Un approccio geografico per una pianificazione territoriale sostenibile

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Un approccio geografico per una pianificazione territoriale sostenibile
BOLLETTINO DELLA SOCIETÀ GEOGRAFICA ITALIANA
ROMA - Serie XIII, vol. VII (2014), pp. 559-572
MARGHERITA CIERVO
UN APPROCCIO GEOGRAFICO PER UNA
PIANIFICAZIONE TERRITORIALE SOSTENIBILE
Premessa. – In questo lavoro (1) si intende approcciare la pianificazione territoriale attraverso una riflessione in chiave prettamente geografica (2), con l’idea di
affrontare i limiti insiti nella pianificazione top-down anche quando declinata da
modalità partecipative bottom-up. La tesi supportata è che gli approcci geografici
(così come proposti dai vari indirizzi della disciplina) abbiano in sé gli strumenti
concettuali, interpretativi e metodologici per superare, attraverso una prospettiva
olistico-sistemica, l’impostazione gerarchico-piramidale e guardare ai processi, alla
distribuzione e alle relazioni di potere (Raffestin, 1981; Raffestin e Barampama,
1998) per riconoscere ed esplicitare le scelte politiche sottese (D’Aquino, 2002),
andare al cuore delle problematiche e implementare una pianificazione formulata
«con» gli abitanti – ovvero con la comunità che abita il luogo – e non «per» la popolazione. Una pianificazione «con» gli abitanti significa considerare le persone
non più come attori paradigmatici (che, per definizione, non hanno obiettivi comuni e di cui, quindi, il Pianificatore si arroga la facoltà di interpretare esigenze e
interessi), ma come attori sintagmatici (ovvero persone che si attivano per il raggiungimento di una finalità comune), realizzando, dunque, un processo decisionale che – secondo l’idea della pianificazione territoriale ascendente di D’Aquino
(2002) – sia il risultato di un apprendimento collettivo attraverso l’azione, il più indipendente possibile da un’animazione esterna e di cui tutte le tappe decisionali
(1) Una prima stesura di questo lavoro è stata redatta per il Convegno Geografia e pianificazione territoriale nell’ambito delle Giornate della Geografia del 2007 e nell’ambito del progetto di ricerca di Ateneo (Dipartimento di Scienze Geografiche e Merceologiche, Facoltà di Economia, Università
degli Studi di Bari) «Educazione alla pianificazione territoriale e partecipativa: comunicazione geografica nella formazione universitaria e post universitaria con le amministrazioni pubbliche».
(2) Per un quadro sulle teorie della pianificazione e sulla loro evoluzione, con particolare riguardo alle riflessioni sulle strutture e sulle relazioni di potere, nonché alla concezione della pianificazione come mezzo e guida al cambiamento sociale, si rimanda agli scritti di Friedmann (1987, 1998,
2011); mentre per approcci e percorsi metadisciplinari alla pianificazione, si segnalano le proposte
di Archibugi (2003, 2007).
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siano realmente sotto la responsabilità degli attori locali che si trasformano, così,
in decisori locali. Obiettivo di questo contributo è anche provare a fornire chiavi
interpretative per «leggere» e/o valutare e/o elaborare politiche di pianificazione
partecipativa (ai diversi gradi della scala spaziale) finalizzate a una gestione sostenibile ed ecologicamente equilibrata del territorio.
Cenni e riflessioni sulla pianificazione bottom-up. – La pianificazione bottomup può essere fatta risalire, almeno per alcuni aspetti, all’approccio statunitense di
community power (D’Aquino, 2002), dal secondo dopoguerra agli anni Settanta.
Dagli anni Ottanta, in linea teorica fa riferimento a un nuovo paradigma di pianificazione che riconosce un ruolo di primo piano alle organizzazioni non governative e a quelle in rappresentanza delle comunità (Farinós Dasí, 2009). Oggi, la partecipazione dal basso è sempre più diffusa nei dibattiti pubblici e presa a riferimento nei piani istituzionali (ai vari livelli della scala spaziale) con l’obiettivo di arrivare a una visione e a delle decisioni condivise dai diversi attori territoriali.
Tuttavia, se la pianificazione top-down può avere un’impostazione tecnicista
e paternalistica (che porta il Pianificatore a operare nel supposto interesse della
popolazione e, dunque, «per» la gente, presumendo di conoscerne intrinsecamente i valori e di interpretarne al meglio le esigenze, nonché il «bene» della
collettività) (3), la pianificazione bottom-up, anche nelle sue forme più innovative (Prezioso, 2004) – in Italia, quelle attuate dalla Regione Toscana e dalla Regione Puglia (Poli, 2013) – spesso è il prodotto della volontà e dell’iniziativa istituzionale (4), piuttosto che il frutto di una reale presa di coscienza collettiva e di
un conseguente processo di auto-organizzazione. Volendo utilizzare il costrutto
teorico-concettuale di Turco (1988) si può dire che, anche in questo tipo di pianificazione, gli atti territorializzanti – con riferimento alla dimensione simbolica
(designazione: atti denominativi), materiale (reificazione: costruzione e/o predisposizione di spazi partecipativi) e organizzativa (modalità partecipative) –
emanino comunque, quasi sempre, solo da una iniziativa governativa. Di conseguenza, si corre il rischio che l’enfatizzata partecipazione si riduca a livello di
mera «rappresentazione»: creando paradossali esempi di reali top-down di fatto,
spacciati per bottom-up.
(3) Emblematico, al riguardo, è il caso della diga di Alqueva in Portogallo, il più grande invaso idrico artificiale d’Europa, che ha comportato la sommersione dell’abitato di Luz (380 abitanti) per far
fronte alla quale è stata realizzata la ricostruzione «identica» del villaggio (Blanc e Bonin, 2008, pp.
77-99). Questa, pensata nei minimi dettagli e «tecnicamente» ben riuscita, non ha tuttavia coinvolto
gli abitanti, offrendo loro un «pacchetto già pronto» che, per quanto potesse aver tenuto in considerazione le peculiarità dell’abitato originario (riproducendo il villaggio, ad esempio, sulla base della
stessa localizzazione spaziale delle case), si è rivelato estraneo al loro vissuto.
(4) Del resto, come sottolinea Bengs (2005, p. 9): «we cannot close our eyes to the fact that the elites are the architects of governance structures, never the crowd. Fairness for all may emerge when the
huge majority of the lower parts of the social ladder are strong enough to establish their interpretations
of fairness, providing the elite does not corrupt their ideas, but this seems very unlikely to occur».
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Fig. 1 – Struttura gerarchico-piramidale «classica» (a) e struttura gerarchico-piramidale «rovesciata» (b)
Fonte: elaborazione propria
In questo modo l’approccio top-down e quello bottom-up si rivelano facce di
una stessa medaglia, facendo entrambi concettualmente riferimento alla struttura
piramidale – risultato della logica gerarchico-binaria (alto/basso; centro/periferia; sviluppato/sottosviluppato) – che può presentarsi «rovesciata» (fig. 1), ma
nella quale il potere decisionale emana dagli attori istituzionali.
In effetti, se nella struttura gerarchico-piramidale «classica» (fig. 1a) la base
conferisce legittimazione al vertice che gestisce il potere decisionale (rispetto al
quale i cittadini possono essere informati e anche chiamati a esprimere il proprio
consenso e/o dissenso che, tuttavia, non essendo decisivo rimane a livello consultivo), nella struttura gerarchico-piramidale «rovesciata» (fig. 1b), è il vertice (attori istituzionali) che conferisce legittimazione alla base (attori sociali) nella misura in cui demanda parte del «proprio» potere decisionale stabilendone ambiti,
spazi, limiti e condizioni di esercizio. La partecipazione, così, si iscrive in un contesto nel quale i modelli di gestione sono caratterizzati da razionalismo, centralizzazione e gerarchia (Hamel, 1986, 1997) e, integrata nella logica (e nella governance) neoliberale, finisce con l’essere esercitata in quelli che sono definiti spazi
«invitati» (Cornwall, 2002, 2004; Miraftab, 2006, 2009; Sinwell, 2010, 2012), ovvero
creati, definiti e legittimati principalmente dal governo (a qualsiasi grado della
scala spaziale), piuttosto che «inventati», ovvero prodotti da esperienze collettive
di esclusione della popolazione e, quindi, secondo la definizione formulata fin
dal 1983 da Chambers, frutto di un reale approccio bottom-up (5).
(5) Sinwell (2012), tuttavia, sottolinea che l’inversione dei ruoli fra spazi di partecipazione invitati e inventati non è necessariamente più democratica e può portare all’esclusione di altra gente se
l’alternativa non è sostenuta da una scelta radicale che pone al centro la giustizia sociale.
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Del resto il linguaggio non è neutro e, per dirla con Raffestin (1981), la lingua
è veicolo di potere. Infatti, l’idea di una pianificazione di tipo bottom-up cristallizza – da un punto di vista semantico – il fatto che ci sia un «alto» e un «basso», accetta e assume il modello gerarchico di interpretazione, rappresentazione e gestione del potere. Da questo punto di vista, la partecipazione cittadina alla pianificazione può essere intesa come una modalità per guadagnare la legittimazione sociale persa – ad esempio per sfiducia in una gestione inefficiente, non trasparente
e finanche corrotta (di cui potrebbe essere indice la sempre minore partecipazione al voto) – e, più in generale, come uno strumento atto alla costruzione/gestione/consolidamento del consenso e del potere politico; usato per prevenire tensioni e conflitti territoriali; per cercare di eliminare resistenze e opposizioni al processo di trasformazione del territorio. Diversi studi dimostrano come i processi di partecipazione possano essere usati in modo retorico a scopi propagandistici e/o manipolativi e/o di «pacificazione» (Arnstein, 1969) (6) e concorrere nell’accrescere
l’influenza degli attori interni al sistema, nel legittimare decisioni amministrative
diversamente impopolari e nello sviluppare iniziative in continuità con la visione
e gli interessi degli attori dominanti, mentre le controversie sollevate non sono
realmente affrontate (Hamel, 1995; White, 2000; Cinq-mars e Fortin, 2007).
L’«utilizzo» della partecipazione a fini propagandistici sembra, ultimamente,
piuttosto diffuso per la promozione degli eventi «universali» (anche – o proprio –
quando le politiche attuate sono concepite secondo una logica strettamente topdown) le cui contraddizioni insite, tuttavia, non possono essere celate. In questi
casi, difatti, a proclamazioni pro bottom-up – che inondano lo spazio mediatico
attraverso slogan e campagne comunicative (dispiegando la loro efficacia soprattutto alle scale più piccole) – si contrappongono modalità decisionali e operative
rigorosamente top-down, i cui effetti territoriali (conflittualità sociale compresa) si
avvertono preminentemente alla scala locale. Esempi recenti sono costituiti dai
Mondiali di calcio del 2014 in Brasile e dall’Expo che si prepara per il 2015 a Milano. Nel primo caso, da un lato è stata posta molta enfasi sulla partecipazione (7)
e sul calcio come strumento di sviluppo sociale (8); dall’altro, si sono registrate
(6) Arnstein (1969) stabilisce una scala di partecipazione cittadina, individuando otto tipologie
con riferimento al reale potere dei cittadini nel determinare piani e/o programmi: manipolazione,
sostegno, informazione, consultazione, pacificazione, collaborazione, potere delegato, controllo della cittadinanza. In realtà, i primi gradini – non prevedendo un reale potere ai cittadini o prevedendolo solo a livello simbolico o rappresentativo – costituiscono, rispettivamente, un’illusione e una simulazione piuttosto che una partecipazione vera e propria.
(7) «Se la Grecia donò al mondo la forma di governo democratica, il Brasile ne sta allargando le
frontiere sul piano amministrativo: benvenuti a Porto Alegre, San Paolo e Recife, città che adottano il
bilancio partecipativo, un processo di democrazia deliberativa che coinvolge la cittadinanza rispetto
alle spese collettive, esportato in più di 200 municipalità» (http://www.mondiali-di-calcio-2014.com/
citta-mondiali-il-punto-su-porto-alegre-san-paolo-e-recife/).
(8) Ci si riferisce in particolare all’iniziativa della FIFA «Football for Hope» relazionata a valori
quali, ad esempio, la «cittadinanza responsabile» (http://es.fifa.com/worldcup/organisation/sustainability/football-for-hope.html).
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proteste e denunce da parte della popolazione, rispetto all’estromissione politica
e finanche fisica dalle proprie abitazioni e territori per far spazio alla costruzione
di opere relazionate al mega evento, nonché alla violazione dei diritti umani
(portalpopulardacopa.org.br/, comitepopularsp.wordpress.com/, comitepopularcopapoa2014.blogspot.it/), attestate anche dall’ONU (9) e da Amnesty International (2014). L’Expo di Milano 2015, dal canto suo, autodefinito «un processo partecipativo che intende coinvolgere attivamente numerosi soggetti attorno a un tema decisivo» (www.expo2015.org/it/cos-e/), è al centro già da tempo di forti polemiche sia in merito alla politica «calata dall’alto», ai processi da questa imposti e al
conseguente «deficit di democrazia» (www.noexpo.org/), sia per la mancanza di
trasparenza e per gli episodi di corruzione saliti all’onore della cronaca.
In ultimo, i processi partecipativi – essendo divenuti in diversi casi una caratteristica preferenziale (se non un requisito) per accedere ai finanziamenti internazionali dei programmi di sviluppo (10) – possono diventare strumento di autolegittimazione della politica locale nei confronti di organismi di controllo nazionali o internazionali (Bautès e Soares Gonçalves, 2009), nonché assurgere a
obiettivo «alla moda», cui, talvolta, si fa riferimento anche in mancanza di una
chiara visione di quello a cui dovrebbero servire (Farinós Dasí, 2009).
In realtà, la partecipazione senza un’equa ridistribuzione del potere, senza
controllo cittadino e un’effettiva capacità degli abitanti di incidere nei processi
decisionali, è – inevitabilmente – una mera réclame o, al più, un vuoto rituale
che, come sottolineava Arnstein (1969, p. 216) quasi mezzo secolo fa, «It allows
the power-holders to claim that all sides were considered, but makes it possible
for only some of those sides to benefit. It maintains the status quo».
Idee per una pianificazione territoriale in chiave geografica. – Da un punto
di vista geografico la pianificazione può definirsi come la gestione delle risorse
territoriali per soddisfare le esigenze della collettività ai diversi gradi della scala
(9) Già nel 2011, Raquel Rolnik, rappresentante delle Nazioni Unite per il diritto all’abitazione,
aveva dichiarato di essere preoccupata «about what seems to be a pattern of lack of transparency,
consultation, dialogue, fair negotiation, and participation of the affected communities in processes
concerning evictions undertaken or planned in connection with the World Cup and Olympics […]
the authorities at all levels should put a stop to planned evictions until dialogue and negotiation can
be ensured» (http://www.hrw.org/world-report/2014/country-chapters/brazil?page=3/).
(10) Un esempio è dato dalla Banca Mondiale che promuove processi partecipativi nell’ambito
di finanziamenti di programmi e progetti per lo sviluppo al fine di assicurare la sostenibilità a lungo
termine degli stessi (www.worldbank.org/) e consiglia i paesi debitori a impegnarsi per la partecipazione degli stakeholders principali fornendo al riguardo un Documento Programmatico (BM, 2014).
Tuttavia, quando la partecipazione è gestita secondo modalità imposte da attori esogeni (anche attraverso le associazioni locali appositamente costituite), questa può produrre discontinuità culturale
e territoriale (Minoia, 2009), nonché creare situazioni di autoesclusione da parte della popolazione
che non risponde ai requisiti richiesti, originando o acuendo situazioni di disparità, alterando gli equilibri preesistenti, destabilizzando il sistema dei rapporti e dell’organizzazione sociale (Ciervo,
2007, pp. 965-968).
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spaziale e, dunque, basarsi sull’analisi delle relazioni intercorrenti fra risorse, territorio e collettività, della natura dei cambiamenti territoriali (continui e discontinui) e della percezione dei gruppi sociali.
Per quanto riguarda l’analisi delle relazioni, ogni indirizzo disciplinare e, più
in generale, la tradizione geografica nel suo insieme offrono importanti strumenti concettuali e metodologi. La Geografia classica come scienza dei luoghi di Vidal de La Blache e dell’ecologismo umanista, la Nuova Geografia come scienza
dell’interazione tra le aree e la Geografia radicale nei suoi vari «approcci» (11) –
benché basati su paradigmi che si presentano divergenti, se non autoescludenti
(si consideri a titolo esemplificativo il possibilismo e il funzionalismo) – offrono
punti di osservazione diversi (dati dai rispettivi contesti spazio-temporali e dalle
conseguenti visione/percezione, nonché obiettivi) la cui compenetrazione potrebbe permettere di avere un’idea meno parziale del quadro di riferimento nel
quale ci si muove.
In pratica, la focalizzazione sulle relazioni verticali, tra comunità e territorio,
tra essere umano e ambiente, considerate «superate» dopo gli anni Cinquanta
con l’avvento dell’analisi spaziale, consentirebbe, invece, l’analisi del rapporto
popolazione-risorse, utile nell’individuazione dei punti di «rottura» all’interno
della problematica ecologica. D’altra parte, il fatto che non sia possibile approdare a una conoscenza esaustiva del territorio non costituisce ragione sufficiente
per «accantonare» tale tipologia di analisi che, anzi, potrebbe fornire informazioni preziose per l’interpretazione geografica e la pianificazione territoriale. La
considerazione delle relazioni orizzontali, dal canto suo, permetterebbe di porre
l’attenzione su un fenomeno che oggi coinvolge, più di ieri, ogni ambito territoriale, ovvero quello delle relazioni tra aree da cui discendono relazioni di potere
(Raffestin, 1981), dominanza e controllo con ripercussioni di diversa intensità ai
vari gradi della scala. Del resto, gli strumenti interpretativi e metodologici offerti
dalla Geografia radicale permettono di mettere in luce fenomeni di disuguaglianza, tensione e squilibrio ecologico (anche secondo l’accezione sociale del
termine). Tale approccio «integrato», dunque, attingendo a strumenti interpretativi plurimi, potrebbe contribuire a far emergere i differenti aspetti delle problematiche territoriali. Conseguentemente, la pianificazione territoriale potrebbe
considerare l’analisi delle risorse sulla base sia delle relazioni verticali fra ambiente e comunità (con riguardo alla cultura e alla tecnologia), sia delle relazioni orizzontali fra aree dirette dal «gioco» della domanda (con i suoi moventi
quantitativi e qualitativi) e dell’offerta (con riferimento alla disponibilità). Lo studio di entrambi i livelli di relazione potrebbe essere utile all’interpretazione degli impatti ambientali, delle tensioni ecologiche e dei conflitti sociali, a tutti i
gradi della scala spaziale, alla cui «gestione» dovrebbe essere rivolta una pianificazione con finalità sociali e, ancor più, ecologiche.
(11) Il riferimento è all’approccio sociale (Geografia marxista), psico-sociale (behaviorista), ecologico (Geografia ecologista) e sistemico (Geografia dei sistemi territoriali).
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L’analisi dei cambiamenti territoriali farebbe emergere la provenienza (esogena o endogena) e la natura (continua o discontinua) degli impulsi, in modo da
poter identificare con maggior chiarezza i vari attori (con i relativi interessi e
obiettivi, scale di azione), i moventi e i motivi dei conflitti (relazioni di potere,
processi di dominazione, Raffestin, 1981; differente distribuzione di costi e benefici, sistemi di valore diversi, asimmetria di potere a livello decisionale e gestionale, esternalizzazione dei costi ambientali, Faggi e Turco, 2001). L’analisi
dei cambiamenti consentirebbe di individuare e porre attenzione ai «fondamenti
dell’abitare» (Turco, 2003, pp. 13-14) ovvero all’esistenza, o meno, di tutti quegli
elementi caratterizzati da: «la attitudine a durare, la capacità di preservare autonomamente la propria identità grazie al cambiamento e grazie al mantenimento
delle condizioni di possibilità di cambiamento».
Per quanto attiene all’analisi della collettività, questa potrebbe basarsi sugli
strumenti «offerti» dalla Geografia della popolazione (in rapporto al fenomeno
inteso in termini sia quantitativi sia qualitativi, oltre che secondo una dimensione diacronica, con riferimento ai suoi riflessi sull’organizzazione del territorio)
e dalla Geografia della percezione. Del resto, in geografia già più di quarant’anni fa si puntò l’attenzione sull’importanza della conoscenza delle immagini che hanno gli abitanti di una stessa città e Lynch (1969), fra i primi geografi a studiare sistematicamente le relazioni fra soggetti e territorio, dimostrò
come tali immagini varino secondo le classi sociali (cultura, reddito) o le categorie (età, sesso). Risalire alle immagini mentali permetterebbe di comprendere l’importanza delle relazioni percepite e vissute dalle persone e, pertanto, costituirebbe «un mezzo per comprendere il perché delle azioni umane» (Vallega,
1989, p. 315). Assumendo, dunque, che l’essere umano «attraverso le sue percezioni, i suoi atteggiamenti, le legittimazioni sociali, incide sull’ambiente»
(Bailly, 1992, p. 53), si può affermare che la Geografia della percezione potrebbe essere di grande aiuto per l’individuazione delle relazioni fra comunità
e ambiente, per l’interpretazione delle tensioni e dei conflitti ecologici (anche
nell’accezione sociale del termine), per la gestione delle problematiche territoriali e la pianificazione.
Dallo sviluppo sostenibile allo sviluppo territoriale. – Il concetto di sviluppo,
come qualsiasi altro concetto, non è neutro. A tale proposito è in atto un dibattito internazionale sulle sue diverse accezioni. Anche lo sviluppo sostenibile è al
centro di un vasto e acceso dibattito accademico e politico. C’è chi mette in discussione tale concetto, considerando la sostenibilità un termine nel quale si celano molte insidie (Magnaghi, 2000) (12), e chi ritiene lo sviluppo sostenibile un
(12) Secondo Magnaghi (2000, pp. 50-51), la sostenibilità «rischia di coprire le cause strutturali
del degrado ambientale e sociale attraverso azioni di sostegno del modello di sviluppo dato che non
mette in discussione le regole generatrici del degrado stesso».
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ossimoro (Latouche, 1992; 1993) (13), animando una riflessione post-sviluppista
(Apffel-Marglin e altri, 2003) (14) che investe vari ambienti disciplinari (Sachs,
1992; Escobar, 1995; Esteva e Prakash, 1997; Rahnema e Bawtree, 1997), geografia compresa (Sparke, 2006; Sidaway, 2007) (15) .
Per ragioni di spazio, si sorvola sul dibattito in corso, assumendo, tuttavia,
che la locuzione «sviluppo sostenibile» rimanda ai binomi ambiente-sviluppo,
natura-essere umano, che mettono in luce una visione dicotomica nella quale,
probabilmente, risiede parte del problema. A tale proposito, si ritiene che l’approccio territorialista (Dematteis, 1991) – assumendo come punto di riferimento
gli abitanti, ponendosi come obiettivo la promozione della loro capacità di autoorganizzazione del territorio (Magnaghi, 2000) e basandosi sul presupposto che
lo sviluppo locale derivi dal rapporto di territorialità che lega una società e un
territorio (Dematteis e Governa, 2005) – sia più appropriato non solo ai fini dell’analisi geografica, ma anche rispetto alla possibilità di superare l’impostazione
binaria di cui sopra.
In tale ottica, il processo di territorializzazione equivale alla costruzione di
relazioni virtuose fra le componenti costitutive del territorio stesso (ambiente naturale, costruito e antropico). Analogamente, la deterritorializzazione deve intendersi come conseguenza della destrutturazione di tali relazioni e della «liberazione progressiva dei vincoli territoriali» (Magnaghi, 2000, p. 21) che altera l’equilibrio fra gli elementi del sistema. In questo senso, le problematiche ambientali,
come del resto quelle sociali, possono essere interpretate come processi di deterritorializzazione. Così, per creare o «ripristinare» una situazione di equilibrio –
e, quindi, di «sostenibilità» ecologica – si dovrebbero ricostruire e/o riformulare
le relazioni territoriali e, dunque, la pianificazione per lo sviluppo territoriale
dovrebbe mirare alla riterritorializzazione attraverso la produzione di «atti territorializzanti» (Turco, 1988) fondati sull’interpretazione critica dell’esistente e finalizzati all’elaborazione di una «nuova» logica, di un nuovo «controllo simbolico,
pratico e sensivo del territorio» da parte di chi abita il territorio e non di chi lo
amministra. Chi abita il territorio (16), difatti, avrebbe – almeno in teoria – un in(13) Il termine sviluppo ingloba il concetto di crescita economica che non può essere considerata sostenibile nella misura in cui comporta il consumo crescente di risorse naturali ed energetiche e
allo stesso tempo una produzione continua e crescente di rifiuti (che, anche se riciclati, comportano
impiego di energia e acqua).
(14) Tale riflessione, nel 2002, è stata svolta all’UNESCO con la conferenza «Disfare lo sviluppo,
rifare il mondo» (mettendo in discussione i concetti di crescita, povertà, bisogni e aiuto) e rispetto alla quale si segnala il contributo di Lakshman Yapa (2003, pp. 111-124) del Dipartimento di Geografia della Pennsylvania State University.
(15) La Post-Devolopment Geography si focalizza sugli aiuti esterni che interferiscono nella sovranità popolare e sulle relazioni post-coloniali (Sparke, 2006), nonché sulla decostruzione del discorso
dominante ufficiale (Sidaway, 2007).
(16) Il riferimento è, in particolare, all’abitante inteso come «un individu qui n’est pas détachable
de son milieu de vie, puisqu’il fait appel pour sa construction même à cet environnement» (Blanc e
Bonin, 2008, p. 17) e all’abitare che « ce n’est pas juste se loger dans des formes, mais plus globalement c’est s’empreindre d’un territoire, se l’approprier» (ibidem, p. 90).
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Tab. 1 – Quadro sinottico della pianificazione per uno sviluppo territoriale secondo criteri di sostenibilità ecologica
Elementi chiave
I
FASE
ANALISI DEL
TERRITORIO
Relazioni verticali e orizzontali
TERRITORIO
Natura e dinamica dei cambiamenti
COLLETTIVITÀ
Percezione dei gruppi sociali
Problematiche correlate
DISUGUAGLIANZE
II
FASE
Oggetto di analisi
RISORSE
PROPOSTE DI
INTERVENTO SUL SQUILIBRI ECOLOGICI
TERRITORIO
Ambiti di intervento
Reinterpretazione e rielaborazione della
relazione risorse-popolazione secondo
modelli di equità sociale
Reinterpretazione e rielaborazione della
relazione risorse-popolazione, secondo
modelli basati sul concetto di limite e sul
rispetto dei cicli ecologici
Reinterpretazione e rielaborazione della
TENSIONI E CONFLITTI relazione risorse-popolazione considerando la percezione e le esigenze delle differSOCIALI
enti classi socio-spaziali ed economiche
teresse primario e vitale affinché le relazioni fra gli elementi sistemici e, dunque,
l’organizzazione territoriale siano realmente «sostenibili» garantendo, ad esempio, la riproducibilità delle risorse e la continuità culturale. Del resto, la «produzione» di territorio secondo i criteri di sostenibilità ecologica se da un lato dovrebbe essere fondata su una certa continuità con l’organizzazione socio-economica tradizionale, dall’altro potrebbe richiedere la trasformazione materiale e organizzativa del territorio stesso (17). Concretamente questo potrebbe tradursi, in
una prima fase, nell’elaborazione (o rielaborazione) dei piani di gestione delle
risorse idriche ed energetiche, dei rifiuti, della mobilità e, in genere, dei servizi
pubblici locali; in una seconda fase, in una riconversione della produzione e del
consumo in chiave locale in un’ottica di efficacia nella gestione delle risorse e di
riduzione dell’impatto ecologico alle diverse scale spaziali.
La pianificazione per uno sviluppo territoriale che sia sostenibile, oltre a porsi l’obiettivo di migliorare la qualità della vita e il benessere, dovrebbe configurarsi come atto e politica di responsabilità verso la collettività e l’òikos (casa) (inteso a ogni grado della scala spaziale) e, dunque, essere orientata alla riduzione
dei seguenti fenomeni: disuguaglianze sociali, squilibri ecologici, tensioni e conflitti (tab. 1). Questi ultimi, in molti casi, sono gli effetti di una concezione «mer-
(17) Al riguardo è interessante il concetto di «novelties» (novità) proposto da Ploeg e altri (2006)
con riferimento alle innovazioni che migliorano la tradizione, riattualizzandola ma senza creare salti
e fratture.
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cantile» dello spazio (e delle risorse), considerato in ragione del valore economico piuttosto che del valore esistenziale e gestito, conseguentemente, sulla base
degli interessi del gruppo di individui o della classe sociale con maggiore potere. Quando questo avviene, si passa da una pianificazione sociale a una pianificazione frutto di «una sfida fra individui che non condividono la stessa visione,
ciò che genera tensioni e vincoli» (Bailly, 1992, p. 56). Affinché ciò non accada,
il territorio non dovrebbe essere considerato sulla base del valore di scambio,
ma reinterpretato come bene comune e, dunque, come bene da gestire sulla base dei concetti di equità sociale, limite e rispetto dei cicli ecologici, nonché sulla
considerazione della percezione delle differenti classi socio-spaziali.
Riflessioni finali. – La pianificazione «partecipativa» prodotta dall’iniziativa
istituzionale e, dunque, studiata a tavolino «per» i cittadini, essendo esercitata
negli spazi «invitati» e legittimata dall’iniziativa politico-istituzionale piuttosto
che dalla presa di coscienza comune e/o da una visione socialmente condivisa, se da un lato può intercettare segmenti di popolazione interessata alla risoluzione di un particolare aspetto/problema per motivazioni pratiche o ideali,
dall’altro, per sua natura, non può garantire un coinvolgimento effettivo, diffuso e permanente degli abitanti.
Del resto, affinché le problematiche correlate agli elementi chiave della
pianificazione territoriale sostenibile (tab. 1) – disuguaglianza/giustizia sociale,
squilibrio/equilibrio ecologico e conflitti territoriali – non restino a livello di
presa d’atto, principio, enunciazione o, al più, rappresentazione, è necessario
avviare una riflessione critica sulla relazione popolazione-risorse (in senso sia
verticale sia orizzontale) e sulla loro possibile interpretazione e rielaborazione
in vista di un intervento pragmatico sulle modalità di gestione delle risorse e
di organizzazione territoriale che producono tali problemi.
Così, e da quanto precedentemente esposto, deriva il convincimento che la
pianificazione territoriale in chiave sostenibile dovrebbe fondarsi prioritariamente sull’individuazione e sulla considerazione (sul piano paradigmatico e relazionale) dei cambiamenti territoriali discontinui che hanno storicamente prodotto
«rotture» o «salti» significativi rispetto alla gestione tradizionale del territorio; sulla
valutazione delle scelte politiche ed economiche che generano o contribuiscono
ad acuire situazioni di squilibrio ecologico, disuguaglianza sociale e conflittualità territoriale; sullo studio della percezione delle problematiche da parte degli
abitanti e dell’immaginario collettivo.
Tale analisi risulta fondamentale per provare a mettere in discussione l’organizzazione sociale e produttiva causa delle problematiche di cui si è detto ma,
soprattutto, per potersi realisticamente porre come obiettivo la riterritorializzazione, ovvero la rielaborazione di relazioni virtuose fra popolazione, risorse e
territorio, orientata alla soddisfazione preminente delle esigenze esistenziali della comunità che abita il territorio e che faccia riferimento a un paradigma e,
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conseguentemente, a metodologie diverse rispetto a quelle che hanno prodotto
o contribuito a produrre situazioni di squilibrio e conflittualità (18).
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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(18) A tale proposito, risulta interessante la metafora proposta da Magnaghi (2000, p. 9) secondo
il quale «il territorio nasce dalla fecondazione della natura da parte della cultura». Difatti, quando la
fecondazione può considerarsi come il frutto di un «atto d’amore», il territorio si evolve in maniera equilibrata e il paesaggio risulta armonioso; al contrario, invece, quando la fecondazione è il risultato
di uno stupro, di relazioni di violenza e prevaricazione, o quanto meno di mancanza di rispetto e intelligenza, il territorio risulta fortemente squilibrato e il paesaggio porta, indelebilmente, i segni della
violenza. Dunque, si rende necessaria «una rinascita attraverso nuovi atti fecondanti, che producano
nuovamente territorio, ovvero nuove relazioni fertili fra insediamento umano e ambiente. In questi
atti territorializzanti c’è il germe di una vera sostenibilità dello sviluppo (che qui chiamo “sviluppo
sostenibile”) in quanto ricerca rifondativa di relazioni virtuose, di nuove alleanze fra natura e cultura,
fra cultura e storia» (ibidem, p. 10).
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A GEOGRAPHICAL APPROACH TO A SUSTAINABLE TERRITORIAL PLANNING. –
This paper explores an approach to territorial planning from a purely geographical perspective, with the idea to approach the top-down planning concept, similarly as if it were
presented «bottom-up». The supporting thesis is that the geographical approaches (such
as those proposed by the different addresses of this discipline) have the conceptual, interpretative and methodological tools to overcome, via a holistic and systemic outlook,
the hierarchical and pyramidal formulation. Process, distribution and power relations are
identified to recognize and explicate the subtended political choices, to get to the heart
of problems. Building the foundations to develop a plan «with» the inhabitants, which are
the communities that live in the place, and not solely «for» them. Another aim of this paper is to try to offer interpretative keys to «read» and/or evaluate and/or elaborate on participating planning policies (on different spatial scale levels) for a sustainable and ecological equilibrated government of territory.
Università degli Studi di Foggia, Dipartimento di Economia
[email protected]