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m. bontempi Appunti su Stigma
Appunti su Goffman, Stigma
Capitolo 1
Stigma e identità sociale
1. La logica dello stigma
«Quando ci troviamo davanti un estraneo, è probabile che il suo aspetto immediato ci consenta di
stabilire in anticipo a quale categoria appartiene e quali sono i suoi attributi, qual è, in altri
termini, la sua identità sociale (…) in questo contesto attributi personali come l’onestà si
presentano insieme ad attributi strutturali come l’occupazione» (Erving Goffman, Stigma, p.12).
Non ci rendiamo conto che quegli attributi li abbiamo stabiliti noi, collocando quella persona in
una categoria sociale e proiettando su di lei – come aspettative di comportamento e/o di modo di
essere - gli attributi associati a quella categoria. In altre parole, assumiamo che quegli attributi ci
autorizzino ad attribuire quella persona alla categoria sociale X e ad aspettarci che insieme a quegli
attributi che rileviamo abbia anche quelle caratteristiche di modo di essere e di comportarsi che
sono socialmente associate a quella categoria sociale. Di conseguenza, «ci fidiamo delle
supposizioni che abbiamo fatto, le trasformiamo in pretese normative e quindi in pretese
inequivocabili» (p.12), cioè consideriamo le supposizioni che abbiamo fatto come presupposti che
non hanno bisogno di essere dimostrati e, ancor di più, assumiamo che le caratteristiche di quella
persona siano con ogni probabilità, o addirittura certezza 1, ricavabili dalle caratteristiche
socialmente associate a quella categoria sociale. Facciamo tutto questo senza rendercene conto.
Non siamo coscienti di questo «finché non siamo costretti a decidere se [questi attributi]
corrispondono o no alla realtà. Solo allora è probabile che ci accorgiamo del fatto che, durante
tutto il processo, ci siamo affidati a certi presupposti su come dovrebbe essere la persona che
stiamo prendendo in considerazione» (p.12).
Quando ci troviamo a dover decidere se gli attributi che abbiamo considerato corrispondono o no
alla realtà di questa persona, allora la presenza di un attributo che lo rende diverso dai membri di
quella categoria crea un problema di interpretazione. Questo attributo è socialmente desiderabile?
Se la risposta è sì, allora si tratta di prestigio, ma se la risposta è no allora si tratta di stigma. In
quanto non desiderabile «tale attributo è uno stigma, soprattutto quando produce profondo
discredito» e questa persona «nella nostra mente viene declassata da persona completa e a cui
siamo comunemente abituati, a persona segnata, screditata» (p.13).
La persona che per alcuni attributi potrebbe essere collocata in quella categoria sociale, ma per un
altro attributo è associata ad un profondo discredito, allora anche la sua appartenenza alla
categoria sociale iniziale viene danneggiata e questa persona passa, per noi, dalla considerazione
di una persona completa alla considerazione di una persona screditata2.
Dal punto di vista analitico Goffman distingue in questo processo due dimensioni dell’identità:
1
Questo è il significato delle parole “le trasformiamo in pretese normative”, cioè in regole generali dalle quali è
possibile dedurre cosa aspettarci da una persona che consideriamo in base all’attribuzione ad una categoria sociale.
2
Ad esempio, la caratteristica di saper intrattenere i bambini e interessarli può essere un attributo particolarmente
apprezzato in un maestro elementare. Un attributo che può essere interpretato come il segno di una particolare
inclinazione all’insegnamento ai bambini. Il venire a conoscenza che, prima di fare il maestro, questa persona è stata a
lungo in carcere contribuisce a considerare in una maniera diversa le sue capacità relazionali con i bambini, cioè come
un’abilità di attrazione che potrebbe essere connessa con comportamenti devianti nei confronti dei bambini. Ciò che è
importante qui è considerare che l’attributo dell’essere un ex detenuto non si aggiunge soltanto agli altri, ma può
produrre cambiamenti nell’interpretazione di altri attributi, “trascinandoli verso il basso” della considerazione sociale
e del discredito.
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La prima è l’Identità sociale virtuale: sono i «presupposti su come dovrebbe essere la persona che
stiamo prendendo in considerazione» (p.12). È l’identità che ipotizziamo e ci aspettiamo abbia
questa persona. La seconda è l’Identità sociale attuale: è «la categoria a cui possiamo dimostrare
che [quella persona] appartiene e gli attributi che è legittimo assegnargli» (p.12).
Queste due dimensioni analitiche si presentano intrecciate nelle situazioni concrete, ma è
importante comprenderne le diverse logiche per poter comprendere il processo. L’identità sociale
virtuale è la categoria ipotizzata, sono il comportamento e modo di essere attesi; l’identità sociale
attuale – cioè concretamente in atto – è invece la categoria a cui è possibile dimostrare che quella
persona appartenga e dunque sono anche gli attributi di quella categoria che possiamo attribuire
legittimamente a quella persona.
Lo stigma non deve mai essere inteso come un dato di fatto, ma è sempre un attributo che in
quella situazione viene valutato negativamente. Per questo Goffman sottolinea che «non si deve
perdere di vista il fatto che ciò che conta è il linguaggio dei rapporti e non quello degli attributi.
Un attributo che stigmatizza una persona può essere accettato comunemente quando si riferisce
ad un’altra, per cui, in se stesso, non può suscitare né assoluta credibilità, né assoluto discredito»
(p.13).
2. Lo stigma dal punto di vista dei normali e del portatore di stigma
2.1 La duplice forma della condizione di stigma
La condizione dello stigma contiene in sé una doppia prospettiva:
a) il portatore di stigma sa che gli altri sanno del suo attributo connotato negativamente, perché
lo vedono o ne sono venuti a conoscenza: è la condizione dello screditato
b) il portatore di stigma sa che gli altri non sanno del suo stigma, sia perché non sono informati,
sia perché non lo vedono: è la condizione dello screditabile
a) Lo screditato
Lo screditato può esserlo in relazione a 3 diverse specie di stigma:
I.Stigmi connessi a deformazioni fisiche (varie forme di disabilità, tratti percepiti come eccessivi in più o in meno - come altezza e peso, colore, tratti del volto, ecc.)
II.Stigmi connessi ad aspetti criticabili del carattere, come mancanza di volontà (che può essere
connessa con stigmi come disoccupazione, tossicodipendenze, alcolismo, malattie mentali,
comportamenti di suicidio); passioni sfrenate o innaturali (che possono essere connesse con
stigmi come omosessualità, gioco d’azzardo, pedofilia ecc); credenze malefiche e dogmatiche
(connesse a stigmi come estremismo politico, terrorismo, appartenenza a sette sataniche, ecc.);
disonestà
Gli stigmi di a) e di b) sono individuali, cioè attribuiti ad aspetti del singolo e non al suo essere
membro di un gruppo.
III. Stigmi tribali della razza, nazione, religione.
Questo terzo tipo di stigmi è collettivo, cioè è attribuito in egual misura a tutti i membri di un
gruppo per il fatto di essere membri di quel gruppo (“voi ebrei/musulmani/albanesi/cinesi/africani
ecc ecc siete tutti uguali”).
La condizione di screditato è profondamente caratterizzata dal fatto che il portatore di stigma è, e
si sente, esposto alla conoscenza che l’altro ha del suo stigma. Se si tratta di uno stigma visibile
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questa esposizione è determinata dall’impossibilità di impedire agli altri di venirne a conoscenza
anche solo guardandolo, se si tratta di uno stigma non visibile la condizione di screditato è tale
quando il portatore di stigma sa che gli altri sanno del suo stigma. In entrambi i casi nelle
interazioni tra screditati e normali al centro c’è il controllo della tensione causata dalla messa in
atto della disattenzione volontaria nei confronti dello stigma da parte sia del normale che dello
stigmatizzato. La disattenzione volontaria è quell’insieme di atteggiamenti che mirano a non
affrontare esplicitamente l’attributo stigmatizzante né le sue conseguenze. Il normale e anche lo
stigmatizzato possono interagire mostrando disattenzione verso lo stigma, questa disattenzione
dimostrata è parte costitutiva dell’interazione che si può sviluppare tra il normale e lo screditato,
ma la gestione di questa disattenzione volontaria è motivo di tensione sia per il normale (tanto più
se è un estraneo) che per lo stigmatizzato che cerca di capire quanto e cosa il normale pensi del
suo stigma mentre interagisce con lui.
b) Lo screditabile
Quando, nell’interazione, l’attributo stigmatizzante non è visibile o noto, il problema non è più il
controllo della tensione, ma diventa il controllo dell’informazione relativa all’attributo
stigmatizzante. Al centro ora c’è se dire o non dire, se mentire o no, a chi dire e a chi non dire,
quando dire e quando non dire, fino a che punto dire ad una persona e fino a che punto dire ad
un’altra. Questa condizione è definita da Goffman la condizione dello screditabile.
Mentre lo screditato deve affrontare il pregiudizio contro se stesso, lo screditabile deve
fronteggiare la possibilità di una reazione condizionata da pregiudizi da parte dei normali qualora
venissero a conoscenza del suo attributo stigmatizzante.
Da qui l’impegno dello screditabile nell’entrare in interazione confermando con il proprio
comportamento l’impressione nei normali che si trovano in compagnia di una persona che è
“davvero” come loro desiderano o immaginano dalla prima impressione: farsi passare per normale.
2.2 I normali e la loro teoria dello stigma
«Definirò normali noi e quelli che non si discostano per qualche caratteristica negativa dai
comportamenti che, nel caso specifico, ci aspettiamo da loro» (15).
I normali credono «che la persona con uno stigma non sia proprio umana. Partendo da questa
premessa pratichiamo diverse specie di discriminazioni, grazie alle quali gli riduciamo, con molta
efficacia anche spesso inconsciamente, le possibilità di vita. Mettiamo in piedi una teoria dello
stigma, una ideologia atta a spiegare la sua inferiorità e ci preoccupiamo di definire il pericolo che
quella persona rappresenta, talvolta razionalizzando un’animosità basata su altre differenze, come
quella di classe» (p.15)
Questa teoria funziona così:
 Abbiamo la tendenza ad attribuire una vasta gamma di imperfezioni partendo da quella
originaria

[Abbiamo la tendenza] ad affibbiare [allo stigmatizzato] attributi desiderabili, ma non
desiderati [da lui/lei], specie di natura soprannaturale, quali il “sesto senso” o “la
comprensione”

Inoltre può darsi che percepiamo la sua reazione difensiva come diretta espressione della
sua minorazione e quindi giudichiamo sia il difetto che la reazione come una giusta
mercede per qualche cosa che lui, i suoi genitori o la sua tribù hanno fatto. Di qui la
giustificazione del modo in cui lo trattiamo» (15-16).
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Se per lo stigmatizzato il problema fondamentale, nelle interazioni con i normali, consiste nella
difficoltà di essere considerato normale – sia, come screditabile, nel controllare la tensione
generata dallo sforzo di non affrontare lo stigma, che, come screditato, di doverlo affrontare suo
malgrado - per il normale il problema principale consiste nella “difesa” della propria condizione
dalla diversità dello stigmatizzato. La teoria dello stigma che i normali elaborano muove
innanzitutto dalla disponibilità a ritenere lo stigmatizzato ostacolato nelle sue possibilità di essere
umano in senso pieno. In altre parole, il normale associa inconsciamente alla condizione di
normalità la possibilità di essere pienamente umani, escludendo a priori altre condizioni.
In primo luogo la diversità dello stigmatizzato è vista come una condizione di inferiorità nelle
possibilità di essere umani. Così, considerando la vita dello stigmatizzato a partire dagli ostacoli
che lo stigma gli pone per vivere come i normali e non a partire dalle possibilità che gli offre 3, i
normali giudicano lo stigma anche in relazione ad ulteriori limitazioni che lo stigma porrebbe alla
vita normale dello stigmatizzato.
In secondo luogo la diversità dello stigmatizzato può venire elaborata dai normali più facilmente
come superiorità che come normalità. Ciò accade quando i normali attribuiscono allo stigmatizzato
qualità straordinarie o sensibilità speciali, sia in termini fisici che morali. Anche in questi casi lo
sforzo è quello di proteggere lo statuto della condizione di normale, cioè la comprensione della
propria vita come normale a fronte della diversità dello stigmatizzato (cfr esempi a p. 16 del libro).
Infine, i normali si “proteggono” interpretando come un aspetto derivato dal suo stigma la
reazione difensiva dello stigmatizzato all’essere trattato da diverso. Trovano in questo un’ulteriore
prova della diversità dello stigmatizzato e anche un motivo di pensare che non ne vuole uscire e
che quindi, in fondo, si merita la condizione nella quale si trova4.
In sintesi, il tratto comune di queste diverse interpretazioni messe in atto dai normali è nel rifiuto
di considerare lo stigmatizzato come normale, cioè proprio come questi desidera e chiede di
essere considerato.
2.3 Gli stigmatizzati sono membri della società allo stesso modo dei normali
«L’individuo stigmatizzato tende ad avere le stesse credenze, riguardo all’identità, che abbiamo
noi. Questo è un fatto fondamentale. Le sue più profonde convinzioni riguardo a ciò che egli è
possono costituire il suo senso di essere una “persona normale”, un essere umano come chiunque
altro, una persona dunque che merita opportunità e riconoscimenti. In realtà, comunque si voglia
dire, egli basa le sue richieste non su ciò che ritiene sia dovuto a tutti, ma solo a coloro che fanno
parte di una categoria sociale di cui egli è membro, per esempio, tutti quelli della sua età, sesso,
professione e così via» (17). Le richieste che lo stigmatizzato fa sono dello stesso tipo di richieste
che fanno anche i normali, cioè di essere considerato efficace e meritevole, ad esempio, in quanto
maschio/femmina (per l’aspetto fisico, per le capacità intellettive ecc), oppure in quanto giovane,
oppure in quanto studente, oppure in quanto centralinista, poliziotto, chirurgo ecc…
Il problema dello stigmatizzato è che spesso sente «di solito a ragione, che quali che siano le
opinioni professate dagli altri, essi non lo “accettano” e non sono disposti ad avere rapporti con lui
su di un piano di “parità”» (17). Come membro della società ha interiorizzato, attraverso la propria
socializzazione, i criteri di giudizio relativi all’attributo che possiede e sa come e perché è
considerato negativo dagli altri. «Ciò provoca inevitabilmente in lui, anche se solo in certi
momenti, la convinzione di non riuscire ad essere ciò che dovrebbe. La vergogna diventa la
3
Le possibilità di vita che lo stigma offre sono le possibilità di azione, relazione, comportamento, modo di essere che
derivano positivamente dall’attributo; il normale tende a considerare, invece, le possibilità di vita che restano allo
stigmatizzato una volta sottratte quelle che gli sono impedite dallo stigma. Si tratta di due prospettive diverse e di
possibilità non sovrapponibili.
4
Tra i moltissimi esempi possibili si pensi agli “zingari”.
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possibilità determinante: deriva dal fatto che l’individuo percepisce qualche suo attributo come un
marchio infamante, oppure si rende conto con chiarezza di non avere qualcuno degli attributi
richiesti» (17).
«La caratteristica principale della situazione in cui viene a trovarsi, nella vita, la persona
stigmatizzata (…) viene chiamata “accettazione”. Quelli che trattano con lui non gli accordano il
rispetto e la considerazione che le coordinate intatte della sua identità sociale li avevano portati
ad anticipare e che lui aveva anticipatamente creduto di dover ricevere» (19). Quest’ultima frase
di Goffman è importante: lo stigmatizzato, sia che si sforzi attivamente di presentare la sua
identità sociale come non compromessa dallo stigma, sia che non possa farlo perché è nella
condizione di screditato, ha sempre l’obiettivo e il desiderio che il normale accetti la sua identità
sociale senza la compromissione dello stigma. Il normale, da parte sua, vede lo stigma come
un’oggettiva compromissione delle coordinate dell’identità sociale, cioè come un elemento la cui
valutazione non dipende da lui. La mancata accettazione che deriva da questa interpretazione
delinea una sorta di “muro di vetro” tra normale e stigmatizzato, cioè apre una condizione di
tensione nello sviluppo dell’interazione che ha come effetto il riprodurre la mancata accettazione
da un lato e il sentimento di non essere accettato dall’altro. Lo stigmatizzato può infine pensare
che se gli altri non lo accettano come normale nemmeno lui o lei potrà accettare il proprio stigma,
così l’accettazione diventa il problema centrale sia nell’interazione con gli altri che nel rapporto
con il proprio stigma.
2.4 Le strategie dello stigmatizzato per fronteggiare il problema dell’accettazione
Come risponde lo stigmatizzato a questa situazione di mancata accettazione?
Goffman indica alcune strategie:
1) Può cercare di modificare la propria condizione
a) Se può fa un tentativo diretto di correggere l’attributo giudicato negativamente: si sottopone a
operazioni di chirurgia plastica se ha qualche tratto deforme, a cure mediche per correggere o
compensare malattie, ma anche se si tratta di istruzione può fare corsi 5. Impegnato in questa
strategia lo stigmatizzato può trovarsi esposto alle truffe di venditori che fanno leva proprio sul
suo desiderio di superare il limite impostogli dallo stigma e quindi è disposto ad affidarsi a diete
miracolose, prodotti di ogni tipo ecc…
b) Lo stigmatizzato può modificare la propria condizione in modo indiretto «sforzandosi di
impadronirsi di attività da cui, di solito, si ritiene debbano essere esclusi coloro che hanno quella
sua minorazione» (20) come lo zoppo che impara a giocare a tennis o a fare il corridore, il cieco a
sciare ecc.
2) Lo stigmatizzato può attribuire un significato particolare al proprio attributo giudicato
negativamente.
a) Può usarlo come la giustificazione, in primo luogo per sé, di tutte le situazioni nelle quali si
trova in difficoltà. Goffman fa l’esempio di una donna con il labbro leporino che dopo averlo tolto
5
Ad esempio: un migrante per imparare la lingua locale; un analfabeta per imparare a leggere e scrivere; un cameriere
in un locale del centro turistico per studiare l’inglese per parlare con i clienti stranieri; una dieta se vuole dimagrire o
ingrassare, ma in questa logica troviamo anche correzioni molto più “leggere”, come usare il trucco per correggere
piccole imperfezioni o tratti del viso che non si vuol far vedere così come sono; indossare una camicia larga per non far
vedere i fianchi che si ritengono troppo larghi o la pancia troppo gonfia, ecc.
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chirurgicamente si trova a scoprire che ci sono comunque situazioni nelle quali, pur senza labbro
leporino, ci si sente non “accolti”, si fallisce, ecc. In questo caso l’handicap viene accettato dallo
stigmatizzato come una sorta di stampella alla quale appoggiarsi e alla quale dare la responsabilità
dei propri fallimenti, piccoli e grandi.
b) Può considerare le sofferenze che lo stigma gli procura una sorta di privilegio, perché gli
consente di vedere la vita da un punto di vista diverso, più profondo e più autentico: una donna
invalida in modo permanente scrive che le sue sofferenze «non sono state pure e semplici
sofferenze, ma un imparare attraverso la sofferenza» (21).
c) Può arrivare a pensare che questa conoscenza più profonda della vita lo mette in un piano dal
quale vede gli altri, i normali, come carenti, deficitari di una consapevolezza e di un modo di vivere
più autentico ed essenziale, sono loro ad essere invalidi ai suoi occhi e hanno bisogno del suo
aiuto, anche se non lo sanno.
3. I “contatti misti”, tra stigmatizzato e normali
3.1 Il punto di vista dello stigmatizzato nei contatti misti
Goffman intende per contatti misti: «quei momenti in cui la persona stigmatizzata e quella
normale vengono a trovarsi nella stessa “situazione sociale”, cioè:
in immediata presenza fisica,
in un rapporto simile alla conversazione o
nella pura e semplice compresenza di una folla anonima» (22)
Proprio il problema di gestire questi contatti può essere vissuto come un motivo di sofferenza da
parte dello stigmatizzato già nell’anticipare la “situazione sociale” del contatto misto. L’imbarazzo
e il disagio che lo stigmatizzato prova possono portarlo ad organizzarsi in modo da evitare il più
possibile “i contatti misti”, cioè evitare di uscire, ridurre i contatti con i normali ecc.
Di che cosa è fatto questo imbarazzo? Goffman indica le seguenti condizioni nelle quali lo
stigmatizzato può venirsi a trovare:
Lo stigmatizzato può sentirsi insicuro di fronte alla questione di come sia identificato dai
normali, cioè in quale categoria sociale verrà assegnato6. Ma il problema è reso complesso dal
fatto che anche quando lo stigmatizzato fosse inserito in una categoria positiva potrebbe esserlo
proprio in base al suo stigma - ad es. “è un cieco bravissimo, riesce a giocare a tennis” anziché
giudicarlo solo per il suo livello tecnico: “è un discreto giocatore di tennis” -. Per questo, «in
qualche modo s’insinua nello stigmatizzato la sensazione di non sapere cosa gli altri pensino
“davvero” di lui» (24).
Può sentirsi al centro dell’attenzione e provare imbarazzo per se stesso, cercando di pensare a
quale impressione stia suscitando negli altri.
Può percepire che la valutazione corrente, cioè fatta da tutti, sulle abilità nel saper fare qualcosa
possa non valere per lui nello stesso modo che per i normali, perché suoi piccoli successi
potrebbero essere considerati dai normali come segno di notevoli capacità. Insomma, che i
normali sovradimensionino l’apprezzamento per certe sue buone riuscite proprio in forza del
fatto che è ostacolato dallo stigma7.
6
Ad esempio: “sarò guardata come donna o solo come malata?” “come giovane o solo come tossicodipendente?” ecc.
Ad esempio: “è un bel disegno per essere fatto con il pennello tenuto dai piedi”, ma non si giudichi la qualità
estetica del disegno come si fa con qualunque altro disegno fatto con le mani.
7
6
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Simmetricamente, può percepire che alcune sue piccole manchevolezze o trascuratezze
occasionali possano essere interpretate come conseguenza ed espressione diretta del suo
attributo connotato negativamente8.
Quando lo stigmatizzato è uno screditato e non può impedire che gli altri sappiano del suo stigma
perché è visibile e non nascondibile, «diventa assai probabile che arrivi a considerare la compagnia
dei normali come una vera e propria violazione della sua intimità. Lo stigmatizzato prova più
dolorosamente quella sensazione quando sono i bambini che si fermano a guardarlo» (26).
È importante considerare che questa percezione e questo stato d’animo è possibile per
qualunque tipo di stigma rispetto al quale il portatore non possa evitare di essere già screditato in
presenza di altri, perché è visibile e non può essere nascosto. Non si tratta solo di stigmi fisici (i più
facili da immaginare) ma possono essere anche stigmi tribali, cioè connessi con l’appartenenza ad
una collettività che è stigmatizzata in generale, senza distinzione tra i singoli individui. Ad esempio,
le situazioni di stigma connesse ai simboli religiosi possono essere elaborate secondo questa logica
di stigmatizzazione e creare imbarazzo e sofferenza per chi si trova nella posizione di screditato. È
interessante quanto dice una ragazza musulmana di origini pakistane che vive a Firenze in
un’intervista fatta per una ricerca sociologica sulle giovani musulmane in Italia. Parlando di come
vive la propria religione in relazione al modo di vestirsi dice: «[qui vivo la religione] in modo molto
limitato (…) non la posso manifestare, già vedi che sono tranquillamente confondibile con
un’italiana, perché noi abbiamo una serie di festività e non c’è nulla mi faccia sentire l’importanza
di quel giorno, quindi quando c’è quel giorno particolare mi sembra un giorno qualunque, anzi, è
un po’ triste perché sai che è particolare. Ma che puoi fare? Puoi andare in giro vestita tutta
colorata senza farti osservare o sentire magari qualche battutina? Io personalmente non ho
coraggio di affrontare queste situazioni (…) da questo punto di vista non sono forte, quindi non la
vivo bene questa cosa. [L’abbigliamento] lo sottolineo perché può sembrare che sono felice
insomma in questo modo di vestire, in realtà è quasi imposto, imposto dalle circostanze, dagli
sguardi, dalle battutine (…). Il velo è proprio uno di quegli argomenti che sono male interpretati
dall’Occidente (…). Vorrei anche io essere più coraggiosa [e indossare il velo], però io (…) penso
anche al futuro, all’impatto che questo può avere per il futuro, io voglio essere un supporto (…)
per la mia famiglia. Come farò io a trovare un lavoro in Italia se indosso il velo? Io non so se il
datore di lavoro mi vedrà in base al mio 110 e lode o in base al mio velo. Cioè (…) sono diventata
un po’ troppo razionale (…). [quando torno in Pakistan] è una trasformazione, dall’aeroporto è
un’altra cosa, e anche lì non mi piace quella rottura di personalità, perché diventi un’altra cosa, mi
piacerebbe mantenere una stabilità, essere quella che sono, non cambiare in base al posto, al
territorio, anche perché poi (…) ti traumatizzi, cioè la personalità non è più omogenea al suo
interno, ci sono delle fratture, secondo me» (Nadira, 23 anni)9.
Riprendendo il ragionamento di Goffman, di fronte a queste incertezze di categorizzazione lo
stigmatizzato può reagire in due modi: con sottomissione, cioè evitando di mostrare le proprie
reazioni oppure entrare nei “contatti misti” «con ostilità provocatoria invece che con timorosa
sottomissione» (28).
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Ad esempio: il fatto di reagire in modo molto impulsivo se è fatto da una persona che in passato è stata in ospedale
psichiatrico per comportamenti violenti può essere letto come un elemento di inquietudine per i normali perché lo
collegano a quelle sue antiche tendenze (“non gli starà mica tornando la malattia?”) invece di considerare che gli è
successo perché era stanco dopo quella giornata di lavoro e in questi casi può succedere di reagire in modo così
impulsivo, anche se di solito lo si giudicherebbe eccessivo.
9
Katia Cigliuti, “Percorsi di identificazione religiosa tra scelta ed eredità, rivisitazione e tradizione. Il contesto
fiorentino” in Giovani musulmane in Italia. Percorsi biografici e pratiche quotidiane, a cura di Ivana Acocella e Renata
Pepicelli, Bologna, Il Mulino, 2015, p.148-149, le parole tra parentesi quadre sono inserite dall’autrice dello studio.
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Inoltre, è anche possibile che oscilli tra sottomissione e aggressività, rendendo l’interazione
fortemente problematica.
In sintesi, l’esistenza di una frattura tra l’identità sociale virtuale e l’identità sociale attuale, a
causa di un attributo che viene valutato negativamente, definisce la situazione dello stigma. Nei
contatti misti, quando lo stigma è evidente alla vista o comunque è noto ai normali, spesso i
normali si impegnano nell’evitare di riconoscere apertamente quell’attributo che lo discredita,
sviluppando una voluta disattenzione in merito. Questo impegno può essere vissuto come fonte di
imbarazzo e tensione tanto per il normale che attua questa voluta disattenzione, quanto per lo
stigmatizzato che percepisce questo imbarazzo e tensione, restituendolo a sua volta come
imbarazzo e tensione nei confronti del normale. Dall’altro lato, per lo stigmatizzato è di grande
importanza che il normale con il quale sta interagendo tratti come irrilevante il suo attributo
stigmatizzante e, a sua volta, lo stigmatizzato si impegna nel cooperare affinché questa
disattenzione volontaria possa proseguire. Si comprende, quindi, come l’interazione possa
risultare per entrambi fonte di incertezza e imbarazzo, anche quando c’è convergenza di intenti,
perché spesso non è comunque chiaro, sia al normale che allo stigmatizzato, se e come l’altro
percepisca il proprio impegno per la disattenzione volontaria. Per queste ragioni Goffman osserva
che l’aggressività che lo stigmatizzato può attivare verso i normali ha sicuramente a che fare con il
disagio che i normali provano in situazioni di “contatti misti”.
3.2 Il punto di vista dei normali nei “contatti misti”
L’imbarazzo dei normali nasce dall’incertezza tra due alternative che al normale appaiono
inconciliabili: da una parte il voler dimostrare comprensione verso lo stigma, ma temere che
questa comprensione potrebbe essere percepita dallo stigmatizzato come discriminazione;
dall’altra parte il voler mostrare di non farsi condizionare dallo stigma per interagire con lo
stigmatizzato, temendo allo stesso tempo di pretendere da lui cose che potrebbe non riuscire a
dare o fare e che metterebbero in difficoltà lo stigmatizzato. L’imbarazzo dei normali nasce da
questa incertezza su quale direzione prendere.
A ben vedere il problema interazionale consiste non solo nel fatto che l’attributo può essere
messo in evidenza (prima alternativa) oppure può essere ignorato (seconda alternativa), e già
ciascuna di queste due possibilità orienta e definisce in modi molto diversi come può svilupparsi
l’interazione. Il problema interazionale c’è anche perché queste due possibilità sono viste dal
normale come alternative inconciliabili: “o mi comporto nel primo modo o mi comporto nel
secondo modo”; inoltre, in entrambi i casi, il comportamento orientato ad una sola delle
alternative è sentito come una forzatura, sia dal normale che dallo screditato. Il problema diventa
più chiaro se lo si comprende alla luce della dinamica della co-presenza10. La logica di circolarità
processuale di “percezione-essere percepiti-percepire di essere percepiti” che è propria della copresenza ci mostra che il cuore della questione consiste nella necessità di elaborare insieme
nell’interazione - normale e stigmatizzato - l’attributo che è connotato negativamente. Il punto è
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Goffman definisce la co-presenza come «sentirsi abbastanza vicini agli altri tanto da essere percepiti qualsiasi cosa
stiano facendo, incluso anche il loro esperire gli altri; e abbastanza vicini da “essere percepiti” in questa situazione di
essere percepiti» (Erving Goffman, Frame Analysis. L’organizzazione dell’esperienza, Armando editore, 2001, p. 19,
corsivi miei) e articola nel modo seguente la relazione tra co-presenza e coordinazione dell’agire: «Quando gli individui
sono alla presenza l’uno dell’altro sono ammirevolmente situati per condividere un comune centro di attenzione,
percepire che lo stanno facendo e percepire questa percezione. Ciò, insieme alla loro capacità di indicare cosa stanno
per fare e di trasmettere rapidamente le loro reazioni a tali indicazioni da parte degli altri, costituisce la precondizione
di un fenomeno basilare: la continua, intima coordinazione dell’agire, sia a sostegno di compiti da eseguire in stretta
collaborazione, sia come mezzo per permettere a quelli [compiti] adiacenti di svolgersi l’uno a stretto contatto con
l’altro» (Erving Goffman, L’ordine dell’interazione, Armando editore, 1998, p.47).
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quale peso, quale connotazione sociale è possibile dare in modo condiviso all’attributo negativo e
agire di conseguenza. Per evitare un’interazione basata su fraintendimenti il normale può cercare
di ascoltare, di osservare, di interpretare come lo stigmatizzato si relaziona al proprio attributo e
cercare di definire insieme allo stigmatizzato la situazione interazionale. Lo stesso lo stigmatizzato,
ma con la notevole differenza che l’attributo connotato negativamente è parte di sé e quindi ha
per lui un significato che non ha per il normale. La relazione che lo stigmatizzato ha con il proprio
attributo può essere, e di solito è, molto complessa, ricca di sfumature e anche di difficoltà legate
alle esperienze interazionali vissute. Quando il normale ignora del tutto questa complessità, allora,
sia che prenda la strada dell’attenzione all’attributo, sia che prenda la strada di ignorare
l’attributo, farà sentire lo stigmatizzato non accettato e categorizzato a forza.
L’imbarazzo dei normali entra nell’interazione e può essere percepito dallo stigmatizzato come un
elemento che caratterizza la partecipazione del normale all’interazione, influenzando le reazioni
dello stigmatizzato. Il normale può percepire a sua volta che lo stigmatizzato sta percependo il suo
imbarazzo. Questa situazione, assai frequente, non può che generare difficoltà di coordinamento
tra i due membri dell’interazione e fraintendimenti, se non addirittura sfociare in conflitto. È
comprensibile, inoltre, che tra il normale e lo stigmatizzato quello che fa più spesso questo tipo di
esperienze sia lo stigmatizzato e quindi possa essere meglio preparato ad affrontarle e superarle.
4. Il proprio e il saggio
Abbiamo visto che nella prima parte del primo capitolo di Stigma, Goffman mostra come la
frattura tra l’identità virtuale e l’identità attuale di una persona abbia facilmente effetti come il
sentimento provato dai normali di “tagliar fuori” quella persona e il sentirsi dello stigmatizzato a
sua volta “tagliato fuori”, con conseguenze di ritiro dalle relazioni e isolamento del secondo dai
primi.
Goffman si chiede quali forme di socialità possano prendere sviluppo per lo stigmatizzato. La
risposta è un’analisi di due tipi di condizioni di socialità: quella che potrà sviluppare con persone
che hanno lo stesso stigma, e quella che potrà sviluppare con persone normali che però si fanno
volutamente coinvolgere in relazioni con gli stigmatizzati. Goffman chiama proprio (the Own) la
situazione di interazione tra persone che condividono il medesimo stigma e chiama saggio (the
Wise) quella condizione in cui un normale entra in relazioni stabili con stigmatizzati e condivide
con loro alcuni aspetti della loro condizione, come confidente o per altre ragioni che vedremo.
4.1 Il proprio
Un primo aspetto della situazione del proprio è la possibilità per lo stigmatizzato di sentirsi al
riparo dalle incomprensioni che avvengono nei contatti misti e di sentirsi moralmente appoggiato
nelle proprie difficoltà da parte delle persone in co-presenza, perché con queste può parlare
apertamente anche di aspetti che, per quanto banali, è imbarazzante condividere con i normali (ad
es. vedere la citazione sui sordi a p.31).
Tuttavia, non sempre si tratta di una condizione piacevole per lo stigmatizzato, lo stare con i propri
simili ha un costo per lo stigmatizzato: quello di separarsi, in parte, dalle interazioni con i normali.
Questa separazione può non essere liberamente scelta, può essere vissuta come imposta e questa
imposizione essere vissuta come parte dello stigma stesso e non come una sua conseguenza
(vedere citazione sul ritardato mentale a p.31). Infatti, ciò che lo stigmatizzato può trovare stando
con i propri simili possono essere storie e racconti di vita che insistono sempre sul “problema”
dello stigma, quasi ostacolando la considerazione di altri aspetti della vita e facendolo così sentire
“recluso”.
9
m. bontempi Appunti su Stigma
4.2 L’associazionismo basato sul medesimo stigma
Quando è la condivisione del medesimo stigma a fare da base per l’associazione tra persone, allora
i diversi tipi di stigma porteranno alla formazione di differenti gruppi di stigmatizzati e anche le
attività che i diversi gruppi faranno saranno collegate e condizionate dal tipo di stigma.
Goffman riprende la distinzione in tre tipi di stigma fatta in apertura (stigmi fisici, stigmi connessi
ad aspetti criticabili del carattere, stigmi tribali) e fa una lista mostrando questo intreccio tra tipo
di gruppo, attività e tipo di stigma a partire dai gruppi che hanno meno probabilità di formarsi sulla
base dello stigma.
Al livello più basso colloca quelli che sono di fatto impediti dallo stigma ad associarsi, come coloro
che sono affetti da parafasìa - un disturbo del linguaggio che consiste nella sostituzione di termini
esatti con altri sbagliati o nel cambiamento d'ordine di sillabe o parole per cui il discorso, nelle
forme più gravi del disturbo, risulta di difficile o impossibile comprensione 11. Questa malattia
rende difficile e, nei casi gravi, impossibile comunicare, quindi è un ostacolo molto grande per
formare un gruppo di persone che ne sono tutte affette.
Ad un livello ancora molto basso di volontà di associarsi, prosegue Goffman, ci sono gli ex
ricoverati in ospedale psichiatrico, che evitano di associarsi per non rendere visibile questo
stigma12.
Ad un livello più complesso, passando ai gruppi formati da persone che vogliono associarsi,
Goffman indica i gruppi formati da persone il cui stigma è individuale in senso fisico, di questo tipo
fanno parte gli esempi, citati nel libro, di gruppi di anziani, di obesi, di minorati fisici, di
ileostomizzati e colostomizzati.
Sono esempi di stigmi del secondo tipo, cioè aspetti criticabili del carattere, le associazioni di
divorziati, degli ex alcolisti, degli ex tossicodipendenti, reti di assistenza reciproca tra ex detenuti
dello stesso carcere, associazioni di omosessuali (che Goffman classifica tra gli stigmi del secondo
tipo).
Infine, esempi di associazioni basate su stigmi del terzo tipo, cioè tribali, sono «le comunità
residenziali, quelle etniche, razziali o religiose che sono veri e propri concentramenti tribali di
persone stigmatizzate. Al contrario di come avvengono i processi di formazione dei vari gruppi
stigmatizzati, per questi il nucleo organizzativo di base è costituito dalla famiglia e non dagli
individui» (p. 33).
È opportuno distinguere tra categoria sociale e gruppo. Nella prima si comprendono tutte le
persone che hanno una caratteristica. Applicata allo studio dello stigma la categoria sociale
raccoglie tutti coloro che hanno quel dato stigma. Goffman osserva che questa non è ancora
un’associazione o un gruppo. Infatti, se da un lato lo stigmatizzato può parlare della propria
categoria di stigmatizzati come “noi” (ad es. “noi anziani”, “noi divorziati” “noi obesi”, “noi ex
alcolisti”, “noi musulmani”, “noi ebrei” ecc), e anche i normali possono rivolgersi ad
uno
11
Nel caso delle parafasie semantiche abbiamo la sostituzione di un termine con un altro che a livello semantico
appartiene alla stessa categoria, ad esempio pecora invece di capra. Nel caso della parafasia fonologica, ad esempio, il
paziente dice coltello invece che martello. Nelle parafasie verbali fonemiche il soggetto involontariamente omette,
sostituisce, traspone o ripete dei fonemi all'interno di una parola, ad esempio tigre diviene trighe, corda diviene coda
oppure bambino diviene pampino. Nelle parafasie neologistiche, infine, avviene la sostituzione di una o più lettere
all'interno di una parola al punto da rendere il termine non più identificabile e incomprensibile il discorso. Ad esempio,
la parola bambino diviene bentino (cfr. Wikipedia, Ad vocem).
12
Goffman scriveva questo nel 1965, quando lo stigma per le malattie psichiatriche era molto forte e l’organizzazione
degli ospedali psichiatrici era fortemente stigmatizzante i pazienti ricoverati. Nei successivi cinquanta anni proprio
questi studi di Goffman hanno portato prima gli psichiatri e poi anche il sistema sanitario a considerare in modo
diverso le malattie psichiatriche, cercando di creare condizioni che riducessero la stigmatizzazione. Così sono stati
chiusi gli ospedali psichiatrici, almeno molti, e sono stati sostituiti con strutture più dimensionate sulle relazioni e la
convivenza, come le case-famiglia, nelle quali stanno insieme malati psichiatrici con operatori specializzati.
10
m. bontempi Appunti su Stigma
stigmatizzato dicendo “voi anziani”, “voi divorziati”, “voi obesi” ecc; dall’altro lato questa
attribuzione categoriale non corrisponde a nessuna associazione. Il legame associativo tra
stigmatizzati coinvolge un numero minore di individui, non tutti quelli che hanno quell’attributo.
Scrive Goffman: «quello che si trova è che i membri di una particolare categoria di stigma saranno
propensi a riunirsi in piccoli gruppi sociali i cui membri vengono tutti dalla categoria e che tali
gruppi saranno soggetti, in varia misura, a una organizzazione dominante» (33). L’associazione
avviene dunque coinvolgendo solo alcuni membri della categoria, non tutti. Infatti il legame
associativo è un legame di gruppo sociale, mentre la categoria no. Cioè il legame associativo è
frutto di una scelta volontaria e favorisce la formazione di un sentimento di appartenenza al
gruppo associativo che può far sentire vicini tra loro due membri della stessa associazione in modo
più forte del sentimento di condivisione che ci può essere tra due stigmatizzati di cui uno associato
e uno non associato. Questo accade perché l’ingresso in un gruppo associativo comporta una
disponibilità ad entrare in relazione con altri stigmatizzati, una disponibilità che coloro che restano
fuori possono non avere. Per queste ragioni Goffman sottolinea la differenza tra categoria di
stigmatizzati e gruppo associativo di stigmatizzati.
4.3 Associazionismo e rappresentanza dello stigma
Le associazioni di persone stigmatizzate hanno forme organizzate ed è possibile che possano far
valere il proprio “peso” appoggiando, ad esempio alle elezioni, un partito o qualche politico perché
li rappresenti. Ciò che è interessante qui è quando il rappresentante non è un normale, ma uno
stigmatizzato. In questo caso il rappresentante appare doppiamente qualificato, perché è eletto
come rappresentante, ma anche perché viene dall’interno di quella condizione e quindi sa e
conosce direttamente. Un obiettivo che questi rappresentanti perseguono è ridurre le condizioni
di stigmatizzazione, cioè «convincere l’opinione pubblica a definire la categoria in questione in
termini e modi più civili» (34, si veda l’esempio sui sordi a p. 34-35).
Un altro compito che questi rappresentanti possono svolgere è quello del portavoce della
condizione di quel tipo di stigmatizzati: «espongono le esigenze degli stigmatizzati e quando loro
stessi fanno parte del gruppo offrono un modello vivente di realizzazioni tipiche della persona
normale. Essi sono gli eroi dell’adattamento esposti alle lodi del pubblico, perché dimostrano che
un individuo di quella certa specie può essere una brava persona» (35). Un obiettivo tipico del
lavoro dei portavoce è impegnarsi per realizzare e sviluppare forme comunicative dell’associazione
di stigmatizzati con un giornale dell’associazione (e oggi realizzazione di siti internet e di social
networks). L’impegno per la comunicazione ha importanti effetti sul gruppo: favorisce lo sviluppo
di un modo di presentarsi come persone, come stigmatizzati e come associazione, permette di
manifestare le critiche e le denunce verso le discriminazioni subite e anche di elaborare proposte
di miglioramento della condizione degli associati. Sugli organi di stampa (o internet)
dell’associazione ci saranno i riconoscimenti a coloro che sono amici dell’associazione e critiche a
coloro ritenuti nemici. Si racconteranno storie di stigmatizzati che hanno fatto successo e «sono
riusciti ad entrare per primi in campi nuovi in cui gli appartenenti a quel gruppo non erano mai
stati finora accettati»(35). Allo stesso modo ci saranno denunce, storie di crudeltà su stigmatizzati
compiute dai normali. Ci saranno infine pubblicità di strumenti di aiuto per migliorare la vita dello
stigmatizzato.
Il portavoce può avere successo in questa attività ed impegnarsi a tempo pieno, diventando una
sorta di professionista della rappresentanza della condizione dei suoi simili (si veda esempio a p.
37). Goffman indica due aspetti che caratterizzano questa professionalizzazione: il primo è che «i
leader del gruppo sono costretti ad avere rapporti con rappresentanti di altre categorie e perciò
vengono a rompere il circolo chiuso del loro sodalizio. Invece di appoggiarsi alla stampella se ne
servono come mazza da golf, e cessano, in termini di partecipazione sociale, di rappresentare la
11
m. bontempi Appunti su Stigma
loro gente» (37). In altre parole, quando il portavoce ha successo, come politico, come scrittore di
vita di stigmatizzati, o in altre forme, i suoi contatti divengono sempre più intensi con persone che
fanno parte di quel mondo: con altri politici, con scrittori, editori, con personaggi televisivi ecc.
L’ingresso di qualunque rappresentante (anche non stigmatizzato) nell’attività di rappresentanza
come lavoro vero e proprio ha sempre l’effetto di allontanarlo dalla vita quotidiana delle persone
che rappresenta e di avvicinarlo alla vita quotidiana di altri rappresentanti. È questa una vita di
solito più agiata, più da ricchi di quella che fanno i rappresentati, per questo Goffman dice che il
portavoce “usa la stampella come mazza da golf”, intendendo che attraverso lo stigma entra a far
parte delle cerchie di persone importanti e, a volte, ricche13.
C’è poi un secondo aspetto rilevante nella condizione dello stigmatizzato che diviene
rappresentante dei portatori di quello stigma: «coloro che presentano professionalmente il punto
di vista della propria categoria possono introdurre nella presentazione alcune parzialità,
semplicemente perché sono coinvolti a sufficienza da poterci scrivere sopra» (37, traduzione mia,
quella nel libro non è appropriata). Di quali parzialità parla Goffman? Del fatto che, anche in
presenza di idee diverse su come difendere la categoria, ci debba comunque essere un accordo di
base tra portavoce diversi sul fatto che lo stigma deve essere preso come base per la definizione di
sé. Ad esempio, due scrittori che scrivono su un medesimo stigma sono rappresentanti (in questo
senso sociologico goffmaniano) se, pur raccontando dello stigma in modi diversi, magari uno in
modo serio e l’altro in modo leggero, mantengono lo stigma al centro della definizione del
personaggio o comunque raccontano la storia mettendo al centro lo stigma come base della
comprensione di sé da parte del personaggio. Solo così si può parlare di rappresentanti o
portavoce della categoria, dice Goffman, infatti coloro che non pongano questa attenzione
primaria allo stigma come base della comprensione di sé dello stigmatizzato o non sappiano
renderla centrale per scarsa preparazione, non sono dei rappresentanti o portavoce in senso
sociologico, anche quando hanno, o cercano di avere, questa posizione.
4.2 Il saggio
Goffman chiama “saggi” «quelle persone normali che per motivi particolari sono comprensive e
partecipi della vita segreta dell’individuo stigmatizzato, persone che in qualche modo sono
accettate dal gruppo e ne diventano spesso membri onorari» (39). Il termine inglese è wise, che
significa sì saggio, ma anche persona diplomatica, che sa stare con equilibrio tra posizioni
contrastanti. «Questi saggi sono i marginali, davanti ai quali l’individuo stigmatizzato non sente
vergogna, né esercita autocontrollo, sapendo benissimo che, malgrado quella sua manchevolezza,
sarà considerato come una qualsiasi persona normale» (39).
Goffman distingue due tipi di saggio in base alla modalità con la quale è in relazione con gli
stigmatizzati:
1) il primo è il saggio che deriva la propria condizione di persona “mediatrice” dal fatto di lavorare
in un ambiente che si occupa specificamente dei bisogni di chi ha uno stigma particolare. Ad
esempio gli infermieri, fisioterapisti o altri tipi di terapisti oppure assistenti sociali, operatori che
lavorano in strutture come case di riposo, comunità di recupero, case-famiglia ecc. Queste
persone possono conoscere in modo approfondito alcuni aspetti della vita quotidiana dello
stigmatizzato e, questo rende possibile allo stigmatizzato non sentirsi a disagio con loro. Ma anche
altre figure come i baristi non omossessuali che lavorano in locali frequentati prevalentemente da
omossessuali e perfino la polizia nei confronti di delinquenti di “vecchia data”.
13
Il golf è un tipico sport praticato dai ricchi e le partite di golf sono spesso un modo per parlare di affari o decisioni
politiche ecc., perché tra un lancio e l’altro della pallina si cammina e si può parlare senza che altri ascoltino, inoltre
per avere accesso al campo e giocare si deve essere membri del club.
12
m. bontempi Appunti su Stigma
2) il saggio può ricavare la propria condizione di “mediatore” dall’essere in rapporto con lo
stigmatizzato attraverso tipi di relazioni proprie della struttura sociale, cioè la parentela, le
relazioni amicali, l’essere coniuge. Il riferimento alla struttura sociale è importante, perché
consente di vedere che la vicinanza, in questi casi, è permanente e investe la vita privata. Mentre
la condizione dei saggi per lavoro riguarda solo la sfera dei rapporti lavorativi e lascia fuori dalla
condizione di saggio i rapporti della sfera privata, e naturalmente vale fintanto che si fa quel tipo
di lavoro, questa seconda categoria di saggio raggruppa saggi che o non possono “dimettersi” dalla
relazione con lo stigmatizzato perché sono parenti, oppure che in quanto coniuge o amica/o,
entrano in un tipo di relazione affettiva con lo stigmatizzato accettando di essere coinvolti nella
sfera privata e intima.
Questa modalità di connessione del normale con lo stigmatizzato e il suo stigma può essere molto
più solida della prima, ed è anche per questo che il saggio e stigmatizzato possono essere percepiti
e trattati dagli altri «come se fossero una persona sola. Così la fedele consorte del malato di
mente, la figlia dell’ex detenuto, il genitore del paralitico, l’amico del cieco, i familiari del boia,
sono tutti costretti a condividere parte del discredito della persona stigmatizzata con la quale
hanno legami»(40).
Questo tipo di associazione del normale al discredito dello stigmatizzato, qualora un normale
insieme ad uno stigmatizzato venga visto come parente, amico/a o coppia, è una pratica ancora
molto diffusa. Lo possiamo vedere nella nostra esperienza se pensiamo all’imbarazzo che un
normale che non è in una relazione così stretta come i casi appena citati, può sentire a farsi vedere
in pubblico con uno stigmatizzato perché lo/la imbarazza il pensiero che gli altri possano pensare
che sono parenti, amici, coppia. Questa tendenza dello stigma a diffondersi dallo stigmatizzato alle
persone che gli stanno vicino viene definita da Goffman stigma onorario. Anche in questi casi,
però, la questione cambia con il diverso grado di intensità di identificazione nello stigma da parte
del normale. Da un lato, i membri onorari di una categoria di stigmatizzati possono dimostrare fino
a che punto i normali possono arrivare a trattare gli stigmatizzati come se non lo fossero; dall’altro
lato gli stigmatizzati onorari possono reagire agli atteggiamenti stigmofobici dei normali con
atteggiamenti di difesa più moralistici o perfino aggressivi di quanto non farebbe lo stigmatizzato
stesso. Goffman osserva che «chi ha uno stigma onorario mette talvolta a disagio sia lo
stigmatizzato che il normale. Infatti, con quel loro essere sempre pronti a portare un fardello che
non è veramente il loro, è frequente che si pongano di fronte agli altri in un atteggiamento
eccessivamente moralistico e, poiché considerano lo stigma come un fattore neutrale da guardarsi
in modo diretto e non valutativo, espongono se stessi e gli stigmatizzati ai malintesi delle persone
normali le quali interpretano in modo offensivo tale comportamento (…) D’altra parte può darsi
che l’individuo con stigma onorario scopra di dover subire molte delle privazioni tipiche del suo
gruppo e di non essere in grado di trarre vantaggio dalla sublimazione che è la tipica difesa in
situazioni del genere. Inoltre, e in modo molto simile a come lo stigmatizzato reagisce verso di lui,
può darsi dubiti in ultima analisi di essere veramente “accettato” dal gruppo come “membro
onorario”» (42).
5. La carriera morale
Quali influenze esercita lo stigma sulla concezione di sé dello stigmatizzato? Come cambia nel
tempo questa relazione tra stigma e concezione di sé? Goffman definisce carriera morale i
cambiamenti nel rapporto che lo stigmatizzato ha con il proprio stigma. In particolare, con questo
concetto cerca di mettere a fuoco l’influenza che lo stigma esercita nello stigmatizzato sulla
percezione di sé e della propria identità sociale. Quando lo stigma è entrato come stigma nella vita
di questa persona? Si è legato con l’identità personale e sociale fin dall’inizio, è arrivato ad un
certo momento o, ancora, la persona ha preso consapevolezza di averlo solo a partire da un certo
13
m. bontempi Appunti su Stigma
momento o, infine, la persona ha iniziato a fare esperienza dello stigma in seguito a un
cambiamento di condizione, di paese o cose simili? Queste domande rinviano al processo di
socializzazione che ciascun individuo vive. In linea con la concettualizzazione meadiana della
socializzazione, Goffman collega ai due momenti della socializzazione, primaria e secondaria,
l’apprendimento da parte dell’individuo di cos’è quell’attributo che deve accettare come parte
della propria condizione. In termini sociologici, l’espressione della frase precedente: “cos’è
quell’attributo” non comporta soltanto definire che cosa materialmente sia quell’attributo - cioè
se fisico, del carattere o tribale - ma soprattutto quale sia il significato che quella data società gli
assegna e che si può rilevare dai comportamenti dei normali verso quell’attributo, dai modi in cui è
definito dai portatori di quell’attributo e da come viene elaborato nei contatti misti tra normali e
stigmatizzati. Tutti questi aspetti influenzeranno in vari modi il rapporto dello stigmatizzato con il
proprio stigma.
In termini meadiani, è chiaro che la persona con l’attributo stigmatizzante si troverà a dover
affrontare il problema di gestire la presenza di quell’attributo nella elaborazione del proprio Sé. In
particolare è la dimensione del Me, quindi dell’altro generalizzato, che entra in gioco quando ci si
interroghi sulle dinamiche del rapporto che lo stigmatizzato può sviluppare con il proprio stigma.
La formazione dell’altro generalizzato in relazione a stigma e normalità consiste dunque
nell’apprendimento dei significati sociali relativi all’identità in generale e ai significati socialmente
assegnati ad attributi particolari connotati come stigmi. È questa la fase nella quale il socializzando
apprende il punto di vista dei normali di quella data società e con quali atteggiamenti i normali
guardano ai diversi stigmi. Questo è il processo attraverso il quale un individuo diventa membro di
una società e ciò, naturalmente, accade anche per coloro che si trovano ad avere un attributo cui è
associato un significato stigmatizzante.
Accanto a questa fase Goffman ne indica una seconda, consistente nell’apprendimento da parte
dell’individuo di essere in possesso di un particolare stigma e di quali possano essere le
conseguenze per lo stigmatizzato. Quanto si combinano queste due fasi? Quanto l’una influenza
l’altra? In altre parole, il rapporto che lo stigmatizzato sviluppa con lo stigma è influenzato da
come e quando lo stigma entra nell’elaborazione del Me dell’individuo. È già presente come
significato nella socializzazione primaria o compare dopo, nella socializzazione secondaria? Entra in
un Me già formato come “privo di quell’attributo”? Quali percorsi deve fare per essere incorporato
nella dinamica Io-Me da parte dello stigmatizzato? Queste diverse condizioni di partenza «gettano
le fondamenta per il successivo sviluppo e offrono uno strumento per distinguere tra le carriere
morali che sono disponibili per lo stigmatizzato» (43)
Possiamo distinguere i 4 modelli di carriera morale di cui parla Goffman in base alla loro
collocazione nelle due fasi della socializzazione. Avremo quindi l’elaborazione dell’attributo
durante la socializzazione primaria (cfr “nascere con lo stigma ed esserne presto consapevoli”);
l’elaborazione dell’attributo durante la socializzazione secondaria comporta tre distinti modelli di
carriera morale: i) quando la persona scopre di avere uno stigma nei primi contatti con gli altri al di
fuori della famiglia. Uno stigma che aveva fin dalla nascita, ma che non sapeva di avere perché per
un certo tempo gli era stato tenuto nascosto; ii) quando una persona entra in relazione con uno
stigma da adulto, per una malattia o un incidente o per vicende biografiche – carcere, droga, ecc;
iii) quando una persona è nata e cresciuta in una comunità e all’interno di quella comunità non ha
avuto stigmi, ma poi esce da quella comunità per entrare in un’altra e scopre che il suo modo di
vivere precedente non può proseguire nella comunità nella quale è entrata e deve di nuovo
imparare un modo di essere normale e anche quali siano gli stigmi secondo questa nuova
comunità. Il caso più chiaro sono i migranti, ma non solo.
14
m. bontempi Appunti su Stigma
1) nascere con lo stigma ed esserne presto consapevoli. In questo modello le due fasi della
socializzazione alla “normalità” e al proprio stigma si sovrappongono. Ad esempio, il bambino
orfano apprende presto che gli altri bambini hanno i genitori, mentre lui no, e questo influenza la
sua formazione del significato normale dell’avere genitori, desiderando di essere da grande un
buon padre perché ha dato fin dall’infanzia un valore di grande importanza all’essere genitore,
mentre vedeva che i bambini con i genitori non erano altrettanto consapevoli di questo valore. In
questo modello il punto di vista dei normali appare allo stigmatizzato come qualcosa che in parte
gli è precluso e in parte sente comunque di condividere. Questa oscillazione e il modo in cui
l’affronta di volta in volta saranno parte della sua identità fin da piccolo.
2) nascere con lo stigma, ma esserne tenuto all’oscuro. Questo è il modello dell’individuo
protetto, di colui cioè al quale non è stato rivelato il proprio stigma, ma è stato tenuto dalla famiglia
“sotto una campana”, adattandogli il contesto e le situazioni in modo che fossero per lui accessibili.
«Si fa in modo che tutte quelle definizioni che possono umiliarlo non entrino nel cerchio magico,
mentre si dà possibilità piena di accesso a tutte quelle altre concezioni della società più vasta che
spingono il fanciullo protetto a considerarsi un normale essere umana, provvisto di una normale
identità per quanto riguarda questioni di fondo come l’età e il sesso» (44). Quando si rompe “la
campana”? Goffman osserva che il momento può dipendere dalle condizioni sociali ed economiche
di vita della famiglia, cioè varia con il variare della classe sociale di appartenenza e anche con il
diverso tipo di residenza (se vive in campagna, in città, in un piccolo paese…) e infine anche a
seconda del tipo di stigma. Un momento che ha spesso validità per tutti è l’andare a scuola. In quel
momento lo stigma fino ad allora tenuto nascosto viene messo in evidenza: «l’esperienza viene
spesso compiuta in modo precipitoso durante il primo giorno di scuola, grazie alle provocazioni, alle
prese in giro, all’ostracismo e alle liti dei ragazzi tra di loro (…) anche se lo stigmatizzato fin dalla
nascita riesce a passare attraverso i primi anni di scuola conservando alcune delle sue illusioni, il
momento della verità scoppia per lui quando cominciano i rapporti con l’altro sesso o quando si
mette a cercare un lavoro» (p. 44, vedere esempi a p.45).
3) entrare in relazione con lo stigma in età avanzata. Un individuo adulto che entra da adulto in
relazione con lo stigma «ha già appreso ogni cosa riguardo alla persona normale e a quella
stigmatizzata, molto tempo prima di considerare se stesso come minorato. Probabilmente gli sarà
molto difficile ritrovare una sua identità e sarà particolarmente portato all’autodisapprovazione»
(45). Altri casi di questo modello possono essere persone che scoprono di avere genitori o nonni
che hanno una macchia morale (ad esempio quando un giovane tedesco che scopre che i propri
nonni sono stati attivamente nazisti e hanno partecipato a crimini, o, negli anni ’60-’70 scoprire
che questo l’hanno fatto i propri genitori).
4) essere socializzato come normale in una comunità e poi doversi nuovamente socializzare ad
una diversa comunità nella quale il primo tipo di socializzazione è stigmatizzato. Goffman fa un
esempio apparentemente difficile: il caso di uno scrittore cieco che faceva colloqui di lavoro con
possibili acquirenti dei suoi scritti, cioè editori, direttori di riviste, di giornali, ai quali proponeva di
pubblicare i suoi scritti, e che si trovava più a proprio agio con persone che non aveva conosciuto
quando non era ancora cieco rispetto a coloro che conosceva da tempo. Il motivo di ciò era che
con gli sconosciuti poteva parlare solo di lavoro, mentre con le persone che conosceva da prima di
diventare cieco doveva sempre soffermarsi su ricordi del passato prima di passare a parlare di
lavoro. In questo modo si trovava a dover rivivere la vecchia condizione di normale, mentre ora
questa “normalità” non era più la stessa. Invece, con gli sconosciuti poteva tranquillamente
mostrare solo l’identità di scrittore cieco e questo lo faceva sentire a proprio agio in misura
15
m. bontempi Appunti su Stigma
maggiore.
Più in generale, indipendentemente dai modelli di carriera morale, quando un adulto entra in
relazione con uno stigma, sia una malattia o altro (prigione…) sono i nuovi compagni di categoria
che si occupano di socializzare il nuovo arrivato alla gestione dello stigma. Questo sarà per lui un
motivo di ambivalenza. Infatti, è difficile che egli si identifichi con i nuovi compagni, questo
comporterebbe per lui la perdita del proprio senso di essere una persona normale. Tenderà quindi
a pensarsi piuttosto come “una persona normale con un problema”. In particolare, Goffman
osserva che potrebbe rifiutare di accettare attributi che vede nei nuovi compagni di categoria, ma
che non vuole per sé (si veda esempio a p. 49). Questo lo potrà portare ad oscillare tra
avvicinamento e allontanamento dai nuovi compagni di categoria: «ci saranno “cicli di affiliazione”
attraverso i quali la persona giungerà ad accettare le particolari occasioni di partecipare al gruppo
interno o giungerà a respingerle dopo un primo momento di “accettazione”. Si verificheranno
anche delle corrispondenti oscillazioni nelle credenze riguardo alla natura del suo gruppo e a
quella dei normali. Le ultime fasi della carriera morale dell’individuo sono riscontrabili in questi
mutamenti di partecipazione e di credenza» (p. 49-50).
Infine, nel riconsiderare retrospettivamente la propria carriera morale è possibile che lo
stigmatizzato individui un evento come momento di rottura, di passaggio verso le credenze e i
comportamento pratico che ha ora verso i propri compagni di stigma e le persone normali. Un
momento durante il quale “ha capito” o “ha deciso” per un certo tipo di comportamento. Questo
evento può poi essere invocato come conferma della posizione tenuta nel presente perché a
partire da quella comprensione che i compagni di stigma sono persone come le altre, e non “meno
umane”, come tendono a pensare invece i normali, è possibile evidenziare una continuità che
indica lo stigma come base per la comprensione di sé da parte dello stigmatizzato. Eventi-frattura
possono essere anche malattie, periodi di isolamento o ricovero che offrono la possibilità di
vedere se stessi in modo diverso, nuovo, ed essere indicati poi come punti di transizione verso la
comprensione che i proprio compagni di stigma sono molto più normali di quanto non avesse mai
pensato prima.
16
m. bontempi Appunti su Stigma
Capitolo 2
Controllo dell’informazione e identità personale
Lo screditato e lo screditabile
Quando l’attributo stigmatizzante non è visibile o noto ai normali con il quale lo stigmatizzato
entra in interazione, allora si tratta di una condizione diversa da quella esposta nel primo capitolo,
nella quale al centro c’è il problema del controllo della tensione causata dall’impegno nella
disattenzione volontaria. Quando, nell’interazione, l’attributo stigmatizzante non è visibile o noto,
il problema non è più il controllo della tensione, ma diventa il controllo dell’informazione relativa
all’attributo stigmatizzante. Al centro ora c’è se dire o non dire, se mentire o no, a chi dire e a chi
non dire, quando dire e quando non dire, fino a che punto dire ad una persona e fino a che punto
dire ad un’altra. Questa condizione è definita da Goffman la condizione dello screditabile. Mentre
lo screditato deve affrontare il pregiudizio contro se stesso, lo screditabile si trova nella condizione
di dover fronteggiare la possibilità di una reazione condizionata da pregiudizi da parte dei normali
qualora venissero a conoscenza del suo attributo stigmatizzante. Da qui l’impegno dello
screditabile nell’entrare in interazione confermando con il proprio comportamento l’impressione
nei normali che si trovano in compagnia di una persona che è “davvero” come loro desiderano o
immaginano dalla prima impressione. Questo impegno è però caratterizzato dal fatto che lo
screditabile riceve ed accetta un trattamento fondato su false premesse, e come tale fonte di
tensione, almeno fino a quando non decide di rivelare il proprio attributo stigmatizzante o perde
comunque il controllo di questa informazione nei confronti del normale che può esserne venuto a
conoscenza indipendentemente dallo stigmatizzato.
Si tratta dunque di una situazione nella quale hanno grande importanza tutti i veicoli di
informazione, non solo quella verbale.
Informazione sociale
«L’informazione più importante, nello studio dello stigma, ha determinate caratteristiche. È
un’informazione che riguarda un individuo. È relativa a sue caratteristiche più o meno durature, in
opposizione a stati d’animo, sentimenti o intenzioni che egli può avere in un particolare momento.
L’informazione, allo stesso modo del segno attraverso il quale viene trasmessa, è riflessa ed è
inscritta nel corpo, cioè è trasmessa dall’interessato stesso ed è trasmessa attraverso l’espressione
corporea nell’immediata presenza di coloro che ricevono questa espressione. Chiamerò qui
“sociale” l’informazione che ha tutte queste caratteristiche» (Goffman, Stigma, p. 59-60,
traduzione mia, quella del libro contiene errori).
È di un tipo speciale l’informazione che è importante nello studio dello stigma. In primo luogo è
relativa ad un individuo concreto. Poi riguarda caratteristiche durevoli, stabili nel tempo, di quella
persona e invece non riguarda aspetti che mutano di situazione in situazione, come i sentimenti, le
emozioni, gli stati d’animo o le intenzioni. Terza caratteristica di questa informazione è che è data
senza che l’interessato la dica volontariamente ed esplicitamente. Goffman la definisce “riflessa”
(reflexive), impiegando il termine utilizzato dai medici a proposito delle “reazioni riflesse”, cioè
involontarie, come il movimento della gamba quando viene leggermente colpito il nervo del
ginocchio con il martelletto per misurare i riflessi del paziente. Ad esempio, la fede al dito di una
persona comunica all’interlocutore che è sposata, senza che questa lo dica esplicitamente, in
questo senso è un’informazione riflessa, cioè data nell’interazione senza una dichiarazione
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m. bontempi Appunti su Stigma
volontaria. Quarta caratteristica è che è trasmessa attraverso l’espressione corporea e dunque
entra nella dinamica propria della co-presenza (si veda nota 1 a p.7 di questi appunti e la
trattazione nel file “lezione sul frame”) tra gli individui impegnati nell’interazione. “Sociale” è
dunque l’informazione che ha tutte queste caratteristiche.
Ci sono alcuni segni che abitualmente vengono cercati o comunque letti nell’interlocutore per
ricavarne informazioni su di lui/lei. Questi segni sono accoppiati in modo stabile a significati (ad es.
la fede al dito) e per questa loro stabilità e istituzionalizzazione sociale Goffman li definisce
simboli. I simboli non sono quindi tutte le informazioni che un individuo può ricavare dal proprio
interlocutore, ma solo quella particolare combinazione socialmente definita di un segno con un
preciso significato. Nell’interazione, quindi, l’informazione è ricavata sia da simboli che da altri
segni, ma mentre i simboli comunicano in modo abbastanza univoco, i segni non sono altrettanto
chiari nel loro significato e quindi richiedono altre “prove” per confermare l’ipotesi. Ad esempio,
alcune chiazze rosse sugli avambracci e in corrispondenza di segni di punture possono far pensare
che quell’individuo ha fatto ripetutamente iniezioni negli avambracci, da questi segni posso
pensare che abbia una malattia che richiede una terapia con frequenti iniezioni, oppure che si
tratti di un tossicodipendente. Questi segni da soli non me lo confermano, non sono sufficienti.
Per poter definire la sua identità nell’interazione dovrò quindi impegnarmi a cercare altri segni,
reperibili in modo indipendente da una domanda esplicita (se questa non è possibile nella
situazione), che posso utilizzare come “prove” della validità della prima o della seconda ipotesi che
mi sono fatto sulla sua identità.
Rispetto ai simboli Goffman distingue tre gruppi: i simboli di prestigio, i simboli di stigma e i
simboli distruttori dell’identità. I primi segnalano la volontà di comunicare una richiesta di essere
considerato meritevole di prestigio in forza dell’appartenenza a gruppi esclusivi o di una posizione
di classe ritenute socialmente desiderabili (gioielli, piccole spille sul bavero della giacca che
attestano un’appartenenza a istituzioni o club, ecc..). I simboli di prestigio svolgono la funzione di
comunicare questa richiesta di trattamento, senza che debba essere esplicitamente detta.
I simboli di stigma nascono, invece, in relazione alla discrepanza tra identità sociale virtuale e
identità sociale attuale causata da un attributo socialmente valutato come negativo. Sono cioè
«quei segni che hanno particolare efficacia nell’attrarre l’attenzione verso qualche discrepanza che
svaluta l’identità, spezzando quello che altrimenti sarebbe un quadro perfettamente coerente. Ne
risulta una diminuzione del nostro giudizio valutativo dell’individuo»(60).
Quando la discrepanza tra identità sociale virtuale e identità sociale attuale è data da un attributo
socialmente valutato come positivo si hanno i simboli distruttori dell’identità. Ad esempio, gli
occhiali con montature “da intellettuale”, cioè grandi e con lenti in vetro, possono essere usati da
persone analfabete per “darsi un’aria” da intellettuale che indebolisca l’impressione di persone
non istruite che sanno di dare.
Passando a parlare dei segni, «che non sono stati ancora istituzionalizzati come mezzi per
trasmettere informazioni»(62), Goffman li distingue in punti quando reclamano prestigio e in
lapsus o errori quando producono discredito.
I criteri in base ai quali il rapporto tra segni e informazioni può variare.
In relazione al tempo. L’informazione veicolata dai segni può ridurre la sua forza comunicativa nel
tempo. Infatti, il o i significati associabili a un segno possono cambiare nel tempo. Quando un
segno che esiste per motivi non informativi (ad es una cicatrice) viene associato ad un significato
socialmente condiviso, allora quel segno può essere talvolta cercato appositamente, al fine di
produrre l’informazione desiderata. Ad esempio, le cicatrici che attestavano le ferite da duello, un
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m. bontempi Appunti su Stigma
tempo erano ricercate per poterle poi ostentare. Cioè, in occasione dei duelli era preferibile per i
duellanti uscirne con una piccola ferita che uscirne senza nessuna ferita. Quando i duelli sono stati
abbandonati, anche il significato sociale delle cicatrici ha perso di valore. Nella fase di declino dei
duelli, quindi, non era più così prestigioso mostrare una vecchia ferita di duello.
Il tempo entra in relazione con i segni che veicolano informazione sociale anche in un altro modo,
cioè distinguendo i segni in congeniti - presenti fin dalla nascita, come il colore della pelle – in
permanenti, ma non congeniti, come una cicatrice o una mutilazione, e in né permanenti, né
congeniti, come la tesa rasata del detenuto.
In relazione a gruppi diversi. Il medesimo segno può avere rilevanza in modi diversi, cioè avere un
significato per un gruppo e uno differente per un altro. Ad esempio, portare un’uniforme segnala
chiaramente l’appartenenza ad un corpo (militare, scolastico nelle scuole che hanno le uniformi,
ecc…). Ma diverso è il significato tra l’indossare l’uniforme solo in relazione all’attività – es. i
militari quando sono in servizio, gli studenti quando sono a scuola ecc – e invece indossare
l’uniforme anche fuori dall’attività, i militari in libera uscita, gli studenti fuori dalla scuola. Nel
primo caso l’uniforme serve a marcare un’omogeneità tra i colleghi/compagni, nel secondo caso
viene letta dai non colleghi/compagni come un segno di una differenza da loro che si vuole
comunicare e come un’affermazione di identità/differenza verso coloro che sono al di fuori del
gruppo.
L’attendibilità. Un altro criterio di variazione dei segni è quello della loro attendibilità come
“prove” di un’ipotesi di attribuzione identitaria. Ad esempio molti denti malati da soli non sono un
segno chiaro di informazione, ma possono essere associati ad altri segni come possibili
“attestazioni di rinforzo” circa un’ipotesi identitaria: insieme a segni di punture di siringa sul
braccio, ad es., possono rinforzare l’attributo del tossicodipendente, oppure associati ad un
abbigliamento modesto possono rinforzare l’ipotesi di una persona povera. In generale, è proprio
per il fatto che i segni mostrano gradi di attendibilità diversi che si rende necessario il lavoro di
interpretazione attraverso la loro associazione e combinazione.
Un’ultima considerazione sull’informazione sociale Goffman la fa su una particolare fonte di
informazione sociale: l’essere insieme. Come abbiamo visto a proposito dello stigma onorario,
un’identità sociale fortemente connotata – in senso positivo o negativo – può essere proiettata su
un’altra persona quando questa persona “si faccia vedere in giro” (passeggi insieme, mangi
insieme ecc) con la prima. Naturalmente questo può valere sia in senso di stigmatizzazione che in
senso di prestigio, dipende dal giudizio sociale dell’identità “forte”. Un esempio che può essere
letto in modo ambivalente è la prassi, esistente in passato in alcuni paesi del sud Italia, secondo la
quale ad una persona che veniva da fuori e che si “faceva vedere in giro” insieme ad una persona
del posto venivano riconosciuti attributi derivati dall’identità sociale della persona del posto
(potere, rispetto oppure disprezzo, ecc..).
Visibilità
Dal punto di vista del portatore di stigma il fatto che questo sia visibile o no agli altri è di grande
importanza. Meglio di “visibile” è il termine evidente. Infatti ci sono stigmi – come la balbuzie –
che sono evidenti, ma non fisicamente visibili. In questo senso non è importante che si tratti di
stigma visibile o percepibile con altri sensi, ciò che è importante ora, nell’uso del termine
“visibilità” che Goffman fa qui, a proposito della situazione dello screditabile, è che lo stigma è
“visibile” quando è percepito dall’interlocutore senza che ci sia volontà di comunicarlo da parte
dello stigmatizzato. È secondario che sia davvero visibile con gli occhi o che sia comunque
percepibile con altri sensi, come l’udito o l’olfatto o altri.
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m. bontempi Appunti su Stigma
La visibilità, o evidenza, dello stigma è importante per due ragioni strettamente connesse: la prima
riguarda le possibilità sull’identità personale che lo stigmatizzato può presentare all’altro
nell’interazione; la seconda riguarda la relazione che lo stigmatizzato può avere con il proprio
stigma.
Rispetto alla prima ragione, se lo stigma non è visibile/evidente (sia perché è coperto da vestiti o
altro, sia perché non è fisico, ad es. azioni o esperienze che la persona ha fatto in passato e che
sono giudicate negativamente), si pone la questione di come lo stigma possa essere comunicato
agli altri, cioè di come lo stigma possa essere “lavorato” (adattato, plasmato, presentato) dallo
stigmatizzato, al fine di ottenere un modo di comunicare agli altri che egli ha questo stigma. Da
questo punto di vista il problema non è tanto – o soltanto – il tipo di stigma, ma soprattutto come
lo stigma può essere presentato o rivelato. Il come ha grande importanza per lo stigmatizzato. Per
la condizione di screditabile il come presentarlo è importante, perché è l’unico spazio di manovra
che lo stigmatizzato ha nei confronti del proprio stigma. Cioè, non può negare di averlo, almeno a
se stesso e molto probabilmente a qualcuno a lui/lei vicino, ma può “lavorare” su come informare
gli altri ai quali decide di dirlo. Nel modo di comunicarlo entra in gioco anche la seconda ragione
sopra indicata: il rapporto che lo stigmatizzato ha con il proprio stigma. Possiamo dire che come lo
stigmatizzato rivela il proprio stigma è anche una comunicazione sul modo in cui considera il
proprio stigma rispetto a se stesso e anche su come vorrebbe che il proprio stigma fosse
considerato dagli altri. Ora, come sappiamo, l’identità sociale di un individuo non è riducibile a
quello che l’individuo pensa di se stesso. L’identità sociale di un individuo è formata anche da
quello che gli altri pensano di lui o lei. Goffman ha messo in luce che elementi identitari sono in
gioco sempre, in ogni tipo di interazione, anche non focalizzata, come tra estranei per strada o in
ascensore. Allora, quando l’individuo deve decidere sull’atteggiamento da tenere rispetto al
proprio stigma da dove parte? La risposta di Goffman è che la base da cui parte è ciò che lui sa di
ciò che gli altri sanno di lui (cfr. p. 65). Immaginiamo il caso più semplice: due estranei si
incontrano. A è il normale e B lo screditabile. Nel primo momento A ha una comprensione
categoriale dell’identità di B. Di cosa è fatta questa comprensione categoriale? Delle informazioni
che A può ricavare da B attraverso il corpo, la postura, il modo di parlare, l’abbigliamento,
accessori vari, ecc ecc. Allora B si impegnerà nel far si che A lo collochi in una categoria nella quale
B desidera o comunque accetta di essere collocato. È questa la dinamica del “dare l’impressione”.
Se A non ha altre fonti di informazione su B, in quel momento B sa che cosa A conosce di B. Se A
avesse altre fonti di informazione, comunque B saprebbe qualcosa di ciò che A sa di lui:
l’impressione che cerca di fargli. Una volta che nell’interazione “l’impressione” è allestita come
identità sociale categoriale, per lo screditabile si pone il problema di come governare
l’informazione sullo stigma. Poiché B è uno screditabile il suo stigma non è visibile/evidente e
quindi B ha un margine di controllo su di esso, soprattutto su se e come dare l’informazione che
ha quello stigma. Ecco che il modo in cui B decide di passare da screditabile a screditato, rivelando
il proprio stigma, è molto importante anche in relazione all’identità categoriale che ha cercato di
comunicare ad A. Mentre nel caso dello stigma visibile/evidente, trattato nel capitolo precedente,
l’attributo qualificato negativamente è fin da subito in contrasto con l’identità categoriale e crea il
problema della dissonanza tra l’identità attuale e la categoriale, nel caso dello stigma non
visibile/evidente ha molta più importanza la comunicazione e come questa viene governata in
relazione all’identità categoriale. Per questo Goffman scrive che «qualsiasi modifica nel modo in
cui l’individuo deve sempre e dovunque presentarsi sarà, proprio per queste ragioni, gravida di
conseguenze [fateful va qui tradotto così e non “fatale” come nel libro]»(p. 65). E’ questa forza di
un attributo di condizionare il futuro dell’identità sociale di una persona come un destino, che, dice
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m. bontempi Appunti su Stigma
Goffman, è forse stata all’origine dell’idea di stigma presso gli antichi greci (per i quali l’idea di
destino aveva un’importanza particolare).
La visibilità dello stigma deve essere distinta da tre idee che di solito vengono confuse con la
visibilità:
1) è importante distinguere la visibilità di uno stigma da “quel che se ne sa” di esso. Scrive
Goffman: «prima di tutto, la visibilità di uno stigma deve essere distinta da “quel che se ne sa”
(“known-about-ness”) di esso. Quando lo stigma di un individuo è molto visibile il solo fatto di
entrare in contatto con gli altri farà sì che il suo stigma sia noto. Ma che altri sappiano dello stigma
di quell’individuo dipende anche da un altro fattore, oltre alla sua effettiva visibilità, e cioè se
abbiano o meno saputo di lui in precedenza, attraverso pettegolezzi su di lui o un precedente
contatto con lui quando il suo stigma era visibile» (p. 65, traduzione corretta).
La distinzione tra visibilità e informazione dello stigma è importante perché influenza l’idea che il
normale si fa dello stigmatizzato, anche se non vede lo stigma. Ad esempio, la conoscenza di uno
stigma di una persona può essere prodotta attraverso la circolazione dell’informazione, come nei
pettegolezzi su uno stigmatizzato. Inoltre, è possibile che la distinzione tra visibilità e conoscenza
sia significativa anche in relazione alla stessa persona: ad esempio, l’aver visto lo stigma in un
momento in cui era visibile e poi incontrare lo stigmatizzato quando lo stigma non è più visibile,
come nel caso di una persona che ha incontrato (anche una sola volta) un detenuto in carcere e
poi incontra la stessa persona dopo che è uscita dal carcere. Quindi, il fatto che di uno stigma “se
ne sappia” – anche se non si vede - è importante per l’interazione, che sarà orientata anche in
base all’informazione che il normale ha dello stigma.
2) è importante distinguere la visibilità di uno stigma dalla sua interferenza nel flusso
dell’interazione. Uno stigma può essere visibile/evidente ma non sempre essere un motivo di
interferenza, ostacolo o problema in qualunque modo. Una persona in sedia a rotelle ha uno
stigma molto evidente, che può interferire nell’interazione, come entrare in un ascensore
affollato, ma in una riunione nella quale tutti sono seduti ad un tavolo, lo stigma della sedia a
rotelle non ha nessuna interferenza, in un certo senso “sparisce” come ostacolo all’interazione. La
balbuzie o un rilevante difetto di pronuncia, invece, sono sicuramente meno dannosi per
l’autonomia fisica della persona, ma negli incontri verbali, nelle conversazioni, interferiscono
anche pesantemente, rendendo l’interazione difficile o comunque più impegnativa. Inoltre, un
medesimo stigma può avere espressioni differenti, che interferiscono con gradi differenti.
Goffman fa l’esempio del cieco: il bastone bianco è molto visibile, ma una volta visto, non
interferisce più in modo significativo (ad es. le persone si spiegano il perché di quell’andatura,
oppure il perché della richiesta di aiuto ad attraversare la strada ecc…). Invece, «un cieco che non
rivolge il viso ai co-partecipanti [all’interazione] è un evento che viola ripetutamente una regola
della comunicazione e ripetutamente distrugge la dinamica di feed-back dell’interazione verbale»
(p.66, traduzione corretta). In questo secondo caso l’interferenza della cecità nell’interazione è
molto maggiore di quella del primo.
Lo stesso stigma non ha dunque la stessa consistenza in qualunque situazione. La sua interferenza
ha una consistenza variabile, come in una scala di gradazione dalla massima interferenza a
nessuna interferenza. Questo è un punto importante che Goffman mette in luce: lo stigma prende
corpo con gradi differenti a seconda delle situazioni. È la definizione della situazione – quindi
l’interazione concreta – che contribuisce a rendere più o meno interferente lo stigma.
Da questa considerazione si può ricavare, quindi, che nei contatti misti il nocciolo della questione
non è di “non avere stereotipi”, come pensa chi ha un’idea solo cognitiva, concettuale, dello
stigma, ciò che conta è interagire cooperando alla definizione della situazione in modo che lo
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m. bontempi Appunti su Stigma
stigma possa interferire limitatamente. Infatti, non è detto che chi pensa di non avere stereotipi
poi interagisca veramente in modo da mitigare l’interferenza dello stigma. Spesso questa
differenza non è causata da una sorta di ipocrisia di chi pensa in un modo e agisce in un altro, ma
dal fatto che si tratta di due piani distinti della realtà: il piano delle idee e il piano dell’interazione,
questi certamente si combinano, ma hanno logiche differenti, per questo è importante il lavoro di
Goffman sull’analisi dei contatti misti.
3) è importante tenere distinta la visibilità di uno stigma dal suo “punto focale percepito”, cioè
dall’idea di quale sfera di vita sia danneggiata da quel particolare stigma.
Scrive Goffman: «Noi normali sviluppiamo concezioni – siano oggettivamente fondate o no – sulla
sfera di attività vitale nella quale un particolare stigma squalifica un individuo fin dalla prima
impressione. La bruttezza, ad esempio, ha il proprio effetto iniziale e più importante in situazioni
sociali, minacciando il piacere che potremmo altrimenti trarre in compagnia di quella persona.
Percepiamo, comunque, che la sua condizione non dovrebbe avere alcun effetto sulle sue capacità
di agire in attività compiute da sola, sebbene, naturalmente, potremmo discriminarla
semplicemente in base alle sensazioni che abbiamo al guardarla. La bruttezza, dunque, è uno
stigma che viene messo a fuoco in situazioni sociali. Altri stigmi, come l’avere il diabete, sono
percepiti come privi di effetto iniziale sulle qualifiche dell’individuo per l’interazione faccia a faccia.
Questo tipo di stigmi ci portano in primo luogo a discriminare in questioni come l’attribuzione di
posti di lavoro e investono le interazioni sociali dirette soltanto, per esempio, perché lo
stigmatizzato può aver cercato di tener nascosta la sua diversità e non sia sicuro di esserci riuscito,
oppure perché gli altri presenti sanno della sua condizione e compiono uno sforzo penoso per non
alludere ad essa. Molti altri stigmi ricadono tra questi due poli estremi di focalizzazione, poiché
vengono percepiti come capaci di una diffusa impressione iniziale su numerose e differenti aree
della vita. Per esempio, una persona con paralisi spastica può non solo essere percepita
impegnativa nella comunicazione faccia a faccia, ma anche indurre sensazioni che abbia dubbie
capacità di agire da sola»(pp. 66-67, traduzione rifatta, quella del libro contiene numerosi errori).
Il punto focale percepito di uno stigma consiste nell’idea che i normali si fanno di quali sfere della
vita dello stigmatizzato saranno danneggiate dallo stigma che ha. Alcuni stigmi, come la bruttezza,
danneggiano situazioni sociali, cioè di interazione faccia a faccia, ma in questi casi i normali non
ipotizzano danni anche in altre sfere di vita, come per esempio l’autonomia della persona nel fare
attività da sola. Altri stigmi, come l’avere il diabete, non hanno nessun effetto sulle situazioni
sociali, sulle interazioni faccia a faccia, ma i normali possono pensare che il diabetico avrà difficoltà
in altre sfere di attività, come trovare lavoro. Altri stigmi ancora possono danneggiare sia le
situazioni sociali delle interazioni faccia a faccia, sia altre sfere, come l’autonomia personale di fare
cose da soli. Nel caso dei contatti tra una persona con paralisi spastica e un normale le difficoltà
del primo nel parlare possono rendere impegnativa per entrambi la comunicazione, inoltre, il
normale può pensare che questo stigma danneggi il suo portatore anche in molte altre attività che
normalmente dovrebbe svolgere da solo.
Dunque il concetto di punto focale percepito di uno stigma mette in luce che il discredito
connesso allo stigma non è solo un problema di interazione diretta, ma anche di stima, di ipotesi –
da parte del normale – del danno e del discredito che quello stigma può produrre in sfere di vita e
attività differenti dall’interazione faccia a faccia. In questo senso il punto focale percepito non è
sovrapponibile alla visibilità e deve essere distinto da questa. Infatti, talvolta può essere
sovrapposto, altre volte no. Inoltre, poiché il punto focale percepito non consiste nella valutazione
oggettiva del danno procurato dallo stigma, ma nella “teoria” che il normale si fa del danno e
22
m. bontempi Appunti su Stigma
discredito che quello stigma potrebbe ragionevolmente procurare al suo portatore in una o più
sfere di attività, si può osservare che questa “teoria” – non è importante se fondata o no - può
contribuire alla definizione dell’identità sociale dello stigmatizzato da parte del normale e, più in
generale, alla definizione della situazione interazionale (ad es. evitando di parlare – o parlandone
in modo controllato - di attività connesse alla sfera che si ipotizza danneggiata).
Conclude Goffman: «La questione della visibilità, quindi, deve essere distinta da altri aspetti: il
“quel che se ne sa” dell’attributo, la sua interferenza e il suo punto focale percepito. Tutto questo
trascura ancora la tacita supposizione che il grande pubblico potrà in qualche modo vedere lo
stigma. Ma, come vedremo, nello svelare l’identità potranno entrare in gioco specialisti la cui
esperienza li mette in grado di essere immediatamente colpiti da qualcosa che resta invisibile alle
persone comuni. Un medico che incontra per strada una persona con una macchia rossastra sulla
cornea e incisivi intaccati, sta incontrando qualcuno che chiaramente mostra due dei segni della
“triade di Hutchinson” ed è probabilmente affetto da sifilide. Comunque, gli altri presenti, “ciechi”
dal punto di vista medico, non si accorgeranno di nulla. In generale, dunque, prima di poter parlare
del grado di visibilità, bisogna che sia individuata la capacità di decodifica da parte dei presenti»
(pp. 67-68, traduzione rifatta, quella del libro contiene numerosi errori, corsivo aggiunto da me).
Identità personale
«Per poter considerare in modo sistematico la situazione dello screditabile e il suo problema di
dissimulazione e disvelamento è stato necessario esaminare prima di tutto le caratteristiche
dell’informazione sociale e della visibilità. Prima di procedere sarà necessario considerare, e per
un po’ di tempo, ancora un altro fattore: quello dell’identificazione, ma non in senso psicologico,
bensì criminologico.
Finora l’analisi dell’interazione sociale tra lo stigmatizzato e il normale non ha comportato che le
persone coinvolte nel contatto misto si conoscano “personalmente” prima che l’interazione inizi.
Ciò sembra logico. La gestione dello stigma è un settore di un aspetto basilare della società: il
processo di stereotipizzazione o profilazione delle nostre aspettative normative su condotta e
carattere. La stereotipizzazione è classicamente riservata a clienti, orientali e automobilisti, cioè
persone che rientrano in categorie molto ampie e che possono essere per noi come estranei che
passano per strada.
C’è una concezione popolare secondo cui, sebbene i contatti impersonali tra estranei siano
particolarmente soggetti a reazioni stereotipiche, quando le persone entrano in rapporti più stretti
questo approccio categoriale si riduce e gradualmente viene sostituito da simpatia, comprensione
e da una valutazione realistica delle qualità personali. Anche se un’imperfezione, come una
deformità del viso, può bastare ad escludere un estraneo, si può presumere che tra intimi non si
sarà esclusi per una cosa del genere. La sfera della gestione dello stigma, dunque, riguarda
principalmente la vita pubblica, il contatto tra estranei o tra semplici conoscenti. È un polo di un
continuum il cui polo opposto è l’intimità.
L’idea di un continuum di questo tipo ha senza dubbio una certa validità. Per esempio, è stato
mostrato che oltre a tecniche per gestire gli estranei, il disabile fisico può sviluppare tecniche
speciali per aggirare la mancanza di tatto iniziale e l’atteggiamento distante che probabilmente si
troverà ad affrontare. Questi può cercare di passare su un livello più “personale”, nel quale il
proprio difetto cesserà di essere un fattore determinante. Un processo difficile, che Fred Davis
chiama “sfondare”. Inoltre, chi ha uno stigma fisico riferisce che, entro certi limiti, i normali con i
quali ha frequenti interazioni escluderanno gradualmente di meno a causa della disabilità, così da
poter ben sperare che di giorno in giorno possa svilupparsi qualcosa di simile ad una
23
m. bontempi Appunti su Stigma
normalizzazione. Sentiamo la testimonianza di un cieco [proseguire sul libro dalla citazione sul
cieco fino a p.70, rigo 17]» (pp.68-69, traduzione modificata, corsivi aggiunti).
In questa sezione di apertura del paragrafo “Identità personale” Goffman indica alcuni elementi di
carattere generale che sono particolarmente importanti per lo studio dello stigma. Il primo è che
la gestione dello stigma riguarda più la vita pubblica, quindi il vasto ambito dell’uso degli stereotipi
nella vita sociale, che le relazioni intime o comunque di persone in rapporti stretti, come amici e
familiari. Goffman ha mostrato nel primo capitolo che l’identità categoriale ha stretti rapporti con
gli schemi stereotipati del comportamento e del carattere. Cioè, attribuire una identità categoriale
ad un individuo comporta aspettarsi che sia o si comporti in certi modi socialmente definiti.
Questo comportamento atteso è una forma di stereotipizzazione, che poi, nel confronto con
l’identità sociale attuale, viene progressivamente adattata alla persona reale, sempre però
controllando che il comportamento reale non sia troppo divergente (un po’ è ovvio che lo sia) da
quello atteso in base all’identità categoriale.
La gestione dello stigma è dunque in primo luogo qualcosa che impatta di più nei rapporti tra
estranei o in situazioni proprie della vita in pubblico e meno nelle situazioni più private. A
conferma di questa considerazione Goffman riporta quanto rilevato da Davis a proposito del fatto
che i disabili fisici, per evitare l’imbarazzo dei contatti iniziali tra estranei, tendono a cercare fin
dall’inizio un modo più informale e personale di interazione, così da passare più facilmente ad un
registro più cordiale, nel quale si deve rispettare di meno la formalità. E quindi poter considerare
come conseguenza della cordialità, e non dello stigma, quelle eventuali mancanze che il disabile
potrebbe mostrare nell’interazione. Si tratta di una sorta di “sfondamento” (breaking through) –
come lo chiama Davis – del registro della comunicazione formale e di passare direttamente ad un
registro comunicativo più confidenziale.
Un altro argomento a favore della tesi che lo stigma impatta di più sulla vita pubblica è indicato da
Goffman nel fatto che normalmente si ritiene che ad una maggiore frequenza di contatti con la
stessa persona corrisponda un progressivo adattamento del normale e quindi anche un venir
meno della sensazione di esclusione da parte dello stigmatizzato. In altre parole, la routine
quotidiana aiuterebbe a ridurre l’impatto dello stigma nelle interazioni. La testimonianza del cieco
viene citata come conferma di questa concezione. Altre prove in questo senso sono i negozi situati
nelle vicinanze di un’istituzione psichiatrica, nei quali è più frequente vedere persone affette da
disturbi psichici che hanno la possibilità di uscire e nei quali il comportamento strano di questo
tipo di persone è spesso molto più tollerato di quanto non accada in negozi un po’ più lontani, nei
quali non è frequente incontrare psicotici.
Ma sarebbe sbagliato irrigidire questa distinzione tra vita in pubblico e vita privata e indicare solo
nella prima il problema della gestione dello stigma. Sarebbe sbagliato perché è una visione
idealizzata della vita privata e delle relazioni familiari, o comunque più intime, che queste siano di
per sé prive di discriminazione verso lo stigmatizzato, Goffman osserva che «la familiarità non ha
bisogno di ridurre il disprezzo» (p.70 traduzione modificata), cioè si può arrivare a relazioni
confidenziali e perfino familiari senza dover necessariamente ridurre l’esclusione nei confronti
dello stigmatizzato. La frequenza di contatti, la routine quotidiana possono restare anche
fortemente influenzate dalla discriminazione. Il caso di coloro che abitano vicino ai quartieri degli
stigmatizzati tribali (ad es. i quartieri abitati da cinesi, da africani, da italiani (all’estero), da
musulmani, da ebrei ecc ecc) e che conservano atteggiamenti di disprezzo, mostra bene che si può
vivere e avere contatti misti quotidiani senza per questo ridurre il disprezzo. In tempi più recenti
sono stati fatti studi sui malati di HIV, che hanno mostrato come anche all’interno della famiglia ci
possano essere pratiche di discriminazione del malato di HIV.
24
m. bontempi Appunti su Stigma
In questa prospettiva non ha molto senso pensare che le relazioni intime siano costituite
esclusivamente di elementi personali e specifici degli individui coinvolti nella relazione. Anche nel
rapporto di coppia, come nel caso di marito e moglie, insieme ai tratti personali, entrano in gioco
aspettative di ruolo che sono socialmente condivise. Con finezza, e non senza ironia, Goffman
sottolinea che nella relazione intima i tratti personali stanno ai margini, mentre al centro troviamo
la dimensione sociale delle aspettative di ruolo nei confronti del partner. Anche se questo ci può
suonare fastidioso, la questione è che la conoscenza profonda che si può avere di una persona non
ci porta mai al di fuori del ricorso a categorie sociali, della logica dell’interazione, dei ruoli e delle
aspettative, anzi, più si approfondisce la conoscenza, più la categorizzazione si arricchisce di
sfumature e di elementi, ma non cessa. Siamo membri di una società anche nella relazione più
intima e personale. Ciò non significa (sol)tanto che “la società ci condiziona”, ma anche, e
soprattutto, che senza di essa non potremmo entrare in relazione gli uni con gli altri, nel bene e
nel male. In breve, non esisteremmo come persone.
Scrive Goffman: «Comunque, in questo caso è più importante considerare che i diversi effetti di
un’intera gamma di supposizioni su un individuo, fatte ma non ammesse, sono chiaramente
presenti nelle nostre interazioni con persone con le quali abbiamo avuto una relazione di lunga
durata, intima ed esclusiva. Nella nostra società, parlare di una donna come “la moglie di” uno,
vuol dire collocare questa persona in una categoria nella quale ci può essere in vigore solo un
membro, però una categoria è nondimeno utilizzata, e lei è soltanto un membro di questa.
Elementi peculiari, storicamente indistinguibili, colorano i margini della nostra relazione con
questa persona; tuttavia, al centro c’è un’intera gamma di aspettative socialmente standardizzate
che noi abbiamo sulla sua condotta e sulla sua natura come un caso della categoria “moglie”. Ad
esempio, che si occupi della casa, accolga i nostri amici e sia capace di allevare i bambini. Sarà una
buona o cattiva moglie, e questo in rapporto alle aspettative standard, proprio quelle che altri
mariti nel nostro gruppo hanno a riguardo delle proprie mogli (certo, è sconcertante parlare del
matrimonio come di una relazione esclusivamente personale). Perciò, sia che noi interagiamo con
estranei o con persone intime, scopriremo che le estreme propaggini della società sono penetrate
direttamente all’interno di questo contatto, collocandoci nella nostra posizione.
Ci sono sicuramente casi in cui sono coloro ai quali non è richiesto di condividere la condizione con
uno stigmatizzato, né di prendersene cura a lungo e con tatto, che trovano che sia più facile
accettarlo, e proprio per questo motivo, piuttosto che chi è obbligato a stare a tempo pieno in
contatto con lo stigmatizzato. In primo luogo può darsi che siano proprio coloro che sono in
relazione intima con lo stigmatizzato ad essere le persone alle quali lui cerca in ogni modo di
nascondere qualcosa di vergognoso; la situazione degli omosessuali offre un’illustrazione di
questo: [proseguire sul libro dalla citazione sugli omosessuali fino a p. 72, penultimo capoverso]»
(pp. 70-71, traduzione modificata, corsivo aggiunto).
Alcuni stigmi, infine, sono facilmente occultabili, ma allo stesso tempo possono interferire in modo
rilevante proprio nelle relazioni intime. È il caso dei problemi sessuali, come impotenza, frigidità,
sterilità. Questa considerazione porta Goffman a sottolineare che nelle relazioni intime è possibile
che, mentre da un lato non vi siano problemi da parte del normale nell’accettare lo screditabile
senza essere influenzato dal suo stigma, dall’altro lato lo stigma possa influire sui doveri dell’uno
verso l’altro, cioè su ciò che l’uno si aspetta dall’altro e richiede all’altro come elemento
costitutivo della relazione.
25
m. bontempi Appunti su Stigma
Scrive Goffman: «Inoltre, le persone intime possono arrivare a svolgere un ruolo speciale nella
gestione delle situazioni sociali da parte dello screditabile, così che perfino quando la loro
accettazione dello screditabile non sarà influenzata dallo stigma, lo saranno i loro doveri.
Invece, dunque, di pensare ad un continuum delle relazioni con da un lato un modo di interagire
caratterizzato dall’identità virtuale e dalla dissimulazione dello stigma e dall’altro lato da un
atteggiamento aperto alle peculiarità dell’identità attuale, sarebbe meglio pensare alle differenti
strutture nelle quali il contatto avviene e si stabilizza - tra estranei per strada, in relazioni di
servizio frettolose, nel luogo di lavoro, nel vicinato, nella scena domestica – e vedere che in ciascun
caso sono probabili peculiari discrepanze tra l’identità virtuale e attuale, e che vengono compiuti
sforzi specifici per gestire la situazione. Inoltre, l’intero problema della gestione dello stigma è
influenzato dalla questione se lo stigmatizzato ci è o no conosciuto personalmente. Tentare di
descrivere in che cosa consista questa influenza richiede, comunque, la chiara formulazione di un
ulteriore concetto, quello di identità personale. È noto che nelle cerchie sociali piccole e di lunga
durata, ciascun membro, con il tempo, finisce per essere considerato come persona “unica”. Il
termine “unico” è incalzato dagli scienziati sociali principianti, che ci vorrebbero leggere qualcosa
di caldo e creativo, qualcosa di non ulteriormente scomponibile, almeno per i sociologi.
Nondimeno, il termine comprende alcune idee importanti»(pp. 72-73, traduzione modificata,
corsivo aggiunto).
La parte che segue contiene alcuni concetti particolarmente importanti per la sociologia di
Goffman. Il primo, uno dei concetti più noti, è quello dell’unicità dell’identità personale studiata
nei supporti materiali e non solo e considerata, quindi, nei termini di un gancio al quale si
agganciano, appunto, i fatti biografici. Questo modo di considerare l’identità è fortemente
controintuitivo. Cioè, siamo abituati a considerare l’identità personale come un insieme di
elementi psicologici, morali e più in generale qualitativi. Goffman mette l’accento su come
l’identità personale viene presentata nelle interazioni e questo lo porta a scoprire una grande
varietà di strumenti che attestano, dimostrano, funzionano, insomma, in modo identitario per noi.
L’ampiezza del numero degli esempi e delle diverse situazioni in cui vengono impiegati questi
strumenti e il tipo di concetti che Goffman elabora ci mostrano che non si tratta affatto di aspetti
superficiali o di dettagli, ma di qualcosa senza il quale le nostre identità certamente non sarebbero
quelle che sono. Parlare dell’unicità dell’identità personale come di un gancio vuol dire che
l’identità si pensa come un insieme di elementi che si attaccano al gancio. Ci sono quindi i
supporti, i ganci, e i fatti biografici che vengono attaccati ai supporti. Pensare ad una persona
come unica comporta, in questa prospettiva, definire la sua unicità attraverso modi e strumenti di
identificazione, cioè di specificazione di una persona rispetto agli altri. In questo caso l’unicità può
essere un fatto pratico, come una posizione nella rete di parentela (figlio di, nipote di, sorella di,
cugino di ….). La rete di parentela, infatti, è un modo per classificare le persone assegnando loro
una posizione che è solo di quella persona e non può essere identica a quella di un’altra. La
posizione nella rete di parentela può essere un gancio al quale si attaccano fatti biografici per
definire l’identità di una persona (ad es. nei paesi l’attribuzione della posizione di parentela
funziona spesso come modo per definire l’identità di una persona e anche per spiegarne alcuni
comportamenti, idee, modi di agire, ecc).
In questo modo di pensare l’identità Goffman è interessato sia a come l’identità viene definita
dagli altri attraverso ganci di vario tipo, sia a come i supporti per l’identità vengono presentati e
impiegati per presentare l’identità da parte dell’individuo stesso. Non interessa invece a Goffman
considerare l’identità dal punto di vista di come viene sentita interiormente dall’individuo, perché
il suo sforzo è di studiare, in questo paragrafo, le strategie e gli strumenti dell’identificazione di
una persona.
26
m. bontempi Appunti su Stigma
Una seconda concezione dell’identità personale è la combinazione degli elementi che
compongono la storia di vita di una persona. Come vengono raccolti questi elementi? Come
vengono assemblati? Con quali criteri? Il dossier di polizia, la cartella dell’assistente sociale sono
due possibili esempi del raccogliere e ordinare i fatti biografici di una persona attraverso
dichiarazioni, verbali, attestati, insomma attraverso la raccolta e anche la produzione di
documenti. Sulla cartella viene posto generalmente posto il nome della persona della cui vita si
tratta dentro. Questa etichetta-nome è l’elemento identificativo. È, in altre parole, usata come la
sintesi di quanto raccolto all’interno. Il nome, allora, viene considerato come uno strumento di
sintesi che svolge il ruolo dell’etichetta e intorno al quale si possono attaccare i fatti biografici di
una persona. Ma non è solo il nome a svolgere questo compito, può esserlo anche il corpo. Ad
esempio quando si riconosce una persona dal suo modo di muoversi, dal suo volto, ma non se ne
conosce il nome. In questo caso è il corpo ad essere impiegato come punto di sintesi, come
strumento attraverso il quale identificare una persona. Il fatto che Goffman metta insieme i
dossier con il riconoscere una persona da come si muove può apparirci strano, la ragione è però
chiara: a lui interessa il fatto del raccogliere elementi e riunirli in modo da operare come strumento
di identificazione di un individuo.
Ma quali segni possono essere impiegati per scopi identitari? Questa è una questione importante.
il punto centrale è che qualunque sia l’elemento che si vuole far diventare segno identitario ciò
che conta è che sia stabile o che possa essere registrata la sua variazione. Il corpo offre molti tratti
che possono essere “staccati” e usati come segni identitari: il volto con le fotografie nei
documenti, l’altezza, il genere, le impronte digitali, altri come la grafia (cioè la firma), gli occhi. I
segni possono cambiare con lo sviluppo di macchine che permettono di registrarli e di impiegarli
come strumenti di riconoscimento. I computer oggi hanno il riconoscimento vocale, alcuni anche il
riconoscimento dell’iride, inoltre ha valore in tribunale anche il dna come strumento di
identificazione di una persona. C’è quindi un rapporto tra le possibilità offerte dalla tecnologia e
l’emergere di tratti corporei come segni identitari.
Scrive Goffman: «Un’idea implicata nella nozione di “unicità” di un individuo è quella di un
“marchio concreto” o un “gancio per l’identità”, per esempio l’immagine fotografica dell’individuo
nelle menti degli altri, oppure la conoscenza della sua specifica collocazione in una data rete di
rapporti di parentela.
[vedere sul libro l’esempio dei Tuareg a p. 73, fino al penultimo rigo]
Una seconda idea è che, mentre la gran parte dei fatti particolari relativi ad un individuo sono reali
anche per gli altri, l’intera gamma di fatti di cui è al corrente una persona intima non comporta,
come raccolta, per nessun’altra persona al mondo, la formazione di un mezzo attraverso il quale
questo individuo possa essere efficacemente distinto da chiunque altro. Talvolta, questo insieme
di informazioni è legato al nome, come nel caso di un dossier di polizia, talvolta è legato al corpo ,
come quando ci è noto il modo tipico di comportarsi di qualcuno di cui conosciamo il volto, ma del
quale non conosciamo il nome. Spesso l’informazione è legata sia al nome che al corpo.
Una terza idea è che ciò che distingua un individuo da tutti gli altri sia il nucleo del suo essere, un
aspetto insieme generale e centrale di lui, tale da renderlo differente nel profondo dell’anima da
coloro che sono più simili a lui, non meramente differente in termini di identificazione.
Con identità personale intendo soltanto le prime due idee, marchio concreto o gancio per
l’identità e la combinazione unica degli elementi della sua storia di vita che sono associati
all’individuo con l’aiuto di questi ganci per la sua identità. L’identità personale, dunque, ha a che
fare con il presupposto che l’individuo possa essere distinto da tutti gli altri e che intorno a questi
mezzi di distinzione una singola, ininterrotta, sequenza documentata di fatti sociali possa essere
attaccata, ammassata, come zucchero filato, diventando la sostanza appiccicosa alla quale anche
27
m. bontempi Appunti su Stigma
gli altri fatti biografici possono essere attaccati. Ciò che è difficile da comprendere è che l’identità
personale può giocare, ed effettivamente gioca, un ruolo strutturato, di routine, standardizzato
nell’organizzazione sociale, proprio in forza del suo essere un “unico nel suo genere”.
Se si prende come punto di riferimento non un piccolo gruppo, ma una grande, impersonale
organizzazione, come l’amministrazione statale, si può osservare chiaramente come funziona il
processo dell’identificazione personale. La registrazione ufficiale di mezzi di identificazione sicura
di qualunque individuo vi possa essere riferito è oggi una pratica standard dell’organizzazione
statale. In altre parole, viene impiegato un insieme di segni che distingue da chiunque altro la
persona così caratterizzata. Come si è detto, la scelta del segno è in sé abbastanza standardizzata:
attributi biologici immutabili come la grafia o la fisionomia fotograficamente attestata; attestazioni
registrabili in modo permanente come il certificato di nascita, il nome e il numero di matricola.
Recentemente, attraverso l’uso dell’analisi computerizzata, sono state sperimentate innovazioni
per l’utilizzazione, come supporti per l’identità, di caratteristiche del modo di parlare o di scrivere
a mano, sfruttando così alcune peculiarità espressive comportamentali di minor rilievo, in modo
simile a come fanno gli specialisti che lavorano all’attribuzione dei quadri. Quello che è più
importante è che la legge americana del 1935 sulla Previdenza Sociale garantisce praticamente a
tutti i lavoratori dipendenti un unico numero di registrazione al quale può essere agganciata una
documentazione dell’intera vita lavorativa del dipendente; un modo di identificazione che ha
prodotto notevoli difficoltà per la criminalità organizzata14. In ogni caso, una volta che è stato
creato un gancio per l’identità, ad esso può esserci agganciato il materiale, se e quando
disponibile; un dossier può crescere, di norma, essendo contenuto ed archiviato in una cartella di
cartoncino. Ci si può aspettare che lo Stato incrementerà l’identificazione personale dei propri
cittadini, poiché gli strumenti vengono sviluppati per rendere la documentazione di ciascun
individuo sempre più facilmente accessibile al personale autorizzato, e sempre più arricchita di
fatti sociali che lo riguardano, come ad esempio le ricevute dei pagamenti dei dividendi azionari»
(pp. 72-75, traduzione rifatta, quella del libro contiene numerosi errori).
[riprendere la lettura sul libro a p.75, ultimo capoverso: “Comunemente è assai diffuso…” fino alla
p. 77 a metà]
A metà di p. 77 Goffman introduce una distinzione concettuale importante: «i segni concretizzati
fisicamente che abbiamo prima analizzato, siano di prestigio o di stigma, riguardano l’identità
sociale. È chiaro che tutti questi devono essere distinti dalla documentazione che le persone si
portano dietro per provare la loro identità personale» (p.77). Nel primo paragrafo “Informazione
sociale” del capitolo 2 (pp. 15-16 di questo file), Goffman ha definito i segni e anche quel caso
particolare di segni che sono i simboli. Segni e simboli riguardano l’identità sociale che viene
presentata nell’interazione e sulla quale avviene molto del lavorio sullo stigma, sia da parte dello
stigmatizzato che dei normali. Cosa diversa è l’identità personale, che ovviamente entra in gioco
molto di più quando si tratta dello screditabile, e meno per lo screditato. Per questo Goffman
introduce l’analisi dell’identità personale nel capitolo sullo screditabile. La parte che segue di
questo paragrafo tratterà quindi delle logiche e degli strumenti di documentazione per mezzo dei
quali le persone attestano la propria identità personale.
[riprendere la lettura sul libro fino all’inizio di p. 78]
14
Goffman fa qui riferimento ai controlli dei contributi dei lavoratori introdotti negli USA, durante la crisi economica
scoppiata nel 1929, per contrastare il mercato del lavoro a nero, gestito dalla criminalità organizzata, che ebbe in
quegli anni grande espansione.
28
m. bontempi Appunti su Stigma
«si potrebbe aggiungere che è in continuo aumento il numero di luoghi di lavoro che richiedono
all’individuo di indossare, e se non di indossare di portare con sé, targhette di riconoscimento del
dipendente con fotografia.
Lo scopo di questi vari strumenti di identificazione è, naturalmente, che non consentono errori in
buona fede, nè ambiguità, e trasformano così quello che sarebbe semplicemente un uso
discutibile di simboli informalmente rivelatori in una lampante contraffazione o in un possesso
illecito; di conseguenza, l’espressione “documento di identità” potrebbe essere più appropriata di
“simbolo di identità” (si confronti, ad esempio, questo sistema con quello relativamente meno
rigoroso dell’identificazione di qualcuno come ebreo per mezzo dell’aspetto fisico, dei gesti e della
voce)15. Tra l’altro, questa documentazione e i fatti sociali a questa connessi vengono spesso
presentati soltanto in situazioni speciali e a coloro che sono specificamente autorizzati a
controllare l’identità, a differenza dei simboli di prestigio e di stigma che sono molto più
facilmente accessibili al grande pubblico.
Poiché l’informazione relativa all’identità personale è spesso di un genere tale da poter essere
documentata in modo sicuro, può essere utilizzata come tutela nei confronti di rappresentazioni
ingannevoli dell’identità sociale. Così, ai militari può essere richiesto di portare con sé dei
documenti di identità che confermino le “dichiarazioni” della loro uniforme e dei loro gradi, che da
sole potrebbero anche essere false. La tessera personale dello studente garantisce al bibliotecario
che questi ha il diritto di prendere in prestito i libri della biblioteca o di accedere agli scaffali, allo
stesso modo in cui la patente attesta che il titolare ha l’età legale per consumare alcolici in locali
pubblici. Ancora, le carte di credito testimoniano l’identità personale ad un livello superficiale,
utile per decidere se concedere o no credito, ma attestano anche l’appartenenza del proprietario
ad una certa categoria sociale, che è a sua volta una garanzia per la concessione del credito. Un
uomo dimostra che è il dottor Hiram Smith dimostrando che è un medico ed è forse assai più raro
che mostri di essere un medico per dimostrare che è Hiram Smith. Analogamente, è possibile che
coloro che non vengono accettati da alcuni alberghi per il motivo della loro appartenenza etnica,
siano stati identificati come membri di un’etnia proprio attraverso i loro nomi, anche in questo
caso un frammento della biografia di una persona viene utilizzato per un’attribuzione categoriale.
In generale, dunque, la biografia agganciata all’identità documentata può porre precise limitazioni
al modo in cui un individuo può scegliere di presentare se stesso; è il caso di alcuni ex pazienti
psichiatrici inglesi che per l’agenzia di collocamento non possono rientrare nella categoria di
normali candidati al lavoro perché il loro libretto contributivo è privo dei bollini [dei versamenti
del periodo in cui non hanno lavorato perché ricoverati]. Potrei aggiungere che la messa in scena
dell’occultamento della propria identità personale può comportare implicazioni attinenti alla
categoria sociale: gli occhiali da sole che i personaggi famosi utilizzano per occultare la propria
15
Goffman fa qui riferimento alla differenza di situazione interazionale che c’è tra l’ambiguità (anche in buona fede,
che può svilupparsi ed essere giocata nell’interazione) tra due persone che si incontrano in un luogo di lavoro – senza
che abbiano la targhetta - e uno crede, sbagliandosi, che l’altro sia Y, che lavora nell’ufficio 1, ma questi non avverte il
primo dello sbaglio e risponde in modo ambiguo per far proseguire l’interazione (ad es poter ricavare qualche
informazione che gli interessa), anche se non dice mai la menzogna di essere proprio quello che l’altro pensa che sia.
Questa situazione di ambiguità, di errore in buona fede, non ha più le condizioni di verificarsi se i dipendenti di
quell’impresa hanno tutti la targhetta identificativa. Si potrebbe verificare, ma solo con un comportamento molto più
grave di quello dell’equivoco, cioè se uno si mette la targhetta di un altro, o addirittura ne fa una falsa. L’esempio del
modo di riconoscere gli ebrei (dal profilo, dal modo di comportarsi, dalla voce) è chiaramente un caso diverso, molto
più vago e meno efficace, ed è apposta messo a contrasto con il riconoscimento fatto con le targhette, molto più
standardizzato e sicuro. Nel caso degli ebrei l’identificazione avviene per mezzo di simboli di identità sociale (voce che
deve essere in un certo modo stereotipato, viso che deve essere in un certo modo stereotipato, ecc), nel caso delle
targhette l’identificazione non è fatta per mezzo di simboli, ma di documenti, infatti si tratta di identità personale.
29
m. bontempi Appunti su Stigma
identità personale probabilmente mostrano, o lo hanno fatto in passato, una categorizzazione
sociale da parte di qualcuno che non vuole essere riconosciuto, ma diversamente sarebbe
riconosciuto.
Una volta compresa la differenza tra simboli sociali e documenti di identità, si può procedere oltre
e considerare la peculiare posizione delle dichiarazioni orali che attestano in modo linguistico, e
non semplicemente visibile, dell’identità sociale e personale. Laddove un individuo abbia una
documentazione inadeguata per ricevere un sevizio desiderato, tenterà di far ricorso ad attestati
orali in sostituzione di questa. I gruppi e le società differiscono, naturalmente, nelle loro
valutazioni su quanto le attestazioni di identità siano appropriate in situazioni sociali grosso modo
equivalenti. Così, uno scrittore indiano lascia intendere: [vedere citazione sul libro a p. 80]» (pp.
78-80, traduzione modificata).
Biografia
Goffman ha mostrato come l’identità, personale e sociale, sia costituita da moltissimi aspetti e ha
mostrato come un fondamentale elemento della definizione stessa dell’identità di una persona
consista nel come l’identità viene ordinata, cioè come i fatti biografici relativi ad un individuo siano
assemblati nella testa delle persone che lo conoscono, o siano assemblati in archivi o in
documenti. In altre parole, Goffman, ci chiede di fare una distinzione tra in fatti biografici di una
persona e la persona stessa. Questo perché i fatti biografici di un individuo sono messi in fila, sono
ordinati in tanti modi e con tecniche differenti, da molte persone e con molti scopi, sia di tipo
personale, che sociale, che organizzativo. Da questo punto di vista, l’individuo stesso, il
“proprietario” dei fatti biografici, è uno dei possibili ordinatori di quei fatti biografici, è uno dei
tanti, ma, poiché riguardano lui stesso ha un ruolo speciale nel farlo. Quando l’individuo mette in
ordine i propri fatti biografici ecco che si dà una forma biografica, si determina come oggetto di
biografia, si stabilizza in quanto oggetto di ordine biografico. Qualunque registrazione, qualunque
documentazione di tipo biografico venga prodotta dall’individuo sui propri fatti biografici quella è
una stabilizzazione dell’identità in una forma biografica. Una stabilizzazione sempre temporanea e
modificabile. L’esempio più lampante di questa produzione biografica è il curriculum, ma anche un
account di facebook o di altri social network, un diario personale, una raccolta di foto ecc.
I fatti biografici, che sono ovviamente fatti sociali, devono quindi essere pensati come un
materiale che viene lavorato da tutti coloro che conoscono qualcosa di una persona. Con
l’espressione “viene lavorato” intendo che viene messo in un certo ordine, i fatti sociali di una
persona vengono connessi tra loro da chi se ne fa un’idea sulla base di quello che sa di quella
persona. Dunque, due aspetti importanti della produzione di biografia come identità personale
sono: 1) raccogliere i fatti biografici, e dunque selezionare elementi di informazione e di
conoscenza; 2) mettere in connessione i fatti biografici. I fatti biografici possono essere connessi
tra loro in molti modi: chi conosce il fatto x non è detto che conosca anche y, ma può conoscere z.
Nessuno ha una conoscenza totale dei fatti biografici di un altro, ma tutti nelle nostre ricostruzioni
degli altri impieghiamo il criterio della coerenza della ricostruzione. Questa necessità che
l’ordinamento dei fatti biografici di una persona sia coerente è più importante del tipo di vita di cui
questi fatti possono dare testimonianza. Dice Goffman: «non importa se la persona è un
mascalzone, non importa quanto la sua esistenza sia stata falsa, segreta o frammentaria e ritmata
sulla base di improvvisi arresti, partenze e rovesci: i fatti riguardanti la sua attività non possono
essere contraddittori o sconnessi uno con l’altro. Si osservi che questa unicità omnicomprensiva
della linea di vita [cioè, “omnicomprensiva” = il fatto che il contenuto dei fatti biografici della vita
di tizio può essere di qualsiasi tipo e fatti; “unicità” = questa varietà dei fatti biografici deve alla
fine rendere possibile a chi identifica personalmente tizio una costruzione coerente] è in netto
30
m. bontempi Appunti su Stigma
contrasto con la molteplicità dei sé che possiamo trovare nell’individuo quando lo si consideri dalla
prospettiva del ruolo sociale» (p.81, traduzione modificata). Come abbiamo visto studiando il
ruolo sociale, il fatto che una persona abbia diversi ruoli non è visto come un problema di
coerenza della persona, semmai può essere visto come conflitto tra ruoli o intraruolo, ma il
detentore del ruolo non è considerato e non si considera in contraddizione quando svolge un ruolo
e poi ne svolge un altro. Invece, nella connessione dei fatti biografici si ricerca la coerenza,
sempre. Goffman parla di coesione informativa, cioè in quale misura coloro che conoscono alcuni
fatti sociali importanti relativi ad un individuo ne conoscono molti altri?
Goffman sottolinea poi una differenza importante tra identità sociale e identità personale:
«le norme relative all’identità sociale riguardano quel tipo di repertori di ruolo o di profili di ruolo
che riteniamo ammissibile che qualunque individuo possa sostenere (…) le norme relative
all’identità personale non riguardano il ventaglio delle combinazioni ammissibili delle
caratteristiche sociali, ma piuttosto il tipo di controllo dell’informazione che l’individuo può
adeguatamente praticare» (p.82, traduzione modificata, corsivo nel testo).
Ad esempio: un passato burrascoso di un individuo riguarda la sua identità sociale perché è
relativo alle aspettative e ai ruoli che le persone possono avere su di lui rispetto a fatti sociali del
suo passato. Si potebbe parlare in questo caso della logica della connotazione.
Invece, il modo in cui lo stesso individuo gestisce l’informazione relativa a quel passato riguarda
l’identificazione personale, cioè a chi dice cosa e a chi non dice e cosa, se fa il passing, dove e a
che livello. Si potrebbe parlare in questo caso della logica della denotazione.
L’avere un passato strano rispetto all’identità sociale che una persona ha nel presente è una
difformità che può essere vista come una cosa sconveniente, ma il fatto che quella persona viva
una vita agli occhi di coloro che ignorano il suo passato e che lei non li informi, può essere una
sconvenienza di un tipo molto diverso dalla prima. Nel primo caso si ha a che fare con le regole
relative all’identità sociale, nel secondo caso con le regole relative all’identità personale. Nel
secondo caso, il fatto che non dica del suo passato alle persone del presente può farla identificare
personalmente come una persona bugiarda e quindi non affidabile anche su altri aspetti. Nel
primo caso - cioè non il fatto di non dire di quel passato, ma il fatto di avere quel passato – la
persona che ha quel passato sa che può essere giudicato sconveniente dagli altri perché quel
passato ha a che fare con l’attribuzione della persona a categorie sociali, a ruoli e quindi anche a
giudizi di stigma.
Al termine del paragrafo Goffman tratta del “peso” che l’identità sociale può avere sull’identità
personale e viceversa. In primo luogo l’identificazione personale si serve anche di aspetti
dell’identità sociale e di ciò che a questi è connesso, perché l’identificazione personale di un
individuo ci offre uno strumento per ricordare al fine di organizzare e consolidare l’informazione
sulla sua identità sociale (ad es. “quando incontro marco bontempi incontro il mio prof di
sociologia” dice lo studente di servizio sociale, l’identificazione personale (marco bontempi) si
serve anche dell’identificazione sociale (il prof come ruolo e tutto ciò che è attaccato al ruolo di
prof come categoria (aspettative, prestigio, ecc). In questo caso l’identificazione personale può
modificare in modo sottile, diciamo “colorare”, le caratteristiche sociali (il modo in cui io
percepisco mb fare il prof “colora” l’attributo sociale di prof rendendolo più legato all’identità
personale di mb che sto elaborando nel momento in cui lo incontro)
Il rapporto tra identità sociale e identità personale può anche essere visto nel senso opposto, cioè
che l’identità sociale può condizionare l’identità personale. Goffman fa l’esempio di una persona
che tiene segreto un attributo che sa sarebbe visto come stigmatizzante non solo agli estranei, ma
31
m. bontempi Appunti su Stigma
anche dai suoi amici. Qualora gli amici lo venissero a sapere, la scoperta non avrebbe impatto solo
sulla sua identità sociale cioè nel giudizio sociale applicato a tutti coloro che fanno quel genere di
cose, ma anche, per i suoi amici, sulla sua identità personale, cioè lui sarebbe giudicato
personalmente uno inaffidabile e bugiardo, non solo su quello che ha taciuto (lo stigma), ma anche
per altre cose, anche in futuro. In questo caso il giudizio è personale e riguarda le sue specifiche
caratteristiche di comportamento anche in futuro: è quello che si dice avere una reputazione
rovinata. C’è dunque una importante differenza tra l’essere stigmatizzati e l’avere una reputazione
rovinata. Senza dubbio la seconda è più difficile da gestire, per questo, osserva Goffman, noi siamo
più inclini a comportarci in modo improprio quando siamo lontani dalle persone intime o anche
soltanto abbiamo una maschera che ci “autorizza” a questa distanza.
Gli altri biografici (Biographical Others, la traduzione del libro “Biografia degli altri” è fuorviante)
«L’identità personale, come anche l’identità sociale, divide l’immagine che l’individuo ha degli altri
che sono in relazione con lui. La divisione è in primo luogo tra chi sa e chi non sa. “Quelli che
sanno” è chi ha un’identificazione personale dell’individuo, basta che lo vedano o sentano il suo
nome per richiamare questa informazione. “Quelli che non sanno” è chi considera l’individuo un
estraneo totale, uno di cui non hanno abbozzato nessuna biografia personale.
L’individuo di cui gli altri sanno può sapere o non sapere che essi sanno di lui; questi, a loro volta,
possono o meno sapere che lui sa o non sa che loro sanno di lui. Inoltre, nel momento in cui
suppone che gli altri non sappiano di lui, non può tuttavia esserne mai sicuro. Ancora, se lui sa che
loro sanno di lui, deve almeno un po’ essere informato su di loro, ma se lui non sa che loro sanno
di lui, allora può essere o anche non essere informato su di loro rispetto ad argomenti diversi
[dallo stigma].
Tutto questo può essere importante indipendentemente da quanto è o non è conosciuto, dal
momento che il problema che l’individuo ha nel gestire la propria identità sociale e personale varia
moltissimo a seconda che quelli che sono in sua presenza sappiano di lui oppure no; e, se sanno di
lui, se lui è o no informato del fatto che loro sanno di lui.
Quando l’individuo è tra persone per le quali è un perfetto estraneo ed è significativo solo nei
termini della sua identità sociale evidente, la sua grande incertezza è se queste persone comincino
o no a costruire un’identificazione personale di lui (almeno un ricordo di averlo visto comportarsi
in un certo modo in quella situazione), oppure se evitino del tutto di accumulare e organizzare ciò
che sanno di lui intorno ad una identificazione personale. Va sottolineato che mentre le strade
pubbliche delle grandi città offrono contesti anonimi per le persone ammodo, la condizione di
anonimità di cui stiamo parlando è relativa alla biografia; è difficile che una cosa come la totale
anonimità possa essere relativa all’identità sociale. Si può aggiungere che ogni volta che un
individuo entra a far parte di un’organizzazione o in una comunità si produce un notevole
cambiamento nella struttura di ciò che si sa su di lui – nella ripartizione e nelle caratteristiche di
questo sapere – e c’è dunque un mutamento nelle possibilità di controllo dell’informazione. Per
esempio, tutti gli ex pazienti psichiatrici devono affrontare il problema di aver fatto in ospedale
delle conoscenze che si trovano a dover salutare una volta fuori, cosa che può portare una terza
persona a chiedere: “Chi era quello?”. Più importante, forse, è che deve affrontare il “non sapere
che si sa di lui”, cioè persone che possono identificarlo personalmente e che sanno - mentre lui
non sa che loro sanno – che lui è “davvero” un ex paziente psichiatrico.
32
m. bontempi Appunti su Stigma
Con l’espressione identificazione cognitiva intendo l’atto percettivo di “collocare” un individuo, sia
come detentore di una specifica identità sociale, che come detentore di una specifica identità
personale. L’identificazione delle identità sociali è una ben nota funzione di portierato di molti
camerieri. È meno noto che l’identificazione di identità personali è una funzione formale in alcune
organizzazioni. Nelle banche, per esempio, ai cassieri può essere richiesto di acquisire questo
genere di capacità nei confronti dei clienti. Negli ambienti criminali inglesi c’è, pare, un ruolo
chiamato “l’uomo all’angolo”, quello che lo fa occupa un posto in strada, vicino all’ingresso di
un’attività illecita e, poiché conosce l’identità personale di quasi tutti quelli che passano,
all’avvicinarsi di un tipo sospetto è in grado di dare l’allarme.
All’interno della cerchia di persone che hanno qualche informazione biografica su un individuo,
che sanno di lui, ci sarà una cerchia più piccola di coloro che sono “socialmente” in una relazione
di conoscenza con lui, sia in modo superficiale o intimo, che su un piano di parità o meno. Si può
dire che non solo sanno “di” o “su” lui, ma lo conoscono anche “personalmente”. Avranno il diritto
e l’obbligo di scambiare con lui un cenno con il capo, un saluto o due chiacchiere, questo
costituisce l’identificazione sociale. Naturalmente, ci saranno occasioni nelle quali un individuo
estende l’identificazione sociale ad un individuo che non conosce personalmente, o la riceve da un
individuo che non conosce personalmente. In ogni caso, dovrebbe essere chiaro che
l’identificazione cognitiva è semplicemente un atto di percezione, mentre l’identificazione sociale
è il ruolo di un individuo in un rituale comunicativo.
Tanto l’essere in una relazione di conoscenza sociale o l’essere in una relazione di conoscenza
personale comportano che lo si è reciprocamente, sebbene, naturalmente, una o entrambe le
persone che sono in una relazione di conoscenza possano momentaneamente dimenticarsi di
essere in una relazione di conoscenza, proprio come una o entrambe possono essere consapevoli
di essere in relazione, ma momentaneamente dimenticare quasi tutto sull’identità personale
dell’altro.
Riguardo a chi fa una vita da paese, che sia in piccole città o in grandi, saranno in pochi a
conoscerlo come semplice conoscenza; quelli che sanno qualcosa di lui, facilmente lo
conosceranno di persona. Al contrario, con il termine “fama” si fa riferimento alla possibilità che la
cerchia di persone che sanno di un certo individuo, in particolar modo in relazione ad uno speciale
risultato ottenuto o a un qualche tipo di proprietà, possa diventare molto ampia e allo stesso
tempo molto più ampia della cerchia di coloro che lo conoscono personalmente.
Il modo di comportarsi riconosciuto a un individuo sulla base della sua identità sociale è spesso
ammesso insieme ad un profondo rispetto e indulgenza quando si tratta di una persona famosa
per la sua identità personale. Come un provinciale, farà sempre acquisti dove è conosciuto. Il
semplice fatto di essere identificato cognitivamente nei luoghi pubblici da parte di estranei può
anche essere fonte di soddisfazione, come lasciava capire un giovane attore: “quando cominciai ad
essere un po’ noto, in qualche giornata in cui mi sentivo un po’ giù, curiosamente mi dicevo: “Beh,
credo che uscirò per fare una passeggiata ed essere riconosciuto”.
Questo tipo minore di apprezzamento generalizzato presumibilmente ci dà una ragione del perché
la fama è ricercata; ci fa capire anche perché dalla fama, una volta raggiunta, talvolta ci si
nasconde. La questione non consiste solo nel fastidio di essere inseguiti dai giornalisti, dai
cacciatori di autografi e dalle persone che si voltano, ma anche che una gamma sempre più
numerosa di azioni vengono inglobate nel racconto biografico come eventi che fanno notizia. Per
una persona famosa, “andarsene” in un posto dove possa “essere se stesso” può significare di
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m. bontempi Appunti su Stigma
dover trovare una collettività nella quale non c’è nessuna cognizione biografica di lui, qui il suo
comportamento, riflettendosi soltanto sulla sua identità sociale, potrebbe non interessare a
nessuno16. Viceversa, un aspetto dell’essere “alla ribalta” è comportarsi in un modo volto a
controllarne le ripercussioni sulla propria costruzione biografica, però facendo questo in quelle che
di solito sono aree della vita estranee alla produzione di materiale biografico.
Nella vita quotidiana di una persona media ci saranno lunghi periodi di tempo nei quali i fatti che
la riguardano non saranno degni di essere ricordati per nessuno, tecnicamente facenti parte della
sua biografia, ma non in senso produttivo. Soltanto un serio incidente personale o l’essere
testimone di un omicidio produrranno, durante questi tempi vuoti, istanti che avranno un posto
nei racconti che lei stessa o altri faranno del suo passato. (Un alibi, in realtà, è un frammento di
biografia esibito, che normalmente non sarebbe divenuto affatto parte degli eventi biografici
significativi di qualcuno). D’altra parte, le persone in vista che arrivano ad avere una biografia
scritta delle dimensioni del libro - come i membri delle famiglie reali, dei quali fin dalla nascita si sa
che avranno questa sorte – scopriranno che sono pochi i momenti vissuti della loro vita che
possono restare vuoti, cioè eventi non significativi della loro biografia.
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Il “comportamento si riflette sull’identità sociale” nel senso che le singole azioni che la persona compie in un
contesto nel quale è un perfetto sconosciuto finiscono per riflettersi sulla sua definizione sociale compiuta dagli altri.
Questo è ciò che accade a chiunque, non c’è alcune relaziona con la fama. Invece nel caso di una persona che sia in un
posto dove la sua fama è nota, il suo comportamento sarà interessante anche per ragioni di fama e non solo per la
definizione della sua identità sociale. Ad esempio, se nel luogo dove nessuno sa che è famoso si mostra gentile con
qualcuno nella coda al supermercato o se si mostra rozzo all’ufficio postale, è in forza di quelle azioni che sarà
identificato socialmente come gentile o rozzo, e il suo comportamento non sarà interessante se non per le azioni
concrete che compie, come per chiunque, e non perché è famoso, dato che in quel posto nessuno sa della sua fama.
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Traduzioni del passing
Il titolo del paragrafo “il passaggio” a p. 92 va inteso nel senso di “cercare di passare per normali”
e così per tutto il paragrafo dove viene tradotto “passare” bisogna intendere “cercare di passare
per normali”. Il termine “passing” viene usato in inglese anche come termine specifico della
sociologia con il significato di “cercare di passare per membro di” una
classe/etnia/età/sesso/religione differente da quella a cui si appartiene, di solito quella
classe/etnia/età/sesso/religione che è associata all’idea di maggior prestigio sociale, ma che può
essere associata anche all’idea socialmente condivisa di “normalità”, e quest’ultimo è il caso più
frequente nello studio dello stigma. Quindi nel testo di Goffman passing è da intendersi sia come
“farsi passare per normali”, ma anche come “cercare di passare inosservati”. La persona con
stigma che fa il passing, in inglese si chiama passer.
Per maggiore chiarezza dei passi del paragrafo nei quali passing viene tradotto male, metto di
seguito le frasi ritradotte in modo appropriato:
p. 93 a 10 righe dalla fine: «Allo stesso modo, può capitare che neri con pelle molto scura che non
hanno mai cercato di passare inosservati in pubblico, nello scrivere lettere o nel parlare al
telefono, diano un’immagine di sé che più tardi potrebbe essere motivo di discredito. Date queste
diverse possibilità che si collocano tra i due estremi del segreto totale da un lato, e della totale
informazione dall’altro, sembrerebbe che i problemi che si trova ad affrontare chi compie uno
sforzo preciso e determinato per farsi passare per normale siano problemi che un gran numero di
persone si trovano, prima o poi, a dover affrontare. Poiché l’essere considerati normali costituisce
una grossa ricompensa, quasi tutti coloro che si trovano in condizione di farsi passare per normali
cercheranno di farlo».
(nella stessa pagina le ultime parole della frase sull’esempio del cieco che di notte entra in taxi
aiutato da un amico, non sono “può essere preso lì per lì come veggente”, ma vanno tradotte:
«può dare per un momento l’impressione di vederci»).
p. 94 rigo 14: «Infine, quando lo stigma si riferisce a parti del corpo che debbono essere
normalmente nascoste quando la persona si presenta in pubblico, in quel caso, sia che si voglia o
no, passare per normali è inevitabile»
p.94 rigo 24: «Quando un individuo, di fatto o intenzionalmente, passa per normale, è proprio ciò
che è visibile di lui che può diventare motivo di discredito, anche per coloro che lo identificano
socialmente solo in base a ciò che, nell’interazione, è accessibile anche ad un estraneo»
p.94 rigo 32: «A parte il fatto che il comportamento messo in atto in un certo momento da un
individuo può screditare le sue pretese di quel momento; nel cercare di passare inosservati una
possibilità sempre presente è che chi tenta di farlo potrà essere scoperto da coloro che sono in
condizione di identificarlo personalmente e che comprendono nella loro storia biografica di lui dati
di fatto non visibili che sono incompatibili con le sue pretese di quel momento. Accade allora, sia
detto incidentalmente, che l’identificazione personale metta l’identità sociale energicamente sotto
pressione»
p.96 rigo 11: «È in questo caso che si vede che chi tenta di passare per normale conduce una
doppia vita, e che la coerenza informativa della biografia può permettere differenti maniere di
vivere una vita doppia»
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p.98 penultimo rigo: «Nella letteratura sul tema troviamo alcune indicazioni su un ciclo naturale
del passing [cercare di passare per normali/inosservati]. Il ciclo può iniziare con un passing
involontario del quale il passer [lo stigmatizzato che passa per normale] può non capire mai che lo
sta facendo; si passa poi alla fase nella quale il passer si rende conto che sta facendo
inintenzionalmente il passing solo mentre lo sta facendo; da qui si sposta alla fase del passing
compiuto “per divertimento”; poi al passing compiuto durante i momenti non routinari degli
incontri sociali, come le vacanze e i viaggi; poi al passing compiuto durante le occasioni di routine
quotidiana, come nel posto di lavoro o nei negozi; infine, la “scomparsa”, cioè il fare il passing in
modo completo in tutti settori della vita, quando il segreto è conosciuto solo dal passer stesso. Si
può osservare che quando si mette in atto un passing completo, l’individuo organizza, talvolta in
modo consapevole, il proprio rito di passaggio, trasferendosi in un’altra città, rifugiandosi per
alcuni giorni in una stanza con abiti e cosmetici che ha portato con sé e poi, come una farfalla,
spuntare per provare le nuove ali alla moda. In ogni fase, naturalmente, il ciclo può interrompersi
e tornare al punto di partenza»
p.99 rigo 23: «è almeno possibile cercare alcuni punti fermi nella comprensione del passing;
certamente si può notare che l’estensione del passing può variare, dal passing involontario
all’estremo del classico passing totale»
p. 103 rigo 6: «Tale analisi in parte si sovrapporrà con il buon senso popolare; i racconti di
ammonizione sulle possibilità di passare inosservati sono parte della moralità che impieghiamo per
tenere le persone nel proprio posto.
Colui che cerca di passare per normale scopre che certi bisogni che non aveva previsto provocano
la rivelazione di informazioni stigmatizzanti su di lui, come quando la moglie….»
p. 103, ultimo rigo: «Inoltre, chi cerca di passare per normale si espone ad imparare ciò che gli altri
pensano “veramente” di persone come lui»
p. 105, rigo 3: «Infine, colui che cerca di passare per normale si può trovare a dover affrontare un
confronto con persone che hanno appena appreso del suo segreto e intendono contestarlo per il
suo essersi comportato in modo falso»
p. 105, dopo la prima citazione: «la presenza di compagni di sofferenza (o il saggio) introduce una
specifica serie di possibilità sul cercare di passare per normali, poiché proprio le stesse tecniche
impiegate per nascondere gli stigmi possono rivelare la verità a qualcuno che ha familiarità con i
trucchi impiegati dal passer, dato che basta una sola persona (o qualcuno vicino ad essa) per
essere riconosciuto»
p. 106, ultimo rigo: «il fenomeno di cercare di passare per normali ha sempre sollevato una serie
di problemi sullo stato psichico di colui che ci si impegna»
p. 106 dopo la citazione: «Penso che uno studio attento di coloro che cercano di passare per
normali potrebbe mostrare che non si trova sempre questa ansia e che le nostre concezioni
popolari della natura umana possono essere seriamente fuorvianti.
Secondariamente, si ritiene spesso, e fondatamente, che colui che cerca di passare per normale si
senta dilaniato tra due affetti. Si sentirà un po’ alienato rispetto al suo nuovo “gruppo”, poiché
difficilmente sarà in grado di identificarsi del tutto con il loro atteggiamento rispetto alla
condizione nella quale lui sa potrebbe essere presentato»
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p. 108, dopo la prima citazione: «In terzo luogo, si direbbe ovvio, e in apparenza giustamente, che
colui che cerca di passare per normale dovrà essere consapevole di quegli aspetti della situazione
sociale che gli altri trattano in modo inconsapevole. Ciò che per i normali sono banali routines
possono diventare problemi di gestione per lo screditabile»
p. 111, secondo rigo dopo la citazione: «un bambino con uno stigma può cercare di passare per
normale in un modo particolare»
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