XI Settimana della lingua italiana

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XI Settimana della lingua italiana
XI Settimana della lingua italiana - Buon Compleanno Italia !
Conferenza sulla lingua italiana a 150 anni dall’Unità d’Italia
Casa Italia, San Josè de Costa Rica 31 ottobre 2011
Intervento del Professor Andrea Mian
150 anni di Unità nazionale: una breve riflessione sulla lingua italiana
1.Introduzione. La metafora dell’iceberg
Quando uno studente o uno straniero mi chiede di parlargli della lingua italiana, molto
spesso ricorro all’ausilio di metafore perché trovo che siano degli strumenti estremamente
efficaci per trasmettere un’idea con una forte carica di espressività e che tocchino
profondamente le corde dell’immaginario.
Oggi facendo una riflessione sulla lingua italiana a 150 anni dall’unità d’Italia mi viene in
mente la metafora dell’iceberg e dell’osservatore che molto spesso propongo per spiegare
aspetti della lingua e della cultura.
Oggigiorno nella nostra lingua usiamo questa parola di origine neerlandese ma esistono
parole autoctone: in passato era detto borgognone e ghiaccione, addirittura troviamo isbergo,
adattamento proposto dall'illustre linguista Bruno Migliorini.
Un iceberg è una montagna di ghiaccio che galleggia nel mare la cui parte emergente si
chiama punta mentre la parte sommersa ne costituisce un buon 90%. Lo spettatore che
osserva la punta, di per sè ammirevole e imponente come una montagna, della parte
sommersa non riesce a distinguerne né l’entità né la forma. Anzi, probabilmente, di primo
acchito identificherà l’idea di montagna di ghiaccio solamente con quella parte emergente.
Bene, innanzitutto se dovessi pensare alla lingua italiana in questi ultimi 150 anni, sarebbe
come osservare da una banchisa quel picco scintillante che svetta dal mare, la parte visibile
di un processo più che millenario. È un po’ come contemplare la parte finale di un
percorso la cui ultima fase ci abbia riservato una sorprendente accelerazione verso una
lingua unitaria, usufruibile dai più ampi strati degli italiani, dalla quasi totalità della
popolazione.
La parte sommersa dell’iceberg, occulta ai nostri occhi, il tortuoso cammino lungo un paio
di millenni che ha portato allo stato attuale della lingua, le sue dinamiche interne, le sue
stratificazioni, la sua dicotomia con i dialetti e la cultura/le culture delle genti italiche che
la lingua esprime. Celebrazioni del 150º anniversario dell’Unità nazionale
2. Nascita di uno Stato, nascita di una lingua. Due punti separati nell’
iceberg.
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Rispetto all’iceberg, collocherei temporalmente la nascita dell’Unità alla base della parte
emersa, in prossimità della superficie del mare.
Il 1861 viene indicato dagli storici come l’anno di nascita dello Stato italiano. È l’anno dell’
unificazione italiana e del suo territorio nazionale, anche se il processo storico di
unificazione non è ancora totalmente portato a termine.
Cito testualmente le parole che si possono leggere nel documento della legge n. 4671 del
Regno di Sardegna, promulgata il 17 marzo 1861 e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 68
del 18 marzo 1861:
«[…] Il Senato e la Camera dei Deputati hanno approvato; […] noi abbiamo sanzionato e
promulghiamo quanto segue: Articolo unico: Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi
Successori il titolo di Re d'Italia. Ordiniamo che la presente, munita del Sigillo dello Stato, sia
inserita nella raccolta degli atti del Governo, mandando a chiunque spetti di osservarla e di farla
osservare come legge dello Stato. Da Torino addì 17 marzo 1861 […]».
Ci troviamo davanti all’ ’atto anagrafico’ della nascita dello stato Italiano.
Dovessimo poi fissare un punto nella montagna per individuare la nascita della lingua
italiana, dovremmo scendere in fondo, nel nocciolo della parte sommersa, molto al di sotto
della superficie del mare, ad una notevole distanza dal punto individuato alla base della
punta.
Andare alla ricerca di un ‘’atto di nascita’’ della lingua italiana è un’operazione che
implica un certo grado di approssimazione e soprattutto, si giustifica in virtù del forte
valore simbolico e solo simbolico che vorrebbe significare.
Con certa approssimazione, dicevamo, riusciamo ad individuare un punto in cui
collocarne la sua nascita simbolica, è il marzo dell’anno 960 d.C.
In quest’epoca nella penisola l’affrancamento dei volgari dal latino è un processo
compiuto e consolidato ormai da secoli. Se siamo ancora ben lungi dal parlare di ‘’lingua
italiana’’, è vero che ci troviamo davanti ad un percorso avviato ‘’verso’’ una lingua
italiana.
Negli atti notarili dei placiti Capuani, siamo addirittura in presenza, per la prima volta, di
una frase in volgare indicante un giuramento formulato da un giudice ai testimoni.
Nell’anno 960 d.C., seconda metà del mese di marzo, a Capua, Rodelgrimo, un signore di
Aquino, e i monaci di Montecassino compaiono davanti al giudice Arechisi per una
disputa sulla proprietà di un terreno, un bene di tre monasteri che dipendevano da
Montecassino.
In virtù di una legge dell’epoca che permetteva di assegnare una proprietà fondiaria a
colui che dimostrasse di averne gestito i diritti di possesso per trent’anni, l’abate che
rappresentava gli interessi del monastero condusse davanti al giudice dei testimoni che
dichiararono:
«Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti. » (So
che quelle terre, entro quei confini di cui si parla, li ha posseduti per più di trent’ anni
l’abbazia di san Benedetto)
Dapprima il giudice comunicò alle parti il testo della formula, in seguito tre testimoni la
pronunciarono separatamente. Dal momento che i testimoni erano tutti chierici o notai si
presume che sarebbero stati in grado di pronunciare la formula in latino e se questo non è
stato, evidentemente costoro avevano ritenuto opportuno far conoscere il contenuto a tutti
quelli che erano presenti al giudizio. Ci troviamo davanti ad un atto pubblico che risale,
quindi, a più di mille anni fa.
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Non si tratta, beninteso, del primo documento in volgare regionale poiché ce ne sono di
altri di anteriori e di contemporanei a questo di notevole interesse storico, filologico
nonché simbolico nel senso che stiamo trattando (cito tra gli altri l’ Iscrizione di San
Clemente del XI sec. d.C. e l’ Indovinello di Verona VIII sec. d.C.). I placiti però, per quel
carattere ufficiale, legale e burocratico che posseggono, costituiscono una sorta di trait d’
union, un punto d’unione con il documento della legge n. 4671 del Regno di Sardegna del
1861.
Se Giulio Ferroni, storico della letteratura, affermò che «Il primo vero documento ufficiale
della lingua italiana è il placito capuano» (in «Storia della letteratura italiana. Volume primo –
Dalle origini al quattrocento». Einaudi 1991), in questa sede vorremmo sottolineare che i
placiti costituiscono un inizio simbolico (ed enfatizzo quel ‘simbolico’) della lingua
italiana.
Nel nostro iceberg potremmo osservare i due punti di inizio, quello dello Stato, alla base
della piramide emersa, e quello della Lingua, giù in profondità, nel nocciolo della massa
sommersa, lontani e separati tra essi. Sono due punti che indicano la nascita di due
processi nati in momenti storicamente distinti e lontani, i cui percorsi appaiono lunghi,
lenti, tortuosi, a volte oscuri e contraddittori, i quali ad un certo punto hanno trovato una
comune confluenza per acquisire infine un cammino, una direzione ed una forza comuni.
Nell’anno in cui lo stato italiano celebra i suoi 150 di vita, la lingua italiana di primavere
ne potrebbe festeggiare perlomeno 1050.
3. La lingua italiana dal 1861 al 2011. La rivoluzione dell’italiano.
Consideriamo ora la parte emersa dell’ iceberg e analizziamone la composizione.
Soffermandoci sui dati statistici che riguardano la lingua degli italiani nel 1861 ad
avvenuta unificazione, secondo Giacomo Devoto, glottologo e linguista italiano tra i
massimi esponenti della disciplina in Italia nel Novecento, la percentuale di italiani che
erano capaci di esprimersi e comunicare in italiano era il 2,5% mentre il 97,5% di
dialettofoni esclusivi. Solamente un esile strato istruito della popolazione quindi era in
possesso della lingua di Dante mentre più del 90% degli italiani era confinato all’uso
esclusivo di uno dei propri dialetti e in ultima analisi ad uno stato di incomunicabilità
quando la comunicazione non può avvenire attraverso il proprio dialetto. Il linguista
Tullio De Mauro la definì come una situazione di vuoto oligarchico.
Subito dopo la proclamazione ufficiale del Regno d'Italia, il politico e patriota Massimo
d’Azelio che nei limiti della riunificazione individuava soprattutto questo peculiare
aspetto linguistico dovuto a secoli di frazionamento politico, ebbe modo di pronunciare il
celeberrimo: «Abbiamo fatto l'Italia, ora dobbiamo fare gli italiani».
Ottantacinque anni dopo, il 18 giugno 1946, a seguito dei risultati del referendum
istituzionale del 2 giugno precedente, indetto per determinare la forma dello Stato
all’indomani della seconda guerra mondiale, nacque la Repubblica Italiana. Da indagini
statistiche effettuate a metà degli anni Cinquanta emerge che l’uso dell’italiano era
appannaggio di un terzo della popolazione mentre ne erano preclusi circa i due terzi,
relegati nella condizione di dialettofonia.
Il linguista Graziadio Isaia Ascoli e il filosofo Benedetto Croce rimarcarono che il possesso
della una lingua comune all’interno del paese è stato un progresso tangibile compiuto
dalla popolazione dopo l’ unità politica.
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Arrivando ai giorni nostri osserviamo che dalla massiccia percentuale di dialettofoni
esclusivi del 1861, (aprossimatamente un 95%), siamo passati alla percentuale del 64%
degli anni Cinquanta e da questa all’8% di ancora esclusi dall’uso attivo dell’italiano in
questi ultimi anni.
Citando fonti dell’ ISTAT attualmente il 44% dei cittadini usa prevalentemente l’italiano e
un 46% usa l’italiano in alternativa ad uno dei dialetti parlati nel territorio nazionale.
Rilevamenti statistici condotti dalla Doxa e dall’Istat confermano di anno in anno la
tendenza espansiva dell’italiano, che si va stabilizzando in tutta la penisola a scapito dei
dialetti. Assistiamo all’abbandono del dialetto come codice esclusivo, nei rapporti
soprattutto extrafamiliari. È vero che in certe aree della penisola troviamo livelli sempre
alti di dialettofonia, per esempio in Friuli, nel Veneto, e al Sud, in Campania, Calabria,
Sicilia, ma l’eccezione conferma la regola: l’uso del dialetto cala giorno dopo giorno.
Esistono ad esempio gli «alternanti», che sono circa il 50% degli individui, dotati di una
buon versatilità o mobilità linguistica tra italiano e dialetto, quelli che di primo mattino in
casa usano il dialetto, e appena usciti l’italiano; lo usano nel posto di lavoro innanzitutto,
lo alternano a seconda della situazione e dell’interlocutore. Non stiamo assistendo oggi in
Italia a una brutale sostituzione, ma ad un affiancamento dei due codici, l’italiano ed il
dialetto. La scomparsa dei dialetti è ancora lontana poiché hanno ancora una forte tenuta
come lingua familiare.
Analizzando il percorso descritto dalla lingua italiana in questi ultimi 150 anni, assistiamo
ad una vera e propria rivoluzione linguistica e culturale il cui risultato è una straordinaria
convergenza linguistica che vede oggi nove italiani su dieci parlare la stessa lingua ed una
identità complessiva realizzatasi a livello nazionale e popolare. Come ricorda Tullio De
Mauro in “Lingua è potere” “mai in tremila anni di storia le popolazioni italiane avevano
conosciuto un simile grado di convergenza verso una stessa lingua”. Sempre secondo De Mauro
Il fatto che la grandissima maggioranza dei nostri cittadini abbia accesso alla lingua
comune potendo usare parallelamente il dialetto o altre lingue minoritarie in Italia, è la
premessa fondativa di qualsiasi società democratica, perché permette di intendersi, di
argomentare e di disputare a partire da una comune base linguistica e culturale.
4. L’italiano dei nostri giorni. La punta dell’iceberg
Se penso alla metafora dell’osservatore che scorge solo una piccola porzione dell’iceberg,
mi accorgo che risulta efficace quando devo individuare il cambiamento linguistico a
breve e a lungo termine. L’osservatore esterno scorge solo una porzione minima del
processo e non può apprezzarne i mutamenti.
Quando il periodo breve coincide con la lunghezza di una vita umana, il cambiamento è
difficilmente distinguibile poiché è in epoche ben più lunghe che l’osservazione ne può
cogliere le caratteristiche con più facilità. Il linguista Lorenzo Renzi ha suggerito di andare
a rivedere alcuni dei primi film sonori che in Italia iniziarono ad essere prodotti per la
prima volta nel 1930. A distanza di più d’ ottant’anni, l’osservatore non registrerà
variazioni significative se non differenze risibili.
La lingua italiana non si è trasformata radicalmente nell’arco del tempo, possiede la
caratteristica di essere sensibile a ciò che il nuovo tende a introdurre ma allo stesso tempo
mantiene le proprie radici salde nel passato. Il mondo arcaico costituito dalla civiltà
contadina soppravvive ed è latentemente presente nelle frasi idiomatiche d’uso, ora però
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le fonti moderne per nuovi apporti sono altre: l’universo dell’informatica, delle tecniche,
delle scienze, delle macchine.
Se prima i libri e gli scrittori avevano il compito di diffondere i neologismi e la lingua
scritta aveva un ruolo di centrale importanza nella diffusione della cultura, al giorno
d’oggi quel ruolo è stato assunto dalla televisione, dai giornali e da internet. L’italiano
scritto si va oggi orientando sempre più verso l’oralità, cioé l’attuale dimensione scritta
della lingua non si ispira più a un modello scritto, letterario o popolaresco che sia, ma ad
uno orale del grigio burocratese televisivo e del gergo pubblicitario e aziendale.
Il linguaggio settoriale che da ultimo ha pesantemente influenzato la nostra lingua, sia
scritta che parlata, è il linguaggio della burocrazia e dell’amministrazione, producendo
livellamenti e dettando formule di vasta diffusione anche nell’italiano standard.
Tra queste influenze nefaste vanno citati anche i vuoti messaggi dei “media” pubblicitari
(media che sono anche “il messaggio”, per parafrasare Marshall McLuhan; e insisto sul
disvalore funesto della pubblicità, sugli status symbol che veicola, sui valori vuoti
dell’avere, del consumare).
Parrebbe che la lingua stia passando attraverso una fase di trasformazione, soprattutto
perché è evidente di questi tempi il massiccio influsso dell’inglese sull’italiano, fenomeno
che trasmette la sensazione di perdita di identità e di contaminazione letale. Secondo il
linguista Gian Luigi Beccaria, invece, l’italiano è una forte lingua di cultura (e non solo)
che gode ottima salute. E non è una di quelle lingue ad aver subìto sia nel lungo che nel
breve periodo dei cambiamenti importanti o radicali. (si veda Per difesa e per amore. La
lingua italiana oggi, Milano, Garzanti, 2006)
Se è vero come negli ultimi decenni si sia registrato un flusso entrante di neologismi
tecnico-scientifici in vari campi, è vero anche che la portata del cambiamento è minima se
consideriamo la tenuta e il corpo tradizionale del nostro lessico.
L’italiano, rispetto ad altre, è una lingua che è cambiata poco e che resta molto vicina alle
proprie origini. Ciò è accaduto perché nei secoli passati non è mai stata una lingua
popolare e parlata: è stata piuttosto una lingua scritta, fruibile per pochi, ed ha funzionato
per i più come fosse una lingua straniera, il cui apprendimento passava attraverso la
lettura di libri, lo studio della grammatica e del vocabolario. Questo era successo in secoli
non molto lontani da noi: si pensi al piemontese Vittorio Alfieri e al lombardo Alessandro
Manzoni, i quali, oltre al dialetto, conoscevano meglio il francese della lingua parlata in
quell’epoca.
Manzoni, quando si accingeva circa più di un secolo e mezzo fa a scrivere un romanzo
nazionale, era cosciente di possedere come strumento espressivo una «lingua morta», non
ancora viva e parlata. È da questa convinzione che si dipana la sua lunga ricerca di una
lingua.
Se mancava la lingua per scrivere romanzi, tuttavia era proprio la lingua della quotidianità
a latitare dolorosamente. Ancora nell’Ottocento, non esisteva un italiano di conversazione
comune a tutta la penisola. Ritornando alla storica frase del d’Azeglio, l’Italia era stata
fatta, non era stata però ancora consegnata agli italiani una lingua comune da condividere.
Per quasi mille anni nella penisola non c’è stato un potere centrale e di conseguenza
nemmeno uno linguistico. Assistiamo all’ imporsi del dialetto fiorentino sugli altri dialetti
non attraverso la diffusione operata da una popolazione di parlanti: gran parte del merito
è individuabile nel modello costituito dalla Commedia di Dante, dal Canzoniere del Petrarca,
dal Decameron del Boccaccio. Va rimarcato che suddetto modello non non poteva
esemplarsi sulle vive parlate toscane (e in quanto vive, mobili e dinamiche nel tempo)
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quanto piuttosto in un colto fiorentino scritto, fissato da sommi autori in pagine immortali,
diffuso dagli intellettuali e da una ristretta élite mercantile in tutta la penisola.
Per questa ragione possiamo asserire che la lingua italiana è relativamente mobile.
Possiamo registrare un certo indice di mutamento, di scambio e di dinamismo nell’ambito
lessicale mentre l’aspetto strutturale risulta essere quello più stabile e conservatore.
Caso storico della lingua italiana a parte, va detto che ogni lingua, qualsiasi lingua, è
conservatrice per definizione.
5. La lingua è un luogo per osservare il mondo. L’osservatore e
l’osservatorio.
Vorrei citare queste parole dello scrittore portoghese Vergílio Ferreira che così definì la
lingua:
«Una lingua è il luogo da cui si vede il mondo e in cui si tracciano i confini del nostro pensare e
sentire. Dalla mia lingua si vede il mare. Dalla mia lingua se ne sente il rumore, come da quella di
altri si sentirà il rumore della foresta o il silenzio del deserto. Perciò la voce del mare è stata quella
della nostra inquietudine.»
La lingua, tra le tante cose, è un luogo, che può essere una casa natale da condividere con
una grande famiglia, uno steccato per delimitare un confine, uno spazio di transito, un
luogo in cui incontrarsi o rinchiudersi ed isolarsi.
Ma la lingua è soprattutto una prospettiva, un luogo da cui osservare un mondo, o il
mondo. Ed è un punto di vista privilegiato, non parziale e limitante come quello
dell’osservatore che vede l’iceberg dalla banchisa. Osservare una realtà dalle finestre di
una lingua è riuscire ad osservare un mondo in profondità, signfica uscire dalle categorie
di bianco/nero e riuscire a cogliere l’infinità di sfumature e di combinazioni che vi
intercorrono.
Per questo all’osservatore che si avvicina circospetto alla punta dell’iceberg dell’italiano,
consiglio di non avere timore e di usare la lingua come osservatorio sul nostro mondo e la
nostra cultura.
Lo inviterei a riflettere sul senso dello studiare, apprendere, conoscere l’Italiano, qui,
lontano dal nostro territorio nazionale, non come mero esercizio pedantesco o elitario
scarto, segno di vuota distinzione e prestigio sociale, ma come esperienza culturale e
linguistica viva, pregnante, aperta al confronto e alla riflessione sul divenire di questo e di
tutti gli idiomi, in quanto organismi “vivi”.
‘Vedere’ dalla prospettiva di una lingua è un’esperienza che implica anche sapere
guardare con gli occhi della sensibilità, abbracciare con il pensiero, misurare con le parole.
In ultima analisi è un esperienza che cambierà l’osservatore perché gli permettera di
osservare sé stesso e il suo mondo da un angolo prospettico differente.
6. Conclusioni. Per una visione non omologata.
Osservando i cambiamenti del mondo nel periodo breve, abbiamo visto su scala mondiale
un fenomeno di omologazione generale che ci sta rendendo tutti uguali e tutti appiattiti,
omologati. Non c’è molta differenza tra gli aeroporti nel mondo, i prodotti che troviamo
sugli scaffali dei supermercati e anche gli oggetti esposti nelle vetrine del globo intero
sono tutti gli stessi, così come i cibi e i vestiti. Il rischio è che anche le lingue non escano
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indenni da questo processo. Penso che questo fenomeno possa diventare uno dei grandi
nemici della lingua italiana.
Dicevamo che la lingua italiana ha perso come punto di riferimento la guida del
linguaggio scritto dei libri e degli scrittori e che è sempre più orientata verso l’oralità.
L’italiano standard è sempre più influenzato dal linguaggio settoriale, da quello della
burocrazia, dell’amministrazione e della pubblicità, poiché il ruolo di delineare le
tendenze della lingua, di coniare e diffondere i neologismi è passato ora saldamente nelle
mani dei mass media.
L’italiano neutro, piatto e grigio che si ascolta alla televisione, nei vari notiziari o nei
comunicati ufficiali è estremamente contagioso. Italo Calvino in «Lezioni americane» lo
definì come una vera e propria «pestilenza». Lo scrittore in quell’opera scrisse che
l’«automatismo» tende a «livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a
diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo
scontro delle parole con nuove circostanze». In quell’opera Calvino sosteneva che forse
solamente la letteratura può ancora creare degli anticorpi che contrastino l’espandersi di
una lingua soprattutto strumentale, ‘segnaletica’, che tende a sostituire l’efficacia
comunicativa all’efficacia espressiva.
In un momento in cui su scala mondiale si cerca di imporre una cultura anonima e senza
memoria, è estremamente importante non perdere il contatto con le nostre radici, con la
parte sommersa dell’iceberg, perché è proprio da lì che possiamo attingere quel senso di
pienezza e di complessità della vita che verrebbe spazzato via nell’indifferenza di un
mondo senza memoria storica.
Vorrei citare una poesia di Fernando Bandini, poeta vicentino, intitolata ‘’Negozi di
uccelli’’ che dice:
«Quando mi trovo in città sconosciute
cerco negozi di uccelli:
l’ho fatto a Ginevra a Londra
a NewYork ad Hong Kong
(dentro c’è un piccolo vento, nervosi
colori saettano in angoli d’ombra).
Ma non ho visto
in Asia shama d’Asia
in Europa cutrettole d’Europa
in America mimi poliglotti d’America:
sempre la stessa alata confraternita
di ogni parte del mondo
in gabbie made in Japan».
Questi versi, con quei variopinti uccelli in gabbia che ci ricordano i colori delle parole,
rimandano alla globalizzazione, alla ‘’macdonaldizzazione’’ del mondo, e quindi ad una
normalizzazione anche linguistica che minaccia tradizioni e memoria storica.
La lingua italiana, come un iceberg, non è qualcosa di omologabile ad una massa
galleggiante di uno smorto color grigiastro o biancastro, o semplicemente riducibile ad un
identità monocromatica ma un’entità viva, vitale che contiene, accoglie e produce colori,
sfumature e variazioni, quindi non può essere fissata, limitata e proposta come uno stinto
fermo immagine. L’italiano è una lingua di cultura ed è un idioma policromo per la
complessità, diversità, varietà e ricchezza che lo contraddistinguono.
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Vorrei ritornare all’importanza dell’idea di lingua come osservatorio perché è forse lo
strumento privilegiato per osservare da vicino la parte sommersa dell’iceberg, le nostre
radici, il patrimonio culturale di cui la lingua è espressione, patrimonio che, ricordiamolo,
è espressione anche di quel mondo di libri, di scrittori, di autori, della letteratura, delle
parole e del linguaggio della scrittura di cui parlava Italo Calvino nelle sopracitate ‘’Lezioni
americane’’.
Osservare il mondo da una lingua significa non perdere di vista i diversi ambiti di cui essa
è espressione, significa appropriarsi di una visione ampia della realtà osservata. Questo è
un tipo di prospettiva che permette all’osservatore di prendere direttamente possesso di
un linguaggio o dei linguaggi e perlomeno di non accettare passivamente una lingua
liofilizzata e seriale.
Ecco che allora l’osservatore da quell’osservatorio può ri-vedere e ri-pensare un mondo o,
il mondo.
Concludo soffermandomi sull’idea di movimento, di viaggio che l’iceberg esprime. Siamo
nel 2011 e l’italiano, malgrado le difficoltà e le insidie, si muove e viaggia nel mondo,
incontra e si confronta con altre culture. Un confronto che avviene in modo talvolta
conflittuale, come accade con l’«ethos» e la visione del mondo dei molti migranti che
l’Italia – con difficoltà e contraddizioni – accoglie oggigiorno, ma anche stimolante per
l’arricchimento e gli stimoli culturali implicati da tali incontri-scontri-confronti con le
nuove ‘ diversità ’, anche sul piano linguistico.
Ricordiamo che esso è la quinta lingua più studiata al mondo ed è una lingua viva e
potente grazie soprattutto alla cultura, occupando oggigiorno il sesto o settimo posto, non
come numero di parlanti ma geograficamente per diffusione nel mondo.
Vorrei inoltre sottolineare come la nostra lingua viaggi e continui a viaggiare non per
effetto di colonizzazione, non grazie all’imposizione di un modello economico a livello
globale, non per la persuasione del potere di una potenza bellica ma per la forza della sua
cultura e dei suoi emigranti, cioè grazie a una civiltà di cultura e lavoro.
È nostro preciso dovere verso le future generazioni preservare e diffondere questa
ricchezza come precipuo segno e valore distintivo dell’essere italiani, come merita
ricordare e ribadire in questo importante anniversario della nostra storia.
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