Vanna Gessa Kurotschka La questione della vita buona, la filosofia
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Vanna Gessa Kurotschka La questione della vita buona, la filosofia
Vanna Gessa Kurotschka La questione della vita buona, la filosofia e la consulenza filosofica I - Nel primo dei tre discorsi in difesa di se stesso che Socrate pronuncia nell’Apologia, il filosofo tenta di definire il tipo di sapienza di cui egli è esperto. Ricordando il responso dell’oracolo, il quale aveva affermato che ad Atene non vi è nessuno più sapiente di Socrate, il filosofo racconta di aver dovuto intraprendere una accurata ricerca per comprenderne il senso. L’esito di tale ricerca è noto. Ciò che rende Socrate superiore in sapienza a coloro che la città aveva da sempre ritenuto sapienti (politici, poeti e possessori del sapere delle technai) è il suo non ritenere di sapere ciò che non sa, un atteggiamento questo che mette in evidenza l’insufficienza delle altre forme di sapere che nella città richiedevano di essere riconosciute. In particolare la differenza fra il sapere di cui Socrate è esperto e il sapere tecnico, una forma di sapere riconosciuta nella sua validità anche da Socrate, consiste nel fatto che coloro che lo posseggono “per ciò solo che sanno esercitar bene la loro arte, ognuno di essi presume di essere sapientissimo anche in altre cose assai più importanti e difficili; e questo difetto di misura oscura la loro stessa sapienza”1. Nonostante il sapere tecnico venga riconosciuto in quanto importante forma di conoscenza, esso tende per Socrate ad oltrepassare i limiti entro i quali è valido e ad essere, dunque, borioso. Il sapere umano – che Socrate secondo il dio possiede più di ogni altro – consiste in qualcosa di più importante e difficile di ciò di cui i tecnici sono esperti. Il sapere più difficile e importante riguarda in generale l’uomo e il suo bene. Il bene umano, l’oggetto del sapere umano, il sapere più importante, è anche il più difficile da raggiungersi in quanto non può essere definito una volta per tutte e per tutti ma può essere per Socrate solamente trovato individualmente da ciascuno, e ogni volta di nuovo, attraverso la ricerca personale che ognuno deve condurre per tutta la vita. Socrate sa, dunque, di non sapere cosa sia l’essere umano, e il suo non sapere è il sapere più alto, perché l’essere umano non è disponibile in quanto oggetto che può essere posseduto una volta per tutte. Socrate sa più di ogni altro nella città perché sa che la ricerca da intraprendere per conoscere l’essere umano è eminentemente pratica; il conoscere è, infatti, una pratica che, conoscendolo, costituisce il suo oggetto, un oggetto che non può essere, dunque, posseduto ma solo cercato per tutta la vita. Ciò che meglio dimostra il significato costitutivo e pratico del sapere umano socratico è il metodo di cui esso deve per Socrate servirsi. Il metodo che Socrate utilizza per la ricerca, l’elenchos, consiste nel dialogare con l’interlocutore mettendo in evidenza le aporie delle sue affermazioni, spesso superficiali, e facendo venire alla luce le conseguenze delle sue più profonde 1 Platone, Apologia di Socrate, 22d 5-9. 1 convinzioni. In tal modo l’esito della ricerca non è per Socrate il raggiungimento di una verità che lascia immutata l’identità di chi la possiede. La ricerca mette in atto una trasformazione profonda della persona che ha intrapreso con Socrate la ricerca2. Chi giunge a una convinzione intorno a ciò che è per lui bene attraverso il dialogo che utilizza l’elenchos non potrà essere indotto a non praticare il bene perché il suo sapere del bene coinvolge, rendendole organicamente congruenti, le sue convinzioni più intime e profonde, convinzioni talmente intime e profonde che rinunciarvi significherebbe rinunciare a sé stessi3. Socrate ha, infatti, esemplarmente preferito morire piuttosto che rinunciare a difendere quanto riteneva vero e bene. Il concetto socratico di sapere umano è, dunque, eminentemente pratico e l’intellettualismo etico di Socrate non anticipa necessariamente concezioni antropologiche ed etiche che richiedono il sacrificio delle opinioni individuali intorno al bene. II - La vaghezza del socratico sapere umano, vaghezza che per Platone era un limite da superare attraverso la definizione dell’ordine vero e buono verso cui la ricerca filosofica deve essere diretta, caratterizza invece anche la riflessione pratica di Aristotele. Nella filosofia di Aristotele troviamo una distinzione fra filosofia pratica e saggezza che Socrate non aveva operato e che può esserci molto utile per definire i rapporti fra filosofia e consulenza filosofica4. Aristotele non richiede che per raggiungere l’eudaimonia si debba essere filosofi, si debba intraprendere necessariamente una ricerca condotta con metodo intorno ai caratteri della vita buona umana. L’eudaimonia è il fine interno della prassi di ogni essere umano, anche della prassi di chi non è filosofo. La vita umana migliore, la prassi più alta, è certamente per Aristotele quella dedicata alla conoscenza del vero; tale forma di vita è per Aristotele anche la più piacevole. Ma anche chi non è filosofo può aspirare per Aristotele a condurre una vita virtuosa, una vita che si pone lo scopo di mettere in atto le capacità specificamente umane nella maniera migliore5. Mentre la definizione dei caratteri generali della vita attiva dedita alla realizzazione della virtù è compito per Aristotele della filosofia, in quanto scienza che procede con metodo, la pratica della virtù si colloca, invece, su un piano differente da quello della ricerca filosofica intorno ai molteplici aspetti della virtù umana e, cioè, della ricerca sulla costituzione della vita umana buona e felice. L’attività dedita alla realizzazione della vita virtuosa, una vita che richiede per essere tale che gli individui sviluppino una molteplicità di capacità propriamente umane, è guidata dalla saggezza. La condizione 2 Si veda: U. Wolf, Die Suche nach dem guten Leben. Platons Frühdialoge, Reinbek bei Hamburg 1996. Si veda: G. Vlastos, Il filosofo dell’ironia complessa, La Nuova Italia, Firenze 1998. 4 Sul concetto di filosofia pratica si veda: E. Berti, Le vie della ragione, Il Mulino, Bologna 1987. 5 Nel primo libro dell’Etica Nicomachea (Etica Nicomachea, trad., intr. e note di C. Natali, Laterza, Roma-Bari 2005). Aristotele intraprende una disamina filosofica intorno all’eudaimonia. In tale contesto possiamo individuare quelle che Aristotele riteneva le componenti essenziali moltepelici del bene umano. 3 2 fondamentale per la realizzazione della eudaimonia è infatti il possesso della virtù. Aristotele ritiene che ognuno di noi sia responsabile dello sviluppo in noi delle nostre capacità specificamente umane, le virtù. In Aristotele troviamo sia una concezione della facoltà di desiderare, della orexis, sia una concezione della razionalità pratica che richiedono il nostro impegno affinché si sviluppino e si formino in quel certo modo che ci condurrà all’eudaimonia. Da una parte la orexis è pensata da Aristotele come una capacità insieme cognitiva e intenzionale. Il desiderio si rivolge verso qualcosa che viene immaginato e giudicato come un bene. La razionalità pratica, la saggezza, anche essa una capacità, una virtù della parte razionale dell’anima, deve per Aristotele mettersi in rapporto con il desiderio e aiutarlo ad individuare ciò che è veramente bene in una specifica situazione per quell’individuo particolare che deve deliberare. In particolare, per poter aspirare all’eudaimonia ognuno di noi deve imparare per Aristotele a deliberare bene. E alla buona deliberazione è necessaria una orexis ben conformata, una facoltà di desiderare che ha dunque incorporato cognizioni corrette intorno al bene, e una razionalità pratica in grado di unirsi ad essa per individuare i mezzi buoni per realizzare fini buoni6. Mentre per Platone ai re filosofi che conoscono il vero bene è assegnato il compito di elaborare un progetto di prassi che si costituisca sul modello del vero bene, e che deve servire ai singoli individui e alle classi come una norma sicura per la vita, per Aristotele né il possesso di un sapere filosoficamente fondato intorno a ciò che è il bene umano né il possesso delle virtù possono togliere al bene umano quella costitutiva incertezza. Neanche l’acquisizione della virtù rende, infatti, per Aristotele certa la bontà e la fioritura della nostra vita, non ci assicura il raggiungimento della eudaimonia. La vita umana per Aristotele si gioca tutta in un ambito dell’essere che non è né quello della necessità né quello della casualità priva di qualsiasi regola ma quello che Aristotele definisce l’ambito in cui ciò che accade, accade per lo più in un determinato modo. In questo ambito dell’essere, in cui ciò che accade, accade per lo più in un determinato modo, la fortuna e il caso giocano un ruolo che neanche le molte virtù che ci affanniamo ad acquisire possono eliminare. Questi aspetti dell’etica di Aristotele sono stati studiati da Martha Nussbaum, che ha messo bene in evidenza come il bene umano di cui Aristotele discute filosoficamente sia fragile e come tale fragilità del bene umano costituisca anche la sua bellezza7. È proprio la nostra mancanza di autosufficienza, la dipendenza del nostro bene dai casi della sorte e dalle nostre relazioni con i membri della comunità politica, con i nostri familiari, con gli amici e con coloro con i quali intratteniamo rapporti d’amore a rendere fragile e sempre precario il nostro bene e, dunque, il raggiungimento della eudaimonia. Ciò non significa che la acquisizione delle molteplici capacità 6 Si veda: C. Natali, L’action efficace, Editions Peeters, Louvain-La-Neuve 2004. Si veda: M.C. Nussbaum, La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca, Il Mulino, Bologna1996. 7 3 umane, di cui il ben umano si compone, sia inutile. È, piuttosto, vero il contrario per Aristotele. Lavorare su noi stessi per far fiorire le nostre capacità umane, far funzionare nella maniera migliore tali capacità, è la condizione della bontà della nostra vita e, dunque, della eudaimonia. Essere virtuosi significa per Aristotele propriamente funzionare umanamente nella maniera migliore. E, funzionare umanamente equivale a sviluppare al meglio le molteplici capacità umane8. III - Ricollegarsi alla formulazione antica della domanda filosofica intorno alla costituzione della vita umana buona è oggi ancora rilevante? La mia risposta a tale domanda è positiva. La profonda crisi attraversata dalla metaetica analitica perlomeno a partire dagli anni Ottanta del secolo appena trascorso e le difficoltà che sono state individuate nella filosofia morale di Kant, anche da chi a Kant continua ad ispirarsi filosoficamente, sono il segno dell’esigenza filosofica di riformulare di nuovo la questione della costituzione del bene umano9. A rendere rilevante che si ponga filosoficamente la questione dei caratteri del bene specificamente umano è, inoltre, anche la provocazione che viene dallo sviluppo delle ricerche empiriche della vita e dalle applicazioni tecniche che esse permettono di realizzare. Si prospettano scenari sui quali si attuano profonde trasformazioni della figura umana e si apre la prospettiva del post-umano. I raffinati artifici della comunicazione, la violenza con la quale il fondamentalismo culturale riduce la molteplicità delle dimensioni del bene umano ad un unico e tirannico valore identitario e i complicati strumenti tecnici innestati in un organismo di per sé plasmabile, sono i mezzi attraverso i quali l’umano viene oggi rimaneggiato e riconfigurato. Ciò che finora è stato in gran parte in mano all’evoluzione naturale e, dunque, in gran parte in mano al caso, è adesso nelle nostre mani. Tale prospettiva di cambiamento richiede di essere guidata da una forma di riflessione antropologica ed etica le cui modalità devono essere definite10. L’interesse per la ricostruzione filosofica della formulazione antica del problema del bene umano e dell’eudaimonia ha, dunque, una serissima motivazione filosofica. Aspetti rilevanti del socratismo e dell’aristotelismo, a cui sopra ho fatto riferimento, ma anche aspetti dello stoicismo11, vengono ricuperati nell’ambito di una ricerca antropologica ed etica 8 M. C. Nussbaum, M. C., Diventare persone, Il Mulino, Bologna 2002; id., Capacità personale e democrazia sociale, Diabasis, Reggio Emilia 2003. 9 Si veda: V. Gessa Kurotschka, Dimenzioni della moralità, Liguori, Napoli 1999; A. Ferrara, V. Gessa Kurotschka, S. Maffettone (a cura di), Etica individuale e giustizia, Liguori, Napoli 2002. 10 Si veda: Umano e post-umano. Potere, sapere, etica nell’età globale, a cura di M. Fimiani, E. Pulcini, V. Gessa Kurotschka, Editori Riuniti, Roma 2004; Biopolitica. Storia e attualità di un concetto, a cura di A. Cutro, Ombre corte, Verona 2005. 11 Il riferimento allo stoicismo fornisce alla riflessione intorno al bene umano quel carattere universalistico che mancava alla riflessione più antica. Sui caratteri particolari dell’universalismo stoico si veda: J. Annas, La morale della felicità in Aristotele e nella filosofia ellenistica, Vita e Peniero, Milano 1997; M. C. Nussbaum, Terapia del desiderio, Vita e Pensiero, Milano1998; Riflessioni sull’universalismo antico, introduzione e cura di V. Gessa Kurotschka, in “Filosofia e Questioni pubbliche”, 3 (2002), pp. 3-74, in part. si veda il saggio di Julia Annas (Il mio posto nel mondo e i doveri che vi attengono: l’etica antica e il radicamento sociale della virtù, pp. 43-65). 4 che di nuovo richiede che si ponga la questione della vita umana buona e della sua costituzione come domanda filosofica eminentemente attuale. Ma quale è il rapporto che sussiste fra la dimensione della riflessione filosofica intorno al bene umano e la pratica della consulenza filosofica? È necessario per praticare la consulenza divenire esperti in una pratica che è quella della ricerca teorica intorno al bene umano? È necessario che chi si pone a partire dalla prospettiva della prima persona singolare la domanda intorno al proprio bene divenga anche padrone delle metodologie specifiche che caratterizzano una pratica specialistica quale è quella della ricerca filosofica? Io ritengo che ciò non sia necessario e che la consulenza filosofica si collochi in quella dimensione che Aristotele definiva la pratica di vita dedita alla realizzazione della virtù. “Noi compiamo nei nostri rapporti reciproci – dice Aristotele – le azioni giuste e coraggiose e le altre che si compiono secondo le virtù, nelle transizioni, nei rapporti sociali utili e nelle azioni di ogni specie, come pure nelle passioni, e osserviamo ciò che si adatta a ciascuno: è evidente che tutte queste cose sono tipiche dell’uomo. Si ritiene anche che alcune azioni derivino dal corpo, e che la virtù del carattere in molti aspetti sia strettamente connessa con le passioni. E si uniscono, sia la saggezza con la virtù del carattere, sia questa con la saggezza; essendo connesse le virtù anche alle passioni, verranno a riguardare il complesso di anima e corpo, ma le virtù del complesso sono tipicamente umane, e quindi anche la vita secondo tali virtù, e la stessa felicità”12. Ora, è evidente che la pratica della consulenza filosofica necessita che ci si accosti sia agli esiti della ricerca filosofica sia ai saperi specialistici che si occupano dell’umano. Ma, se è vero che per realizzare una vita umana buona dobbiamo sviluppare in noi sia la saggezza sia la virtù del carattere e se è vero che queste, essendo connesse alle passioni, riguardano il complesso di anima e corpo e, dunque, sono, come dice Aristotele, tipicamente umane, ciò non significa che per sviluppare le virtù dobbiamo anche praticare, ad esempio, la ricerca biologica. Basterà, probabilmente, che non ignoriamo come è costituito il corpo e che apprendiamo ciò accostandoci alle ricerche biologiche, senza istituire in prima persona una ricerca condotta con metodo sulla costituzione del nostro organismo. E, allo stesso modo, non sarà necessario istituire in prima persona una ricerca filosofica condotta con metodo intorno alla costituzione del giudizio pratico per provare a deliberare bene e tentare di realizzare individualmente una vita buona e felice. Basterà, piuttosto, io ritengo, esercitare tale forma del giudizio e basterà farlo, se ne sentiamo l’esigenza, con una persona più esperta di noi in tale pratica. Una persona che, utilizzando tale maggiore 12 Etica Nicomachea, 1178 a 10 e sgg. La vita dedita alla pratica della contemplazione è detta da Aristotele superiore a quella concessa all’uomo, dato che chi pratica l’attività contemplativa “non vivrà in tal modo in quanto essere umano, ma in quanto si trova in lui qualcosa di divino” (Etica Nicomachea, 1177 b26 e sgg.). 5 esperienza, sia in grado di accompagnarci in una ricerca che non può se non rimanere un esercizio da condursi individualmente. 6