un governo borghese,
corrotto ma pur sempre democraticamente eletto, erano sottigliezze irrilevanti,
perché c’era comunque, altrove e dappertutto, il grande Moloch orwelliano
dell’imperialismo USA, contro cui il Che aveva invitato a lottare in ogni luogo.
Per
Feltrinelli
poi
giocava
certamente,
ancora
una
volta,
l’ossessione
dell’intellettuale che non vuol più solo predicare, ma che, per superare la “coscienza
infelice” e il senso di colpa impotente, deve “passare all’azione”, mettendo in
pratica le cose illustrate nei manuali di guerriglia che egli stesso aveva pubblicato.
Altre considerazioni: finora, a quel che so, nessuno ha rilevato che lo slogan delle
BR “colpirne uno per educarne cento” ha la stessa filosofia -dimostratasi
radicalmente sbagliata, oltre che eticamente inaccettabile- dei sostenitori della pena
di morte.
E' sempre l’immaginario romantico a dominare idee e comportamenti dei terroristi:
la maggioranza di loro -tranne casi isolati di grande coraggio e onestà intellettuale
come Fenzi- non ha rinnegato nessuno dei propri atti, si è dichiarata semplicemente
“sconfitta”, rimandando al cliché dell’eroe romantico, sempre sconfitto ma non
domo.
Ma, malgrado tutto, i capi brigatisti intervistati da Zavoli mi repellono meno dei
filmati delle manifestazioni, con gli slogan trucidi e le spranghe ostentate... Fumi
elitari? Ma i partecipanti ai cortei non erano certo le mitiche “masse popolari”,
erano ‘massa’ solo in quella determinata situazione, e allora per capirne i
meccanismi forse serve più Canetti di Marx.
La matrice ideologica: l'anarchismo violento
L'esito terrorista rivela che, malgrado lo sbandierato marxismo, la vera matrice
ideologica dei gruppi -già chiara del resto nei passi di Lotta continua- era
l'anarchismo violento, le cui canzoni inneggiavano ossessivamente a pugnale e
ideale, a madama dinamite e al suo schianto redentore, incitando a metter mano
alla bomba e a impugnar l'acciar contro il pingue fannullon, che gavazza col sudor
frutto del tuo lavor.
Ritroviamo le stesse immagini nell'antologia Poeti della rivolta -fine '800 inizio
'900- curata da Pier Carlo Masini. Per esempio l' “Ode alla rivoltella” di Cesare
Testa -calibro nove, calibro dodici / sono i miei codici, son le mie prove-; o
l'esaltazione del petrolio per bruciare il mondo borghese in Domenico Milelli, e
della dinamite in Vittorio Salmini; ci sono anche i panciuti epuloni dondolanti al
vento dai neri lampioni di Enrico Onufrio, il riccone, sempre panciuto e sempre
appeso al solito lampione di Carlo Monticelli, in momenti di barbaro gioire.
Sono evidenti le corrispondenze -a volte con linguaggio aggiornato, a volte
immutato: i “panciuti”- con elementi delle canzoni e dei giornali estremisti: il
petrolio, divenuto benzina per le Molotov, è sempre in primo piano
Le poesie ci dicono anche come alcuni intellettuali abbiano, dall' '800, flirtato con la
violenza. E' un atteggiamento estetizzante: nessuno tra i 'poeti della rivolta' o tra gli
autori delle canzoni ha mai sparato o tirato bombe, ma è un fatto che poi c'era chi lo
faceva sul serio. Certo, il rapporto non è così meccanico: “sparo, butto una bomba
perché ho letto quei versi o cantato quella canzone”. I versi e le canzoni
esprimevano un'ideologia preesistente, ma è indubbio che acceleravano la spirale
della violenza.
Colpe anche più gravi hanno quegli intellettuali che si pretendono teorici: Toni
Negri, oltre alla famosa frase sulla bellezza della “geometrica potenza” dell’azione
assassina di via Fani, scrive:
risento il calore della comunità operaia ogni volta che mi calo il passamontagna, ogni
azione di distruzione o di sabotaggio ridonda su di me come segno di colleganza di classe.
e, in Dominio e Sabotaggio, edito da Feltrinelli nel ‘ ‘78:
Un animale, vivo, feroce con i suoi nemici, selvaggio nella considerazione di sé, delle sue
passioni -così ci piace prevedere la costituzione della dittatura comunista. L’ordine delle
funzioni e dei contenuti non può che instaurarsi sulla vitalità della bestia proletaria...
La sinistra estrema non riesce a tutt’oggi a liberarsi di questo atteggiamento
d'infantile, compiaciuto demonismo, che ha raggiunto il suo massimo nella
successiva “fiammata” del ‘77.
Credo utile, in questi tempi di cortissima memoria, ricordare alcune cose
dell'anarchismo violento, anche se scontate per chi conosce appena un po’ di storia
del movimento operaio.
Che il suffragio universale è la controrivoluzione e che quindi è inutile per le classi
oppresse partecipare alla lotta politica con gli strumenti scelti dal ceto dominante
l’ha detto Proudhon più di 120 anni prima dei gruppi, e non dobbiamo fare scuola
al popolo ma portarlo alla rivolta, teorizzando l’azione spontanea del proletariato,
l’attività insurrezionale guidata da stati maggiori ben organizzati l’ha proclamato
Bakunin un secolo prima di Lotta continua.
Ed è opportuno ricordare infine che, dopo il fallimento di questi tentativi
insurrezionali (per esempio in Italia tra il 1874 e il ’78), e la conquista
dell’egemonia sul movimento operaio da parte del marxismo, l’anarchismo si infilò
nella spirale del terrorismo individuale, con l’obiettivo di svegliare le plebi
dall’apatia: non ricorda qualcosa?
Non si può che condividere l'ideale, l'utopia anarchica di un mondo dove non ci sia
più il potere dell'uomo sull'uomo, quindi senza violenza, ma pensare di realizzarlo
proprio con la violenza innesca lo stesso diabolico meccanismo che ha rovesciato in
orrore l'utopia comunista. Certo, esistono anche gli anarchici “apostoli” -i
Malatesta, i Pinelli-, che si affidano solo alla testimonianza e alla predicazione, ma
sono una piccola minoranza: prevalente è il coté violento.
E’ un filone irrazionale, violento che ha accompagnato il cammino del movimento
operaio provocandogli gravi danni. Le sue azioni infatti, come già rilevato per Lotta
continua, lasciavano sempre in condizioni peggiori di prima quegli oppressi per cui,
in buona fede, si credeva di lottare. Innumerevoli episodi storici lo confermano; per
esempio il primo maggio di sangue di Chicago, nel 1886, da cui nacque la Festa dei
Lavoratori: il giorno dopo il massacro di operai da parte della polizia, alla
manifestazione di protesta, gli anarchici, per “vendetta”, lanciarono una bomba che
uccise sette poliziotti e quattro civili, facendo così scatenare la caccia ai “rossi”, con
nove militanti impiccati ingiustamente e, quel che più conta, con una decisiva
battuta d’arresto del movimento operaio americano.
Mario Tronti, in un libro di commenti al Libro nero del comunismo pubblicato dal
Manifesto, distingue lucidamente tra forza e violenza:
La forza non ha bisogno della violenza. Un esempio di questo sta nella storia del
Movimento operaio: quando esso ha messo insieme lotte, organizzazione, teoria,
egemonia, non solo non ha esercitato violenza, ma l'ha combattuta e sconfitta,
dentro di sé e nelle intenzioni del proprio avversario. C'è una forza della non
violenza, ma solo quando la non violenza viene declinata come forza.
Qualcuno, non ricordo chi, ha affermato che la violenza è la levatrice della storia.
D'accordo, ma fa nascere solo mostri.
Per concludere: c'è un solo caso nella storia in cui l'estremismo violento abbia
migliorato le condizioni degli oppressi?
*
Credo opportuno infine rilevare come questa velenosa matrice ideologica, -e non
solo l'esaltazione della violenza, ma anche il suo pendant di irrazionalismo e rifiuto
della cultura-, fosse presente fin dalle origini, nel mitico Maggio francese, come
prova questa serie di scritte sui muri di Parigi. Una scelta limitata, in funzione
esemplificativa: avrebbe potuto essere molto più lunga.
Presto delle affascinanti rovine.
La passione della distruzione è una gioia creatrice (Bakunin).
Se vuoi essere felice, impicca il tuo proprietario.
Non c'è pensiero rivoluzionario. - Ci sono atti rivoluzionari.
Il discorso è controrivoluzionario.
L'umanità (abbasso l'Umanità cencio controrivoluzionario) non potrà vivere libera
finché l'ultimo capitalista non sarà stato impiccato con le budella dell'ultimo
burocrate.
Non rivendicheremo nulla. - non chiederemo nulla. - Prenderemo. - Occuperemo.
Compagni armatevi!
Votazione puttana.
La cultura è il contrario della vita.
La cultura non è un valore. Non è un avvenire. E' una storia morta.
L'arte è merda.
Leggendo le scritte di fila -come tanti passi del Che, come le poesie e le canzoni
della rivolta- quanto suonano simili, spesso identiche, agli slogan fascisti! La “bestia
proletaria, animale vivo, feroce” di Toni Negri e la gioventù “belva libera e
superba” di Hitler. Sì, fascismo di sinistra è un'etichetta, ma abbastanza esatta. Del
resto tra i referenti del fascismo ci sono componenti anarchiche come Sorel.
Gli intellettuali tra neutralità e avallo teorico della violenza
In tutto quel che precede, la cosa che ancora oggi più mi stupisce e indigna è il
compiacimento estetizzante, a volte l'avallo teorico, di tanti, troppi intellettuali,
anche prestigiosi, verso la violenza e lo stesso terrorismo. O, forse peggiore, la
neutralità, segno d'indifferenza morale: “Né con lo stato ne con le brigate rosse” è
un’epigrafe infamante per chi l’ha scritta, difficile da cancellare: con chi stavano
allora? Con se stessi, come al solito, alla finestra, come al solito. Lo prova il
meschino cinismo di questa frase di Sciascia:
Così come non capisco che cosa polizia e giudici difendano, ancor meno capisco che
proprio io fossi chiamato a far da cariatide a questo crollo e disfacimento in cui in nessun
modo mi sento responsabile. Salvare la democrazia, difendere la libertà, non cedere, non
arrendersi... sono solo parole.
“Ognun si sta da parte e ghigna...” dice amaramente il Prologo de La Mandragola:
difendere la libertà di Firenze? Chi me lo fa fare? Che illuso Machiavelli, che fesso
Socrate... perché non è scappato dalla prigione come l’invitava a fare Critone,
invece di farsi ammazzare ingiustamente dallo Stato?
L'avallo teorico: Foucault e Sartre
L'avallo teorico alla violenza coinvolge anche figure prestigiose, come Sartre e
Foucault, accreditate come “voci della ragione”.
In un dibattito con alcuni giovani maoisti sulla giustizia popolare, apparso nel ‘72 su
Les temps modernes e pubblicato in italiano da Einaudi in Microfisica del potere,
Foucault esordisce con l’ipotesi che
il tribunale non sia l’espressione naturale della giustizia popolare, ma che abbia piuttosto
la funzione storica di recuperarla, controllarla, strozzarla, reiscrivendola all’interno
d’istituzioni caratteristiche dell’apparato di Stato.
Per provarlo porta a esempio le esecuzioni del settembre 1792 durante la
Rivoluzione francese, imposte dal popolo, che, prima di partire per la guerra, voleva
veder puniti i suoi nemici interni. Foucault scrive:
Ora, le esecuzioni erano appena cominciate in settembre quando degli uomini che
facevano parte della Municipalità di Parigi, o vicini ad essa, sono intervenuti ed hanno
organizzato la scena del tribunale: giudici dietro un tavolo, rappresentanti una istanza
terza fra il popolo che “grida vendetta” e gli accusati che sono “colpevoli” o
“innocenti”; interrogatori per stabilire la “verità” o ottenere la “confessione”;
deliberazioni per sapere quel che è “giusto”; istanza che è imposta in modo autoritario.
Non si vede qui riapparire l’embrione seppure fragile di un apparato di Stato? La
possibilità di un’oppressione di classe?
Ho riportato un ampio brano -e quel che segue non fa che ribadire questi concettiper cercar di comunicare l’orrore incredulo che continua a provocarmi ogni volta lo
rileggo. Infatti va chiarito che le “esecuzioni di settembre” sono definite da tutti gli
storici i 'massacri di settembre': le bande di massacratori avevano voluto svuotare le
prigioni della capitale assassinando centinaia e centinaia di 'nemici del popolo'
incarcerati, ma solo sospettati ( e molti erano in prigione non per motivi politici).
Per Foucault dunque, cercare di distinguere tra “colpevole” e “innocente” -la
repellente ironia di quelle virgolette, come se si trattasse di concetti falsi, come se
fosse irrilevante la testa umana che poteva o no cadere!- vuol dire opporsi alla
giustizia popolare: ovvero, né più né meno, l’apologia del linciaggio. Quanti atti di
“giustizia popolare” si continuano a perpetrare oggi nel mondo, senza “istanze
terze” a impedirlo? Certo, lo sceriffo che cerca d’impedire il linciaggio di un
potenziale innocente agisce “in modo autoritario”!
Ma c’è di peggio: da quello che segue emerge chiaramente che la condizione per
essere colpiti dalla “giustizia popolare” (debbo usare anch’io le virgolette!) è essere
un “nemico del popolo”, e, non volendo appurarlo con interrogatori o altri metodi
dell’ “istanza terza”, per esserlo basta dunque appartenere alla nobiltà: ovvero, un
criterio da Olocausto! Dopo tanti anni ancora mi sconvolge
questa mostruosa
aberrazione dell’intelligenza in un uomo come Foucault.
Sartre innalza il suo inno alla violenza rivoluzionaria nella prefazione a I dannati
della terra di Fanon, definito, nella copertina dell’edizione Einaudi del ‘61,
“massimo documento teorico della rivoluzione dei popoli coloniali”.
Al centro c’è un’assurda teorizzazione -ripresa poi da Lotta continua: “la violenza è
capace di liberare il lavoratore dalle inibizioni, dalle paure, dai timori”- del carattere
terapeutico della violenza del colonizzato:
i segni della violenza nessun dolore li cancellerà: è la violenza soltanto che può
distruggerli. E il colonizzato si guarisce dalla nevrosi coloniale cacciando il colono con le
armi... Da lontano noi consideriamo la sua guerra come il trionfo della barbarie; ma essa
procede da se stessa all’emancipazione progressiva del combattente... L’arma di un
combattente, è la sua umanità. Giacché, nel primo tempo della rivolta, occorre uccidere:
far fuori un europeo è prendere due piccioni con una fava, sopprimere nello stesso tempo
un oppressore e un oppresso: restano un uomo morto e un uomo libero.
Mi pare inutile sottolineare dove la spirale della violenza ha condotto oggi sia nella
patria di Fanon, che in tanti altri paesi del terzo mondo, in cui, ennesima profezia
sballata, secondo Sartre la violenza avrebbe fatto diminuire gli odi tribali,
indirizzando l’odio verso i veri nemici.
Tutto nasce ancora una volta, Morin insegna, dall’ossessione dell’efficacia.
All’inizio Sartre scrive:
Le coscienze infelici s’impigliano nelle contraddizioni. Efficacia nessuna!
Ma c’è ancora dell’altro, abbastanza repellente: il compiaciuto vittimismo, tipico
del senso di colpa di quelle “coscienze infelici” che Sartre disprezza tanto, gli fa
scrivere:
Noi ci valiamo tutti quanti siamo, abbiamo tutti approfittato di loro, non hanno niente da
provare, non faranno trattamenti di favore a nessuno. (...) Il torrente della violenza
travolgerà tutte le barriere. In Algeria, in Angola si massacrano a vista gli europei.
Ironizzando sulle “anime belle” che condannano gli eccessi:
...ci sono dei limiti: quei guerrilleros dovrebbero avere a cuore di mostrarsi cavallereschi;
sarebbe il miglior mezzo per provare che sono uomini... “siete degli esagerati, noi non vi
appoggeremo più”. Quelli se ne fottono: per quel che vale l’appoggio, può altrettanto
metterselo al sedere.
Che fastidio, che significativa stonatura, oggi, questo linguaggio compiaciutamente
e artificiosamente volgare!
Molti intellettuali hanno poi confortato le premesse teoriche ed etiche della violenza
con la radicale negazione di tutta la cultura occidentale, presente e passata. Dal
Benjamin già citato -Tutto il patrimonio culturale che lo storico abbraccia con lo
sguardo ha immancabilmente un'origine a cui non si può pensare senza orrore- al
Sartre della prefazione a Fanon; da cui scelgo a caso tra tanti passi omologhi:
Occorre affrontare questo spettacolo inaspettato; lo streap-tease del nostro umanesimo.
Eccolo qui tutto nudo, non bello: non era che un’ideologia bugiarda , la squisita
giustificazione del saccheggio.
Ancora Sartre, nell’intervista all’Espresso già citata:
Che l’arte in Cina sia quel che è? Sì, mi spiace. Se è vero che l’opera cinese è stata
completamente distrutta, mi spiace anche questo. Era bella. Ma cosa ci si può aspettare?
Molte cose ci spiacciono. Mi spiace anche che un cretino abbia dato una martellata in
faccia alla Pietà di Michelangelo! Benissimo, così abbiamo perduto anche quel naso. Son
cose che succedono.
Intellettuali teorici della violenza: Brecht, Sartre, Foucault. Beck... gente che
continuo a stimare. Come è stato possibile che franassero nel più cieco anarchismo
romantico?
Autocritica
E io? Non ho seguito lo stesso percorso? Non li ho presi forse come Vangelo?
Anche in me ho ritrovato una componente infantile, che in certe occasioni affiorava
razionalizzata dall’ideologia.
Tornando in pullmann da un comizio ad Assisi per la campagna elettorale del ‘48,
io, adolescente lettore di fumetti, sognavo di compiere le azioni dei loro eroi ai
danni dei DC forchettoni: il pullmann costeggiava le mura della città e io, dal
finestrino, mi vedevo, nei panni dell’Uomo mascherato, correre in bilico sopra di
esse, sparando sulla Celere che mi inseguiva.
Ma anche più tardi ho, periodicamente, accarezzato simili sogni; nel ‘58, quando a
Parigi sembrava dovesse scoppiare il finimondo per l’avvento al potere di De
Gaulle, ero pronto a partire sognando le barricate. Ho raccontato i sogni per il
Vietnam, significativi, anche se non ne ero il protagonista; così, al culmine della
Strategia della tensione, ho indugiato, sia pure per breve tempo, a fantasticare
un’organizzazione clandestina di “antifascismo militante”, per punire i fascisti che
picchiavano i compagni, per scoprire e punire gli autori delle Stragi di Stato,
sorretta, per queste sue imprese, dal crescente consenso delle masse: in pratica
un'organizzazione terroristica, appena appena più giustificata delle BR nei suoi
obiettivi.
E non solo sogni e fantasie: nel già ricordato Due miliardi ho messo, come poi nel
Vilan bono o malnato, le sparate contro “tutta” la cultura, complice, anzi arma, del
dominio; inneggiavo anch’io alla violenza rivoluzionaria, alla lotta armata,
riportando testualmente, come messaggio finale di Due miliardi, passi di un
documento della guerriglia in Angola, ad esempio bisogna che ti prepari a uccidere,
non alla leggera, perché uccidere è una cosa seria, ma con efficacia, facendo
ripetere ossessivamente al coro il commando è fatto per uccidere, nonché il passo
del Che sul far la guerra al nemico nella sua casa. In una prima stesura volevo
addirittura chiudere con la costruzione in scena di una Molotov, facendo recitare le
istruzioni contenute in un manuale di guerriglia urbana, pubblicato non ricordo se
da Feltrinelli o da una rivista dell’ultrasinistra.
Non credo che anche in me ci fosse del compiacimento estetizzante per la violenza:
prevalente era l'indignazione, il rifiuto delle ingiustizie. Questo rifiuto debbo quindi
concederlo anche agli autori dei versi e delle canzoni, a Brecht, a Beck, a Sartre:
torna ossessiva, insolubile la contraddizione chiave, l'impotenza, avvio della spirale
perversa.
E, dopo tutto quello che ho cercato di scavare per sciogliere questo nodo, non riesco
a rivivere, capire quel me stesso che più di trent'anni fa scriveva -sia pure solo
sognandole- queste cose, un me stesso che viveva pressapoco come vivo oggi,
innamorato della moglie, impazzito per la prima figlia di un anno, amante della
buona compagnia, della buona tavola, della buona musica, della buona lettura...
“Sia pure solo sognandole”. Sì, ma forse in questo ho avuto fortuna: e se mi fossi
trovato, nel momento in cui scrivevo quelle cose (durato poco è vero, i dubbi e il
distacco sono arrivati presto), in una situazione che mi avesse imposto la scelta di
“passare all’azione”? Forse avrei scelto il no, ma solo per paura, quindi con un
senso di colpa. O forse il sì, spinto, come il giovane assassino di Ramelli, dalla
forza dell’ideologia e delle circostanze, dei compagni che ti spingono, ti
giudicano…
Ho ritrovato con intensa empatia questi stessi dubbi e sentimenti nello spettacolo di
Marco Baliani Corpo di stato, -una bruciante confessione personale, che ha
inchiodato gli spettatori per più di un’ora con una tensione quasi palpabile-, su
come lo stesso Baliani, militante di Lotta continua, visse i giorni successivi al
sequestro Moro, durante i quali consumò un sofferto distacco dal mito della
violenza.
(Rileggendo queste righe, affiora un ricordo da tempo del tutto cancellato: in quel
periodo un compagno mi dice se voglio comperare una pistola, una P.38. Lo
incontro nell'andito buio di casa sua dove me la fa vedere, e mi chiede quando
voglio andarla a provare con lui; rispondo che lo richiamerò, cosa che poi non ho
fatto. Oggi lo attribuisco a un residuo di buonsenso, ma allora lo sentii come una
vigliaccheria, e questa è stata forse la molla che mi ha fatto subito rimuovere
l'episodio, mentre oggi mi pento di aver anche solo accettato di prendere in
considerazione la cosa. E mi spingeva, ora lo ricordo bene, soprattutto un ritorno
della mia passione infantile per le armi: al passaggio del fronte avevo nove anni, e
con la mia 'banda' maneggiavamo da incoscienti vari tipi d'esplosivo...)
La spirale dell’odio
In una nota di qualche anno fa trovo che lo sgomento per le violente, deliranti
sparate di un giovane che pure stimo molto, allora militante in uno dei superstiti
gruppetti estremisti, fu tale che rinunciai a rispondergli, pur sentendo questo mio
chiudermi come una sconfitta, perché, ancora una volta, le ragioni di fondo di quel
giovane erano quelle di sempre, quelle che muovono anche la mia indignazione. Ma
a un certo punto ebbe una frase che mi aiutò a capire la nostra divaricazione: “con
tutto l’odio che ho accumulato in questi anni...”.
L’odio: ecco la chiave. Le ragioni di fondo comuni provocano in me indignazione,
insofferenza, rabbia, non odio; confesso di detestare, disprezzare violentemente, al
limite della repellenza, del sentirmi alieno -col senso di colpa verso il nihil
humanum a me alienum puto- certi personaggi, ma non ho mai provato verso di loro
un sentimento che potesse definirsi odio, cioè il desiderio della loro distruzione
fisica.
L’odio è controproducente, non fa che fornire alibi, giustificazioni all’avversario,
innesca spirali perverse, catene di sangue. L’odio è prerazionale, ignora e disprezza
le leggi, è tribale, divide il mondo in buoni e cattivi secondo la tribù di
appartenenza. L’odio seleziona i peggiori, come si è visto in Bosnia, tira fuori il
peggio dell’uomo, lo fa regredire, come dimostra, sempre in Bosnia, la spirale che
ha trasformato in estremisti anche i moderati. E -insisto- la violenza, conseguenza
dell’odio, malgrado tutti gli alibi teorici, non ha conseguenze politiche se non
negative, serve a sfogare rabbia e frustrazioni solo a livello personale.
Sul nodo drammatico della violenza e dell’odio ho costruito in questi ultimi anni
una piccola antologia personale: Buttitta, quando, rivolgendosi al “compagnu
jurnateri”, che bolle d’odio aspettando il giorno della vendetta e delle bandiere
rosse, e grida “odiu seminaru e odiu cògghinu i patruna”, gli ricorda che “l’odiu è
analfabeta e scrivi pagini di sangu sgrammaticati”; Christa Wolf quando fa
concludere alla sua straordinaria Cassandra: “non dovevamo diventare come
Achille, pur di scamparla”. Ma le parole più giuste, chiare, definitive le ha scritte
Primo Levi in Se non ora quando?:
Mendel disse: -Il sangue non si paga col sangue. Il sangue si paga con la giustizia. Chi ha
sparato alla Nera è stato una bestia, ed io non voglio diventare una bestia. Se i tedeschi
hanno ucciso col gas, dovremo uccidere col gas tutti i tedeschi? Se i tedeschi uccidevano
dieci per uno, e noi faremo come loro, diventeremo come loro, e non ci sarà pace mai più.
Il messaggio non violento di Capitini
Come tanti di sinistra, per molto tempo, conoscevo Aldo Capitini solo come
promotore delle marce della pace e predicatore della non violenza, senza averne
letta una pagina. L'ho fatto da non molto scoprendo una consonanza piena con le
mie riflessioni sulla violenza. Mi pare dunque opportuno riportarne alcuni passi:
Non credo affatto che la guerra sia soltanto colpa dei grandi uomini, dei governanti e dei
capitalisti. La piccola gente la fa altrettanto volentieri, altrimenti i popoli si sarebbero
ribellati da tempo. C’è negli uomini un impulso alla distruzione, alla strage,
all’assassinio, alla furia, e fino a quando tutta l’umanità non avrà subito una grande
metamorfosi, la guerra imperverserà, tutto ciò che è stato ricostruito o coltivato verrà
distrutto e rovinato di nuovo: l’umanità dovrà ricominciare da capo.
Nella grossa questione del rapporto tra il mezzo e fine, la non violenza porta il suo
contributo in quanto indica che il fine dell’amore non può realizzarsi che attraverso
l’amore, il fine dell’onestà con mezzi onesti, il fine della pace non attraverso la vecchia
legge di effetto tanto instabile “se vuoi la pace prepara la guerra”, ma attraverso un’altra
legge: “se vuoi la pace, prepara la pace”
L’uso della violenza lascia residui gravissimi, produce conseguenze antirinnovatrici; si
veda per esempio la mancanza di libertà d’informazione, di critica, di espressione, di
associazione, che è costata la trasformazione violenta delle strutture in Russia; non vale
dire che “il fine giustifica i mezzi” quando i mezzi hanno conseguenze che costano troppo
rispetto al fine.
“Chiunque ha respirato quell’aria...”
Ho trovato dunque tante conferme -punto per punto, a volte quasi testuali- alla mia
requisitoria contro il '68 -o meglio, il post 68-, scritta in occasione del ventennale,
mentre i giudizi positivi correnti non escono da generiche affermazioni, del tutto
indimostrate, quali “una spallata decisiva per svecchiare la società italiana”, o sono
nostalgiche apologie di reduci.
Eppure...
“Chiunque abbia respirato quell’aria era difficile potesse stare altrove...” dice
Mughini a Zavoli. D’accordo Giampiero, e di slancio: contro il '68 e postumi ho
fatto una vera e propria requisitoria, ma ho sempre affermato che all'origine c'era un
bisogno vero, profondo, la non accettazione dell’ingiustizia, le insopprimibili
ragioni di una millenaria lotta. Iattura che, ancora una volta, si siano realizzate in
forma ideologica, creando una nuova nube purpurea. Ricordo, nei primi tempi del
Movimento studentesco, l’allargarsi di polmoni, l’improvviso risorgere, quasi
incredulo, della speranza che le cose, la vera politica, si rimettessero in moto. Tanta
speranza e gioiosa eccitazione da rendere spontanea la rimozione, o la
sottovalutazione come inevitabili prezzi, dei primi segni d’involuzione; ma presto
questi segni sono divenuti prevalenti, infine quasi totalizzanti. E non valeva, per
restare comunque dentro, la stretta dell’operaio a Lapiccirella, c’era solo la
colleganza goliardiaca, la sbronza, e anche la tigna infantile di non darla vinta, di
non volere, potere ammettere di aver sbagliato.
Sì, chiunque abbia respirato quell’aria... Ma non leggo il tuo Addio compagni!,
Giampiero, forse per la paura di trovarmi troppo d’accordo. E’ paura magica,
scaramantica per il sillogisma: Mughini pensa quelle cose, Ragni pensa quelle cose,
Mughini è divenuto stronzo, quindi anche Ragni...?
Ma io non ho detto ancora “Addio compagni!”, anzi…
Continua a emergere in me una contraddizione: rifiuto in blocco, con forza, come
provano le pagine precedenti, le cose dette o fatte dall’estremismo, ma per certi
versi non posso non sentirmi vicino, con le mie insofferenze, ai suoi protagonisti,
anche perché non posso, non debbo dimenticare chi avevamo di fronte, i complotti,
le stragi pilotate dai servizi deviati.
Era il peggio d’Italia, il cui livello di bassezza morale è testimoniato da un generale
dei carabinieri che brinda, come a “un'operazione riuscita”, per lo stupro e le sevizie
su Franca Rame!.
Così continuo a sentire umanamente più vicino a me di altri “di sinistra” quel
giovane, malgrado le sue sparate. Sono forse davvero “compagni che sbagliano”,
che rispondono in modo sbagliato all’eterna, sacrosanta esigenza di giustizia? E
l'esigenza di giustizia non è anche esigenza di punire i colpevoli? Sì, però, mi dico
subito, non con l’occhio per occhio e la “giustizia popolare”, ma con l’odiata
“istanza terza”, anche se troppo spesso impotente. Ed eccomi tornato a girare a
vuoto nella spirale dell’impotenza.
*
Un episodio personale, a suggello di questa parte dedicata all'estremismo.
E’ il luglio ‘77, sono in vacanza con la famiglia in Calabria a Le Castella (il castello
del finale de L’armata Brancaleone); c’è la festa de l’Unità del paese -Crotone e
dintorni sono un’isola rossa nella Calabria bianca o nera- e un pomeriggio si forma
un corteo, al quale ci uniamo,-sindaco comunista in testa, tante bandiere rosse-, che
fa il giro dei campeggi della zona. Uno di questi è gestito da Lotta continua, e lì al
corteo si unisce un folto gruppo di giovani che fanno un grosso casino con slogan e
canzoni; il corteo arriva poi al Villaggio Valtur: mura invalicabili, cancello elettrico,
vigilantes armati; il sindaco parlamenta con loro e, evidentemente, dalla direzione
viene il permesso di farci entrare, perché, tra la sorpresa generale, il cancello si
apre. Dentro ci appare subito un mondo ‘altro’: prati impeccabili con gli innaffiatoi
in funzione che rinfrescano piacevolmente l’aria rovente, folte ma ordinate macchie
di bossi, oleandri -intorno al paese ci sono solo erbacce e cespugli secchi-, villette
candide, perfettamente rifinite -le case di Le Castella, anche quelle recenti, danno
un senso di degrado, tutte irte sul tetto dei tondini d’acciaio rugginosi e contorti
delle armature di cemento, pronti per un secondo piano che non verrà mai-, donne
bellissime, depilate, griffate, senza un capello fuori posto... Il casino dei LC,
aumentato nella sosta davanti al cancello, ha una brusca frenata, i giovani si
guardano attorno un po’ allocchiti... Poi gli slogan riprendono, più urlati e scanditi, i
pugni chiusi levati segnano il ritmo con più rabbia: alcuni giovani camerieri, dalle
finestre del ristorante, guardano e sorridono, gli ospiti, congelati sulle sdraio, ci
guardano sfilare facendo illudere i giovani che, dietro i loro occhiali a specchio,
passi qualche brivido di paura.
Io godo della situazione, stavolta mi trovo benissimo, senza imbarazzo, nel corteo,
e, anche se non grido slogan, sento -i miei quattro quarti di plebità?- quel che
sentono i giovani LC: senza accorgermene sono finito proprio davanti al loro
gruppo...
Ma l’inefficacia della provocazione si rivela quando, arrivati al centro del villaggio,
ci si ferma e non si sa più che fare: alcuni giovani si buttano nella piscina, convinti
forse di fare un esproprio proletario, il grosso se ne va alla spicciolata, senza più
urlare slogan...