SC Genesi ed epifania della voce - Centro Internazionale per la

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SC Genesi ed epifania della voce - Centro Internazionale per la
Santi Cicardo
Genesi ed epifania della voce
Per una filosofia della phoné attraverso Merleau-Ponty
Epekeina, vol. 2, n. 1 (2013), pp. 165-186
Mind and Language Ontology
ISSN: 2281-3209
DOI: 10.7408/epkn.epkn.v2i1.34
Published on-line by:
CRF – Centro Internazionale per la Ricerca Filosofica
Palermo (Italy)
www.ricercafilosofica.it/epekeina
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Genesi ed epifania della voce
Per una filosofia della phoné attraverso Merleau-Ponty
Santi Cicardo
1. La voce di Merleau-Ponty
Ha scritto Philip Roth in un bellissimo racconto che per atmosfera
e contenuto sembra rappresentare l’antistrofe della Metamorfosi kafkiana: «Dunque ho fatto il salto ho reso la parola carne».1 Questa
affermazione, fatta dal protagonista del racconto ormai trasformato
in un ipertrofico seno desiderante, può a ben diritto sigillare lo scopo
della riflessione sul linguaggio di Merleau-Ponty. Inoltre, se a questa
si aggiunge quanto detto icasticamente da Borges ossia che «la lingua è un sistema di citazioni»,2 e l’altrettanto incisiva osservazione di
Proust: «les beaux livres sont écrits dans une sorte de langue étrangère»,3 si sono fissati gli apici entro cui si muove la tensione speculativa
linguistica merleau-pontyana. E non meravigli se a compendiare il
lavoro sul linguaggio del francese si siano evocati in prima battuta
tre scrittori piuttosto che le teorie specialistiche di linguisti o filosofi,
giacché se la pittura è stato il campo di verifica degli avanzamenti
che Merleau-Ponty veniva facendo sulla percezione, la letteratura ha
costituito l’humus su cui egli ha provato a radicare e far germinare le
conquiste ottenute sul linguaggio.
Detto questo, ci tocca subito specificare la duplice intenzione di
questo articolo, ossia quella di verificare la presenza e la densità del tema della voce nella filosofia di Merleau-Ponty per provare, verificatane
la consistenza, a issare con essa, su essa e, dove necessario, oltre essa
la nostra ipotesi ovvero che nella voce s’individua il punto singolare,
il risvolto negativo, l’effetto stroboscopico di reversibilità tra la tacita
espressione corporea e la parlante significazione linguistica.
Che il problema linguistico sia una questione tutt’altro che marginale per il filosofo francese è documentato dalla sua precoce apparizione
ne La Struttura del Comportamento e dalla sua ripresa con maggior in1. Roth 2011, 71.
2. Borges 2004, 78.
3. Proust 1954, 254.
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tensità nella Fenomenologia della percezione. Tuttavia, la problematica
assume una dimensione più decisiva nella prima metà degli anni ‘50,
quando l’incontro con la linguistica di Saussure prima e con quella di
Jakobson poi, spinge Merleau-Ponty, se non proprio a un ribaltamento
dei guadagni teorici ottenuti nelle opere giovanili, a un loro sostanziale
aggiustamento, avviandolo verso quell’ontologia della chair 4 che si perfezionerà ne Il visibile e l’invisibile. In particolare ciò che rimaneva sul
tappeto e che bisognava affrontare con più decisione, era la descrizione
del passaggio «[...] dalla fede percettiva alla verità quale la s’incontra
al livello del linguaggio, del concetto e del mondo culturale».5 Detto
altrimenti, se nelle prime opere il linguaggio veniva fatto oggetto di
riflessione a partire dalla potenza espressiva del corpo proprio (Leib) e
a quella ricondotto, ora assumeva una centralità teorica inaggirabile
che a sua volta illuminava la corporeità riverberandovi alcune ratifiche
dalla linguistica saussuriana.6
Insomma, il Nostro, resosi conto che una descrizione del mondo
muto della percezione (Cogito tacito) era impossibile senza la mediazione linguistica, e che la sua precedente riflessione sul linguaggio
non dava debitamente conto dei rapporti interni alla langue, tentava di
allargarne i margini in forza delle acquisizioni della linguistica strutturalista. Ma quale era stato il profitto teorico ottenuto? E cosa veniva
ripensato e cosa mantenuto nelle opere degli anni ‘50? E infine che ne
ricaviamo ai fini della tematizzazione del fenomeno voce? Facciamo un
passo indietro e ritorniamo al capitolo Il corpo come espressione e parola
della Fenomenologia della percezione in cui Merleau-Ponty sbozzava
la sua teoria linguistica. Lo scopo perseguito in quella occasione era
4. Merleau-Ponty 2007, 156: «La carne (chair) non è materia, non è spirito, non
è sostanza. Per designarla occorrerebbe il vecchio termine «elemento», nel senso in
cui lo si impiegava per parlare dell’acqua, dell’aria, della terra e del fuoco, cioè nel
senso di una cosa generale, a mezza strada fra l’individuo spazio-temporale e l’idea,
specie di principio incarnato che introduce uno stile d’essere in qualsiasi luogo se ne
trovi una particella». È interessante notare come nell’ambito della biologia o della
fisica nucleare, la nozione di chair trovi sorprendenti verifiche sperimentali. Si pensi,
solo a titolo di esempio, al carbonio come elemento strutturale della vita sulla terra o
alla recente osservazione, effettuata al Cern di Ginevra, del bosone di Higgs, ossia di
quella particella elementare che conferisce a tutte le altre particelle la massa, e che
quindi fa essere l’Universo quello che è.
5. Merleau-Ponty 1962, 162.
6. Merleau-Ponty 1995, 25.
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quello di sottrarre il linguaggio alla tenaglia teorica dell’empirismo e
del razionalismo che, benché da sponde opposte, lo svuotavano del suo
potere essenziale di significazione. Il primo, fissandolo negli «stimoli o
[negli] stati di coscienza» 7 che si trattava di nominare; il secondo riservandolo al pensiero che della parola si serve come di un mero «segno
esteriore di riconoscimento interiore che potrebbe compiersi senza il
suo intervento e al quale essa non contribuisce».8 Si trattava, dunque,
di ripensare il linguaggio come detentore del suo stesso senso e di
iscriverlo all’interno di quella potenza simbolica generale che apparteneva al corpo. Certo l’operazione realizzata da Merleau-Ponty doveva
immediatamente bypassare alcune resistenze che una lunga tradizione
filosofica e lo stesso senso comune gli opponevano, prima fra tutte la
separazione tra pensiero e linguaggio. C’è, infatti, un testardo insistere
che ci spinge a considerare il primo come indipendente dal secondo. Se
questo, però, si rende possibile è solo perché, è questa la risposta del filosofo, noi viviamo in un mondo di pensieri già costituiti che possiamo
richiamare senza l’ausilio delle parole, ma che solo quest’ultime hanno
contribuito a formare. Ad ingannarci, in sostanza, sarebbe l’illusione
di una vita interiore libera dal linguaggio e immersa in una sorta di
silenzio saturo di pensieri, ma che in verità «è ronzante di parole»,9
essendo un discorso divenuto afono. In sintesi, come la percezione
tende ad obliarsi per lasciar-essere il percepito, allo stesso modo il
linguaggio si ritrae sullo sfondo per fare emergere i significati.10 Così
nel dialogo che noi intratteniamo con gli altri e con noi stessi, non si
effettua alcuno scarto tra ciò che pensiamo e quello che diciamo, anzi
è proprio parlando che i nostri pensieri si riempiono di senso in una
simultaneità tra pensiero e linguaggio. Diversamente detto, un ritorno
al fenomeno del linguaggio non può che svelarne il carattere gestualeemozionale radicato nel corpo. La parola è un «autentico gesto» 11 che
7. Merleau-Ponty 2003, 245.
8. Merleau-Ponty 2003, 247.
9. Merleau-Ponty 2003, 254.
10. Merleau-Ponty 1984, 38: «Ma proprio questa è la virtù del linguaggio: è lui a
rimandarci a ciò che significa; si dissimula ai nostri occhi con la sua stessa operazione;
il suo trionfo è di cancellarsi e di dare accesso, al di là delle parole, al pensiero stesso
dell’autore, in modo che, poi, crediamo di esserci intrattenuti con lui senza parole, da
mente a mente».
11. Merleau-Ponty 2003, 254.
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include il proprio senso allo stesso modo in cui gli altri gesti includono
il loro; una prassi corporea che s’accorda e accompagna ad altre prassi.
Ma a questo punto si presentano a Merleau-Ponty alcune difficoltà, di
cui egli stesso dà conto, circa la differenza tra i gesti verbali e i gesti
emozionali o quelli ostensivi. Invero, mentre quest’ultimi istituiscono con il loro senso e il loro riferimento una relazione d’immanenza
che consente allo spettatore di comprenderli nell’atto stesso in cui si
realizzano non così è per i gesti verbali:
Sulle prime sembra impossibile assegnare un significato immanente
sia alle parole che ai gesti: infatti, il gesto si limita ad indicare un certo
rapporto fra l’uomo e il mondo sensibile, questo mondo è dato dalla
percezione naturale, e così l’oggetto intenzionale è offerto al testimone contemporaneamente al gesto stesso. Viceversa, la gesticolazione
verbale ha di mira un paesaggio mentale. 12
A tutta prima sembra che Merleau-Ponty ripercorra la distinzione
classica tra gesti naturali e gesti culturali, assegnando ai primi i valori
della percezione, delle ostensioni e delle emozioni e ai secondi quelli
del linguaggio. Insomma, mentre è intuitivo e naturale vedere quel
che c’è di comune tra la gioia e il suo senso (per esempio il sorriso, la
faccia distesa, l’allegrezza scandita dal ritmo dei gesti dell’intero corpo),
viceversa non si capisce che nesso possa avere la parola «gioia» con
lo stato d’animo che intende descrivere, se non ricorrendo all’ausilio
delle convenzioni. Non è forse l’esistenza di molte lingue a confermarci
che il nesso tra il segno verbale e il suo significato «è totalmente
fortuito»? 13 Ma le cose nella filosofia del francese non stanno così
giacché per il Nostro non c’è niente nel corpo umano che non sia al
contempo naturale e culturale 14 dunque anche il linguaggio non potrà
essere schiacciato o ridotto a una delle due dimensioni. Ecco allora
la mossa del cavallo che opera Merleau-Ponty per riscattare la parola
dalle impostazioni convenzionaliste e i gesti dalle letture naturaliste:
Se consideriamo solamente il senso concettuale e terminale delle
parole, è vero che la forma verbale [...] sembra arbitraria. Le cose
12. Merleau-Ponty 2003, 257-8.
13. Merleau-Ponty 2003, 258.
14. Merleau-Ponty 2003, 260-1: «Nell’uomo è impossibile sovrapporre un primo
strato di comportamenti che chiameremo ‘naturali’ e un mondo culturale o spirituale
fabbricato. In lui tutto è fabbricato e tutto è naturale».
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cambierebbero se considerassimo il senso emozionale (ciò che prima
abbiamo chiamato il suo senso gestuale) [...] Allora ci si renderebbe
conto che le parole, le vocali, i fonemi sono altrettanti modi di cantare
il mondo e che sono destinati a rappresentare gli oggetti, non in
ragione di una somiglianza oggettiva, come credeva l’ingenua teoria
delle onomatopee, ma perché ne estraggono e nel senso proprio del
termine, ne esprimono l’essenza emozionale. 15
Ma dove cercare questo senso emozionale? Non certo nei vocabolari o nelle sintassi o ancora nei significati costituiti, bisognerà, piuttosto,
operare una riduzione fenomenologica,16 che dalla «parola parlata» ci
retroceda a quella «parlante», a quel suo potere costituente, che come
le emozioni e l’intera gestualità corporea, si pone nel punto di svolta
tra il naturale e il culturale, in quello spazio-tempo di emergenza e
sfuggimento in cui la dicotomia fra i due termini si dissolve, senza
peraltro stabilire alcuna primato onto-gnoseologico dell’uno sull’altro.
Ma cerchiamo di capire meglio l’operazione merleau-pontyana e vediamo se in essa comincia a profilarsi, seppur in filigrana, una messa
in questione della voce. La riduzione a cui ci invita Merleau-Ponty ci
fa compiere un movimento retrogrado che, allontanandoci dal livello
dei significati acquisiti della «parola parlata»,17 ci colloca sul terreno
originario della «parola parlante» 18 da cui sgorga il potere significante
originario del linguaggio. Ma a cosa pensa Merleau-Ponty quando
afferma che la parola parlante allo stato nascente polarizza attorno un
senso che è privo di qualsivoglia riferimento? E cosa eccede l’essere
naturale per poi ricadere nuovamente in esso? Se a queste domande
aggiungiamo che il linguaggio considerato nel suo senso emozionale è
un modo di cantare il mondo, e che i suoi primi abbozzi andrebbero
cercati nella «gesticolazione emozionale»,19 ci sembra che almeno per
una parte decisiva la «parola parlante» possa identificarsi con la voce:
Il gesto fonetico realizza, per il soggetto parlante e per coloro che
15. Merleau-Ponty 2003, 258-9.
16. Merleau-Ponty 1967, 72: «Se vogliamo comprendere il linguaggio nella sua
operazione originaria dobbiamo immaginare di non aver mai parlato, sottometterlo a
una riduzione senza la quale ci sfuggirebbe ancora».
17. Merleau-Ponty 2003, 269.
18. Merleau-Ponty 2003, 269.
19. Merleau-Ponty 2003, 260.
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l’ascoltano, una certa strutturazione dell’esperienza, una certa modulazione dell’esistenza [...]una contrazione della gola, una emissione di
aria sibilante fra lingua e denti, una certa maniera di fruire del nostro
corpo si lasciano subito investire da un senso figurato e lo significano
fuori di noi [...] se è parola autentica, la parola fa sorgere un senso
nuovo. 20
Ma come è possibile che la voce letteralmente estragga ed esprima
il senso delle cose? E in virtù di quale potere riconfigurante essa si
lascia impregnare di un senso figurato? In altre parole come è possibile
che essa passi dalla vita del suono a quella del senso emozionale e da
questo a quello linguistico?
2. Il suono della vita
Consideriamo queste affermazioni di Merleau-Ponty:
[...] non si può negare che la parola costituita, quale agisce nella vita quotidiana, presuppone come compiuto il passo decisivo
dell’espressione. La nostra visione dell’uomo rimarrà superficiale
finché non risaliremo a questa origine, finché non ritroveremo, sotto
il brusio delle parole, il silenzio primordiale, finché non descriveremo
il gesto che rompe questo silenzio. 21
L’origine del linguaggio è mitica, il che significa che c’è sempre un
linguaggio prima del linguaggio che è la percezione. 22
Le due considerazioni, benché riferibili a periodi diversi della riflessione sul linguaggio del filosofo francese, concordano nell’individuare
un campo originario in cui il fenomeno generale dell’espressione anticipa quello della significazione linguistica, che della prima rappresenta
una modalità particolare. La differenza tra ciò che il Nostro tratteggiava negli anni ‘40 e quello che lo impegnerà nelle opere degli anni
‘50 fino a Il visibile e l’invisibile, va dunque individuata nella necessità
di dettagliare il passaggio che dall’architettonica visibile e muta del
corporeo, vira verso quella invisibile e parlante del linguaggio. Questo
20. Merleau-Ponty 2003, 265-6, corsivo mio.
21. Merleau-Ponty 2003, 225.
22. Merleau-Ponty 1996, 319.
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movimento più volte ribadito come necessario ai fini della comprensione della reversibilità fra le due strutture ci sembra, però, profilarsi come
l’interrogativo aperto e mai compiutamente risolto da Merleau-Ponty.
Egli, infatti, nonostante abbia avuto il merito indiscutibile di scorgere
e portare nel giusto alveo la questione, non riuscirà fino alla fine, probabilmente per la prematura scomparsa, a darne debitamente conto. Si
tratta, dunque, di pensare l’impensato o l’implicito merleau-pontyano,
restituendo alla piena luce della riflessione il fenomeno della voce che
del transito dall’espressione corporea alla significazione linguistica ci
sembra più d’ogni altro poter aspirare ad essere l’emblema.
La nostra strategia si comporrà di alcune mosse teoriche che s’accompagnano ad altrettante intuizioni merleau-pontyane, il cui senso
è di esplorare la voce nel trapasso dalla sua genesi corporea alla sua
epifania linguistica, precisando le ragioni che la vedono effettuare la
dialettica di riflessività tra corpo e linguaggio. In altre parole, seguiremo la voce dal suo emergere come pura potenza espressiva del corpo
fino all’approdo nella significazione della parola costituita. Resterebbe
da osservare la sua apocalisse, la sua destinalità obliante a linguaggio
compiuto ma lo spazio qui concessoci non ci permette di spingerci oltre.
Ma rimettiamoci in cammino e tentiamo di dar seguito alle domande
che ci eravamo posti: come è possibile che la voce estragga il senso
emozionale delle cose? E in virtù di quale potere alla voce spuntano,
parafrasando Heidegger, i significati? Inoltre qual è il senso della locuzione silenzio primordiale e che tipo di rapporto s’istituisce tra questo e
il gesto vocale? A questo proposito Merleau-Ponty sembra perentorio
parlando di una relazione di rottura tra i due momenti; come se il silenzio fosse «una superficie opaca, continua, perfettamente omogenea,
che viene lacerata dall’apparire del suono» 23 e l’irrompere vocale una
ferita brutale che squarcia irrimediabilmente il placido mutismo del
mondo. Tuttavia, una simile descrizione ci restituirebbe un’immagine
di quest’ultimo come completamente privo di suoni, un’astrazione sorda rispetto al profluvio di rumori, voci e risonanze, che continuamente
da esso ci giungono, inondandoci da ogni parte. È lo stesso MerleauPonty a parlare, in effetti, di un silenzio che non è «il contrario del
23. Piana 1991, 71.
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linguaggio» 24 allorché ci propone l’atto percettivo come uno stile di
«deformazione coerente» 25 in grado di dare senso alle varianti e alle
variazioni del sensibile mondano. Dunque, per il filosofo francese il
mondo è abitato da cose visibili, tangibili e udibili che a rigor di logica
non lo rendono una distesa deserta e ovattata. Come decifrare, allora,
quel silenzio primordiale che soggiace come sfondo su cui si compie il
gesto di rottura della voce? Seguendo quanto Merleau-Ponty ci indica
esso andrebbe compreso come quel momento della storia della nostra
specie in cui ancora nessuna parola è stata proferita, come il milieu di
comportamenti comuni da cui essa attinge il suo stesso senso:
La parola in un senso riprende e supera, ma in un senso conserva
e continua la certezza sensibile, non rompe mai completamente il
‘silenzio eterno’ della soggettività privata. Ancora adesso continua al
di sotto delle parole, non cessa di avvolgerle, e, per poco che le voci
siano lontane o indistinte, o il linguaggio assai differente dal nostro,
noi possiamo ritrovare, di fronte a lui, lo stupore del primo testimone
della prima parola. 26
Orbene, nonostante l’aggiustamento che fluidifica dialetticamente
il rapporto tra prima parola e silenzio, precisando quest’ultimo come
l’alone che non cessa mai d’avvolgerla; e nonostante l’individuazione
del suo luogo specifico nella soggettività privata, ancora non possiamo
dirci soddisfatti, giacché, in accordo con Hegel, crediamo che il suono
sia «il tremolare interno del corpo in se stesso».27 Esso, invero, emana
rumori e voci che al pari degli altri oggetti del mondo lo fanno echeggiare, traducendo la sua matericità, il suo spazio intimo in un’onda sonora
che irradia attorno a sé vibrazioni e movimento. È ancora lo stesso
Merleau-Ponty a ricordarcelo quando scrive che «come il cristallo, il
metallo e molte altre sostanze, io sono un essere sonoro».28 Alla luce
di queste considerazioni potremmo, dunque, ricalibrare la nozione di
silenzio primordiale, come l’indice rivelatore di quattro fenomeni in
tensione dialettica fra loro.
24. Merleau-Ponty 2007, 196.
25. Merleau-Ponty 1984, 78: «Ci sono delle significazioni quando sottomettiamo i
dati del mondo a una ‘deformazione coerente’».
26. Merleau-Ponty 1984, 64, corsivo mio.
27. Hegel 1978, 284.
28. Merleau-Ponty 2007, 160.
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Innanzitutto, sforzandoci di pensarlo non come la totale assenza di
suono, bensì «come una sorta di texture sonora, come una trama di piccoli suoni, [...] un brulichio e un mormorio» 29 che si distribuisce come lo
sfondo inavvertito della nostra percezione acustica, da cui i suoni emergono distinti solo quando oltrepassano la soglia d’inconsapevolezza.
In secondo luogo, potremmo considerare i battiti del cuore, gli echi
sonori delle viscere, il respiro in sintesi, come ha notato J.L. Nancy, il
nostro corpo-diapason 30 come altrettanti agi di permanenza di questo
«silenzio mormorante». In particolare il soffio che anima la voce, la
psyché che alita e vivifica la phoné, prima ancora che essa possa trovare
il suo risuonatore e vibrare, raffigura plasticamente l’impalpabilità e la
dimensione dialettica che stiamo cercando di descrivere.
In terzo, c’è un silenzio a linguaggio compiuto che si frappone tra
le parole, che si insinua fra di esse come pausa ritmica o si traveste
di bianco fra gli spazi bianchi delle lettere scritte; che finge un vuoto
comunicativo, esibendo, invece, l’intrusione nell’ambito del discorso
del sottointeso, dell’implicito, dell’allusivo. In breve, una soglia prosodica necessaria al polimorfismo del senso. Infine, c’è un silenzio che
sospende ogni parola, che impedisce l’assalto esplorativo di qualsivoglia linguaggio, che innescato dall’ineffabilità corporea 31 intisichisce
la volontà e la potenza del dire svuotandolo della sua stessa dicibilità.
Questo silenzio che ancora risuona nell’urlo o nel lamento, nel riso
come nel pianto, nelle glossolalie della follia di Artaud o negli scilinguagnoli di Carroll è l’indicibile come nuda vocalità. Inteso in questo modo
il silenzio è materia, forma piegata, spiegata e ripiegata dalla voce, configurazione dinamica agitata dalle vociferazioni che da sfondo diviene
fondo per poi alfine precipitare come fondale abissale. In sintesi così
come c’è reversibilità tra invisibile e visibile altrettanto v’è reversibilità
tra silenzio e voce-suono come, sulla scia di Merleau-Ponty, notava il
troppo spesso dimenticato Mikel Dufrenne:
Sotto l’indice dell’udibile [...] ritroviamo [...] il tema della carne.
Se suono e silenzio sono, infatti, solidali, se il silenzio è rumore di
fondo, forse inudibile, ma pieno di udibile come l’invisibile è pieno di
visibile, questo avviene in quanto il fondo è rumoroso e si può quindi
29. Piana 1991, 74.
30. Nancy 2004, 27.
31. Per la nozione di ineffabilità corporea cfr. Cicardo 2013, 103-6.
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parlare di udibilità in generale. Essere udito costituisce, allo stesso
modo dell’essere visto, una dimensione del sensibile: un elemento
della carne. [...] l’udibile assume tutto il suo senso: è il proprio di
ciò che deve essere ascoltato e che sollecita un potere d’ascoltare.
La reversibilità che definisce la carne si manifesta infatti anche nel
sonoro. 32
Se, dunque, abbiamo insistito sulla precisazione della nozione di
silenzio, arrivando persino a fletterne la grammatica filosofica, è perché tramite esso intendiamo congegnare lo spazio topologico entro
cui si muove e agisce la voce, poiché essa prima «d’essere voce della
coscienza, è indistinto richiamo al silenzio».33 Torniamo, però, ai primi
due movimenti che abbiamo assegnato alla nostra coppia dialettica
per cercare di svelare alcuni nuclei negativi che ineriscono la voce in
quanto fenomeno acustico. Quando si è proposto d’intendere il silenzio come testura sonora, si è voluto fissarlo come lo sfondo grazie a
cui si realizza la nostra percezione acustica. In breve lo si è pensato
come il bordone continuo, il pedale, la tonica impercepita a cui siamo
continuamente esposti e in virtù della quale ogni altro suono acquista
significato.34 Dunque, proprio come avviene per la vista anche l’udito
si effettua in una dinamica di figura-sfondo. Così come le cose mi si
presentano in un’intrinseca rimandatività sistematica che ora le avanza
in primo piano ora le retrocede alla periferia della mia visione, allo
stesso modo sono circondato da un paesaggio sonoro brulicante di
opache densità sonore, da cui si stagliano suoni più distinti. E di più.
Come già la percezione visiva contribuiva alla formazione dello schema
corporeo altrettanto fanno le abitudini di ascolto. Tuttavia non si possono non considerare alcune differenze fondamentali tra la topologia
sfondo-figura della vista e quella dell’udito. A tutta prima, mentre posso direzionare i miei occhi verso un oggetto, tralasciando tutti gli altri
che si disporranno ai bordi della mia percezione; o posso concentrarli
su aspetti specifici di quello stesso oggetto in un progressiva zoomata
dal più al meno e viceversa; o, addirittura, con un lieve movimento
delle palpebre sospenderne la presenza, la stessa cosa non posso farla
32. Dufrenne 2004, 104.
33. Bologna 1992, 25.
34. Per questi argomenti e più in generale per la nozione di paesaggio sonoro che qui
si sta sfruttando rimando a Schafer 1985.
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con le orecchie. Certo posso concentrami su alcuni suoni piuttosto
che su altri, operare attraverso la mia concentrazione una selezione
delle presenze acustiche che mi circondano, ma l’irruzione di un forte
rumore distoglierebbe la mia attenzione da ciò su cui s’era fissata. E
questo per la semplice ragione che le orecchie non hanno palpebre e
non essendo direzionabili sono aperte, loro malgrado, al mondo come
un imbuto che sorbisce qualsivoglia vibrazione sonora. E anche quando
io voglia turarle avvertirei nell’attutimento la presenza di suoni,35 e
questo, come icasticamente ha scritto P. Valery, riporterebbe a una
«condizione di quasi-presenza tutto il sistema dei suoni».36 Insomma, il
sonoro è uno sfondo continuo da cui non posso in alcun modo ritrarmi,
esso insiste, rimbalza, penetra in me, non s’accoda alla frontalità della
visione ma mi sorprende da ogni lato perché da ogni parte m’avvolge e
non lascia dietro di sé alcuna traccia nascosta, non almeno allo stesso
modo dell’oggetto visto.37 Quando poi, come in alcuni ambienti artificiali, la sua eco è smorzata, esso continua a persistere diffondendosi
da me, poiché lo spazio sonoro «si apre in me tanto quanto attorno a
me, e a partire da me quanto verso di me: si apre in me come fuori di
me».38 Questa quasi invisibile onnipresenza del sonoro, che però si fa
luogo, è ben evidenziata da molti miti delle origini.39 Orbene proprio
questa quasi-invisibilità dei fenomeni acustici porta a galla un’altra
differenza tra la dimensione tattilo-visiva e quella uditiva. Questa volta
35. È il fenomeno delle otomissioni ovvero la capacità dell’orecchio interno di produrre
suoni.
36. Valery 1974, 974.
37. Benché tra gli adombramenti visivi e gli effetti di mascheramento di frequenza
del suono, ci siano delle innegabili analogie, tuttavia sarebbe fuorviante sovrapporre
del tutto i due fenomeni. Infatti, mentre i primi denunciano in maniera eclatante la
loro non-presenza, il loro nascondimento; i secondi, benché operanti nel campo di
presenza sonoro, si trattengono in una indistinzione che in linea di principio li può
rendere inaudibili e perciò stesso inesistenti. Inoltre se è sempre possibile, attraverso
una prassi esplorativa, portare in chiara luce il lato nascosto di qualsivoglia oggetto,
non sempre è possibile disambiguare i mascheramenti sonori. Si pensi, giusto per fare
un esempio, all’impossibilità di poter udire il frusciare delle foglie nel bel mezzo di un
bombardamento, o più semplicemente alla difficoltà di poter dettagliare i rumori di
fondo di una città.
38. Nancy 2004, 23.
39. Per un approfondimento sui miti creazionistici e sulle cosmogonie in cui l’elemento
centrale è il suono si veda Schneider 2007.
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la dissonanza non è colta dall’angolatura del soggetto che percepisce
ma da quella dell’evento che si manifesta. Infatti, nonostante ci si
riferisca alle cose udite allo stesso modo in cui ci si riferisce alle cose
viste o toccate, la natura materiale dei primi è affatto diversa da quella
di quest’ultimi. I suoni, invero, non hanno la stessa presenza degli
oggetti visti o toccati, essi non hanno una dislocazione precisa nello
spazio come i primi, né possono essere afferrati e manipolati come
i secondi. In breve l’essere qualcosa dei fenomeni acustici, in forza
della loro indeterminatezza spaziale e impermanenza temporale, ha
una problematicità intrinseca che li scosta non poco dall’«oggettività»
visivo-tattile. Ma c’è di più. Se i suoni non sono del tutto eguagliabili
alle cose, essi sono ancor meno assimilabili, alla stregua dei colori, a
qualità secondarie di queste, costituendone, piuttosto, una potenzialità
che per essere deve attualizzarsi. In altre parole, laddove i colori si
danno alla percezione con le cose stesse, i loro aspetti sonori possono
rivelarsi soltanto in virtù di una azione esercitata su esse da qualcuno
o qualcosa; e mentre quelli in assenza di riferimento possono essere
solo pensati, questi possono essere anche percepiti. Inoltre, la struttura
epistemologica d’esibizione dell’oggetto varia se a coglierla è l’occhio
piuttosto che l’orecchio, non potendo quest’ultimo operare la medesima astrazione del primo rispetto al suo contenuto. Il suono per sua
stessa natura eccede l’essere degli essenti, perché da esso si disgiunge
e al contempo, per un effetto di rimbalzo, in esso ci precipita. In questa
autonomia del suono rispetto all’oggetto che lo produce, in questa sua
essenziale impermanenza e fantomaticità non disambiguabile, vediamo
profilarsi alcuni elementi negativi, potremmo dire di esonero dalla pura
presenza del mondo, che consentono alla voce - essendo essa stessa un
fenomeno sonoro - di potersi candidare come medium, se non esclusivo,
quantomeno privilegiato per il formarsi del linguaggio. E però quanto
detto ci autorizza a fasciare il suono di una sorta di autarchia assoluta rispetto a tutti gli altri sensi e, addirittura, rispetto al mondo? La risposta
d’abbrivio è no. E veniamo così a puntualizzare il senso dell’avverbio
‘quasi’, da noi usato nell’espressione quasi-invisibilità dei fenomeni
acustici. Ora, benché il suono sia un’onda longitudinale e nonostante
rimanga per lo più invisibile agli occhi e intangibile alle mani, questo
non significa affatto negargli matericità. Tanto più che, anche se in rare
occasioni, le vibrazioni da esso prodotte mi si palesano tanto alla vista
quanto, e questo con maggiore frequenza, al tatto. Con riferimento a
176
Genesi ed epifania della voce
quest’ultimo caso basterà ricordare come le frequenze particolarmente
basse siano ampiamente percepite, non solo dalle nostre orecchie, ma
dall’intero corpo, tanto da poter essere avvertite distintamente anche
dai sordi. In altre parole «io non odo semplicemente con le mie orecchie, io odo con tutto il mio corpo. Le mie orecchie sono semmai gli
organi focali dell’ascolto».40 Per quel che riguarda la visione del suono
sarà necessario ritornare alle cose stesse e ribadire, con più forza, come
gli effetti acustici non sbuchino dal nulla, ma da «uno stato di cose
nel quale la stessa manifestazione sonora si mostra come un prodotto
mostrando nello stesso tempo il modo della propria produzione».41 Messe
così le cose, sarà più facile vedere la connessione tra mondo e suono.
Infatti, se da un lato sarà impossibile osservare le vibrazioni del cigolio
della poltrona su cui ora siedo, dall’altro sarà sempre possibile cogliere
l’oscillazione di un elastico o di una lavatrice durante un ciclo di centrifuga, potendole collegare al suono che da essi promana. Dunque, il
fenomeno sonoro, nella fattispecie le vibrazioni, si rende interamente
visibile poiché prima di tutto è un movimento. Ma giusto in questa sua
evidenza il suono nasconde ancora una volta un nucleo negativo. Che
tipo di movimento è, infatti, quello che si produce nella vibrazione? La
tradizionale risposta, cioè di reperire nella vibrazione un moto pendolare inteso come spostamento di luogo, non sembra dare debitamente
conto della dimensione fenomenologica che essa realizza.42 Le mie dita
hanno appena teso un grosso elastico, lo percuoto con i denti. Il suono
si diffonde, amplificato dalla cavità della mia bocca; ma l’elastico in
un senso forte non si è mosso rimanendo esattamente dov’era, ovvero
tra le mie dita. La sua fibrillazione ha esibito un dinamismo che ne ha
trasformato la rigidità iniziale in un’infinità di oscillazioni che, però,
non lo hanno dislocato in un luogo diverso da quello di partenza. In
sintesi il movimento dell’elastico non si è compiuto nello spazio, bensì
nella stessa materia di cui è composto, nella grana della sua consistenza.
40. Ihde 1976, 45.
41. Piana 1991, 88.
42. Piana 1991, 89: «[...] la consueta illustrazione della nozione di vibrazione attraverso il riferimento a un moto pendolare, per quanto possa implicare marginalmente
e in modo del resto non significativo una condizione concretamente percepibile, mostra chiaramente la tendenza ad allontanarsi - a giusta ragione - dalla dimensione
fenomenologica, a superare dunque il terreno dell’esperienza [...]».
177
Santi Cicardo
Si realizza qui uno strano paradosso. Il suono, che s’irradia nel tempo
attraverso lo spazio percorrendolo in tutta la sua dimensionalità, è
prodotto da una cosa che, nonostante l’accentuato dinamismo, nello
spazio rimane immobile. Lo squadernarsi del suono e il suo internarsi
nel movimento senza-luogo della materia sonora, questo suo differirsi
dall’aderenza che lo produce e al contempo il promanare dal cuore
stesso di quest’ultima, è un tratto che, come ha avuto modo di sottolineare egregiamente W. Ong, stabilisce un rapporto esclusivo tra
interiorità e suono 43 e che in relazione alla voce assumerà connotazioni
più vivaci. In conclusione: ci siamo resi conto di come il mondo sia
brulicante di suoni, di come in esso esistano paesaggi e primi piani
sonori in una dinamica figura-sfondo. Ci siamo persuasi, altresì, che
esistono abitudini d’ascolto senza le quali un mondo non potrebbe
neanche darsi. Abbiamo appreso come la topologia della dinamica
figura-sfondo sonora abbia caratteristiche del tutto peculiari rispetto a
quella tattilo-visiva, pur mantenendo con essa un legame indissolubile.
Infine, abbiamo svelato nella costituzione dei fenomeni acustici dei
nuclei negativi in relazione agli oggetti dislocazione dal riferimento; al
tempo evanescenza sonora e allo spazio movimento senza-luogo della
sorgente che, come cercheremo di mostrare nel prossimo paragrafo,
opereranno con maggiore evidenza nel fenomeno della voce fissandolo
come il luogo di trapasso tra il corpo e il linguaggio.
3. Fremiti vocali: il punto zero del langagier
Nell’ultimo corso portato a termine al Collège de France dal titolo
Natura e logos: il corpo umano, in uno stile frammentario e al contempo
carico di pregnanza filosofica, Merleau-Ponty così appuntava:
L’origine del linguaggio è mitica, il che significa che c’è sempre un
43. Ong 1986, 104-5: «La più importante [caratteristica] è il rapporto veramente unico
che esiste fra il suono e l’interiorità, se lo confrontiamo con gli altri sensi. [...] Per
verificare l’interiorità fisica di un oggetto, nessun senso è efficace quanto l’udito. La
vista umana si adatta meglio alla luce riflessa delle superfici [...]. Il gusto e l’olfatto non
sono di grande aiuto nel registrare ciò che è interno e ciò che è esterno dell’oggetto.
Lo è invece il tatto, ma nella percezione esso distrugge in parte la sostanza percepita.
[...] L’udito può prendere atto dell’interno di un oggetto senza penetrarlo. [...] Tutti i
suoni registrano la struttura interna di ciò che li produce».
178
Genesi ed epifania della voce
linguaggio prima del linguaggio che è la percezione. Architettonica
del linguaggio. Così, il simbolismo «esatto», «convenzionale», mai
riducibile all’altro, si introduce tuttavia come esso attraverso una
cavità, una piega nell’Essere che non è richiesta dal simbolismo naturale, ma che ricomincia un investimento dello stesso tipo. Anche in
questo caso appare una nuova dimensionalità: non di contro, ma in
seno all’Essere naturale, si scava un punto singolare in cui, se niente
si frappone, il linguaggio appare e si sviluppa da sé, con la sua propria produttività. Lo spirito grezzo, quindi, come natura selvaggia.
Necessità di risvegliare questo spirito al di qua delle positività sedimentate. È in questo senso e con queste riserve che si può parlare di
un logos naturale. La comunicazione nel visibile viene continuata da
una comunicazione nell’invisibile con i nostri gesti e le nostre parole. Il
linguaggio come ripresa di questo logos del mondo sensibile in un’altra
architettonica.44
A tutta prima appare evidente come il problema sia ancora una
volta quello di descrivere l’intreccio, il chiasma, che avvolge il simbolismo corporeo a quello del linguaggio. Ma a leggere attentamente
risulta evidente come la questione abbia subito delle sofisticazioni che
ne hanno sostanzialmente modificato il nucleo filosofico. E non ci
riferiamo solo allo scivolamento del discorso merleau-pontyano da un
piano se si vuole più antropologico a uno decisamente ontologico, ma
soprattutto all’inserimento del tema del linguaggio in una prospettiva
più ampia che coinvolge non solo, o non più, il suo rapporto con il
corpo, ma con la natura tutta. Se, dunque, nelle opere giovanili il problema dell’espressione linguistica veniva abbordato e risolto in forza
di una riduzione al generico potere simbolico del Leib, ora sembra che
tra la percezione corporea e i fenomeni linguistici si formi uno iato,
meglio, uno scarto dimensionale che va diversamente interrogato. Tra
l’architettonica del simbolismo percettivo e quella del linguaggio si
crea una differenza che per «quanto relativa» deve essere chiarita, per
tentare di svelarne l’Ineinander che le avvolge:
Tra il silenzio percettivo e il linguaggio che comporta sempre un filo
di silenzio, la differenza è unicamente relativa. Eppure, per quanto
relativa, si tratta comunque di una differenza. Quale? 45
44. Merleau-Ponty 1996, 319-20, corsivi miei.
45. Merleau-Ponty 1996, 309.
179
Santi Cicardo
La risposta avanzata da Merleau-Ponty è che tra i due ordini espressivi non può marcarsi una scissione netta, che destina il primo come
lo spontaneismo cieco della natura e il secondo come il vestito o la
seconda natura confezionata dallo spirito, e questo per diverse ragioni. La prima può scovarsi direttamente al livello delle significazioni
sedimentate, nelle convenzioni della langue in cui, come aveva affermato F. De Saussure, non esistono segni pieni ma solo differenze tra
segni. Perciò anche a livello dello spirito si duplicano quelle stesse
dinamiche di scarto che già operavano a livello della percezione, tanto
da poter determinare il linguaggio come una sorta di riequilibrio, di
decentramento su un altro piano di quest’ultime, che non lo rendono,
tuttavia, un tutto compatto autoevidente. In sintesi, come il soggetto
percipiente non possiede un’immagine trasparente del mondo, così il
soggetto parlante non detiene interamente il sistema di equivalenza
che esso istituisce.46 Ma la scoperta di questa via, e veniamo al secondo
livello della questione, ci retrocede nell’indagine dalle significazioni
costituite al loro potere di costituirsi, potere che dovrà riscoprirsi al di
sotto della «materia culturale» di cui le prime si sono ammantate, in
una verticalità che sveli la presenza di «un Logos del mondo naturale,
estetico, sul quale poggia il Logos del linguaggio».47 Tuttavia, ed è
questa la novità teorica degli ultimi scritti merleau-pontyani, questo
logos percettivo, reticente, questa dimensione che nella Fenomenologia
della percezione si era definita come cogito tacito, non può più ambire,
in forza di una coincidenza tra la vita del corpo e quella della coscienza,
a un primato costituente, poiché accanto ad essa va immediatamente
posta la dimensionalità langagier, che esibendola ne rivela l’orizzonte
d’insistenza:
[...] importantissimo, sin dall’introduzione, avanzare il problema del
cogito tacito e del cogito langagier. Ingenuità di Cartesio che non vede
cogito tacito sotto il cogito di Wesen, di significazioni - Ma ingenuità,
anche, di un cogito silenzioso che si crederebbe adeguazione alla
coscienza silenziosa, mentre la sua stessa descrizione del silenzio
46. Merleau-Ponty 1996, 309: «[...] ogni segno è differenza rispetto agli altri e ogni
significato è differenza rispetto agli altri, la vita del linguaggio riproduce ad altro
livello le strutture percettive [esso] non è posseduto dal soggetto parlante e nemmeno
dal linguista più di quanto il soggetto percipiente possieda la chiave del mondo».
47. Merleau-Ponty 1996, 310.
180
Genesi ed epifania della voce
riposa interamente sulle virtù del linguaggio.48
Ricapitolando: accanto alle significazioni non langagières del corpo,
esistono quelle langagier del linguaggio. Fra i due ordini non s’istituisce
alcun primato fondativo, giacché se le prime riprendono il mondo in virtù della loro inerenza a quest’ultimo senza avviare una separazione tra
significante e significato,49 solo le seconde, decrivendole, lasciano che
siano. Inoltre le stesse strutture differenziali presenti nell’ordine delle significazioni non langagières, trasmigrerebbero nell’architettonica
delle significazioni langagier. Tuttavia, nonostante lo svolgimento
dell’argomentazione sul piano ontologico della chair, ci pare irrisolto l’obiettivo che lo stesso Merleau-Ponty in una nota di lavoro de Il
visibile e l’invisibile del febbraio 1959 si poneva:
Il Cogito tacito deve far comprendere come non è impossibile il linguaggio, ma non può far comprendere come esso è possibile - Rimane
il problema del passaggio dal senso percettivo al senso langagier, dal
comportamento alla tematizzazione. 50
Ciò che ci sembra manchi è la localizzazione di quello scavo, di
quel punto singolare, che noi individuiamo nella voce, in cui tra le
significazioni corporee e quelle linguistiche si effettua un incessante sopravanzamento dialettico. Ma perché la voce è lo spazio zero
dell’Ineinander corpo-linguaggio? La nostra risposta ruota su tre cardini. Il primo tenta di mostrare come esista un isomorfismo ontologico
tra la dimensionalità topologica della natura, così come descritta da
Merleau-Ponty, e la voce. Il secondo sfrutta le venature di negatività
che attraversano quest’ultima per testimoniare e vagliare i movimenti
di scarto e riduzione che persistono tanto nelle significazioni mute del
corpo quanto nelle istanze langagier. Il terzo, infine, a mo’ di corollario, insiste sulla dinamica singolarità-moltitudine che la voce innesca,
48. Merleau-Ponty 2007, 196.
49. Merleau-Ponty 1996, 308: «Dicendo che il corpo umano è un simbolismo si
vuol affermare che, senza che ci sia un’Auffassung [interpretazione] preliminare del
significante e del significato pensati come separati, il corpo si inerisce nel mondo
e il mondo nel corpo [...] Un organo dei sensi mobile (l’occhio, la mano) è già un
linguaggio, poiché è una domanda (movimento) e una risposta (percezione come
Erfüllung [compimento] di un progetto), parlare-comprendere»
50. Merleau-Ponty 2007, 193.
181
Santi Cicardo
per rintracciarvi i prodromi delle urgenze semiotico-semantiche del
linguaggio stesso. Del secondo dei cardini abbiamo già detto a proposito della natura negativa del suono - dislocazione dal riferimento,
evanescenza sonora, movimento senza-luogo della sorgente - perciò
ci concentreremo sul primo e sul terzo. Per fare questo ricorreremo
alla nozione di cavità (creux) che Merleau-Ponty utilizza in alcune note
di lavoro de Il visibile e l’invisibile, ma che già si trova in nuce nei
corsi dedicati alla Natura. Lo scopo del filosofo francese, in entrambi i
lavori, è quello di ripensare la soggettività libera da ogni avanzo coscienzialistico che a suo parere ancora si annidava nell’opera del ‘45.
Per fare questo si rendeva necessaria un’analisi filosofica che passasse
dal piano del soggetto a quello della natura, uno scivolamento da un
piano antropologico a uno ontologico, che tuttavia non esautorava del
tutto il primo, trattandosi nel caso di Merleau-Ponty di un’ontologia
negativa, ossia di un’analisi che non può prescindere dal fatto che la
Natura è sempre «percepita da noi».51 Ciò che garantiva al Nostro
di evitare i pantani dell’ontologia filosofia classica, che aveva pensato la Natura come il luogo delle blossen Sachen o degli ob-iecta, è di
considerarla come un Essere d’indivisione, ossia come un rapporto
dialettico reversibile - non solubile in alcuna sintesi - tra percipiente
e percepito. È attraverso questo inserimento, questo Ineinander tra
Natura, vita e corpo, condensato dalla nozione di chair, che si rende
possibile un discorso ontologico che sia al contempo verticale - giacché
sprofonda nella pluridimensionalità abissale dell’Essere - e prospettico - non potendo prescindere dallo statuto percipiente della carne
del corpo.52 Tra lo spazio evenemenziale ontico e quello strutturale
dell’Urstiftung, s’insinua per differenziazioni e integrazioni, per scarti e
riduzioni l’Inframondo delle macchinazioni corporee e delle prese stabili,
da cui l’umanità emerge come «Essere in filigrana [...] come inter-essere
e non come imposizione di un per-sé a un corpo in-sé».53 Da questo
Essere grezzo che è anzitutto Vor-Sein e che si oppone allo spazio en-
51. Merleau-Ponty 1996, 303.
52. Merleau-Ponty 1996, 300: «Questa volta l’approfondimento della Natura ci deve
illuminare direttamente sugli altri Esseri e sul loro ingranaggio nell’Essere. Non si
tratta più di disporre in ordine le nostre ragioni, ma di vedere come tutto ciò stia
insieme - filosofia della prospettiva e filosofia dell’Essere verticale».
53. Merleau-Ponty 1996, 303.
182
Genesi ed epifania della voce
tropico e statico euclideo, offrendosi come dimensionalità diveniente,
non livellante né distensiva; da questo fondo poroso, conflittuale, in
cui si iscrive sempre qualcosa o l’assenza di qualcosa, la carne emerge
come possibilità di presentazione originaria (Urpräsentierbarkeit) di ciò
che originariamente non era presentato (Nichturpräsentierten), come la
cavità in cui la visibilità figura l’invisibile:
In questa disposizione della carne appare, emerge una visione [...]
c’è dunque nascita, e sorge così una nuova coscienza [...] grazie al
predisporsi di una cavità, attraverso l’irruzione di un nuovo campo
che viene dall’inframondo. 54
Dunque nel creux, dove il pieno si nutre del cavo e il positivo del
negativo, la soggettività - e di rimbalzo l’alterità - non si compiono
in un tutto trasparente, trattandosi piuttosto di «due antri, [...] due
aperture, di due scene in cui accadrà qualcosa, - e che appartengono allo
stesso mondo, alla scena dell’Essere».55 In esso l’attivo e il passivo, il
corpo e l’anima, la percezione e l’idea sono intrecciati come il concavo
e il convesso di un’unica articolazione.
Orbene se l’Essere grezzo è lo squadernarsi a più fogli di una pluridimensionalità stratificata, se la sua mappatura corrisponde a una
geografia mobile di cavità e rivestimenti, e se financo il corpo e l’anima
isomorficamente palesano, o proiettano, la medesima struttura promiscua, è possibile individuare il punto, meglio, la linea che traccia
il confine del concavo e del convesso? In altre parole esiste una singolarità che pur partecipando dell’incavo e del pieno se ne sottrae
come il loro limite, come il non-luogo costituente in cui si consuma
la messa in piega del risvolto interno-esterno? Secondo noi questa
eccezione che si include e s’esclude, che si svela e nasconde è proprio
la voce. Prodotta dal pieno delle vibrazioni elastiche della carne essa
s’amplifica in forza di risuonatori cavi. Tanto anima perché respiro,
quanto corpo perché movimento; impronta esistenziale ed eccentrico dislocamento; interna - senza collassare nella solitudine ideale del
Per sé - ed esterna - pur non imbrigliandosi nell’oggettività nell’in sé;
compromessa con il silenzio originariamente non presentato è la sua
stessa possibilità di presentazione originaria; scaturita dalla terrenità
54. Merleau-Ponty 1996, 305-6, corsivo mio.
55. Merleau-Ponty 2007, 274.
183
Santi Cicardo
del corpo e dai suoi scarti sensoriali, in virtù del suo essere negativo, del potere di obliarsi eclissandosi trasmigra nelle levità aeree del
linguaggio senza indugiarvi affinché i significati siano. Un non-luogo
che istituisce nuovi spazi, un’eterotopia sonora, potremmo dire, che
proprio come gli specchi di Borges moltiplica il mondo, evocando ex
novo ciò che prima rimaneva inaudito nell’alone del silenzio o della
distanza: me e l’altro. È proprio per questa capacità di esporsi, di riflettere e di piegare su se stessa, per questo avvicinarsi nello sfuggimento
e allontanarsi nell’afferramento che la voce apre quello spazio pubblico,
da cui non potrà più sottrarsi il linguaggio. Essa, invero, promanando
da me, presenta me e intende me e, tuttavia, insinuandosi dal di fuori
denuncia il mio me come altro da sé. Questo sdoppiamento alienante,
questo intendermi che è un fraintendermi, questo evocarmi che è al
contempo un richiamo dell’eco delle mie vociferazioni, è il deposito
ambiguo di ogni rivendicazione singolare e l’apertura a qualsivoglia
indeterminatezza destrutturante d’altri. Per essere più chiari la voce in
quanto mia articolazione corporea mi esibisce come scarto esistenziale,
ma avviando un circuito autoaffettivo 56 per cui io mi odo dall’esterno
mi sorprende non più come me, bensì, come doppio, come altro da
me, differenza della medesimezza. Per queste ragioni la voce sembra
proprio trattenersi, fino a coincidervi, nel punto di eccezione tra naturacorpo, tra corpo-linguaggio e tra singolarità e moltitudine. Della prima
diade incarna il limite ontologico negativo, la singolarità topologica
che divide e partecipa del pieno e del cavo; della seconda costituisce
la cerniera della reversibilità tra le significazioni non langagières e
quelle langagier; della terza, infine, esibisce il movimento spiroidale,
identitario-estraniante, del me e del doppio del me:
[...] io non mi odo come odo gli altri, l’esistenza sonora della mia voce per
me è per così dire mal dispiegata; è piuttosto un’eco della sua esistenza
articolare, vibra attraverso la mia testa piuttosto che dall’esterno. Io
sono sempre dalla stessa parte del mio corpo, esso mi si offre sotto
una prospettiva invariabile. Orbene questo sfuggimento incessante,
questa impotenza in cui io mi trovo di sovrapporre esattamente l’uno
all’altro [...] l’esperienza uditiva della mia voce e quella delle altre voci
[...] non è un fallimento, infatti se queste esperienze non combaciano
mai esattamente, se sfuggono al momento di raggiungersi, se fra di
56. Sull’autoaffettività della voce rinvio a Mead 1966.
184
Genesi ed epifania della voce
esse c’è sempre un ‘mosso’, uno ‘scarto’ è proprio perché [...] io mi
odo dall’interno e dall’esterno; io provo, tante volte quante lo voglio,
la transizione e la metamorfosi da una delle esperienze all’altra, ed è
solamente come se il cardine fra di esse, solido, incrollabile, mi rimanesse
celato. Ma questo iato [...] fra la mia voce udita e la mia voce articolata
[...] non è un vuoto ontologico, un non-essere: esso è scavalcato
dall’essere totale del mio corpo, e da quello del mondo, è lo zero di
pressione fra due solidi che fa sì che aderiscano l’uno all’altro.57
Santi Cicardo
Università di Palermo
[email protected]
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