La “città ideale” nella cultura italiana dal Sette al

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La “città ideale” nella cultura italiana dal Sette al
La “città ideale” nella cultura italiana dal Sette al Novecento.
Da Venezia a Venezia
Laura Schram Pighi
Università di Bologna/ Università di Utrecht
Resumo
Il contributo segue il percorso dell’idea di città ideale cogliendone lo sviluppo nella letteratura
italiana come nell’arte figurativa, a partire dal Settecento fino a tutto il Novecento. La città come
archetipo immaginativo è centrale nella narrativa di utopia italiana che inizia a Venezia a partire
dalla traduzione della Utopia di Tommaso Moro (1548). L’idea di città ideale, un vero “campo di
energia utopica”, è in grado di manifestarsi in una pluralità di linguaggi artistici e si realizza nelle
città pensate come in quelle reali passando dalle città dell’Italia unita a quelle di fondazione, le città
del regime fascista, per arrivare alla “utopia polverizzata” delle Città invisibili (1972). Italo
Calvino, il maggiore narratore d’utopia del terzo Novecento e il più acuto teorico del genere
utopico, ci riporterà a Venezia: archetipo e utopia della città acquatica (1974).
Palavras-chave
Città ideale, narrativa utopica italiana, utopismo, Italo Calvino
Laura Schram Pighi, dal 1955 al 1963 assistente all’Università di Bologna per la cattedra di
Letteratura francese, si occupa di letteratura comparata italo francese e di storia del teatro italiano in
Francia nel Settecento. Si trasferisce per matrimonio in Olanda dove insegna letteratura italiana
moderna all’Università di Utrecht dal 1963 al 1990, pubblica un fortunatissimo dizionario italianoolandese e consegue nel 1985 il dottorato di ricerca presso l’Università di Amsterdam con uno
studio su Henri Bergson e il bersonismo in Il Leonardo (1903-1907) di Papini e Prezzolini. In tutti
questi anni pubblica in Olanda e in Italia, dove rientra nel 1990, una quarantina di studi di
letteratura italiana dal Sette al Novecento tra cui Narrativa italiana di utopia: 1750-1915, Ravenna,
Longo, 2003.
MORUS – Utopia e Renascimento, 9, 2013
A “cidade ideal” na cultura italiana dos séculos XVIII ao XIX.
De Veneza a Veneza
Laura Schram Pighi
Universidade de Bolonha/ Universidade de Utrecht
Resumo
O presente texto segue o percurso da ideia de cidade ideal, identificando seu deselvolvimento na
literatura italiana e na arte figurativa, a partir do século XVIII até o século XX. A cidade como
arquétipo imaginário é central na narrativa utópica italiana que tem início em Veneza a partir da
tradução da Utopia de Tommaso Moro (1548). A ideia de cidade ideal, um verdadeiro “campo de
energia utópica”, pode manifestar-se em uma pluralidade de linguagens artísticas e se realiza nas
cidades pensadas e nas cidades reais, passando pelas cidades da Itália unida às de fundação, às
cidades do regime facista, chegando à “utopia pulverizada” das Città invisibili (1972). Italo
Calvino, o maior narrador de utopia do terceiro Novecento e o mais agudo teórico do gênero
utópico, nos levará a Venezia: archetipo e utopia della città acquatica (1974).
Palavras-chave
Citdade ideal, narrativa utópica italiana, utopismo, Italo Calvino
Laura Schram Pighi, de 1955 a 1963 assistente na Universidade de Bolonha na área de Literatura
francesa, trabalha com literatura comparada ítalo-francesa e com história do teatro italiano na
França, no século XVIII. Na Holanda, ensinou literatura italiana moderna na Universidade de
Utrecht de 1963 a 1990, publicou un dicionário italiano-holandês e concluiu, em 1985, seu
doutorado na Universidade de Amsterdam com um estudo sobre Henri Bergson e o bergsonismo em
Il Leonardo (1903-1907) de Papini e Prezzolini. Durante todos estes anos publicou na Holanda e na
Itália cerca de quarenta estudos de literatura italiana dos séculos dezoito ao dezenove, dentre os
quais Narrativa italiana di utopia: 1750-1915 (Ravenna: Longo, 2003).
MORUS – Utopia e Renascimento, 9, 2013
La “città ideale” nella cultura italiana dal Sette al Novecento
utta la cultura italiana come quella europea è percorsa da una idea che
viene da lontano, quella di città ideale, un luogo immaginario dove poter
vivere una felicità sognata1.
Italo Calvino per primo in Italia in uno studio intitolato “Quale utopia?”2
definisce l’idea di città ideale come un vero “campo d’energia utopica”, in grado di
manifestarsi in una pluralità di linguaggi artistici, non solo in quelli verbali e letterari,
ma anche con i segni concreti dell’architettura e della urbanistica3.
Infatti, nella trattatistica filosofica e politica, come nell’arte figurativa,
nell’architettura e naturalmente nei trattati di urbanistica, la città ideale è un tema
ricorrente4. Ma raramente si pensa di trovarne le tracce nella narrativa italiana.
Per dare confini più precisi alla mia ricerca cercherò la documentazione in una
narrativa di tipo particolare, quella che più da vicino registra i sogni e le speranze di
felicità di una società futura: la narrativa italiana di utopia.
Un genere letterario che deve la sua continuità fino ad oggi, proprio agli sviluppi
e alla pluralità di linguaggi sulla “città ideale”, questa idea forza è così ricca e
complessa da sopravvivere alle altre tematiche di un genere letterario a lungo oscurato
dalla critica, fino a dare l’impressione che fosse scomparso5.
Si può seguire le tracce della utopia letteraria nella cultura italiana, partendo da
quando Thomas More nella sua Utopia, scritta in latino nel 1516, tradotta in italiano e
pubblicata a Venezia nel 1548 dal Doni, la intreccia col topos del viaggio immaginario
verso un mondo migliore6.
Da quegli anni e per tutto il Seicento, l’Utopia di More conobbe in Italia una
certa fortuna in un cerchio ristretto di lettori colti, in opere dedicate quasi
esclusivamente alla città ideale7. Solo in seguito da metà Settecento in poi nella
lussureggiante fioritura della narrativa romanzesca italiana nascerà un genere particolare
di grande diffusione che sviluppò il tema del viaggio verso l’isola che non c’è.
E così, in quel mondo immaginario dove naufragava il viaggiatore, egli sarà
obbligato ad imparare la lingua parlata dagli “utopiani”8, incontrerà animali utopici o
esseri “diversi”, per poter giocare con fantasia, idee e umorismo e così proporre ai
1
Vercelloni, 1994.
Calvino, 1974, pp. 4-7.
3
Kaufmann, 1987; Kruft, 1990; Simoncini, 1997.
4
Curcio, 1944. Widmar, 1964; Fortunati, 2005, pp.11-23.
5
Pighi, 2003.
6
More, 1971. Pure il Doni è autore di narrazioni utopiche sulla città ideale.
7
Garin, 1965; Puppi, 1969.
8
Pighi, 2005.
2
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Laura Schram Pighi
lettori realtà alternative9. E naturalmente l’isola che non c’è avrà una capitale, la città
ideale.
La narrativa d’utopia come pura espressione letteraria verrà emarginata nel
primo Novecento, in un clima politico che vedeva la fantasia e l’umorismo come
potenziali forze di opposizione. Di conseguenza la critica letteraria del tempo
provvederà alla rimozione di tutto il genere narrativo utopico, ritenuto troppo
pericoloso, fino a farne perdere le tracce.
Solo dalla seconda metà Novecento in poi, nel rinnovato clima di libertà di
espressione, l’idea di “città ideale”, questo “campo di energia utopica” capace di
esprimersi con una ampia gamma di segni, riuscirà a far rinascere l’intero genere
narrativo utopico, che avrà il suo massimo critico e autore in Italo Calvino. E con lui
potremo entrare nelle sue Città invisibili.
Grazie alle ricerche interdisciplinari degli ultimi decenni del Duemila, sul
Settecento italiano e in particolare su Venezia “officina del romanzo”10, si può disporre
oggi di un corpus di narrativa italiana d’utopia di notevole interesse che ci permette di
documentare le alterne fortuna dell’idea di città ideale11.
Alcune costanti
Lungo il percorso storico dell’idea di città ideale, che seguiremo dal Sette al
Novecento, ci fermeremo a visitare alcune delle città pensate e avremo così modo di
constatare il ripetersi, pur in forme e intensità diverse, di alcuni temi ricorrenti.
La prima costante è la più connaturata nell’idea di città ideale, ossia il rapporto
tra il disegno ideale della città e la sua valenza sociale e politica: una città è soprattutto
una convivenza, perché controllare la forma della città significa controllare il corpo
sociale. L’architetto “uomo del suo tempo”, in accordo con la classe dominante sua
committente, fa dell’urbanistica un mezzo per accrescere il consenso e l’ordine
esistente. L’urbanista utopico al contrario, il costruttore di città immaginarie, rifiuta
l’esistente e ipotizza in un altrove una società diversa e la città che la esprime.
Meno evidente, ma costante nella costruzione di una città utopica, è il rapporto
tra l’idea di città e la fantasia, quasi fosse soprattutto la fantasia a creare la città.
9
Pighi, 2012.
Portinari, 1988; Clerici, 1997.
11
Per la presenza del genere utopico in Italia ed in Europa si veda: Histoire transnationale de l’utopie
littéraire et de l’utopisme, coordonnée par Vita Fortunati et Raymond Trousson (2008).
10
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André Corboz in Canaletto. Una Venezia immaginaria12, osserva che si passa
dall’immaginario semplice a quello utopico quando si verifica l’intrusione di un
elemento estraneo nella raffigurazione di una realtà che si dà per nota.
L’effetto sorpresa prodotto da un elemento conturbante è una sorta di rumore
che si inserisce nel sistema di comunicazione del messaggio, e produce quello che in
arte figurativa si chiama “capriccio”. E che in letteratura prende il nome di pastiche,
eclettismo, ibrido, mixis, ed è tipico della narrazione d’utopia in tutta la sua storia di
genere letterario.
Applicando la critica strutturalistica alla lettura dei Capricci del Canaletto,
André Corboz osserva che “il capriccio è gioco, ma anche connivenza”; esso comunica
segnali al ricevente in grado di fare uno scarto di tipo fantastico, di cogliere nel
messaggio dell’artista la presenza “di un elemento letterario e uno immaginario”:
insomma “leggere un capriccio è soprattutto misurare uno scarto” e creare un capriccio
presuppone una connivenza con chi lo legge, lanciargli un messaggio indiretto, caricato
di più significati non espressi ma chiaramente comprensibili.
Se applichiamo le osservazioni del Corboz ai diversi modi in cui l’idea di città
ideale si propone alla società, osserviamo che essa si fa utopistica quando, sia nella
narrazione come nei segni grafici del pittore e dell’architetto, si verifica un identico
fenomeno di linguaggio, ossia quando tra i quattro fattori fondamentali della
comunicazione (un autore o emittente, un destinatario o ricevente, il tema del
messaggio, e il codice a cui esso si riferisce) si inserisce un elemento perturbante.
E allora si produce l’effetto “capriccio”. E’ questo lo scarto provocato dal
comico, quella sorpresa che suggerisce la possibilità di una realtà alternativa, proprio
come avviene nel testo letterario13.
La documentazione letteraria dell’idea di città utopica alla quale ci riferiremo, si
può accostare a quella dei documenti iconografici, perché ambedue sono parole di uno
stesso discorso benché di lingue diverse: la città utopica si differenzia da quella reale
per le stesse ragioni per le quali la narrativa utopica si differenzia da quella realista.
Sono due messaggi rivolti ad un destinatario in grado di decodificarli, con il quale
hanno un rapporto di connivenza, avendo in comune fantasia e umorismo.
Di utopismo sia linguistico che topologico, dunque di città ideale e linguaggio si
occupa Caterina Marrone in “Lingua e città in utopia”14, quando afferma:
12
13
Corboz, 1985, pp. 375-388.
Pighi, 2003.
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é qui, nel vasto orizzonte dell’immaginario che si inserisce e affonda
le sue radici simboliche l’utopismo sia linguistico che topologico.
Anzi nell’utopia il connubio, il paragone tra città o luogo stanziale e
lingua , il rispecchiamento tra modi di vita, leggi e idioma, tra epoca,
dimensione temporale e modo di capirsi è forte, stretto, e in genere
molto frequente.
I testi ai quali la Marrone si riferisce sono inglesi, Orwel in particolare, e il
rapporto da lei esaminato è tra la lingua degli utopiani e la loro organizzazione urbana,
ambedue fortemente tendenti alla semplificazione e alla omogeneità.
Un fenomeno analogo avviene anche nelle narrazioni d’utopia italiane: la lingua
utopica è artificiale, organizzata, logica, ma falsa, rispetto alla lingua naturale,
irrazionale ma spontanea e viva. In parallelo la città utopica è razionale ed efficiente, ma
artificiale, mentre una città naturale, cresciuta senza pianificazione sarà certo caotica,
ma umana. L’una è troppo costruita e non lascia posto per la fantasia e per l’umorismo,
nell’altra, quella naturale e spontanea, essi trovano al contrario ampio spazio per
esprimersi15. Come succede a Venezia, per esempio, che non per niente viene
ripetutamente assunta come termine di paragone con la città utopica.
E’ interessante osservare come l’idea di città ideale cominci a svilupparsi in
Italia proprio partendo da Venezia, là dove a fine Cinquecento era entrata nella cultura
italiana l’Utopia di Thomas More, quasi Venezia fosse essa stessa un “campo di energia
utopica”, per dirla con Calvino, quella che si forma attorno all’idea di città futura.
Partiamo da Venezia
I segni della trasformazione moderna dell’idea di città si possono cogliere poco
dopo la scoperta del Nuovo Mondo e la traduzione italiana dell’Utopia di Thomas More
(1548), quando la città ideale di tipo rinascimentale si fa utopica fino a diventare La
città del Sole (1602) di Tommaso Campanella16.
14
Marrone, 1991.
Su tutto il problema della lingua utopica con una ampia bibliografia si veda Pighi, 2003 e 2005.
16
La città del Sole dovette sparire dalla cultura italiana del suo tempo per sopravvivere e circolò per tutta
Europa nella sua versione latina ritenuta erroneamente l’originale. Entrò nella cultura italiana, e in
italiano, solo a fine Ottocento; la sua presenza ebbe grandissima importanza nel pensiero filosofico e
politico.
15
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La bibliografia critica su questo aspetto è sterminata, come afferma L. Puppi nel
suo studio su La città ideale nella cultura architettonica del Rinascimento17.
Preferisco iniziare il commino un secolo più tardi partendo dalle opere di alcuni
artisti e letterati veneziani del secondo Settecento, che creano ciascuno col proprio
linguaggio un modello utopico di città.
Per capire quanto siano innovative la loro proposte di città, basta confrontarle
anche rapidamente con alcune realtà urbanistiche nel resto d’Italia, dove si continua a
ripetere il modello della città rinascimentale e classicheggiante.
Mi riferisco come esempio a due piccoli centri urbani uno di fine Seicento
all’estremo Sud dell’Italia, in Sicilia, come Granmichele, nata dalla passione antiquaria
del committente, il principe Carlo Maria Carafa Brancicorti, e dalla sua ammirazione
per la “Città del Sole” oltre che per il modello a stella della città veneta di Palmanova,
che viene fedelmente ripetuto18.
L’altra, un secolo più tardi, è l’espressione di una società che rifiutava per
principio ogni rinnovamento, lo Stato della Chiesa. Si tratta di Castel Clementino
(1771-1796) dal nome del Papa regnante, sorta sulle rovine del borgo di Servigliano,
una rivisitazione di modelli rinascimentali nel clima di ritorno alla classicità vivissimo
negli stati pontifici. La città è tutta murata e se ne comprende la simmetria e l’ordine
solo dall’interno a causa di una cortina di mura che la isolano anche simbolicamente dal
mondo19. Ma non mancano esempi diametralmente opposti.
Ritorniamo a Venezia. Algarotti, Canaletto, e i “paesaggi urbani fantastici”. Senza
dimenticare Piranesi e Casanova
Quando durante il Settecento si forma un nuovo modo di pensare l’ambiente
urbano, esso trova il clima ideale per realizzarsi proprio nella cultura di quella città,
Venezia, che continuerà a lungo ben più di altre realtà italiane, il suo ruolo di porto per
viaggi verso oriente, e di centro di scambi con la cultura europea, in particolare con
quella inglese20.
In quel periodo su una tradizione neoclassica di ascendenze rinascimentali,
testimoniata dall’opera di Palladio e della sua scuola, s’innesta un esperimento
17
Puppi, L. 1969, op. cit.
Giuffré, 1979.
19
Tassotti, 1961.
20
Battilana, 1983, p. 205.
18
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singolare, promosso da Francesco Algarotti, (1712-1764) veneziano, scrittore di viaggi
veri e anche immaginari.
Proprio a metà Settecento trovandosi in Inghilterra, Algarotti commissionò ad un
pittore, veneziano pure lui, Antonio Canal, detto il Canaletto, (1697-1768) attivo nello
stesso ambiente anglosassone, l’incarico di esperimentare un nuovo genere di pittura:
“la rappresentazione di paesaggi urbani fantastici, perché inesistenti, ma virtualmente
possibili”21.
Nella tela riportata dal Vercelloni nel suo splendido Atlante, intitolata il “sito di
Rialto a Venezia”, il Canaletto raggiunge un doppio fine, quello di raffigurare il ponte di
Rialto come lo aveva progettato il Palladio, ma mai costruito, e in questo modo il pittore
può dare all’architetto vicentino quel riconoscimento che gli era stato negato, e quello di
inserire in ambiente veneziano due palazzi palladiani realmente esistenti, ma in altro
luogo, nella città di Vicenza.
In questo modo rompendo le coordinate spazio temporali, il Canaletto crea una
città immaginaria, un “capriccio”22, una Venezia “verissima” direbbe Luciano
Samosata, il maestro dell’intrusione della fantasia nella realtà, ben noto nella cultura
veneziana del tempo23.
Il Canaletto aveva pubblicato tra il 1741 e il ‘42 trentuno stampe intitolate
Vedute e altre prese dai luoghi, altre ideate il che significa che apparteneva a quel
gruppo di pittori delle città, attivo a Venezia da più di un secolo, “che facevano la
distinzione dalla veduta monumentale alla veduta capriccio” dunque tra il paesaggio
urbano reale e quello immaginario.24
Un veneziano a Roma: Piranesi
Una operazione analoga è condotta dal massimo architetto e incisore veneziano
del tempo, Giovan Battista Piranesi (1720-1778)25, inviato dalla Serenissima come
ambasciatore e incisore presso la Santa Sede proprio negli anni nei quali Roma stava
21
Vercelloni, 1994 op.cit. tav 106 commenta: «La nuova classe dirigente inglese volendo divenire più
europea, ricerca un avvallo storico nella ripresa della classicità. Dall’Inghilterra questo movimento
(neoclassicismo) si diffonderà prima nel Veneto e poi in tutta Europa».
22
Corboz, 1985, op. cit.; Succi, 1988.
23
Per tutti i rapporti tra Thomas More e Luciano e la presenza del narratore greco nella cultura italiana di
tipo fantastico-utopico, vedi Pighi, 2003, op. cit.
24
Pignatti, 1967.
25
Sul Piranesi la bibliografia è immensa, ricordo solo alcuni studi che sottolineano aspetti utopistici della
sua opera: Messina, 1971; Tafuri, 1976; Bettagno, 1983, ivi: Manfredo Tafuri, Borromini e Piranesi: la
città come ordine infranto, pp. 89-101 e Andreina, 1983, pp. 305-324; Bernardini, 1991, ivi Isabella
Serafini, Il Campo Marzio dell’antica Roma: una città tra storia e immaginazione, pp. 45-57.
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vivendo un febbrile entusiasmo per l’archeologia dopo la grande scoperta di Ercolano e
Pompei da parte del Winkelmann.
Attirata da quell’evento, si raccolse allora a Roma tutta la cultura internazionale:
viaggiatori del Grand Tour, archeologi, antiquari, collezionisti da tutta Europa26, quanto
di più stimolante ci potesse essere per il Piranesi che dal 1743 al 1758 produsse una
serie di opere, tra le quali le notissime Carceri d’invenzione in una prima serie del 1745
poi rielaborate nel 1761, che documentano la costruzione immaginaria di una Roma
inesistente.
La visione fantastica del Piranesi appresa dal Borromini, maestro nel portare
all’eccesso l’effetto perturbante e quello ottenuto con l’accostamento di forme e stili
diversi, arriva a forme di vero bricolage27. A questo si aggiunge il senso scenografico
appreso dal Juvarra che si nutre, lo vediamo nella Carceri, di una circolazione di idee
che collega Piranesi per il tema e nella presentazione volutamente violenta, al pensiero
di illuministi come il Verri a Milano e il Pagano a Napoli. “Era vicina la discussione
Dei delitti e delle pene (1764)” osserva Andreina Griseri28 che esamina come la fede
nella ragione, tipica dell’Illuminismo, non vada disgiunta in Piranesi dalla parodia
(elemento comico immancabile in ogni progettazione immaginaria di tipo utopico) per
gli eccessi della ragione stessa.
Piranesi manifesta nelle sue opere le stesse costanti che abbiamo individuato
nelle utopie letterarie: le idee che sorreggono tutta l’opera dell’artista, la fantasia che gli
permette di creare luoghi fuori dalla realtà, e l’umorismo del capriccio che scaturisce
dall’accostamento di elementi disparati con effetti di bricolage, di pastiche, per dare il
senso dell’imprevisto, della sorpresa, insomma quella che Piranesi stesso chiamava
l’arte di “sporcare” la realtà.
Piranesi è certamente uno dei protagonisti dell’Illuminismo veneto ed europeo,
un clima culturale nel quale egli si trovò immerso negli anni romani, e che gli permise
di costruirsi una rete di amicizie estesa a tutta Europa. Favorito in questo dalla pratica
dell’incisione che diffuse le sue opere così come la vivacissima editoria veneziana
diffondeva i racconti di viaggi immaginari e di utopia letteraria: un genere inizialmente
elitario divenuto narrativa di consumo per le esigenze di una società in forte
trasformazione tutta proiettata verso il futuro.
26
Importantissime per la successiva circolazione delle idee la cerchia di amicizie con artisti francesi e
inglesi che Piranesi raccoglie intorno a se a Roma.
27
Tafuri, 1983, op. cit
28
Griseri, 1983, op. cit.
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L’operazione fantastica che porta a ripensare una realtà storica per arrivare ad un
meraviglioso possibile, è nell’artista figurativo analoga a quella che induce il narratore
d’utopia a proporre una realtà fuori dal tempo e dallo spazio, sia ambientando il
racconto nel futuro, così come, e succede di frequente nel genere utopico italiano,
ricostruendo un passato verosimile, la fantastoria29.
Queste opere sia letterarie che figurative si rivolgevano ad una società unificata
nella cultura, che sapeva recepire e decodificare un genere narrativo di circolazione
europea, come il romanzo, ed era percorsa da un flusso continuo di viaggiatori30.
Una società unificata da una grande lingua di comunicazione, il francese, che
lasciava all’italiano il ruolo di linguaggio delle corti e degli artisti.
Un veneziano in Europa. Casanova e la sua Venezia
Questo è quel mondo nel quale si muoverà il veneziano Giacomo Casanova
(1725-1798), autore di alcuni romanzi scritti in italiano oltre che delle ben più famose
Mémoires, ma anche del più importante romanzo utopico del Settecento italiano
l’Icosameron (1788)31, tutto centrato sull’idea di città ideale.
Si tratta di un racconto molto ampio (cinque volumi), la summa della esperienza
di un viaggiatore europeo, scritto in francese per facilitarne la diffusione, pensato da un
Casanova anziano, afflitto da gravi disturbi agli occhi, in quegli anni bibliotecario del
duca di Dux in Boemia.
Nella cornice tradizionale del viaggio per nave e del naufragio, i due protagonisti
dell’Icosameron, fratello e sorella, arrivano nel centro della terra dove vivono per molti
anni tra i Mégamicres. Dentro questa finzione il Casanova ha modo di affrontare una
impressionante varietà d’argomenti: su alcuni insiste di più come la descrizione della
lingua di quei piccoli esseri, fatta di suoni e di colori, o la loro economia e i mezzi di
trasporto, o le loro malattie agli occhi affaticati dalla luce accecante del sole che nel
Protocosmo si trova al centro di quell’universo.
Ma è l’organizzazione dello spazio e delle città con le abitazioni dei Mégamicres
e quelle dei Giganti, ossia gli umani, figli della coppia di viaggiatori naufragati nel
29
La fantastoria è una variante del romanzo storico e meriterebbe una ricerca specifica.
Impressionante la massa di letteratura di viaggio raccolta sia nel Fondo Tursi alla Marciana di Venezi,
sia nel CIRVI di Torino per non dire degli stranieri francesi e inglesi che venivano in Italia per il loro
Grand Tour.
31
Per una lettura ravvicinata del testo si veda Pighi, 2003 op. cit. pp. 46 e sgg. L’Icosameron ebbe un
notevole successo, e fu ristampato più volte fino ad un reprint dell’edizione originale, a Spoleto nel 1928;
in edizione moderna, a Milano nel 1960.
30
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centro del Protocosmo, che costituisce il nucleo centrale del racconto e si rifà
chiaramente al prototipo inglese di questo tipo di narrazione32.
Infatti nella Utopia di Thomas More ci sono 54 città, tutte uguali, e pure il
Protocosmo di Casanova è diviso in regni quadrati anch’essi tutti uguali.
La capitale di uno di essi è Poliarcopoli, un poligono di 24 angoli diviso da 96
strade che formano 96 quartieri33 il ritmo delle vie, l’omogeneità degli stili delle
abitazioni, l’ordine dell’urbanistica utopica è chiaramente il parodico rovescio delle
città reali, cresciute spontaneamente attorno a uno o più centri di potere, come la chiesa
o il comune.
Casanova si sofferma a lungo anche sulla descrizione delle singole case che
servono a riparare dalla luce, dato che nel Protocosmo si paga per avere l’ombra.
Alle abitazioni ancor più che alla pianificazione della città è dedicata una
minuziosa descrizione nella prima giornata quando entriamo in Poliarcopoli, capitale
del Regno 90, una città assolutamente simmetrica, ricchissima però di fantastiche
architetture come l’Econearcon, un cubo di diecimila alloggi pieno di corti, giardini,
sale di riunioni: “i poveri non sono dimenticati: vivono sotto i bastioni” osserva Paolo
Petitto in una piccola raccolta di Città fantastiche34 presentata da Gianni Guadalupi,
autore di un indispensabile Manuale dei luoghi fantastici35.
Casanova è l’unico ad avere la capacità immaginativa di progettare anche una
Venezia sistematicamente pianificata, dunque una Venezia fantastica tutta al contrario
di quella reale. Le città del Protocosmo casanoviano, sono una satira del razionalismo
nei loro grotteschi effetti di ipercorrettismo, un ottimo esempio di autoironia tipico della
narrazione utopica.
La prosa di finzione come il romanzo utopico e di viaggi immaginari, a fine
Settecento, preferisce però esprimere l’idea di città non nella totalità di un disegno
urbanistico, ma nei singoli componenti del paesaggio urbano.
Come ricorda Niva Lorenzini nel suo contributo al catalogo di una mostra su
Paesaggio: immagine e realtà36, nel paesaggio urbano si dà rilievo piuttosto alla villa,
32
Casanova intende fondere nel suo romanzo utopico la tradizione inglese da More a Gulliver, con quella
italiana del Decamerone, con l’utopia di Campanella, letto in latino a Parigi, e scrive così una specie di
summa del sapere del tempo
33
Casanova, 1960, pp. 232 e sgg.
34
Petitto, 2000.
35
Guadalupi, 1982.
36
Lorenzini, 1981, pp. 95-100; inoltre nella stessa pubblicazione: Muratore, pp. 101-103.
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alla prigione, alla fortezza, alla piazza, perché l’utopia si costruisce più facilmente
partendo da elementi particolari, come ci ricorda Fourier37.
L’importante insomma anche per il narratore d’utopia letteraria non è guardare,
ma “imparare a vedere” come aveva suggerito già a fine Settecento il veneziano
Francesco Milizia, teorico della pittura e dell’architettura38.
Altre città italiane pensate: San Leucio, Alvisopoli, la città musicale, la città
giardino
Tra fine Settecento e i primi anni dell’Ottocento quando ardevano nel cuore
degli italiani le passioni giacobine alimentate dal sogno napoleonico, troviamo alcune
città utopiche che escono dal modello letterario del romanzo d’utopia, e presentano
forme diverse di rapporti tra pensieri scritti o disegnati, tra committente e letterato o
artista figurativo, campi e generi diversi ricchi di utopismo attraverso i quali dovremo
muoverci, se vogliamo seguire lo sviluppo e il percorso dell’idea di città futura.
Il caso di San Leucio è tra i più interessanti per dimostrare come idee,
letteratura, e arti figurative interagiscano tra di loro in funzione di un potere politico: si
tratta di una vera città operaia voluta da Ferdinando di Borbone nel 1773 (era allora in
costruzione la Reggia di Caserta), città alla quale Eugenio Battisti dedicò numerose
ricerche chiamandola “città sperimentale”39 e che il Kruft inserise, unica tra le italiane,
nel suo studio su Le città utopistiche40.
Nel caso di San Leucio il committente, Ferdinando di Borbone, scrive gli Statuti
della città per gli abitanti futuri e spiega loro i suoi criteri urbanistici, le sue idee sul
loro lavoro, la loro vita e quella dei figli che verranno, una vera lettera ai posteri, un
testo letterario ricco di proposte concrete in parte eseguite dagli architetti, ma
soprattutto ricco di idee e di immaginario: quelle stesse forze che avevano animato
Ferdinando Galiani e i suoi studi sulle monete di una società futura, e Antonio Genovesi
fondatore delle prime idee di economia politica, e di “studi utili”.
Gli Statuti di San Leucio sono scritti in stile epistolare che è uno dei generi più
adatti ad ospitare sogni ed utopie; qui l’autore si vale di un tono discorsivo che sfiora
spesso il teatro comico, e che presuppone una connivenza col destinatario, il tono
costante nella narrativa d’intrattenimento, scritta per i contemporanei. Con San Leucio,
37
Fourier, 1982.
Fourier, 1967.
39
Battisti, 1977; Mongiello, 1980; Battisti, 1986.
40
Kruft, 1990, cap. VI “Il dovere dell’uomo di essere felice: la colonia di San Leucio presso Caserta”.
38
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188
La “città ideale” nella cultura italiana dal Sette al Novecento
si ha l’esempio singolare di una città pensata, descritta e anche costruita dallo stesso
committente.
Un caso analogo che ci riporta all’ombra di Venezia, si verifica quando, qualche
anno più tardi verso il 1810, Alvise Mocenigo e sua moglie, figlia del procuratore
Andrea Memmo autore degli Apologhi immaginari (1787), decidono di costruire
Alvisopoli, bonificando un loro latifondo nel basso Friuli.
L’imponente documentazione epistolare e amministrativa del Mocenigo,
raccolta da Giandomenico Romanelli, va inserita certamente nella storia della riforma
agraria in atto nel Settecento veneto, ma dal suo interno lascia trasparire:
gli intenti di un personaggio, di una famiglia e di un milieu quanto
meno interessanti [...] e la prospettiva industriale di una colonia
protesa verso i mitici orizzonti dell’autosufficienza41.
In questo caso si può addirittura ipotizzare che all’ idea di fondare Alvisopoli, le
cui abitazioni sono ancora oggi in gran parte esistenti, e di dar vita all’impresa
economica culturale della stamperia, fonte di reddito per una notevole comunità di
abitanti, divenuta famosa nel corso dell’Ottocento42, non siano estranei Giacomo
Casanova, amico della famiglia Mocenigo, e il suo Icosameron, nel quale una comunità
di Mégamicres vive dei proventi di una stamperia, in una città che serve da modello
urbanistico ad Alvisopoli e dalla cui stamperia, a lungo famosa, uscirà proprio
l’edizione più fortunata del romanzo di Casanova.
La città musicale
Anche la provincia veneta contribuisce allo sviluppo dell’idea di città futura con
una proposta singolare, quella di una città musicale una costruzione ritmica governata
dalle stesse leggi dell’armonia43.
Si tratta dell’opera di un architetto, Francesco Maria Preti44, scritta su
commissione di due cosmopoliti intellettuali veneti, matematici e teorici di musica e di
architettura, che volevano esperimentare la complementarietà di queste discipline.
41
Romanelli, 1983; Idem, 1975; Altan, 1974.
Vianello, 1967.
43
Non so dire se Hector Berlioz (1803-1869) autore di Soirées de l’orchestre (1852) pensasse a questa
opera del Preti nel 1844 quando scrisse una Nouvelle de l’avenir intitolata Eufonie, una magica città
musicale ad organizzazione militare ambientata nel 2344 «nella tradizione satirica inaugurata da
Benedetto Marcello» scrive Lucio Monaco in una recensione su «L’Indice» del giugno 1994. Il rapporto
ritmo musicale, ritmo architettonico non è dunque nuovo.
42
189
MORUS – Utopia e Renascimento, 9, 2013
Laura Schram Pighi
La prefazione all’opera del Preti scritta nel 1780 da Giacomo Riccati, figlio di
uno dei due ispiratori della città musicale, ci presenta, come scrive il Vercelloni45 “una
vera sperimentazione teorica nel laboratorio della città possibile, prossima ventura”.
Sarebbe verosimile pensare che ci sia un rapporto tra il trattato del Preti e
l’Icosameron di Casanova scritto otto anni dopo, nel 1788, dove la civiltà dei
Mégamicres è completamente immersa nella musica. E non dimentichiamo che Preti e
Casanova conoscevano ambedue, benché nella versione latina, la Città del Sole di
Campanella.
La città giardino
Se dall’Inghilterra si deve partire per seguire il cammino del genere utopico
iniziato dall’Utopia di Thomas More, e diffuso in tutta Europa, e poi in Italia a partire
da Venezia, e pure nella Inghilterra del primo Settecento siamo ritornati per trovare i
veneziani Algarotti e Canaletto, alleati nel comune intento di dare alla nuova borghesia
inglese una legittimazione culturale neo classica e dunque italiana, ancora in Inghilterra
dobbiamo ritornare per incontrare un esule politico, il nobile napoletano Vincenzo
Marulli, che vi trova realizzata con una nuova architettura e una nuova urbanistica,
quella città ideale dove la società italiana potrà vivere nel futuro.
Marulli dopo la fine della Repubblica Partenopea, nel 1799, era fuggito prima in
Francia e in seguito, deluso dal nuovo clima politico, si era rifugiato in Inghilterra dove
restò ammirato da un “eccezionale fenomeno”, quello dei giardini e della urbanistica
delle città inglesi. Sui quali scrive addirittura due trattati: L’arte di ordinare i giardini
del 1804 e Su l’architettura e su la nettezza della città del 180846, due studi che partono
dall’osservazione di una realtà, per proporre alla cultura urbanistica italiana nuovi
modelli per la città futura47.
Milano e Parma, le prime città future (primo ottocento)
Milano
La prima città italiana chiamata dalla storia al ruolo di città futura fu Milano,
divenuta nei primissimi anni dell’Ottocento la capitale del Regno d’Italia napoleonico, e
44
Preti, 1780; Fabris, 1954.
Vercelloni, 1994, op. cit. tav. 113.
46
Marulli, 1804; Idem, 1975; Giordani, 1972.
47
Pighi, 2003, op. cit. p.93 e sgg. sul ruolo del giardino inglese nella narrativa italiana d’utopia del primo
Ottocento veneto e italiano.
45
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190
La “città ideale” nella cultura italiana dal Sette al Novecento
punto d’incontro di moltissimi patrioti esuli dalle diverse province non ancora divenute
“italiane”: tutta una nuova società che esigeva nuove città.
E proprio per Milano, Napoleone Bonaparte nel 1801 commissionò all’architetto
Giannantonio Antolini (1756-1841) un nuovo centro laico e politico, Foro Bonaparte,
che doveva affiancarsi a quello religioso del passato, per servire da punto di riferimento
amministrativo della nuova classe dirigente repubblicana48.
Di “questo grande intervento pubblico, il più vasto e organico di tutta l’Europa
rivoluzionaria del tempo” è rimasto solo il ricordo documentato da una ricca serie di
magnifiche illustrazioni49.
Si conservano anche i progetti dello scenografo Alessandro Sanquirico per le
feste repubblicane del 1801 in occasione della posa della prima pietra di quel Foro
Bonaparte mai realizzato50. Tutte scenografie di una possibile città futura, paesaggi
urbani effimeri per comunicare idee politiche e artistiche51, dunque manifesti politici
espressi in linguaggio grafico, simili ai numerosi pamphlets giacobini o repubblicani
espressi in parole, un nuovo genere letterario52.
I pamphlets, come più tardi i manifesti futuristi, sono pieni di utopismo ma
differiscono dal testo letterario narrativo di genere utopico per l’assenza di umorismo:
pare che in essi la passione delle idee impedisca quel distacco dalla realtà che il comico
produce. Abbondano invece di fantasia che propone società, leggi e costituzioni future
inserite nella cornice letteraria del sogno o del manoscritto ritrovato53.
Parma
Tocca ad una donna, Maria Luigia (1791-1847) moglie di Napoleone, figlia
dell’imperatore Francesco I, duchessa di Parma dal 1815, raggiungere nella città di cui
tenne il governo per una quarantina d’anni, il difficile equilibrio tra ideologia e realtà al
fine di “rendere 400 mila anime felici, di proteggere le scienze e le arti...” come scrive
lei stessa nelle sue memorie.
Grazie alla collaborazione della principessa con ottimi architetti come Nicolò
Bettoli, Parma divenne in un quarto di secolo “il modello urbano del neoclassicismo
48
Antolini, 1801.
Vercelloni, 1994, op. cit. tav.119.
50
Ibid., tav 122.
51
Ehrard, 1977.
52
Leso, 1977
53
Pighi, 2009.
49
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Laura Schram Pighi
maturo” una città pensata per una società futura54, quindi, naturalmente, una città
felice55.
Le città dell’Italia unita (secondo ottocento)
La raggiunta unità d’Italia comportò, com’era prevedibile, una trasformazione
profonda nell’idea di città anche per lo spostamento di ruolo di capitale da Torino a
Firenze e poi finalmente a Roma56.
La narrativa registra fedelmente l’esplosione urbanistica di Roma capitale57
come fa per la contemporanea realtà urbana del Nord Italia, dove i nuovi rapporti sociali
ed economici provocati dalla prima industrializzazione, spostarono masse popolari dalla
campagna alle città, provocandone un urgente rinnovo58.
Come trasformare le antiche strutture urbane per renderle adatte alla vita futura,
questo fu il compito di urbanisti e architetti: il problema era così sentito da investire
tutta l’opinione pubblica e da riflettersi anche nella narrativa specialmente quella
popolare, di massa.
La narrativa popolare tra Otto e Novecento produsse una quantità notevolissima
di documenti attorno all’idea di città, specialmente romanzi, quasi tutti intitolati Misteri,
che descrivendo la situazione delle città di una Italia appena unificata, ne mettono a
nudo gli aspetti sociali più degradati e miserabili59. Ma l’assenza di grandi narratori
italiani del genere popolare come lo erano in Francia Eugène Sue e addirittura Victor
Hugo, limita i Misteri alla denuncia dei mali, senza proporre soluzioni alternative.
Sergio Romagnoli in La città, il Collodi, i Misteri60, a proposito di I misteri di
Firenze. Scene sociali (1857) di Carlo Lorenzini61 ci fa osservare come il padre di
Pinocchio dopo alcuni tentativi di scrivere in questo genere allora divenuto di moda,
rifiuti quel modello di narrativa perché era “del tutto privo di umorismo” e di fantasia.
Questa scelta porta il Collodi, non dimentico della tradizione umoristica toscana
del Giusti, a inventare con la fantasia che crea la realtà e col rovesciamento tipico della
parodia “la grande città tentatrice e corruttrice [...] nel Paese dei Balocchi” e quella di
54
AA.VV, 1992; inoltre Tafuri, 1977.
Su la questione della felicità che percorre tutto il Sette e l’Ottocento: Pighi, 2003, pp. 70 e sgg.
56
Zevi, 1995.
57
Accasto, 1971.
58
Barberi Squarotti e Ossola, 1997.
59
Riccini, 1981, op. cit, pp. 130-150.
60
Romagnoli, 1976.
61
Lorenzini, 1857; interessante l’elenco ricchissimo, e certo non completo, del genere “misterico” di fino
Ottocento italiano
55
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192
La “città ideale” nella cultura italiana dal Sette al Novecento
Acchiappacitrulli, che riflettono facendone la caricatura il dibattito sulla città che
occupava tutta l’opinione pubblica del tempo.
I paesi immaginari nei quali Pinocchio arriva sono metafore elaborate in misure
diverse: c’è un “paese dei Barbagianni” raccomandato dal Gatto dove nel Campo dei
miracoli le monete seminate e annaffiate con acqua e una presa di sale, come in un
battesimo, producono una pianta carica di zecchini d’oro. In questo paese si trova una
città “che aveva nome Acchiappacitrulli” abitata da una un bestiario impressionante
di… citrulli accalappiati: cani spelacchiati ed affamati, pecore tosate che tremavano dal
freddo, “grosse farfalle che non potevano più volare perché avevano venduto le loro
bellissime ali colorate” e poi galline e pavoni e fagiani illusi dai miraggi della città e
abbandonati, distrutti, svergognati. Tutta una:
folla di accattoni e di poveri vergognosi (tra i quali) passavano di tanto
in tanto alcune carrozze signorili con dentro o qualche volpe o qualche
gazza ladra o qualche uccellaccio di rapina.
Quella fauna di politici è descritta dal Collodi in una operina satirica come
L’Onorevole Cené Tanti62, la stessa che popola le tristissime città descritte nei popolari
Misteri di cui Collodi fa la parodia.
Ma nel mondo di Pinocchio c’è anche un paese più piccolo detto “il paese delle
Api industriose” dove “tutti lavoravano, tutti avevano qualcosa da fare” e poi anche
uno, il più bello e salubre per i ragazzi, senza scuole, senza libri, senza maestri, dove “Il
giovedì non si fa scuola: e ogni settimana è composta da sei giovedì e da una
domenica.”
Il dialogo vivacissimo di Pinocchio con Lucignolo serve a descrivere la vita
degli abitanti di quel mondo sognato, non tanto le loro case: ma è sicuramente un gran
“bel paese” come ripete Pinocchio decine di volte per sforzarsi a crederci sul serio,
come lo era l’Italia appena unificata abitata da un popolo di sognatori delusi, tra i quali
appunto, Carlo Collodi.
La città nemica
C’è nella letteratura italiana di quel periodo anche un altro genere di narrativa
che riflette, ma in negativo, l’idea di città, quella che si usa chiamare “narrativa
62
Collodi, 1986.
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Laura Schram Pighi
rusticale”. Su modello francese de La ville noire di Geoges Sand si affianca alla città
degradata dei Misteri, il mondo agreste che la rifiuta, insomma il mondo immobile di
Geppetto e di Mastro Ciliegia.
Il contemporaneo “romanzo sociale” invece, assieme a quello “operaio”
riportano pure essi tutti gli aspetti negativi delle città italiana, ma hanno un maggiore
livello letterario e registrano una situazione urbana nuova, vista però come un
pericolo63.
Qui le idee sono più definite, espresse da personaggi nuovi sulla scena letteraria,
come l’operaio, l’imprenditore, tutti infelici perché non sono più contadini e padroni di
terra, come i loro padri, e sono quindi destinati ad essere travolti dall’industria, o spinti
addirittura ad emigrare64. Il rimpianto per il passato, che è il contrario della aspirazione
al futuro di tipo utopistico, è diffuso anche nella narrativa vincente così come nell’arte
figurativa tra Divisionismo e Simbolismo65.
Di fatto i drammatici contrasti dell’età giolittiana66, si riflettono tutti nella
“invenzione della città” e in parallelo nell’”invenzione del romanzo”.
Leggiamo queste espressioni in un intervento molto ricco di provocazioni di
Edoardo Sanguineti Lo scrittore nella città67. Il critico esamina a fondo il ruolo della
borghesia, al potere in tutta Europa e anche in Italia, che “inventa” la città e insieme
quel romanzo che “comincia davvero a rendere la letteratura cittadina” suggerendo uno
stretto legame tra narrativa e città pensata. Sanguineti ci ricorda:
[...] quanto ci sarebbe da scavare attorno a questo modo di tentare di
rappresentare la città con prospettive anche fortemente miticosimboliche. Perché la città è un luogo d’esperienza e una macchina
praticabile, ma è anche, naturalmente, un grande archetipo
immaginativo.
Ed è appunto nel mondo dell’immaginazione che è sempre vissuta e ancora vive
e si trasforma l’idea di città futura.
Ma la nuova Italia esigeva la costruzione di nuove città.
63
AA.VV, 1977, op.cit.; la narrativa sociale conosce una serie di autori interessanti ricordati dal
Romagnoli, tra i quali emerge Francesco Mastriani, e «per autentica vena misterica» Giuseppe Garibaldi
romanziere.
64
Franzina, 1992.
65
Damigella, 1989.
66
Galasso, 1989, op. cit.
67
Sanguineti, 1997.
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La “città ideale” nella cultura italiana dal Sette al Novecento
Le nuove città
Una proposta interessante viene dagli urbanisti e dagli architetti, che non
intendono creare narrativa di finzione, non è quella la loro arte, ma vogliono solo
comunicare tutto il loro utopismo e la loro fiducia nel futuro.
Si verifica allora una risposta di tipo concreto: è impressionante notare la
crescita di centri abitativi attorno alle nuove fabbriche68: tra Otto e Novecento nascono
per esempio città come Collegno (1875-1911), o Crespi d’Adda vicino a Bergamo
(1878-1925)69, oppure Schio vicina a Vicenza, che ha la sua prima fabbrica nel 1732 ma
viene ampliata nel 1848 con interi quartieri pensati per gli operai e i loro figli e ispira al
suo ideatore, Alessandro Rossi, una raccolta di versi intitolata Schio Artiera (1866)
divisa in tre parti: I il passato, II il presente, III il futuro70.
Rossana Bossaglia nel suo studio su Crespi d’Adda71 osserva però con un certo
pessimismo:
L’utopia lombarda è il sogno di un nuovo feudalesimo, riscritto sulla
falsariga del socialismo umanitario. Per questo il suo vigore durò fin
tanto che quei moventi e incentivi ebbero forza e senso; non oltre la
prima guerra mondiale.
Il “socialismo umanitario” che Renato Salvadori chiama Socialismo utopistico72
crea il clima ideologico ed emotivo adatto per il fiorire di un certo numero di narratori
d’utopia attenti a problemi e idee di cui essi propongono una soluzione spostando la
realtà contingente fuori dal tempo o dalla spazio73. E’ il momento dell’Immaginario
della città socialista, com’è intitolato un prezioso contributo di Luciano Patetta ad un
congresso dedicato a Il testo letterario e l’immaginario architettonico. Fonti della
creazione letteraria ed esperienza estetica74.
Troviamo alcuni narratori particolarmente interessati alla trasformazione
urbanistica, come per esempio Agostino della Sala Spada (1842-1913), che osserva la
68
Guiotto, 1979.
Abriani, 1981; ivi Bossaglia, Rossana. Crespi d’Adda: l’invenzione, l’idea, il monumento, pp. 111-126.
70
Rossi, 1866; Fontana, 1985.
71
Boscaglia, 1981.
72
Salvadori, 1972.
73
Per un esame dei testi si veda Pighi, op.cit.2003.
74
Patetta, 1994.
69
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Laura Schram Pighi
realtà del suo tempo rompendo le dimensioni spazio temporali. Egli è anche uno dei
pochi narratori d’utopia di fine Ottocento che guardi al progresso con occhio ottimista:
nel suo Nel 2073! Sogni d’uno stravagante75 descrive minutamente la città del futuro,
una Torino “estesa, popolatissima, fervente di vita nelle strade e nei cieli” che egli visita
guidato da un amico scoprendola del tutto nuova perché la sua antica città è diventata
nel frattempo “porto di mare, attraverso il Po è entrata in comunicazione diretta con
Genova e con Venezia e quindi con il Mediterraneo e con l’Adriatico”
Negli stessi anni anche Edmondo De Amicis (1846-1908), piemontese pure lui,
ci descrive in Le tre capitali: Torino, Firenze Roma (1898) la trasformazione già in atto
nella sua città prima troppo regolare e monotona ora già diventata nei nuovi quartieri un
centro urbano ricco di stili diversi e nuova viabilità, molto simile a quella città futura
dove ci porta Della Sala Spada nel 207376.
Tra i narratori più attenti al rapporto ambiente urbano-società si deve ricordare
anche Andrea Costa (1851-1910) il primo socialista italiano eletto al Parlamento, che
scrive una utopia urbanistica in Un sogno (1881). Nel sogno egli vede la sua Imola
completamente rinnovata:
[...] Tutti i sudici vicoletti erano spariti; di tutte le vecchie catapecchie
non si vedeva più traccia. Né mura né porte né cancellate dividevano
ormai più i sobborghi dalla città [...] Fontane e giardini ornavano le
piazze [...] I Capuccini erano stati convertiti in un’ampia casa di
educazione [...] Non è questa una città che si chiama Imola? Io vivevo
in un tempo in cui Imola era ben diversa da ciò che è adesso. Allora vi
erano de’ signori e de’ poveri [...] a lato dei palazzi vi erano casupole
e catapecchie indecenti; a lato alle chiese sorgevano i postriboli; e, se
ti scostavo dalle vie principali trovavi dei vicoli che facevano paura...
da un secolo già queste cose sono sparite... la grande rivoluzione
internazionale estirpò dalla terra gli ultimi avanzi della barbarie!
Naturalmente non era che un sogno, ma “lasciatemi sperare che si avveri un
giorno” conclude l’inguaribile utopista77.
75
Della Sala Spada, 1998.
De Amicis, 1997, pp. 68-69.
77
Costa in Ferri, 1883.
76
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La “città ideale” nella cultura italiana dal Sette al Novecento
Tre anni dopo, nel 1884, un giovane veterinario anarchico, Giovanni Rossi detto
Cardias (1856-1943), pubblica la terza edizione di un suo scritto di tipo utopistico di
perdurante successo intitolato Un comune socialista, storia semiveridica, con prefazione
del compagno e amico Andrea Costa78.
Anche in una opera successiva, Un episodio d’amore nella colonia Cecilia
79
(1893) , Cardias ritorna sul tema della città futura: il racconto è molto variato e reso
vivace da un dialogo tra i personaggi alternato da inserti teorici. Inizia con l’intreccio
amoroso tra il narratore e Cecilia, sorella socialista del proprietario borghese (che però
poi per fortuna si converte), poi c’è l’oratore socialista che tiene un comizio per i
contadini e gli operai, e la descrizione di come dopo pochi anni quel borgo, Poggio al
Mare si fosse trasformato “Vi figurate un paesetto tutto fatto di artistici palazzi e di
villette eleganti, circondate da graziosi giardini? Tale è Poggio al Mare”. Al massimo
però, per la società futura l’autore arriva ad immaginare una borghesissima città
giardino dove egli stesso abita con Cecilia e un loro bambino80.
Anche Ulisse Grifoni (1858-1907) nel suo Dopo il trionfo del socialismo. Sogni
di un uomo di cuore (1907)81 un romanzo di 200 pagine, descrive una città e le
abitazioni che sono “il tipo delle nuove abitazioni socialiste” viste da chi, vissuto
all’estero per molti anni ritorna per nave e sbarca nel nuovo porto-canale di Roma. Per
Grifoni, ingegnere e geografo, il tema urbanistico è centrale: dopo una introduzione che
esalta lo stato collettivista del socialismo (e rimanda ad un suo romanzo scientifico
Dalla terra alle stelle) inizia il racconto. Il sommario del primo capitolo ci può dare la
tonalità dell’insieme:
Cap. I, In mezzo al Mediterraneo.
Sommario: A bordo della nave Andrea Costa [...] La proclamazione
del socialismo in Italia; Comunismo e collettivismo; Buoni di
consumo e loro superiorità sul danaro; Impossibilità del furto e della
ricostituzione del capitale; Il collettivismo in pratica .
A bordo dell’Andrea Costa, 7 novembre, anno VI dell’Era Socialista
(18 marzo 19... dell’Era Volgare).
78
Rossi-Cardias, 1993.
Gosi, 1977.
80
Patetta, 1994, op. cit.; Pighi, 2003, op. cit.
81
Grifoni, 1907.
79
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Molte sono le sorprese che attendono l’emigrante di ritorno, da quelle più
strettamente urbanistiche a quelle politiche e sociali. Il capitano della nave gli illustra la
nuova città e a le varie costruzioni, che nell’insieme rispecchiano i progetti disegnati
dagli architetti del tempo e realizzati nelle “città del capitale”.
C’è persino una donna, Beatrice Speraz (1843-1923), arrivata negli anni ’80 a
Milano dalla Dalmazia con l’ondata dei contadini che si inurbavano, che pubblica con
enorme successo sotto lo pseudonimo di Bruno Sperani, un romanzo La fabbrica (1908)
dove descrive la situazione economica e sociale della nuova metropoli, nella quale le
donne pagano le conseguenze più penose .
La fabbrica è un cantiere edile in una Milano, resa irriconoscibile per i grandi
sventramenti di interi quartieri, per costruirne di nuovi adatti alla città futura. Cosa che
provoca, al solito, la speculazione e lo sfruttamento delle masse popolari82. I temi
economici sono predominanti nel racconto, osserva il moderno editore del romanzo
della Sperani83: evidentemente Le glorie e le gioie del lavoro, come aveva scritto nel
1870 Paolo Mantegazza, non dovevano essere ancora del tutto presenti nei primi anni
del nuovo secolo84.
Sui rapporti tra città e letteratura, oltre al Sanguineti che abbiamo ricordato, ma
ancor più a proposito di Milano, Tommaso Pomilio si sofferma a lungo in Paradigmi
atopici: Milano 1860-188185 dove scarta “tra le due lezioni del lemma utopia quella che
dipende dal prefisso –eu-” per mettere in evidenza il senso di smarrimento, di perdita
d’orientamento provocata dalla costruzione della metropoli moderna. Il ribellismo tipico
della Scapigliatura a cui possiamo riportare la Sperani, assieme a narratori d’utopia
come Ghislanzoni, Tarchetti, Dossi86 si manifesta chiaramente in una atopia immanente,
nello smarrimento d’identità prodotto dalla trasformazione della città, che porta a
rifugiarsi nello spazio interiore e a rifiutare la nuova realtà urbana87.
Questa è la scelta di D’Annunzio. “La Roma di D’Annunzio è precisamente una
Roma costruita sulla deprecazione della nascita della città moderna” osserva il
Sanguineti ricordando i romanzi di D’Annunzio ambientati nella nuova capitale, e la sua
82
Dato, 1995.
Sperani, 1996.
84
Pavan, 1997, op. cit, pp. 491-508.
85
Pomilio, 1994, op.cit.
86
Pighi, 2003, op. cit, pp.
87
Baczko, 1979.
83
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La “città ideale” nella cultura italiana dal Sette al Novecento
denuncia di spirito tardo aristocratico della città moderna come fonte inesauribile di
speculazione88.
Venezia e i futuristi (primo novecento)
Negli stessi anni a proposito di città abbiamo la proposta più radicalmente
utopistica che viene da un letterato italiano che viveva a Parigi, la città che più in
Europa era stata capace di rinnovarsi.
Si tratta di un romanzo filosofico-simbolico intitolato La ville sans chef (1910)
scritto da un letterato giornalista e musicista, un barese amico di Apollinaire: Ricciotto
Canudo (1877-1923).
Tutte le opere di questo interessante scrittore sono poco note, benché abbiano
avuto una funzione insostituibile di ponte tra cultura italiana e francese nei primi
decenni del secolo, e la più sconosciuta tra loro è La ville sans chef scritta in un francese
esuberante e pittoresco89.
Si tratta della descrizione di ciò che succede in una isola sperduta nell’Oceano,
scossa da un tremendo terremoto che distrugge la città capitale e costringe una parte
degli abitanti a cercar rifugio sulle montagne dove decidono di fondare una nuova città.
Allora nascono problemi politici, economici, sociali, ed anche urbanistici per una
comunità che non vuole riconoscere nessun capo e mette in discussione l’autorità in
ogni suo aspetto, e che soprattutto rifiuta la tradizione in nome di un futuro tutto da
inventare.
Sempre ai primi anni del Novecento troviamo uno scrittore che forse più di ogni
altro al suo tempo si pone il problema della estetica della modernità: velocità,
movimento, macchine, rumore erano tutti elementi piombati in modo disordinato a
sconvolgere la vita degli italiani che si stavano ammassando nelle vecchie città
impreparate ad accoglierli, costrette ad una radicale trasformazione la cui finalità non
era ancora del tutto chiara.
Mario Morasso (1871-1938) ci dà in più opere un affresco completo della
società moderna e in particolare dedica una parte di un suo studio del 1903 proprio a La
88
89
Sanguineti, 1997, op. cit.
Canuto, 1910; Dotoli, 1978; Richter, op. cit., 1978, pp. 439-444.
199
MORUS – Utopia e Renascimento, 9, 2013
Laura Schram Pighi
Metropoli90. Carlo Ossola nella introduzione ad uno scritto successivo di Morasso, La
nuova arma (la macchina)91 osserva che:
alla Metropoli [...] Morasso dedica una delle descrizioni certo più
ricche ed affascinanti di tutta la letteratura italiana di inizio secolo,
dalla descrizione del suo eponimo nuovissimo flusso vitale, il
Metropolitain [...] ai Grandi Magazzini.
Si tratta di prosa descrittiva di rara potenza e immaginativa, non di narrativa
attorno a personaggi di finzione. Qui l’anticipazione della città futura è veramente
impressionante e visionaria molto vicina all’affresco coloratissimo e grandioso di
Canudo. Purtroppo le visioni di Morasso sfoceranno inevitabilmente nella guerra che
dieci anni più tardi trascinerà con sé molti sogni degli italiani, non prima però che
alcuni di loro ci abbiano lasciato in forma scritta o disegnata le loro visioni sulla città
del futuro.
Fu Filippo Tommaso Martinetti, che nel 1909 aveva iniziato il Futurismo92 un
movimento che scosse l’Italia e l’Europa con una ventata di fantasia e di dissacrante
umorismo, a fare della città futura un progetto privilegiato d’intervento e scelse pure lui
Venezia. Come osserva Elvira Godono nel suo studio su La città nella letteratura
moderna93.
Il futurismo immagina di demolire la città del passato per costruire una nuova
capitale, rappresentazione allegorica della rivoluzione culturale auspicata o concreto
progetto architettonico, necessario per fermare la decadenza delle città italiane, in
particolare Venezia.
Venezia sarà la città distrutta e ricostruita con più insistenza dai futuristi a partire
dal famoso discorso di Marinetti, Uccidiamo il chiaro di luna (1909) al Manifesto dei
pittori futuristi dell’anno dopo e ancora in altri due testi del 1910 l’uno di Marinetti il
Discorso futurista ai Veneziani e l’altro firmato assieme a Boccioni, Carrà, e Russolo
Contro Venezia passatista. Marinetti stesso scriverà più tardi Gli indomabili, un
romanzo utopistico sulla città (1922)94.
90
Morasso, 1903.
Morasso, 1994.
92
Godoli, 1983; Calvesi, 1989. La bibliografia sul movimento è sterminata, date le sue caratteristiche
multi disciplinari.
93
Godono, 2001.
94
Martinetti, 1990.
91
MORUS – Utopia e Renascimento, 9, 2013
200
La “città ideale” nella cultura italiana dal Sette al Novecento
Boccioni da artista figurativo e Russolo da musicista proporranno, ciascuno nella
propria arte, un tipo di città moderna, ma dobbiamo certamente a Marinetti il merito di
aver affidato ad Antonio di Sant’Elia (1888-1916)95 la stesura del Manifesto
dell’architettura futurista dopo aver visto i progetti del giovanissimo architetto assieme
a quelli di Mario Chiattone in una mostra milanese del 1914.96
Un testo che impressionò la cultura del tempo per essere riuscito a sintetizzare
tutte quelle idee e discussioni sulla città futura che erano nell’aria.
Il Manifesto di Sant’Elia è l’atto iniziale di tutto un nuovo approccio all’idea di
città e anche oggi stupisce per la sua novità e lungimiranza. L’autore comincia
affermando che:
Dopo il ‘700 non è più esistita nessuna architettura perché ci si è solo
sforzati di riprodurre il passato, ora invece [...] il problema
dell’architettura futurista non è un problema di rimaneggiamento
lineare [...] ma di creare di sana pianta la casa futurista [...] un’
architettura che abbia la sua ragion d’essere solo nelle condizioni
speciali della vita moderna [...] Abbiamo arricchita la nostra
sensibilità del gusto del leggero, del pratico, dell’effimero e del
veloce.
L’intero manifesto, molto esteso, viene alla fine riassunto in otto punti e presenta
alcuni aspetti di grande novità come l’attenzione ad una delle nuove forze che in quei
primi anni del Novecento aveva sconvolto la vita di tutti, la velocità.
Il Manifesto di Sant’Elia va avvicinato a quello di Balla e Depero su La
Ricostruzione futurista dell’universo e quello di Boccioni intitolato Architettura
futurista. Manifesto o a quello di E. Prampolini L’atmosferastruttura, basi per
un’architettura futurista. Senza dimenticare il manifesto sui materiali nuovi, non
presenti in natura, indispensabili per la nuova città, come la plastica che F. Azari nel
1924 in Flora futurista, ed equivalenti plastici di odori artificiali esalterà elevandola a
strumento indispensabile per ravvivare la città con nuove forme di arredo urbano.
L’elenco degli interventi del Futurismo attorno all’idea di città potrebbe essere
anche più lungo, ma ci siamo soffermati solo su questi testi perché dimostrano come
l’idea di città futura possa essere colta passando da un linguaggio all’altro
95
96
Caramel, 1991.
Scrivo, 1989, op. cit.
201
MORUS – Utopia e Renascimento, 9, 2013
Laura Schram Pighi
dell’espressione, dalla teoria alla pratica, dalla poesia alla prosa propositiva dei
manifesti, all’arte figurativa, e all’architettura senza perdere la sua carica utopica97.
Nella Metropoli futurista, si dovrà di conseguenza ripensare tutta la viabilità e
considerare le automobili e persino gli aereoplani come mezzo di trasporto normale e la
verticalità degli edifici come indispensabile per risparmiare lo spazio.
In uno studio molto preciso Gabriella Vinciguerra98, analizzando da vicino il
Manifesto di Sant’Elia, osserva come l’architettura futurista in funzione metropolitana
implichi anche un discorso sulla funzionalità dell’opera d’arte, concetto che Sant’Elia
contrappone a quello di arte come ornamento.
Troviamo anche in un futurista della prima ora, nel più poeta e utopista di tutti,
un riflesso del problema urbanistico che incombeva nella società italiana.
Palazzeschi nel suo Incendiario del 1911 al tempo del suo primo entusiasmo
futurista, comincia subito a dissacrare l’utopia classica della città ideale quando scrive
La città del sole mio, “duplice contaminazione parodica dell’opera campanelliana e
della canzone già celebre” come osserva Roberto Deidier nel suo studio sull’Utopia del
significato: Palazzeschi 191199.
E’ giusto ricordare anche l’altra partecipazione di Palazzeschi al dibattito sulla
città, quella lunga Passeggiata100 che comincia con “Andiamo? Andiamo pure” e
termina con “Torniamo indietro? Torniamo pure”. Durante la passeggiata non succede
nulla, c’è solo lo sguardo del poeta che scorre su case, botteghe, insegne, manifesti, il
cui
apparentemente
insignificante
accostamento
e
la
lunghezza
noiosa
dell’enumerazione crea effetti esilaranti, simili ai capricci del Canaletto.
[...] Benedetto Paradiso
successore di Michele Salvato,
gabinetto fondato nell’anno 1843.
[...] Grandi tumulti a Montecitorio
Il presidente pronunciò fiere parole,
tumulto a sinistra, tumulto a destra.
Il gran Sultano aspetta.
La pasticca del Re Sole.
97
Dal Co, 1989, op. cit.
Vinciguerra, 1990.
99
Deidier, 1995, op. cit.
100
Palazzeschi, 1958, pp.237.
98
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202
La “città ideale” nella cultura italiana dal Sette al Novecento
Si getta dalla finestra per amore.
Insuperabile sapone alla violetta.
Si passeggia tra un accumulo di frammenti di realtà, tutta roba vecchia, da
incendiare, da spazzar via. Tutta pubblicità, interessi, scenari di cartone: i futuristi
furono i primi a capire che bisognava fare i conti con queste nuove realtà ed era
necessario inserirle nella vita delle città future.
Torino, la capitale del futuro; Ferrara, città magica
La città modello per De Chirico, quella che lo fa sognare di più, è Torino.
La Torino di quei primissimi anni del Novecento, come lo era stata vent’anni
prima Milano, da città nobile e antica stava trasformandosi in qualcosa di solo
immaginato, non ancora reale, di cui c’erano però le premesse: la prima industria
cinematografica, la prima editoria di massa, le prime automobili sono tutte nella Torino
metafisica di Giorgio De Chirico che è la stessa vista da Nietzsche prima di lui101.
Non c’è dubbio che Interno metafisico con grande officina di Giorgio De
Chirico, del 1916, s’inserisca nello stesso dibattito che coinvolgeva chi si poneva il
problema della vita futura di una società oramai industrializzata. Il modellino della
fabbrica inserito nel disordine dello studio dell’artista, nasconde, ma non del tutto, una
finestra che guarda su costruzioni monumentali antiche, sulla tradizione del grande
passato.
Per questo l’opera di Gabriele D’Annunzio, La reggenza italiana del Carnaro.
Disegno di un nuovo ordinamento della stato libero di Fiume del 1918 suona come una
battuta di un dialogo a più voci iniziato ben prima di questa data, forse perché è
prossimo nello stile e nelle idee agli ordinamenti della Ville sans chef di Canudo (1910)
o dai poemetti in prosa di Giovanni Boine (1912) o nei Canti orfici di Dino Campana
(1914), che descrive gli aspetti decadenti e crepuscolari della sua Faenza.
Tutto un espressionismo che trova il suo controcanto nel parallelo parodico nel
Codice di PeReLà di Palazzeschi del 1913102. Un codice che regolerà una società ancora
solo immaginata, e le sue nuove città.
101
102
Prosio, 1992, ivi “De Chirico e Torino / Torino e De Chirico”, pp. 23-51.
Palazzeschi, 1958, op. cit.
203
MORUS – Utopia e Renascimento, 9, 2013
Laura Schram Pighi
La città immaginata e l’immaginario della città (sono) in funzione
della costruzione di una utopia […] di una costruzione onirica, o di
uno sviluppo fantastico o combinatorio d’immagini reali, o della
realizzazione di scenari astratti, più universali o più da incubo.
Elvio Guagnini in una Scheda novecentesca intitolata appunto Dalla città delle
meraviglie alla città dell’incubo e dell’angoscia103 compila un elenco ben più lungo
delle funzioni diverse alle quali può portare l’immaginario di città, e sceglie alcuni
esempi di scrittori che hanno trasformato una città reale leggendola attraverso il prisma
della loro fantasia.
De Pisis per esempio compie questo tipo di approccio rispetto a Ferrara quando
nel 1920 scrive La città delle cento meraviglie104. Ma si tratta di una lettura fantastica
della città reale, “miniera inesauribile di inaudite meraviglie”, città magica che negli
stessi anni affascinerà anche De Chirico come vedremo nei suoi quadri e suo fratello
Alberto Savinio, come leggiamo nell’Hermaphrodito. Questi artisti, come altri dopo e
prima di loro, proiettano nella città le loro ansie o i loro sogni senza per questo proporre
luoghi diversi o città immaginarie dove far vivere un mondo futuro.
Un’operazione analoga compie Borgese negli stessi anni riguardo a New York,
che chiama Città assoluta, e che l’autore ammira in ogni suo aspetto come un’opera
d’arte in sé. Ma non va oltre con la fantasia, non trasforma nel suo immaginario le
vecchie città italiane in futuribili copie della città americana105.
Gli esempi sono numerosi ma a noi interessa osservare un’altra variante
dell’immaginario di città, quella che propone un nuovo modello di urbanistica, quando
il dibattito sulla città futura, messo da parte con la guerra del ’15-’18, si ravviva grazie
al radicale cambiamento della situazione politica.
Le città di fondazione: le città del regime (secondo Novecento)
Benché Benito Missolini in un articolo su Il popolo d’Italia del 1928 avesse
delineato chiaramente le linee di una politica antiurbana a favore di un aperto
“ruralismo106, a partire dagli anni Trenta del Novecento, il fascismo, oramai stabilizzato
in Italia, si dedicò soprattutto alla conquista del consenso che lo portò a pianificare la
103
Guagnini, 1994.
De Pisis, 1965.
105
Borgese, 1962, ivi “La città assoluta” (1931).
106
Mussolini, 1928. I movimenti di “strapaese” e “stracittà” riflettono queste opposte tendenze sempre
vivacissime in seno al partito.
104
MORUS – Utopia e Renascimento, 9, 2013
204
La “città ideale” nella cultura italiana dal Sette al Novecento
costruzione di nuove città per affermare “il principio organizzativo che trionfava sul
caos e sulla barbarie”.
Così scrivono Roberta Martinelli e Lucia Nuti che dedicano alcune ricerche
molto approfondite alle “città di fondazione”107 e seguono la progressiva attuazione di
un piano che vede il sorgere di una decina di città in dodici anni in una complessa ed
efficiente operazione di propaganda “che rivela (anche) drammatiche distorsioni e
improvvisazioni” nei loro risvolti economici e sociali.
Il
regime stimola anche una produzione letteraria attraverso concorsi e
pubblicazioni varie che esaltano la nascita delle nuove città: Pietro Ingrao per esempio
scrisse un Coro per la nascita di una città108 mentre il Film Luce riportava tutte le feste
delle inaugurazioni.
In generale la pubblicistica del tempo ripete le “banalità agiografiche
dell’immagine ufficiale della città” commentano le due studiose, benché non manchino
opere che sotto l’apparente cronaca distaccata degli avvenimenti, lascino trapelare un
certo scetticismo verso tutto il programma delle bonifiche delle Paludi Pontine. E
suggeriscono l’idea che non si tratti per la popolazione di un reale progresso nella
qualità della vita, ma solo della rottura di un equilibrio secolare dalle conseguenze
catastrofiche: penso per esempio a Terra Nuova. Prima cronaca dell’Agro Pontino di
Corrado Alvaro, del 1934109.
Le poche tracce di una certa novità nell’idea di città, dunque di abitazioni, si
riflettono se mai nell’architettura delle Colonie Marine che Francesca Franchini studia
per le loro componenti utopiche, anche se esse vanno sempre inserite nell’ideologia
dominante e concorrono a formare una vera e propria “architettura metaforica”110.
Città parallele (secondo Novecento)
Ci sono anche documenti letterari che tentano di discostarsi dalle retorica del
regime ma vengono censurati sostituendo addirittura le parole sospette con altre più
allineate, come succede nella descrizione entusiasta della inaugurazione di Mussolinia
che leggiamo ne I Morlacchi. Viaggio in Sardegna di Elio Vittoriani, del 1936111, forse
107
Martinelli, 1978; Idem, 1981.
Ingrao, 1934.
109
Alvaro, 1989.
110
Franchini, 1969.
111
Le due studiose segnalano che i testi delle numerose produzioni letterarie favorite dal regime si
trovano nell’archivio della biblioteca dell’ONC (Opera Nazionale Combattenti).
108
205
MORUS – Utopia e Renascimento, 9, 2013
Laura Schram Pighi
perché il testo lascia trasparire una certa ironia e l’umorismo è ciò che una dittatura
teme di più.
Se attorno al tema delle città ideale, la letteratura vincente non riesce ad uscire
dalla descrizione entusiasta delle opere del regime o al massimo sorride scetticamente
sulla loro utilità, sopravvive per tutto il ventennio una narrativa marginale nel ruolo di
antagonista, svincolata da regole di ogni genere, ed è, se pure nella sua variante
novecentesca, la narrativa d’utopia.
Essa sopravvive però solo in generi “minori” come la narrativa per ragazzi,
oppure scegliendo per protagonisti degli antieroi, gli animali per esempio, o il mondo
degli omosessuali.
La prosa italiana del ventennio che pure annovera ottimi narratori, andrebbe
riletta più da vicino, nei diversi piani sui quali è costretta ad esprimersi, condizionata
dalle circostanze politiche del tempo. Anche perché dove si manifesta in forme
fantastiche (favole, viaggi immaginari) o umoristiche (parodie di persone e di mode
letterarie) là ritroviamo tracce di utopismo inteso come anticonformismo, come
proposta alternativa di vita e di idee.
Tra gli autori che osano battere tali sentieri alcuni scelgono il tema della città
ideale che ben si presta ad esprimere la loro scelta di vita e di pensiero.
A questo arriva un singolare e geniale scrittore fiorentino, anima di quell’ “èra
delle riviste” che trasformò la cultura italiana del primo Novecento, forse più conosciuto
come polemista e meno come narratore simbolista italiano.
Giovanni Papini in Gog, del 1931, inserisce il racconto nella tradizionale cornice
del manoscritto avuto da altri, e crea la figura dell’uomo mostro, per di più incontrato in
un manicomio, ciò che rende possibile ogni gioco fantastico. Gog (diminutivo di un
nome vero che ricorda il biblico Gog re di Magog) autore di un mucchio di fogli
disordinati e senza data, di cui il narratore viene in possesso, è un essere primitivo che
era riuscito a divenire immensamente ricco e così “si era impossessato del più pauroso
strumento di creazione e distruzione del mondo moderno”.
Gli ingredienti per una serie di brevi racconti carichi di mistero ci sono tutti: su
settanta, quattro sono dedicati al tema della città, tutti capitoli di un discorso complesso
che si sviluppa nell’atmosfera allucinata che troveremo più tardi nei racconti di Buzzati
e Landolfi.
Gog insiste per visitare La città abbandonata, la più meravigliosa in tutta l’Asia:
essa è del tutto priva di abitanti “e allora comincia a sentir l’orrore di questa città
MORUS – Utopia e Renascimento, 9, 2013
206
La “città ideale” nella cultura italiana dal Sette al Novecento
spettrale, disertata dagli uomini, deserta in mezzo al deserto”112. In “Rivincita”, Gog
compera due o tre quartieri di New York, fa abbattere tutte le case e in quell’immenso
spazio vuoto costruisce un parco meraviglioso, tutto cintato di mura uno spazio dove
però non può entrare nessuno, dove può passeggiare solo lui in completo isolamento. In
“Cadaveri di città” Gog racconta dei suoi viaggi tra città antiche famosissime ed ora
ridotte in cenere e rovine però:
Le città disertate o dissotterrate sono incomparabilmente più belle di
quelle vive… non c’è di veramente meraviglioso per me, che il non
finito, o il quasi distrutto.
Ma ci sono anche “Nuovissime città” che un architetto singolare offre a Gog
presentandogli una serie di progetti tra i quali sceglierne uno da realizzare per la città
futura.
C’è la città senza case “tutta composta di campanili e di torri, una selva di fusti
orgogliosi in pietre e mattoni”, quella al contrario costituita da un solo edificio che
contiene piazze e giardini, quella fatta di case altissime senza finestre, oppure la città
dell’ “Eguaglianza Perfetta”, oppure la “Città Variopinta”, quella “Pensile”, quella
“Cimitero”, e persino la “Città Titanica” e la “Città Invisibile”.
Figuratevi lunghi corsi fiancheggiati da palazzoni alti come cattedrali,
tutti in marmo bianco e sanguigno e, in mezzo alle vie, statue di
colossi, immobili passeggeri eterni.
Gog commissiona quest’ultima allo strano architetto, la più cara di tutte, e
attende il progetto per l’anno dopo.
E’ difficile in questa prosa di Papini, non vedere i disegni di Sant’Elia, o non
vedere le piazze silenziose e misteriose di De Chirico, o quelle invisibili che Calvino
sognerà molto più tardi, e insieme non cogliere l’allusività e la satira verso una realtà
socio politica che si stava concretando proprio in quegli anni: quella delle città di
fondazione.
Questa scelta di campo si nota chiaramente nel caso di uno degli autori per
ragazzi tra i più famosi del tempo, ottimo illustratore delle proprie opere, oggi
112
Papini, 1931, pp. 48-54.
207
MORUS – Utopia e Renascimento, 9, 2013
Laura Schram Pighi
ingiustamente trascurato e quasi dimenticato, Enrico Novelli detto Yambo (18741945)113, autore di numerose parodie di figure pubbliche del tempo che potrebbero
entrare a pieno titolo nella storia della letteratura umoristica del ventennio che fa da
controcanto alla retorica di regime.
Tra la sua copiosissima produzione ricordiamo per la tematica urbanistica La
colonia lunare (storia di una ipotesi) con 120 disegni dell’autore, scritto nel 1932
quando era iniziata da poco la bonifica delle Paludi Pontine e si progettavano le città di
fondazione114.
Partendo dall’ipotesi di Schiapparelli che aveva suggerito l’esistenza di canali
sulla Luna, un gruppo di astronauti sbarca sul nostro satellite e vi costruisce una prima
città, Selenopoli. Tutto il racconto si basa sui “manoscritti del Dott. Matteo Forti e di
Otto Schanenburg, studente di Friburgo, ora entrambi abitanti della luna” così ci
assicura Yambo che fin dal primo capitolo ci fa entrare in Selenopoli proprio al
momento quando uno degli astronauti, lo zio Christian:
Annunciò alla folla festante dei coloni lunari, stipati lì intorno, come
la prima città della Colonia, Selenopoli, futura capitale della Luna,
fosse ufficialmente inaugurata […] Selenopoli sorgeva con le sue
casette bianche e scintillanti al sole, disposte in fila come blocchi, e
circondate da tanti minuscoli giardini, con le sue ampie strade che si
tagliavano ad angoli retti, con la sua piazza, i suoi uffici, le sue
gallerie, le sue stazioni, come una piccola città di sogno, creata in una
notte dalla volontà della capricciosa Fata Fantasia.
Un disegno dello stesso Yambo ci mostra un villino del tutto simile a quelli che
stavano sorgendo a Mussolinia, e continua commentando:
Nel tracciare il piano della città come si vedrà dall’annesso disegnino,
lo zio Christian non aveva fatto sfoggio di molta immaginazione
artistica: era stato semplice fino alla puerilità, se così posso
esprimermi, seguendo solo alcuni criteri di igiene e di convenienza
materiale.
113
114
Pighi, 2003, op. cit. pp. 253.
Novelli-Yambo, 1932.
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208
La “città ideale” nella cultura italiana dal Sette al Novecento
Segue una descrizione minuziosa della pianta di Selenopoli con misure precise
della città e del futuro porto e la descrizione dei quartieri di “dodici caselle ciascuna,
separate da regolari intervalli” sulla falsariga delle più classiche descrizioni dei paesi
d’utopia, improntati ad una regolarità ossessiva, per fare la parodia dell’eccessiva fede
nel verità scientifica.
Yambo pensa ad ogni particolare per la sua città ideale, anche agli alberi per
ombreggiare le strade, giganteschi funghi di una flora immaginaria, naturalmente
lunare, quella stessa che aveva fatto fiorire i fiori di plastica nel giardino dei futuristi115.
A Selenopoli non manca una imponente “officina presso la catarrata del
torrente” chiamata Galleria Volta, dalla quale la città ricava “l’acqua potabile, la luce
elettrica, il riscaldamento, la forza motrice, l’ossigeno”. Le case, il Palazzo di città, tutto
è costruito in vetro che viene poi variamente colorato per dare un aspetto ridente e
fiorito ad ogni costruzione.
Ma la grande operazione dell’astronomo fondatore di Selenopoli fu quella di
determinare i mari e i monti della sua colonia lunare e perfino di progettare una isoletta
triangolare La nuova Sicilia di cui si può ammirare il profilo dominato da un imponente
vulcano nella Carta della Nuova Trinacria. Non manca nemmeno la descrizione della
società di Selenopoli, governata da un “borgomastro… a vita” tutto un mondo felice che
abita in case tutte uguali “[…] se ne contano centosettanta e altre ventidue si stanno
costruendo”.
L’allusione al presente è quanto mai trasparente, ma dato che si tratta di un
romanzo fantastico per ragazzi la censura non pare vi abbia attribuito eccessivo peso.
La fuga nel sogno era una via percorribile per evadere dalla realtà e porta
facilmente verso città pensate, parallele: è quella che qualche anno dopo il viaggio
immaginario di Yambo, alla vigilia della seconda guerra del Novecento, verrà scelta da
Antonio Baldini nella Italia del Buonincontro116. Ci conduce in questo tipo di città
pensata, Elvio Guagnini leggendo su “Problemi”117 le pagine di Baldini, il raffinato
scrittore rondista quando ripercorre le vie di una città ricordata, una Civitas civitatum
elitaria, silenziosa, tranquilla, oramai inesistente, tutta all’opposto delle città reali,
chiassose, anonime, da rifiutare in blocco. L’autore sale su di un treno che percorre una
linea ferroviaria mai terminata, ideale per raggiungere le stazioni di paesi immaginari.
115
Pighi, 2000, pp.179 e sgg.
Baldini, 1940.
117
Guagnini, 1994.
116
209
MORUS – Utopia e Renascimento, 9, 2013
Laura Schram Pighi
Come dire che per vivere in una città ideale non occorre andare nella luna, basta
scendere nella città che ognuno porta dentro di sé, nei propri ricordi.
Ben più aperto a recepire alcuni aspetti del canone letterario utopico è Carlo
Emilio Gadda (1893- 1973) che in una delle sue opere maggiori scritta tra il 1936 e il
’41, quando la crisi del regime si profilava sempre più drammatica e sarebbe poi
sfociata nella guerra, scrive La cognizione del dolore. L’azione si svolge in un paese
immaginario Maradagal, molto simile a quelli delle più classiche narrazioni utopiche,
dove si parla una lingua inesistente dalle forti coloriture spagnolesche. La parodia del
regime e dei suoi gerarchi è quanto mai trasparente e non è sufficiente a mimetizzare
quella Milano e quella Brianza che Gadda ben conosceva.
Era lo stesso mondo del Nord Italia nel quale Cesare Zavattini dopo il successo
di Parliamo tanto di me del 1931118, un viaggio di modello dantesco nei tre regni
dell’oltretomba, faceva nascere sotto un cavolo, in piena guerra nel 1943, il suo Totò il
buono119.
Questa complessa figura di artista “spontaneo” dalla poliedrica attività, più noto
come regista cinematografico che come narratore, viene studiato con molto acume da
Silvana Cirillo che ricerca nelle sue opere le Tracce di utopia nel surrealismo
zavattiniano120. Naturalmente la studiosa segnala subito i toni discorsivi ed ingenui
dello stile zavattiniano che si spinge fino a “manipolare” le parole per farle divenire
rumore insensato seguendo l’esempio di Palazzeschi e di Savinio.
Noi sappiamo che tutti questi tratti sono tipici del genere utopico fin dal suo
primo affermarsi come narrativa di massa a metà Settecento, così come la scelta dello
stile favolistico e mitologico, i viaggi immaginari, i dialoghi col lettore, e la figura del
protagonista come antieroe in funzione antiretorica.
Totò il buono è tra i testi di Zavattini quello dove la città e i suoi abitanti hanno
un ruolo centrale: la città si presenta come centro del potere, sentito come negatività, ma
anche come luogo di una nuova società ancora tutta da inventare. Come dice Silvana
Cirillo, qui:
Zavattini inventa una favola e insegue una utopia e la scrive per i figli
e per i ragazzi…a differenza di altri libri, l’uomo per ritrovarsi e
118
Zavattini, 2003.
Zavattini, 2004.
120
Cirillo, 1996, pp. 41-59. La ricerca è stata ripresa dallo stesso autore in Nei dintorni del surrealismo
(2000).
119
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210
La “città ideale” nella cultura italiana dal Sette al Novecento
superare la paura non regredisce soltanto, ma inventa un mondo
migliore.
Il mondo dove Totò nasce ha una sua capitale, la città di Bamba, dove i bambesi
abitano in baracche e quindi si chiamano anche baracchesi, e che si trova ai confini di
una vera città di case di pietra, dove a Totò capita di entrare, piena di cose mai viste
tanto che egli “credette di trovarsi in Paradiso o nei dintorni”.
Bamba era infatti una città di migliaia e migliaia e migliaia di abitanti
in gran parte ricchissimi tanto che portavano l’abito da sera anche di
giorno. I palazzi del centro erano molto alti e costruiti con marmo
prezioso verde e nero, quello del famoso Mobic, un uomo pieno di
oro.
Per una singolare magia Totò si accorge di poter fare miracoli appena dice tac e
allora non smette di farne di tutte le misure e importanza, ciò che gli permette di
costruire un mondo di giustizia e di pace. Egli diventa di conseguenza il capo dei
bambesi, ruolo che lo confronta con Mobic il simbolo del potere, del danaro, della
prepotenza. I bambesi inventano ogni possibile fantasia per vincere Mobic, ma quando
le forze gestite da Mobic irrompono nel mondo di Totò in tutta la loro violenza, allora
egli decide che è meglio salire su un manico di scopa e andarsene lontano “verso un
regno dove dire buon giorno vuol dire veramente buon giorno”121.
Un mondo che assomiglia molto a quello immaginato negli stessi anni da
Riccardo Bacchelli nella sua deliziosa operina In grotta e in valle, romanzo
preistorico122 scritta con tutta le leggerezza e insieme la profondità che caratterizza la
migliore narrativa d’utopia. La storia si svolge in un tempo perduto nella preistoria
quando i cacciatori di monte e i pescatori di valle per designare l’uomo cioè loro stessi
lo chiamavano:
l’animale a due mani e a due piedi che mangia anche se sazio […] che
beve anche se dissetato […]
121
Zavattini aveva tratto da Totò il buono, scritto a quattro mani col comico Totò, il film Miracolo a
Milano.
122
Bacchelli, 1980.
211
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l’unico animale in terra ed acqua che rida e che pianga. Ma tutto
questo in che lingua?
Il narratore di questa favola fuori dal tempo, continuamente riportata al presente
con ironia e saggezza sottolinea il problema della lingua, un topos che al pari dell’isola
che non c’è e del viaggio, si ripresenta nelle maggiori narrazioni utopiche italiane123.
La fantasia può trasferire l’idea di città anche nel regno del grandioso e del
colossale come farà Gio Ponti quando incaricato di programmare una città che celebri il
ventennio dell’ascesa al potere del fascismo, progetta la E42 “teatro di architetture
favolose”, di dimensioni mai viste.
Qui si ha chiaramente il caso di una architettura ideale che conferma il potere, in
una posizione opposta a quella di una architettura utopica che ne propone la crisi o
suggerisce l’alternanza.
Laura Picchiotti in Valenze utopiche e realtà plastiche dell’E42124 riporta la
lunga presentazione del progetto scritta da Gio Ponti di cui ricordiamo qui solo alcune
frasi:
La città dell’E 42 sarà favolosa, teatro di architetture favolose nate da
una evocazione: la loro realtà è una effettiva espressione di dimensioni
mai viste di un realismo magico: questo è il loro assunto, il loro
azzardo, il loro ordinamento politico […] Non è certo l’architettura
romana che ritorna […] Questa architettura moderna sarà anche la
trasposizione di una tecnica, fatalmente moderna…nella pura
geometria evocativa degli elementi classici dell’arco e della colonna.
Il Palazzo della civiltà italiana di La Padula è solo simbolo […]
l’incontro che esso susciterà è lirico, estatico, terrà dell’incantesimo.
Ponti non è qui un narratore, anche se sa pensare e sognare la città futura: in
questo testo vuole solo spiegare al suo committente la poetica che lo ha ispirato.
Di quell’autocelebrazione affidata ad una esposizione universale che il regime
aveva programmata per il 1942 per festeggiare il proprio ventennio, ci restano oggi solo
dei silenziosi colossi testimoni di un’epoca e della sua crisi 125. Ma ci resta anche questo
123
Pighi, 2005.
Picchiotti, 1991.
125
Aimone, 1990. Le esposizioni universali possono essere lette come proposte per un mondo futuro.
124
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La “città ideale” nella cultura italiana dal Sette al Novecento
documento scritto che indica la presenza parallela di due modi diametralmente opposti
di pensare la città futura, come si diceva all’inizio, quello che fugge la realtà e quello
che ci permette di entrare nei testi scritti da costruttori, urbanisti, architetti per i loro
committenti.
Per questa strada si potrebbe arrivare all’opera e agli scritti di Soleri con la sua
Arcosanti in Arizona126 e nella Dicaia di Portoghesi127 oltre che al lavoro collettivo di
un gruppo di urbanisti e architetti veronesi per la costruzione di una città ideale tra
Verona e Mantova chiamata Vema 128.
Ma la loro non è e non vuole essere prosa di finzione di genere utopico, è solo
prosa ricca di utopismo, di idee e fantasia, senza però quell’elemento conturbante
indicato da Corboz nel capriccio, quello che provoca l’umorismo, e che con le altre due
componenti fantasia e idee, costituisce il testo narrativo utopico.
L’utopia polverizzata: e le città invisibili (terzo Novecento)
Maria Fabbri in “L’utopia neorealistica tra storia e letteratura”129 sottolinea
giustamente quanto fosse forte la capacità di sognare il futuro in autori come Fenoglio o
Vittorini che avevano vissuto l’esperienza della clandestinità e della resistenza armata e
certamente quale ruolo determinate abbia l’immaginazione nella narrativa del reale.
Ma non per questo i narratori neorealisti iscrivono la loro prosa dentro i canoni
del genere utopico, cosa che non si può nemmeno dire per autori come Buzzati e
Landolfi che penetrano completamente nel campo dell’immaginario per raggiungere
effetti di angoscia, di attesa, ma non rischiano la proposta di un mondo futuro.
I luoghi della loro fantasia, pensiamo alla fortezza Bastiani del Deserto dei
Tartari di Buzzati possono ricordarci isole o naufragi di ascendenza letteraria utopica
ma manca nelle opere di questi narratori la fase propositiva, la presentazione di un
progetto utopico di città.
Come fa giustamente osservare Sergio Blazina, nel suo studio “Dal mito rurale
alla ”utopia polverizzata”: Vittorini, Volponi, Calvino”130, i tratti distintivi della
narrativa d’utopia sono invece chiaramente riscontrabili in questi tre autori del terzo
Novecento. Certo commenta il critico:
126
Ranocchi, 1996; Bjork, 1971; Lima, 2000.
Portoghesi, 1982. Idem, 1970.
128
Fabbri, 2006.
129
Fabbri, 1990.
130
Blazina, 1990, pp. 283-292.
127
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questi scrittori non distolgono […] lo sguardo dal negativo; proprio su
di esso costruiscono anzi la necessità dello scatto utopico […]. Il
viaggio non è, come nell’utopia tradizionale, l’occasione della
separazione e della scoperta, ma il segno dell’incertezza e della
disponibilità al mutamento.
Nel leggere l’utopia dei narratori del terzo Novecento si vede come:
l’utopia diventa in definitiva più che una grande metafora
dell’ideologia, la rivendicazione creativa della libertà e della
letteratura in un mondo che sempre più difficilmente è riconducibile
ad un unico quadro interpretativo. Il grande vuoto del dopoguerra dà
spazio a queste questioni irrisolte.
Anche l’utopia letteraria che, pur emarginata, era riuscita a sopravvivere
mimetizzandosi, durante la dittatura e la guerra, risentì del trauma profondo che
sconvolse tutta la vita e la cultura italiana dopo la tragica fine del ventennio, e le rovine
della guerra, e subì una accentuata parcellizzazione, quel fenomeno di “esplosione” del
modello originario, di “polverizzazione” dei campi utopici, di cui a lungo si occuperà
Italo Calvino (1923-1985), il maggiore narratore d’utopia del terzo Novecento e il più
acuto teorico del genere utopico.
Ritorniamo a Venezia
Calvino per quarant’anni della sua vita ha creato un corpus utopico senza
precedenti nella letteratura italiana per ricchezza e varietà e numero di interventi sul
tema della fantasia e in particolare della città ideale.
All’inizio della sua carriera di narratore entrò nel mondo dell’immaginario con Il
sentiero dei nidi di ragno (1943) e continuò per una ventina d’anni dal ’63 all’84 ad
esplorarlo da scrittore e da critico scandagliando il mondo delle Fiabe e il Mondo alla
rovescia e tutto Il Fantastico nella letteratura italiana, con un percorso che lo porta
fatalmente attraverso studi e recensioni e saggi critici131 fino a Venezia: archetipo e
131
I testi critici di Calvino sono raccolti in Romanzi e racconti, vol. 3, 1991-1992; inoltre in Saggi 19451985, vol. 2, 1995 e Collezione di Sabbia, 1990; e Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società,
1998.
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La “città ideale” nella cultura italiana dal Sette al Novecento
utopia della città acquatica (Saggi, 1974), il prototipo della città utopica, città invisibile
perché pensata e amata, la città di Marco Polo. Come se tutta questa produzione fosse in
funzione del suo capolavoro: Le città invisibili (1972).
Numerosi sono gli studi critici attorno a questo testo che segna il punto massimo
dell’arte di Calvino cantore della città ideale: ricorderò tra i più significativi quello di
P.V. Mengaldo “L’arco e le pietre: Calvino e le Città invisibili”132 che osserva
soprattutto “il modo con cui Calvino imposta i rapporti fra la dimensione mentale
dell’utopia e quella concreta del reale”, quello di Roberto Fregna, Le città di utopia133,
arricchito di una utilissima antologia di testi italiani e stranieri sul tema della città
ideale, per passare a L’invisibile e il suo “dove”: geografia interiore di Italio Calvino134
di Carlo Ossola che analizza mirabilmente tutta le tecnica combinatoria dello scrittore
che sa fondere come pochi altri scienza e poesia, ragione e arte.
Ma chi ripercorre più da vicino il viaggio dell’idea di città nel corso della storia
e della cultura europea per arrivare a Calvino, è Andrea Battistini in “Le città visibili e
invisibili di Italio Calvino”135.
Ricordando una osservazione di Calvino in margine a De Chirico “il pensiero
deve avere una residenza spaziosa, una città”136 Battistini commenta che “il paesaggio
urbano assurge a buon diritto per Calvino a icona della sua poetica” e questa città ideale,
sognata, non può essere che Venezia.
Venezia: la città che è stata il nostro punto di partenza, segna anche l’arrivo di
questa indagine nei testi italiani di narrativa d’ utopia o di prosa utopica.
Quella Venezia che ha accolto per prima l’Utopia di Thomas More, e che
Casanova rivive con la sua esuberante fantasia nel maggiore romanzo d’utopia del suo
tempo perché compaia tre secoli più tardi più sognata e amata che mai tra le Città
invisibili di Italo Calvino.
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racconti 3, op. cit.
133
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