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Questa o quella per me pari sono…
due diverse scelte, stessa efficacia: CPAP vs NPPV nell’ACPE
Andrea Purro, MD
DEA Ospedale Gradenigo, Torino
Abstract
It has been shown that compared to conventional treatment, both continuous positive airway pressure (CPAP) and
positive pressure noninvasive ventilation (NPPV) improve vital signs and physiologic variables, and reduce intubation rate, in patients with acute cardiogenic pulmonary edema (ACPE). Despite a physiologic rationale that
NPPV should offer greater benefit than CPAP, NPPV has not been found to offer any advantages regarding intubation rate or mortality compared with CPAP also in ACPE patients with acute respiratory acidosis. As a general
rule, when neuromuscular central drive activity is preserved, acute respiratory acidosis is due to a pump failure,
that is an unbalance between respiratory muscle capacity and respiratory workload: as a consequence an inspiratory support, by means of invasive or noninvasive mechanical ventilaton, to unload the inspiratory fatiguing muscles is necessary to improve tidal volume. However, in the case of ACPE the simple application of CPAP could be
enough to improve respiratory mechanics and early decrease the unbalance between inspiratory muscles and respiratory workload. As a matter of fact, it was shown with experimental procedures that diaphragm muscle can
significantly recover from fatigue within about 60 minutes after rest.
Key words: hypoxemia, hypercapnia, mecanical ventilation.
Stato dell’arte
Numerosi trials clinici hanno evidenziato come la pressione positiva continua applicata alle vie aeree (CPAP) e la
ventilazione meccanica non invasiva a pressione positiva (NPPV) abbiano la stessa efficacia, superiore rispetto la
terapia tradizionale, in termini di miglioramento dei parametri fisiologici e di riduzione del numero di intubazioni,
quando applicate a pazienti in edema polmonare acuto cardiogeno (ACPE) non ipoteso; e questo è stato dimostrato
essere vero non solo nel caso del soggetto ipossiemico con pH nel range di normalità (insufficienza respiratoria di
tipo 1), ma anche nelle situazioni di acidosi respiratoria acuta (insufficienza respiratoria tipo 2)1.
Questo dato sembra andare contro ogni criterio di verosimiglianza clinica, dal momento che la NPPV, piuttosto
che la CPAP, è sempre stata associata al trattamento in urgenza dei pazienti ipercapnici2.
Il malato in edema polmonare cardiogeno, che si presenti al dipartimento di emergenza in ipossiemia ed ipercapnia,
con pH acido (spesso con valori tra 7,20 e 7,00) è per definizione instabile, e fonte di apprensione anche per il
clinico esperto: limitarsi ad applicargli una semplice CPAP con arricchimento di O2 – oltre naturalmente la terapia
farmacologica necessaria – invece che una doppio livello di assistenza, inspiratorio ed espiratorio, quale si ottiene
con la NPPV, può sembrare insufficiente e rischioso. Tuttavia è ugualmente efficace. Il miglioramento che si osserva
con le due metodiche è rapido, sia in termini soggettivi (sintomi) che oggettivi (parametri fisiologici ed emogasanalisi).
La possibilità di utilizzare la CPAP nel paziente critico, con le stesse probabilità di efficacia che si potrebbero ottenere impiegando la NPPV, rappresenta un indubbio vantaggio per l’operatore sanitario: il sistema CPAP è logisticamente più flessibile, è più agevolmente applicabile, richiede un monitoraggio meno complesso della NPPV.
Tuttavia, se i trials clinici selezionati in letteratura supportano l’impiego della CPAP nell’ACPE in acidosi respiratoria
acuta, non forniscono un’adeguata spiegazione del meccanismo fisiopatologico mediante il quale essa funzioni
altrettanto bene della NPPV. Il modello costituito dal malato in edema polmonare, cui venga applicato un supporto
respiratorio non invasivo, non può essere studiato con le metodiche fisiologiche sperimentali tradizionalmente impiegate, viste le condizioni di instabilità emodinamica e respiratoria.
Infine, un ulteriore elemento di riflessione, è costituito dal fatto che in epoca pre-CPAP e pre-NPPV, una significativa quota
di pazienti in APCE risolveva abbastanza agevolmente l’episodio acuto con la sola applicazione della terapia medica.
Tutte queste considerazioni rendono particolarmente interessante approfondire il razionale dell’impiego del supporto ventilatorio nell’ACPE (CPAP vs NPPV); consente per così dire di aprire un dibattito sulle indicazioni che si
ottengono con l’evidence-based medicine (EBM): come utilizzare le informazioni della letteratura nei casi clinici
che non rientrino tout court negli schemi prestabiliti? Vi è ancora spazio nella pratica medica, e soprattutto nella
medicina d’urgenza, per l’utilizzo di un punto di vista, di un metodo per così dire, fisiopatologico che contribuisca
ad inquadrare e curare correttamente il malato critico?
Tuttavia questi “discorsi sul metodo” esulano dall’argomento di questo articolo, molto più modesto: discutere la
possibile spiegazione dello strano fenomeno per il quale CPAP e NPPV hanno la stessa efficacia quando applicate
nell’APCE con acidosi respiratoria acuta.
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Meccanismo dell’ipossiemia nell’ACPE
Il sistema respiratorio classicamente viene distinto in due componenti fondamentali: il polmone, l’organo responsabile dello scambio dei gas, e la pompa ventilatoria, costituita dai muscoli respiratori, dalle aree del sistema nervoso centrale deputate al controllo del respiro (CNS) e dalle vie di connessione tra le prime due componenti (spinali
e periferiche)2.
Dal momento che la diffusione della CO2 a livello degli alveoli polmonari è superiore di circa 20 volte rispetto
quella dell’O2, le patologie che colpiscono precipuamente il tessuto polmonare determinano in prima istanza una
condizione di ipossiema senza determinare incremento della CO2, che evolvendo, conduce all’insufficienza respiratoria ipossiemica (insufficienza respiratoria di tipo 1, “lung failure”)3.
L’APCE rappresenta da questo punto di vista una condizione paradigmatica: l’edema dell’interstizio alveolo – capillare è responsabile delle tre alterazioni anatomiche - funzionali associate all’insufficienza respiratoria di tipo 1:
a) ineguaglianza del rapporto ventilazione/perfusione, incremento dello shunt tra parte destra e parte sinistra del
sistema cardiocircolatorio, compromissione della diffusione dell’O24.
L’APCE determina inoltre un aumento del lavoro respiratorio, cioè del lavoro compiuto dai muscoli respiratori per
garantire una ventilazione alveolare efficiente. Classicamente l’equazione di moto esprime le componenti che
interagiscono durante la ventilazione, la determinano e la condizionano: Pmus = VT • ERS + V’ • Rtot +PEEPi
(Pmus: pressione che viene prodotta dai muscoli respiratori; VT: volume corrente; ERS: carico elastico del sistema
respiratorio; V’: flusso alle vie aeree; Rtot: resistenze respiratorie; PEEPi: pressione positiva intrinseca di fine espirazione)2. Espressa in questi termini l’equazione di moto determina solitamente una reazione di rigetto da parte
di che la legge. In realtà il concetto che esprime è molto semplice, ovvero la ventilazione (il volume corrente) dipende da tutta una serie di fattori che interagiscono tra di loro: la rigidità o meno del polmone e la sua distensibilità
(ERS), le resistenze dell’albero tracheobronchiale e del tessuto polmonare (Rtot), la presenza o meno di iperinflazione dinamica (PEEPi). Queste componenti rappresentano il carico del respiro, e determinano il grado di impegno
funzionale dei muscoli respiratori (Pmus). Detto in altro modo: maggiore è l’entità del carico del respiro, maggiore
è il lavoro respiratorio, maggiore è lo sforzo che i muscoli respiratori devono effettuare per garantire un volume
corrente efficace.
Come si estrinseca l’equazione di moto nell’ACPE? L’edema dell’interstizio polmonare si traduce in un polmone
più “rigido” (incremento di ERS), meno facilmente espansibile4. Come notazione, possiamo rilevare anche un certo
incremento delle resistenze respiratorie (Rtot) dovuto alla riduzione del calibro delle vie aeree, il quale è meno rilevante dal punto di vista funzionale. In ogni caso il risultato finale è che il lavoro respiratorio fatalmente aumenta:
infatti, tornando all’equazione di moto, un incremento di ERS e Rtot dovrà avere come conseguenza l’aumento di
Pmus, per potere preservare la ventilazione (il volume corrente, VT).
In sintesi l’APCE rientra nell’ambito delle patologie che si estrinsecano mediante la insufficienza polmonare (lung
failure): ne risulta una condizione di ipossiemia (insufficienza respiratoria di tipo 1); il lavoro respiratorio aumenta,
a causa dell’incremento della rigidità polmonare ed, in minor misura, delle resistenze delle vie aeree3.
Perché la comparsa dell’ipercapnia nell’ACPE?
Malgrado che i difetti anatomico funzionali presenti nella genesi dell’ACPE siano quelli che classicamente determinano l’ipossiemia, una quota significativa di pazienti giunge al dipartimento di emergenza in acidosi respiratoria
acuta, una condizione dove la presenza di ipossiemia si accompagna all’incremento acuto della PaCO2, con conseguente deterioramento del pH. Questi pazienti accedono a dipartimento di emergenza tipicamente in distress
respiratorio, manifestando un assetto del respiro (breathing pattern) rapido e superficiale (rapid shallow breathing,
RSB)5, in cui il notevole incremento della frequenza respiratoria (fino a 40 cicli per minuto ed oltre) si associa ad
una manifesta diminuzione del volume corrente (VT). Come descritto dall’equazione PaCO2 = k .V’CO2 / V’A (ove
k è una costante di proporzionalità, V’CO2 è il volume di CO2 prodotto dall’organismo, V’A è la ventilazione alveolare) l’incremento della PaCO2 è inversamente proporzionale all’entità della ventilazione alveolare. Dato che
una quota fissa di VT (tra i 150 ed i 200 ml) non raggiunge gli alveoli, ma si disperde nello spazio morto respiratorio costituito dalle vie aeree di conduzione, la diminuzione acuta di VT avviene a carico della ventilazione alveolare; si determina così una ventilazione inefficace il cui risultato è precisamente l’acidosi respiratoria acuta3.
A questo punto è logico chiedersi: cosa genera un assetto del respiro così sfavorevole?
Il meccanismo neurofisiologico determina il RSB non è ben definito. Evidenze sperimentali consentono di porlo in
relazione a riflessi, di natura vagale od originati da meccanocettori e fibre afferenti dei muscoli intercostali e del
diaframma. Nella pratica clinica si osserva pressoché invariabilmente in pazienti in condizioni di instabilità respiratoria e/o emodinamica. Tuttavia, come anche l’esperienza clinica insegna, il RSB risulta inefficace ed instaura
un circolo vizioso che conduce all’aggravamento dell’acidosi respiratoria acuta3.
Il punto chiave è costituito dall’incremento del carico respiratorio. I muscoli respiratori di un soggetto sano sono
agevolmente in grado di soddisfare i termini dell’equazione di moto e di generare VT adeguati allo scambio dei
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gas. Se il carico respiratorio aumenta dovrà aumentare anche i lavoro eseguito dai muscoli per mantenere una
ventilazione efficace. Tuttavia, come è intuitivo, vi sono dei limiti che non possono essere superati. La possibilità
che i muscoli respiratori eseguano con efficienza il loro compito dipende da vari fattori che interagiscono tra di
loro. Esiste una sorta di bilancia ideale tra la prestazione che devono svolgere (in termini di lavoro respiratorio,
forza, efficienza) e le risorse energetiche che vengono loro fornite (flusso di sangue, contenuto arterioso di O2,
stato di nutrizione, capacità ad estrarre energia). In condizioni di normalità le risorse di energia sono sufficienti a
garantire la prestazione, avendo anche a disposizione una notevole riserva. Quando invece il lavoro respiratorio
richiesto diviene eccessivo (come può accadere nel caso dell’ACPE) insorge la fatica muscolare6.
La fatica dei muscoli respiratori può essere definita come la loro incapacità ad esercitare una pressione sufficiente
per mantenere la V’A. A differenza della debolezza muscolare, la fatica è reversibile con il riposo6. Esistono dei
parametri fisiologici che consentono di prevedere e individuare l’insorgenza della fatica dei muscoli respiratoria3, 7.
Tuttavia la loro misura è difficilmente eseguibile in pazienti con ACPE, viste le condizioni di instabilità emodinamica.
CPAP nell’ACPE
Anche se non può essere definite una forma di assistenza ventilatoria di per se stessa, l’evidenza supporta l’utilizzo
della CPAP nel trattamento dell’ACPE. I suoi possibili effetti postivi sono costituiti dal miglioramento della capacità
funzionale residua polmonare, dalla riduzione dell’atelettasia, dalla riduzione dello shunt intrapolmonare destrosinistro, dalla diminuzione del lavoro respiratorio che si ottiene grazie al miglioramento della compliance polmonare e dall’incremento della gittata cardiaca che si ottiene grazie alla diminuzione del precarico e del post carico
ventricolare sinistro2.
Sorprendentemente, la letteratura raccomanda l’applicazione della CPAP non solo nei pazienti con ACPE ed insufficienza respiratoria ipossiemica, ma anche in quelli con acidosi respiratoria acuta. Instintivamente, in questa
categoria di pazienti sembrerebbe più ragionevole utilizzare un doppio livello di assistenza respiratoria, sia durante
la espirazione che l’inspirazione, per mezzo della NPPV, così come accade nel trattamento dei pazienti con BPCO
in insufficienza respiratoria di tipo 2. La NPPV, oltre agli effetti positivi della CPAP, fornisce un’assistenza di pressione durante la fase inspiratoria del respiro; in questo modo consente di alleggerire e supportare l’attività dei muscoli inspiratori. Dovrebbe quindi alleviare il distress respiratorio più velocemente ed efficacemente che la CPAP
da sola. La differenza teorica è evidente se prendiamo in considerazione l’equazione di moto: mentre l’applicazione della CPAP nei pazienti con ACPE consente di migliorare solo i termini a destra (riduzione di ERS ed, in
minor misura, di Rtot), senza supportare direttamente Pmus, l’applicazione della NPPV influenza positivamente entrambi i termini dell’equazione: anche Pmus viene implementata con il livello di pressione fornito durante l’inspirazione2.
Tuttavia la letteratura contraddice questo presupposto teorico: chi pratica medicina d’urgenza ha potuto verificare
di persona la rapida ed efficace risoluzione di episodi di edema polmonare cardiogeno grave, in acidosi respiratoria acuta, mediante l’applicazione di CPAP opportunamente supplementata da O2, consensualmente alla terapia
medica1.
Un’ipotesi da provare
Si ritiene che il meccanismo fisiopatologico che determina il RSB e quindi l’acidosi respiratoria acuta sia comune
a diverse situazioni patologiche: l’incapacità dei muscoli respiratori (Pmus, il termine di sinistra dell’equazione di
moto) a fronteggiare il carico del respiro (il termine di destra dell’equazione di moto: volume corrente, elasticità e
resistenze dell’apparato respiratorio, eventuale presenza dell’iperinflazione dinamica). Questo rapporto squilibrato
- uno sforzo eccessivo non può essere sostenuto indefinitivamente - determina la fatica dei muscoli respiratori stessi
(e quindi una ulteriore diminuzione di Pmus). Ne consegue la necessità di instaurare un supporto ventilatorio meccanico esterno, invasivo o non invasivo3.
Le strategie ventilatorie in genere non costituiscono la cura del processo fisiopatologico in atto, perché non ne rimuovono la causa2. La loro sospensione precoce pone nuovamente il malato in condizione di instabilità respiratoria.
Al contrario, solo il miglioramento clinico che si ottiene grazie all’impiego dei farmaci consente al malato acuto lo
svezzamento dalla ventilazione meccanica e la piena ripresa della respirazione spontanea: è la normalizzazione,
o quanto meno il miglioramento del carico respiratorio (il termine di destra dell’equazione di moto) che consente ai
muscoli respiratori (il termine di sinistra dell’equazione di moto) di svolgere efficacemente il loro compito.
Alcune considerazioni sono importanti, a questo punto:
1) è acclarato che la CPAP di per sé non debba essere considerata una pratica ventilatoria, costituisce piuttosto
la semplice applicazione di un livello di pressione a carico delle vie aeree;
2) ciò nonostante, l’evidenza sottolinea l’efficacia della CPAP, sovrapponibile a quella della NPPV, quando impiegata nell’APCE con acidosi respiratoria acuta1;
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3) al contrario, la BPCO riacutizzata in acidosi respiratoria deve essere trattata con la NPPV, la CPAP da sola
non è ugualmente efficace8;
4) la compromissione funzionale dell’APCE e della BPCO è nettamente differente: nel primo caso si deve cercare
di favorire la riespansione polmonare, diminuendo il carico elastico che i muscoli respiratori devono sostenere.
Quindi la semplice applicazione della CPAP è da considerare terapeutica, perché migliora di per sé il difetto
funzionale, cioè aumenta l’espansibilità del polmone. Nel caso della BPCO l’alterazione è costituita dall’incremento delle resistenze respiratorie e dall’iperinflazione dinamica: la CPAP da sola è insufficiente ad incrementare la ventilazione, perché è in grado di supportare lo sforzo inspiratorio solo parzialmente (per la parte
di cui è responsabile la PEEPi); la NPPV supporta in modo più esaustivo l’azione dei muscoli respiratori ed è
la scelta obbligata. In ogni caso, sia la CPAP che la NPPV applicate ai pazienti con BPCO non ne migliorano
le caratteristiche meccaniche del sistema respiratorio. Bisogna attendere che la terapia medica faccia il suo
effetto: broncodilatatori, steroidi, antibiotici e quant’altro…
5) il difetto funzionale dell’APCE è rapidamente reversibile. La CPAP o NPPV, più la terapia medica, consentono
un veloce e spesso sorprendente miglioramento del paziente;
6) il difetto funzionale della BPCO riacutizzata è solo parzialmente reversibile (l’incremento delle resistenze respiratorie e l’iperinflazione dinamica sono presenti anche nei periodi di stabilità clinica) ed inoltre il miglioramento si verifica molto più lentamente che nel caso dell’APCE: richiede giorni, piuttosto che poche ore;
7) la fatica muscolare è verosimilmente il risultato di un processo dinamico3. A questo partecipano meccanismi
che interagiscono tra di loro e coinvolgono l’attività dei centri che regolano il respiro nel sistema nervoso centrale, la propagazione dell’impulso nervoso in periferia, l’interazione tra eccitazione della fibrocellula muscolare e sua contrazione, la deplezione o l’accumulo di metaboliti e di sostanze ad alto contenuto energetico ed
infine i riflessi che modulano l’interazione tra tutte le componenti. Senza volere entrare specificamente nel
merito delle caratteristiche della fatica - ne esistono tre tipi9, rispettivamente centrale, periferica ad elevata frequenza, e periferica a bassa frequenza, solitamente coesistenti – è ovvio che la diminuzione delle prestazioni
muscolari (Pmus, la componente di sinistra dell’equazione di moto) debba essere relazionata all’entità della
ventilazione e del carico costituito dalla respirazione (VT•ERS + V’•Rtot +PEEPi, la componente di destra dell’equazione di moto). In altre parole, il supporto ventilatorio esterno, ovvero la CPAP o la NPPV nel caso dell’ACPE, e la NPPV nel caso della BPCO, riduce immediatamente il lavoro dei muscoli respiratori e consente
loro di recuperare dalla condizione di fatica. Tuttavia solo il contemporaneo alleggerimento del carico, che si
ottiene con la terapia medica, metterà in grado i muscoli respiratori stessi di tornare a svolgere con efficacia
la loro attività in respiro spontaneo;
8) esiste l’evidenza sperimentale, ottenuta grazie a studi effettuati su animali da laboratorio ed in soggetti sani
sottoposti a carichi respiratori esterni o a prove da sforzo massimali, che le prestazioni del muscolo diaframma
portato oltre la soglia della fatica siano significativamente ripristinate dopo 60 minuti di riposo10-12.
In base a tutte queste considerazioni (ed all’equazione di moto) è possibile postulare che l’efficacia della CPAP
nel trattamento dell’ACPE in acidosi respiratoria acuta sia dovuta alla fisiopatologia di quest’ultimo (incremento
del carico elastico respiratorio con sua rapida reversibilità mediante la terapia medica, effetto per così dire “rapidamente curativo” della pressione positiva applicata alle vie aere), unitamente alla rapida capacità di recupero
dei muscoli respiratori dalla fatica.
Almeno in questo campo, la cura dell’ACPE, sembra che il Duca di Modena13 abbia le sue ragioni da vendere:
“questa (CPAP) o quella (NPPV) per me pari sono…”.
La validazione di questo postulato richiederebbe l’elaborazione di protocolli di ricerca che prevedano delle misure
fisiologiche, difficili da realizzare per l’instabilità clinica del paziente in ACPE. Tuttavia può rappresentare un compito stimolante per chi lavora nel dipartimento di emergenza. Ciò per eliminare i residui sentimenti di dubbio e la
sensazione di ansia che tutt’ora permangono in chi si trovi a curare con la CPAP un paziente in ACPE con un pH
francamente acido, nonostante le rassicurazioni fornite dalle meta-analisi degli studi clinici eseguiti secondo i criteri
di EBM.
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