4. Nuovi ruoli per i cittadini e lo Stato nella governance

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4. Nuovi ruoli per i cittadini e lo Stato nella governance
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4. Nuovi ruoli per i cittadini e lo Stato nella
governance internazionale ed europea
Marcello di Filippo
4.1 La globalizzazione, tra mito e realtà, e il persistente ruolo degli
Stati
In un’epoca in cui è diffusa la convinzione che i principali fenomeni che
interessano l’opinione pubblica abbiano una dimensione che travalica i confini dei singoli Stati, mi capita spesso di sentire parlare di organizzazioni
internazionali fuori dai circoli degli addetti ai lavori.
In particolare, ciò avviene in dibattiti, spesso infervorati, che hanno luogo in televisione, nel contesto di iniziative pubbliche promosse da associazioni della società civile, tra circoli di amici e conoscenti. Cosa fa l’ONU
per la pace? Perché la fame nel mondo e le crisi sanitarie non sono state ancora estirpate nonostante l’esistenza di organismi appositi quali la FAO o
l’OMS? Dov’era l’Europa quando è scoppiata la guerra nei Balcani? Perché
i diritti umani vengono violati in ogni parte del mondo? Perché i responsabili di gravi crimini vivono indisturbati nei loro paesi? Quali risposte può
dare l’Unione europea alla crisi economica che attraversa il vecchio continente?
Questo è solo un piccolo campionario di domande che vengono formulate e che evidenziano – nello stesso momento in cui sono espresse – una
delusione, una sfiducia verso le organizzazioni internazionali, colpevoli di
aver tradito la fiducia riposta in loro dalla gente comune.
Sarebbe fin troppo facile liquidare la questione invitando le persone sbigottite o indignate a studiarsi un buon manuale di diritto delle organizzazioni internazionali, in modo da comprendere come gli enti sotto accusa
abbiano poteri spesso limitati e subiscano condizionamenti incisivi da parte
degli Stati che ne sono membri, soprattutto da parte di quelli più potenti o
influenti.
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Le regole che disciplinano le competenze delle organizzazioni, gli effetti
dei loro atti, il finanziamento delle rispettive attività non sono solo noiosi
precetti giuridici: tutt’altro, offrono un’irrinunciabile chiave di lettura del
ruolo che può giocare un determinato organismo nell’arena internazionale.
Ma in questa sede mi pare opportuno andare oltre questa ovvia constatazione e ampliare la discussione.
La globalizzazione viene spesso descritta come un’onda travolgente che
negli ultimi 15-20 anni ha spazzato via equilibri consolidati e antiche certezze: quasi tutti i problemi vengono declinati al globale, giustificando solo
per questo l’esigenza di mutare radicalmente approccio rispetto al passato.
A ciò si aggiunga che nelle società europee alcuni aspetti della globalizzazione (ad esempio, l’immigrazione, la crisi economica, il radicalismo religioso) hanno talora provocato, quale reazione, la crescente valorizzazione
della dimensione locale, vista come fattore che rassicura i cittadini a fronte
della perdita di certezze sulla propria identità.
In questo contesto, molti voci si levano a criticare il carattere antiquato
dello Stato, giudicato naturalmente incapace di affrontare da solo problematiche le cui dimensioni e caratteristiche travalicano gli angusti limiti delle frontiere.
Tale approccio si risolve spesso nella tendenza a ricercare in livelli di
governi più ampi la soluzione ai bisogni (diritti, benessere, sviluppo, sicurezza etc.): le organizzazioni internazionali classiche (es. ONU), le organizzazioni regionali di tipo sovranazionale (es. Unione europea), i vertici
dei maggiori attori politici (es. G8 o G20) sono sempre più destinatari di
aspettative (talvolta esagerate) e di critiche (spesso ingenerose).
Talora viene proposto l’abbandono definitivo dello Stato nazione a favore di organismi regionali (es., un’Unione europea con caratteristiche
marcatamente federali) capaci di coagulare i bisogni di collettività più ampie e di difenderne gli interessi nello scenario globale.
A mio modesto parere, la globalizzazione non ha quella portata rivoluzionaria che talvolta si è inclini a credere. Senz’altro, le dinamiche economiche, gli sviluppi tecnologici e la circolazione delle informazioni hanno
reso taluni processi molto più rapidi; allo stesso modo, gli spostamenti delle
persone, dei beni e dei modelli di consumo danno talvolta l’impressione
che trovarsi a New York o a Mosca non faccia più molta differenza (attrazioni turistiche e lingua a parte). Ma non è così: molte questioni restano lo3
cali, o meglio conservano una rilevante dimensione locale nonostante
l’innegabile portata mondiale o regionale di alcuni dei loro aspetti.
Un esempio può forse rendere più comprensibile questo concetto. È noto come la tutela dell’ambiente richieda un’azione concertata a livello
mondiale per fare in modo che il nostro pianeta conservi il proprio immenso patrimonio di flora e fauna e non venga compromesso da attività inquinanti. Uno Stato da solo non può fare un granché se gli altri Stati devastano
l’eco-sistema.
È altrettanto vero però che l’azione dei singoli Stati al loro interno e delle comunità locali è irrinunciabile, sia per promuovere la qualità ambientale
sul proprio territorio, sia per sviluppare competenze, buone pratiche e modelli da esportare nei circuiti internazionali come parte di una seria azione
di policy making.
In un foro internazionale nessuno ascolterà chi parla senza portare con
sé i risultati di studi e azioni realizzate nel proprio “piccolo”, senza poter
affermare che aver fatto la sua parte a casa propria: sarà credibile solo chi
sa coniugare il piano locale con quello dei consessi internazionali. Provate
ad immaginare la credibilità dell’Italia a un tavolo europeo che discuta di
rifiuti e di raccolta differenziata, a fronte della crisi in Campania.
Spesso passa l’idea che gli Stati del vecchio continente siano ormai ridotti a meri esecutori di scelte politiche e normative adottate a livello internazionale ed europeo e che i cittadini e la società civile siano del tutto
emarginati dai processi decisionali: così argomentando, si rischia di cogliere solo una parte del fenomeno.
Proverò a confutare questo assunto svolgendo alcune considerazioni di
carattere generale e alcune riflessioni sull’Unione europea, avendo cura di
evidenziare che la generazione Erasmus ha un ruolo di primo piano da giocare.
4.2. Modelli di governance mondiale e loro evoluzione
Dal primo punto di vista, è innegabile che le organizzazioni internazionali e i gruppi di Grandi non siano dotati di un braccio operativo e che pertanto ricada sugli Stati la responsabilità di assicurare l’effettiva esecuzione
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di quanto deciso nei fori diplomatici: basterebbe questa constatazione, peraltro banale, per dimostrare che gli Stati sono strutture indispensabili per
l’ordinata gestione delle relazioni internazionali. Ma sono solo esecutori,
oppure possono svolgere un ruolo propositivo?
Potremmo rispondere in maniera provocatoria, sottolineando che gli
Stati possono essere parte attiva dei processi internazionali, ma spesso si
accontentano di esserne meri esecutori o così vogliono far credere
all’opinione pubblica.
Per motivare tale affermazione, mi sembra opportuno sottolineare che
nei fori internazionali non si amministra il mondo o non si prendono decisioni vincolanti per il destino del pianeta.
Innanzitutto, non esiste una vera e propria struttura di governo mondiale, che sia dotata della competenza a prendere decisioni di ampio respiro
per l’intero pianeta e abbia la capacità di monitorarne attivamente
l’attuazione.
Esistono alcune organizzazioni internazionali di carattere universale
(aperte cioè alla partecipazione di tutti gli Stati e di altre organizzazioni regionali): esse tuttavia non agiscono come un legislatore, limitandosi nella
maggior parte dei casi a favorire il dialogo tra Stati e ad elaborare strategie
che vengono raccomandate agli Stati (ma non imposte), oppure testi di trattati che i governi nazionali e i loro parlamenti devono poi decidere se accettare o meno. A mo’ di esempio, possono essere citati l’ONU (salvo quanto
dirò tra poco), l’Organizzazione mondiale della Sanità, la FAO,
l’Organizzazione internazionale del lavoro, l’Organizzazione marittima internazionale, l’ICAO, l’Organizzazione internazionale delle migrazioni.
In qualche caso, gli enti internazionali possono rivestire il ruolo di decisori, ma si tratta di ipotesi limitate: l’esempio più noto è quello del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. È un organo a composizione ristretta (solo 15
Stati), in parte fissa (Cina, Francia, Regno Unito, Russia, Stati Uniti) e in
parte variabile (dieci membri a rotazione per un periodo di due anni): il
Consiglio, a maggioranza di 9/15, può adottare decisioni vincolanti per
l’intera comunità internazionale in questioni concernenti la pace e la sicurezza internazionale.
Le peculiarità di tale organo e della materia che esso tratta non consentono in questa sede di approfondire la questione. Si noti tuttavia che spesso
il Consiglio non ha agito per contrasti tra i membri permanenti (ciascuno
dotato di un insindacabile diritto di veto). Si tratta di un organo che non
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agisce quale un vero e proprio “direttorio” della comunità internazionale: è
noto per non decidere o per intervenire a cose fatte (si pensi alla crisi del
Kosovo del 1999, o all’invasione dell’Iraq nel 2003), più che per le decisioni prese.
Vi sono poi le istituzioni finanziarie mondiali, riconducibili al gruppo
della Banca Mondiale e al Fondo Monetario Internazionale: questi organi
hanno un ruolo significativo nella gestione dell’economia internazionale,
ma non sono tutto.
Possono condizionare le politiche di singoli Stati la cui economia è debole o attraversa una congiuntura sfavorevole, concedendo o meno finanziamenti, e imponendo determinate condizioni e oneri. Va detto però che in
taluni casi gli Stati che si rivolgono a tali istituzioni sono responsabili del
proprio dissesto finanziario, a causa di cattiva gestione dei bilanci e di diffusi fenomeni di corruzione: non deve essere considerato scandaloso che un
potenziale creditore esiga certe garanzie da un soggetto che richiede un prestito.
Più in generale, tali istituzioni votano a maggioranza qualificata, con un
ruolo significativo riconosciuto ai principali finanziatori dei rispettivi bilanci (leggi, i paesi maggiormente industrializzati). Gli Stati più ricchi, tuttavia, non sono i soli a decidere e non possono far quello che vogliono.
Non si può negare che in passato le istituzioni in questione abbiano
spinto per l’adozione, da parte degli Stati beneficiari degli interventi, di riforme strutturali di stampo neo-liberista, rivelatesi poi pregiudizievoli o
inefficaci per l’economia in questione.
È pur vero, però, che le critiche rivolte negli ultimi anni a Banca Mondiale e Fondo Monetario hanno contribuito a rendere l’azione di questi organi più trasparenti e responsabili, aggiustando talune storture del passato.
Per esempio, a partire dal 1993 è stato istituito in seno alla Banca Mondiale
un Inspection Panel che ha il potere di avviare indagini sulla gestione di
singoli progetti da parte della Banca, su richiesta di soggetti privati e ONG:
tale Panel è stato investito di reclami concernenti questioni ambientali, diritti di popoli indigeni, spostamenti forzati di popolazione. Nel 2001 il Fondo Monetario ha creato un Indipendent Evaluation Office, incaricato di
condurre studi indipendenti sulle politiche del Fondo e l’effetto delle sue
strategie. Inoltre, le due istituzioni organizzano ogni anno un forum con la
società civile, che si svolge a latere dell’incontro congiunto di Fondo e
Banca.
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Queste vicende dimostrano come le organizzazioni internazionali non
siano intoccabili e possano essere influenzate dalla critiche dell’opinione
pubblica, degli esperti, degli Stati.
Uno degli enti più sopravvalutati, a mio avviso, è l’Organizzazione
Mondiale del Commercio, altresì nota con il suo acronimo inglese WTO
(che sta per World Trade Organization). Questo ente, istituito nel 1994,
non detiene un potere legislativo in sé, in quanto semplicemente vigila
sull’attuazione di alcuni accordi internazionali liberamente stipulati dagli
Stati e contiene un sistema di soluzione delle controversie che possono insorgere sulla corretta attuazione degli stessi (prevenendo pertanto il fenomeno deleterio delle guerre commerciali).
La WTO rappresenta altresì un foro permanente di negoziato di futuri
accordi commerciali, senza imporre determinate soluzioni: gli sviluppi
normativi in materia sono in sostanza rimessi alla dialettica diplomatica tra
gli Stati che fanno parte dell’organizzazione.
In limitate ipotesi, un’ampia maggioranza di Stati può approvare decisioni interpretative degli accordi in vigore: ciò è avvenuto per la nota questione dell’accesso ai farmaci salva-vita protetti da brevetti internazionali
da parte di popolazioni appartenenti a Stati economicamente svantaggiati.
Anche in questo caso, non è la WTO in sé che detiene un potere insindacabile di adottare tali decisioni, ma un organo assembleare in cui sono rappresentanti tutti gli Stati membri.
Nell’ambito dei processi negoziali che si svolgono all’interno della
WTO, a un periodo di iniziale predominio degli Stati Uniti, capaci di capitalizzare al massimo il proprio peso politico ed economico, è succeduta una
fase in cui gli Stati emergenti e in via di sviluppo hanno unito le loro forze,
influenzando l’agenda dei negoziati e i relativi risultati.
Un rilevante peso è stato altresì esercitato da vari movimenti della società civile transnazionale, che hanno fatto sentire la loro voce durante i vertici
dell’organizzazione e durante le fasi preparatorie. Pur se la protesta ha assunto toni e posizioni non sempre realistici o ben argomentati, è innegabile
che abbia rappresentato un prezioso laboratorio di partecipazione dal basso
a processi politici internazionali, dimostrando che il circuito democratico
può essere adattato e rimodulato con la presenza attiva delle persone e che
gli Stati meno potenti possono agire di concerto riducendo l’influenza dei
c.d. Grandi e riequilibrando l’agenda politica.
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I vertici dei c.d. Grandi (G7, G8, G20) non sono organizzazioni internazionali, bensì riunioni diplomatiche al massimo livello in cui vengono affrontate discussioni sulle questioni più disparate di interesse globale ed elaborati documenti di orientamento politico (molto spesso infarciti di vuote
declamazioni che certificano l’assenza di un reale consenso tra i vari Grandi). A parte ogni considerazione circa la rappresentatività di questi consessi, preme rilevare che le conclusioni di tali vertici sono adottate
all’unanimità e non sono vincolanti.
Quanto sinora esposto dovrebbe persuadere il lettore che, allo stato delle
relazioni internazionali, è del tutto irrealistico pensare a una forma di governo mondiale: in alcune materie esistono schemi di governance in cui determinati enti o forum di carattere universale giocano un ruolo rilevante, ma
la stragrande maggioranza dei processi politici avviene ancora attraverso il
confronto tra Stati o fra gruppi, più o meno organizzati, di Stati.
Vi è poi da considerare che i fori internazionali sono formati da uomini
e governanti, che pensano, valutano, studiano opzioni, elaborano un convincimento e successivamente lo confrontano con quello di altri soggetti.
Nel far questo, vi sono leadership statali più efficienti e più agguerrite,
che arrivano al tavolo dei negoziati con una notevole competenza e consapevolezza dei propri interessi e delle priorità dei loro interlocutori, dei margini di trattativa e delle soluzioni alternative esperibili. Vi sono anche rappresentanti statali che improvvisano, oppure non hanno preparato per tempo l’incontro e vi giungono con minori risorse dialettiche e diplomatiche.
Vi sono Stati che approfittano del contesto internazionale per ridurre
drasticamente il circuito democratico nazionale, non coinvolgendo i soggetti interessati (dal Parlamento agli enti territoriali, dalle forze sociali alla società civile, dalla stampa ai cittadini in generale) nell’elaborazione della
propria posizione, per poi tornare nella propria capitale presentando un risultato non più discutibile nel merito.
Talvolta ci dicono che il nostro paese non aveva alcuna chance per influenzare gli altri: ma non sempre è vero.
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4.3 Lo Stato, i cittadini e un nuovo patto democratico
Vanno sfatati alcuni luoghi comuni. Innanzitutto, vi sono numerosi consessi internazionali, in cui l’Italia è rappresentata, ove vige la regola per cui
le prese di posizione e gli atti vengono adottati con il consenso di tutti i partecipanti: si pensi alla NATO, alle riunioni del Consiglio europeo (massimo
organo politico dell’Unione europea), al G8 e al G20.
Pur se le regole di adozione delle decisioni non sono tutto, occorre ricordare che un singolo Stato come l’Italia può far pesare la sua voce. Quello che conta è che non si tratti di scelte estemporanee e esclusivamente nazionalistiche, ma di atteggiamenti accompagnati da un serio apparato argomentativo, per fare in modo di non isolarsi e per dare sostanza e continuità alle proprie rivendicazioni.
Più in generale, uno Stato sarà più forte se avrà coinvolto la propria comunità politica e i propri stakeholder di riferimento nella fase di elaborazione della propria posizione. Su questo aspetto occorre lavorare ancora
molto in Italia: in attesa che le istituzioni politiche lo facciano, spetta ai cittadini e alla società civile organizzata pretendere una maggiore trasparenza
e condivisione nella c.d. fase ascendente dei processi politici internazionali
ed europei in cui l’Italia è coinvolta.
Ma vi è di più: le singole comunità statali, o loro componenti, possono
percorrere altre strade per influenzare quei consessi, attivando circuiti virtuosi di analisi, elaborazione e rappresentazione di posizioni condivise con
altri Stati e gruppi di interessi ivi presenti.
Le alleanze possono svolgersi su piani paralleli: Stato-Stato, Ong-Ong,
enti territoriali-enti territoriali. Tuttavia, una loro sinergia trasversale potrebbe produrre maggiore consapevolezza e tradursi in azioni concertate di
peso maggiore. Ovviamente, sussistono differenze nelle agende e nelle
priorità di enti pubblici e di soggetti privati: ciò non toglie che possano esserci situazioni o questioni in cui l’azione comune è possibile, con un evidente effetto moltiplicatore.
Lo Stato non è dunque una forma antiquata di organizzazione delle comunità umane: ad essere sorpassato definitivamente è un modo di governare che guardi esclusivamente alla dimensione locale e non cerchi di incidere
sui processi internazionali, magari attivando sinergie e alleanze con altri
paesi o aggregazioni di interessi che perseguono obiettivi condivisi.
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Lo Stato non è destinato a sparire: piuttosto, deve essere capace di agire
su più livelli e di rifondare il patto costituzionale con i suoi cittadini. Le
forme della democrazia cambiano, e così il modo con cui le istituzioni e i
cittadini si relazionano, tra di loro e con le realtà interne ed esterne.
In questa prospettiva, sono preziosi gli italiani che hanno vissuto in altri
paesi europei nell’ambito del programma Erasmus; sono preziosi i c.d.
“cervelli” italiani che sono espatriati per cercare opportunità professionali e
meritocratiche che non trovavano qui da noi; sono preziosi i giovani che
parlano bene le lingue e hanno molte stanze nelle loro menti e nei loro cuori, corrispondenti ai posti dove hanno vissuto o ai luoghi dove vivono amici
e conoscenti di altre nazionalità.
Chi meglio di loro può essere soggetto attivo nel processo di riflessione
e programmazione di politiche di lungo periodo, che vadano oltre il giardino di casa?
Chi meglio di loro può portare idee per costruire una rete di alleanze con
altri paesi, e all’interno di altri paesi, al fine di portare nell’agenda dei
grandi consessi internazionali le esigenze e i valori che stanno a cuore a noi
italiani?
Chi meglio di loro può, per esempio, recuperare con idee nuove il nostro
patrimonio culturale di emigranti e di persone che sanno cosa vuol dire essere stranieri, per maturare un nuovo atteggiamento verso la sfida delle migrazioni nell’era della globalizzazione?
È necessario che si diano da fare, che trovino la voglia di dedicare una
parte del loro tempo a questo paese, che si incontrino e facciano gruppo:
questo libro può forse dare una mano, ma non basterà.
Una cosa è certa: chi aspetta che siano altri a muoversi, non ha alcun diritto di lamentarsi se la direzione intrapresa non piace o porta diritto a un
muro, a un cortile senza alberi o panchine, o a un precipizio.
La globalizzazione, pertanto, non significa superamento dello Stato e
impotenza dei cittadini e della società civile. Piuttosto, impone un nuovo
approccio, di cui devono essere protagonisti gli individui che non fanno
della consapevolezza delle proprie radici un ostacolo al confronto con le
realtà “altre”; individui che sanno praticare lo scambio di idee e avviare
azioni comuni con chi non parla la nostra lingua ma magari condivide
aspettative, progetti e preoccupazioni.
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A fronte delle dinamiche internazionali, una nuova alleanza deve essere
stipulata tra Stati e cittadini, pena la perdita di qualsiasi ruolo per entrambi,
a vantaggio di poche grandi potenze e di centri di potere privati, che sfuggono a qualsiasi controllo democratico.
4.4. Del regionalismo, dell’Unione europea e di alcuni luoghi comuni
duri a morire
E ora mi sembra opportuno dedicare qualche considerazione alle organizzazioni regionali e all’Unione europea (d’ora in avanti, UE).
Le relazioni internazionali sono un’arena in cui spesso prevalgono i
soggetti più forti, senza troppa considerazione per l’interesse della popolazione mondiale. Inoltre, le competizioni e le gelosie tra Stati, gli interessi
economici e strategici contrapposti possono portare a guerre, tensioni, ingerenze, sprechi.
Non deve essere poi trascurato il ruolo giocato da soggetti non statali
quali le multinazionali, gli speculatori finanziari, le organizzazioni criminali e terroristiche di natura transnazionale: oltre a sfuggire ai meccanismi
propri dei circuiti democratici, tali soggetti possiedono un potere (economico, politico, militare) spesso superiore o paragonabile a quello della maggior parte degli Stati sovrani.
A fronte di tale scenario, gli Stati medi e piccoli ricaverebbero grande
utilità da un’azione concertata a livello internazionale: tuttavia, spesso ciò
non accade, vuoi per ragioni politiche contingenti e per un forte nazionalismo, vuoi perché le grandi potenze non hanno interesse a favorire tali aggregazioni se non nei casi in cui non siano funzionali ai propri interessi
strategici.
Le organizzazioni universali (es., l’ONU o il WTO) o di ambito universale (es., il G8 o il G20) sono entità troppo complesse e differenziate al loro
interno per poter promuovere un modello di governance efficiente, rappresentativo e condiviso.
In alternativa al livello universale, il piano regionale può allora fungere,
in certi casi, da elemento di aggregazione ottimale. Gli Stati che appartengono a una medesima regione geografica possono trovare nel fattore spa11
ziale un importante elemento di aggregazione: la comune appartenenza
geografica può implicare una vicinanza culturale, la condivisione di problemi e di interessi.
La cosa non è affatto scontata (dato che talvolta sono proprio i contenziosi territoriali e un radicato nazionalismo a rendere esplosive alcune
aree), ma si può sostenere che è tendenzialmente più probabile che un
gruppo di Stati vicini geograficamente possa avviare un processo fecondo
di collaborazione e integrazione rispetto a un gruppo di Stati non contigui o
addirittura lontani.
Occorre avvertire sin da ora che le organizzazioni regionali non devono
essere mitizzate: non rappresentano la panacea rispetto al disordine fisiologico delle relazioni internazionali. Ogni contesto regionale e ogni organizzazione eventualmente istituita al suo interno richiedono valutazioni ad
hoc. Possono tuttavia essere formulate alcune considerazioni di carattere
molto generale.
Le entità regionali – ove accompagnate da istituzioni autorevoli, da
meccanismi decisionali sufficientemente equilibrati e da un consenso politico non effimero – possono svolgere un’utile opera di semplificazione nel
panorama politico internazionale, coagulando le priorità e gli interessi degli
Stati membri: questo non significa sostituirsi agli Stati, ma piuttosto potenziare la loro azione attraverso il perseguimento di posizioni comuni elaborate secondo processi condivisi.
Inoltre, gli organismi regionali possono agire come organi sussidiari delle organizzazioni universali, secondo un’ottica di multi-level governance,
approfondendo i contenuti della cooperazione internazionale, sia dal punto
di vista della precisione delle norme vigenti, che da quello dell’effettiva attuazione delle stesse.
Infine, gli organismi in questione favoriscono il passaggio dalla contrapposizione di fatto tra Stati (che spesso crea inefficienza e premia gli
Stati più forti) ad una collaborazione regolata dal diritto e da sistemi imparziali di soluzione di eventuali controversie.
Giova ripeterlo, un’organizzazione regionale è utile e interessante solo
se presenta una certa solidità istituzionale e se contribuisce a migliorare il
clima delle relazioni internazionali, per lo meno tra gli Stati che ne fanno
parte. Alla luce di questi parametri, occorre volgere ora l’attenzione
all’Unione europea.
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Noi europei siamo soliti menzionare l’UE come un modello di organizzazione regionale al tempo stesso ambizioso e riuscito: avviato tra soli sei
Stati nel 1951 con la nascita della CECA (pochi anni dopo la fine del secondo disastroso conflitto mondiale), il processo di integrazione europea ha
visto espandere progressivamente il proprio campo di azione e la cerchia
degli Stati membri.
L’attuale UE non si occupa solo di mercati, ma tratta questioni di alto rilievo politico, quali l’ambiente, la tutela dei consumatori, i diritti umani, la
sicurezza, le migrazioni, la lotta alle organizzazioni criminali transnazionali. Ha anche cercato di dotarsi di una politica estera comune, ma sinora con
scarsi risultati.
Gli Stati membri sono diventati 27 e sono in cantiere ulteriori allargamenti: l’area dei Balcani, l’Islanda, la Turchia (non senza qualche contraddizione nelle posizioni assunte da alcuni governanti europei).
Dal punto di vista istituzionale, l’UE è senz’altro l’organizzazione internazionale più avanzata ed efficace che esista al mondo. In alcuni suoi aspetti ricorda un’entità statale, in altri ha elaborato strumenti organizzativi molto efficaci pur mantenendo un approccio realistico e attento alle sovranità
statali.
Con un certo grado di approssimazione, si può dire che l’UE costituisce
un apparato molto esigente verso gli Stati membri, i quali non possono facilmente sottrarsi alle sue regole; al tempo stesso, l’UE poggia le sue basi
sulla persistente volontà dei suoi Stati membri di renderla effettiva, essendo
priva di un apparato coercitivo in senso stretto.
La natura particolarmente avanzata dell’UE ha indotto a coniare per essa
il termine di ente “sovranazionale”, che sottolinea la sua natura intermedia
tra una classica organizzazione intergovernativa di cooperazione e un’entità
sovraordinata rispetto agli Stati.
Il dibattito sull’UE è spesso condizionato da luoghi comuni e percezioni
errate, sia in positivo che in negativo. I mass media e gli attori politici non
aiutano il cittadino comune ad orientarsi rispetto a questa complessa costruzione.
Talvolta all’UE vengono attribuite responsabilità che sono invece degli
Stati membri o delle dinamiche economiche e politiche mondiali; in altre
occasioni, alcuni suoi indubbi meriti non vengono riconosciuti o sono oggetto di un’indebita appropriazione da parte dei governi nazionali.
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Mi piacerebbe confutare alcuni dei luoghi comuni sull’UE utilizzando
una tecnica fondata su proposizioni negative: dicendo, cioè, cosa non è
l’UE.
In primo luogo, non è una sorta di Stato federale o una sua premessa: il
nome “Unione” è decisamente enfatico, ove rapportato alla realtà di
un’organizzazione internazionale estremamente evoluta, che tuttavia poggia
ancora oggi le sue basi su trattati internazionali conclusi dagli Stati membri.
L’UE senza dubbio presenta alcuni aspetti che richiamano le esperienze
federali: ad esempio, la diretta applicabilità di alcune sue norme e la loro
prevalenza sul diritto statale; una Corte di giustizia depositaria del monopolio interpretativo del diritto europeo e competente a giudicare i comportamenti degli Stati membri; una tariffa doganale comune; l’assenza di controlli alle frontiere tra la maggior parte degli Stati membri; una moneta unica e una Banca centrale indipendente. Tuttavia, questi elementi convivono
con altri strumenti tipici della cooperazione internazionale e del dialogo tra
Stati, in cui le unità componenti contribuiscono dal basso a forgiare e orientare l’azione europea.
L’UE non travolge gli Stati e non elimina le differenze e le peculiarità
nazionali: la diversità è una ricchezza dell’Europa. Va tuttavia sottolineato
con forza che il processo di integrazione ha un senso se si ritiene che siano
prevalenti le cose che uniscono rispetto a quelle che dividono.
Un progetto così ambizioso richiede classi dirigenti all’altezza e un costante sforzo culturale, al fine di evitare le ricorrenti tentazioni alla chiusura
e al nazionalismo, che riaffiorano di fronte alle crisi economiche o alle incertezze generate dalla difficoltà di interpretare nuovi eventi (quali il terrorismo internazionale di matrice stragista).
In secondo luogo, l’UE non è un soggetto altro rispetto ai suoi Stati
membri, in quanto questi agiscono collettivamente al suo interno attraverso
organi (in primis, il Consiglio dell’Unione e il Consiglio europeo) e processi politici: se è vero che esistono organi indipendenti dai governi nazionali
(la Commissione, la Corte di giustizia, la Banca centrale europea, il Parlamento europeo), essi tuttavia esercitano le loro competenze nell’interesse
generale e in osservanza di precisi standard legali (fissati nei trattati istitutivi) e di indirizzi politici decisi all’unanimità dai governi nazionali riuniti
nel Consiglio europeo (massimo organo di indirizzo politico).
Per questi motivi, non si può dire che l’UE sottragga sovranità agli Stati
membri: piuttosto, rappresenta un mezzo per l’esercizio congiunto della
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stessa, auspicabilmente più efficace rispetto ad un’azione isolata e scoordinata dei singoli Stati.
In terzo luogo, l’UE non è un soggetto fisiologicamente lontano dai cittadini e dalla società civile o un covo di tecnocrati strapagati che non rispondono a nessuno del proprio operato.
Deve ricordarsi che al suo interno opera, con un ruolo di sicuro rilievo,
il Parlamento europeo (la prima assemblea di un’organizzazione internazionale ad essere composta di membri eletti direttamente dai cittadini).
Inoltre, i processi decisionali (di regola promossi da un’iniziativa della
Commissione) sono preceduti da una trasparente azione di consultazione di
tutti i soggetti interessati e sono nella maggior parte dei casi oggetto di una
puntale ed esauriente documentazione. Infine, si consideri che molte decisioni sono prese da organi ove siedono i rappresentanti dei governi nazionali.
Chi ritiene l’UE un centro di potere remoto e poco trasparente rispetto ai
cittadini, dovrebbe dimostrare che la stessa percezione rispetto alle istituzioni centrali non sia diffusa negli abitanti di paesi di dimensioni comparabili all’UE (es. gli USA, la Federazione russa) oppure nei cittadini italiani o
di altre democrazie c.d. mature rispetto alle decisioni prese dal governo in
carica, che spesso scavalca le aule parlamentari e il correlato circuito di dialogo tra l’organo parlamentare e l’esecutivo.
Quanto detto non esime i cittadini e l’opinione pubblica in generale dal
dovere di esercitare pienamente il proprio ruolo di protagonisti attivi dei
circuiti politici, attraverso le elezioni europee e una costante attenzione alle
questioni in discussione presso l’UE: gli strumenti non mancano, specialmente nell’era di internet.
La Commissione europea, principale motore dell’iniziativa legislativa
UE, organizza costantemente processi di consultazione pubblica prima di
presentare le proprie proposte: la società civile può e deve fare sentire la
propria voce in tale occasione, così possono e devono fare i singoli governi
e gli enti territoriali minori.
Parlare di democrazia non ha senso se i cittadini si adagiano in un ruolo
di recettori passivi di dichiarazioni o decisioni altrui: nessun trattato di riforma potrà assicurare un’effettiva democraticità dei processi politici se gli
attori della democrazia non giocano fino in fondo il proprio ruolo.
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Infine, l’UE non è un blocco monolitico che può essere condannato o
esaltato in toto. Si tratta di una costruzione complessa, non priva di aporie e
incrostazioni: come ho già ricordato, prende le mosse nel 1951 con la firma
a Parigi del Trattato istitutivo della CECA da parte di soli sei Stati (tra cui
l’Italia), per poi conoscere una serie impressionante di aggiunte e modifiche
alle sue competenze e regole di funzionamento nonché al numero dei suoi
Stati membri, divenuti ora 27 (impressionante l’ampliamento del 2003, che
ha portato il numero dei membri da 15 a 25).
La costruzione progressiva dell’UE e il graduale incremento delle sue
competenze e dei relativi mezzi di intervento richiedono un metodo adeguato per giudicare i progressi e i fallimenti della sua azione: un approccio
corretto richiede di esaminare di volta in volta la singola materia che ci interessa e i motivi che spiegano l’eventuale limitatezza degli risultati raggiunti.
Vi sono ambiti in cui l’UE ha conseguito buoni frutti o ha aiutato alcuni
o molti dei suoi Stati membri a realizzare importanti progressi, così come
settori in cui l’azione europea è stata carente o parziale. Rispetto a questi
ultimi, occorre verificare, tuttavia, se la responsabilità è delle istituzioni europee in sé considerate (specialmente quelle indipendenti dai governi) o
piuttosto degli esecutivi nazionali: questi ultimi, infatti, talora pongono veti
ispirati a considerazioni meramente egoistiche o impongono soluzioni al
ribasso nell’ambito delle riunioni degli organi europei di natura intergovernativa a cui spetta l’ultima parola.
4.5. L’Unione europea tra aspettative e immobilismo: qualche proposta migliorativa
Negli ultimi anni si è sentito parlare spesso di crisi dell’UE o di processi
involutivi, di Fortezza Europa e di declino del vecchio continente nello
scenario internazionale. Appare saggio evitare facili slogan o eccessive
drammatizzazioni. Nondimeno, occorre non sottovalutare alcune dinamiche
e interrogarsi sulle possibili vie d’uscita. Proverò ad affrontare la problematica trattando quattro questioni che mi sembrano cruciali e su cui è necessario agire con determinazione e una certa dose di coraggio.
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La prima osservazione concerne le fasi di pericoloso stallo dell’UE che
sono state determinate dalla bocciatura di importanti trattati di riforma ad
opera dell’elettorato di singoli Stati membri: molti osservatori ne hanno dedotto il segno di uno scarso appeal del progetto europeo verso l’opinione
pubblica.
Nel 1992 un referendum danese aveva rallentato l’entrata in vigore del
Trattato di Maastricht, mentre nel 2001 il Trattato di Nizza era inciampato
in un “no” dell’elettorato irlandese. Nel 2005, gli elettori francesi e olandesi
hanno bloccato, attraverso un referendum dall’esito negativo, i processi di
ratifica dei rispettivi paesi del Trattato costituzionale approvato nel 2004:
ne era seguito l’accantonamento del Trattato. Di lì a poco, il Trattato di Lisbona del 2007 è stato temporaneamente congelato a seguito di un referendum negativo svoltosi in Irlanda nel 2008. Il Trattato è successivamente entrato in vigore il 1° dicembre 2009 grazie a un nuovo referendum convocato dopo l’adozione a livello europeo di alcuni atti interpretativi tesi a rassicurare l’opinione pubblica irlandese.
L’impatto della crisi economico-finanziaria che nel 2010 ha colpito
dapprima la Grecia e successivamente proprio la c.d. tigre celtica dimostra
quanto sia utile l’UE, anche se non sempre viene capita dall’opinione pubblica.
Con riguardo all’intera economia europea, i detrattori dell’euro dovrebbero poi spiegarci cosa sarebbe successo alla maggior parte dei paesi che
l’hanno adottato quando sono scoppiate crisi internazionali come quelle
dell’11 settembre 2001 o quella dei mutui sub-prime.
Sempre quei detrattori dovrebbero convincermi che la libera circolazione dei cittadini europei non sia un risultato straordinario, così come la stabilizzazione democratica di alcuni Stati a noi vicini, successivamente entrati
nella stessa UE. Ma non voglio in questa sede nascondermi dietro alcune
considerazioni che dovrebbero ormai essere di patrimonio comune.
Lo strumento del referendum che alcuni Stati hanno utilizzato per approvare i trattati di riforma dell’UE sono presentati come l’espressione di
legittime esigenze di democrazia diretta (e in alcuni casi sono imposti dalla
Costituzione statale): l’argomento non è privo di un’intrinseca persuasività.
Tuttavia, l’evidenza empirica dimostra che tali consultazioni si sono paradossalmente trasformate in meccanismi di tirannia di piccole maggioranze nazionali (spesso determinate dalla saldatura inedita di movimenti popu17
listi, gruppi di estrema sinistra e formazioni di destra) su temi che interessano il futuro dell’intero continente.
Penso che si possa trovare una diversa soluzione per coniugare democrazia diretta e dimensione europea dei processi politici di riforma dell’UE:
sarebbe ora di pensare a un referendum europeo, anche solo di carattere
consultivo (e pertanto non vincolante), da tenersi contemporaneamente in
tutti gli Stati membri ogni qual volta si tratti di approvare il testo di trattati
di riforma.
Il carattere meramente consultivo di tale referendum consentirebbe di
scavalcare gli ostacoli costituzionali provenienti da molti ordinamenti giuridici statali, mantenendo intatto il valore politico e simbolico di tale pronunciamento da parte dell’elettorato europeo. Il contemporaneo svolgimento della consultazione in tutti gli Stati membri obbligherebbe anche i governi e le forze politiche a confrontarsi con i temi europei senza facili scorciatoie o ripiegamenti nel localismo.
La seconda osservazione riguarda i rapporti con il mondo che ci circonda. Come già anticipato, l’UE non ha una vera e propria politica estera, anche se è stato avviato un processo per acquisire maggiore visibilità nelle relazioni internazionali e per dotare l’UE di un proprio servizio diplomatico.
Svolgere un ruolo nelle dinamiche globali e essere considerati un partner di
rilievo, autorevole e importante, richiede anche altro.
L’esperienza del programma Erasmus/Socrates e Leonardo dovrebbe insegnare: decine di migliaia di cittadini europei hanno una visione più ampia
dei problemi europei e del mondo grazie al fatto di aver vissuto per alcuni
mesi in un altro paese ed essersi temporaneamente inseriti nel suo tessuto
universitario e lavorativo. Grazie ai fondi europei, è stato possibile rendere
accessibile la libera circolazione ai giovani europei, non esaurendola alle
vacanze o ai soggiorni meramente ludici. I ragazzi europei hanno conosciuto meglio l’Europa, e l’Europa si è fatta conoscere meglio dai suoi giovani
cittadini.
Cosa impedisce di investire con decisione su programmi di scambio di
studenti e docenti con paesi terzi o con intere aree geografiche? Qualcosa si
è già mosso (ad es., il programma Erasmus Mundus) ma è troppo poco: occorre un investimento maggiore e un quadro normativo più agevole per
l’avvio di programmi di scambio tra università europee ed extraeuropee.
Stimoliamo gli studenti europei a trascorrere un anno dei loro studi in
università americane, asiatiche o africane, e invitiamo i giovani di quei pae18
si a vivere e studiare un anno in Europa: tra paesi lontani e culture differenti è fondamentale costruire ponti di conoscenza, di comprensione, di dialogo. Indipendentemente dai rapporti tra governanti, il dialogo tra cittadini di
paesi diversi rappresenta un fertile humus per veicolare conoscenze, idee,
contatti, chiavi di lettura per il presente e per il futuro: risorse intangibili,
ma decisive per il futuro dell’Europa.
Si va profilando una nuova fase delle relazioni internazionali – definita
da alcuni studiosi come “post-coloniale” – in cui emergono paesi nei cui
confronti gli Stati europei hanno svolto in passato un ruolo di colonizzatori
o potenze per lo meno ingombranti: Brasile, Cina, India, Messico, Sudafrica, Turchia.
I paesi europei dovranno avere risorse e reti, anche informali, per dialogare costruttivamente con queste realtà, per esercitare quel soft power che
può ancora rappresentare un’alternativa all’hard power dato dalle risorse
militari o dal possesso di risorse energetiche indispensabili (che non abbiamo). Un soft power che è ispirato alla pratica dell’ascolto, della conoscenza della rispettiva storia, del riconoscimento delle qualità e della piena
dignità dell’altro, dell’abitudine alla convivenza tra Stati ispirata al diritto e
alla soluzione pacifica delle controversie. Un nuovo programma Erasmus di
portata mondiale potrebbe rappresentare un investimento prezioso, pur se
non rappresenta l’unico strumento a disposizione.
Verso questi paesi e i rispettivi abitanti, verso le aree geografiche per loro strategiche, troppo spesso gli Stati europei appaiono ancora arroganti o
insensibili. Basterebbe pensare a come si va profilando l’azione UE rispetto
alle migrazioni internazionali o alla possibile adesione della Turchia: ci
stiamo arroccando su posizioni di chiusura.
Sarebbe curioso verificare quanti tra i politici e cittadini europei contrari
all’ingresso della Turchia nell’UE siano mai stati in quel paese o abbiano
mai avuto l’opportunità di conoscere le persone normali che lì vivono, andando oltre la cerchia dei tour operator, dei gestori di ristoranti o alberghi,
dei venditori di souvenir. Il rischio è che i nostri interlocutori di oggi, irritati dalla supponenza europea, comincino a guardare altrove e domani non
bussino più alla nostra porta, in quanto saremo diventati periferia.
La terza osservazione concerne l’impatto del c.d. processo di ampliamento: nel corso della sua storia, l’UE ha visto moltiplicare le sue competenze e quasi quintuplicare il numero degli Stati membri. La compagine sociale è mutata molto ed è difficile intravedere una piena coesione politica
circa gli obiettivi di lungo termine.
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Il progetto politico originario, ben sintetizzato nella nota dichiarazione
Schuman del 9 maggio 1950, era animato da una visione innovativa, che
vedeva nella creazione delle istituzioni europee un nuovo strumento di governo che puntasse a superare le divisioni nazionalistiche e a portare a forme ambiziose di integrazione politica, pur se non necessariamente coincidenti con la formula dello Stato federale europeo.
La formula era innovativa perché imponeva agli Stati membri di rinunciare alla propria libertà di manovra, per trasferire certe competenze alle
istituzioni comuni: non di perdita di sovranità si trattava, ma di esercizio
condiviso per raggiungere risultati altrimenti impossibili. Il realismo e la
gradualità erano accompagnati da una visione ideale, che vedeva nella condivisione del potere tra Stati e Unione la migliore formula per promuovere
la pace, il benessere, lo sviluppo e per permettere all’Europa di esercitare la
sua influenza nelle relazioni internazionali.
Il vertiginoso aumento degli Stati membri pone l’UE di fronte a una fisiologica incapacità di perseguire il percorso integrazionista. È del tutto
velleitario pensare che ventisette o trenta Stati condividano una visione
comune circa il rafforzamento degli organi europei e l’abbandono di approcci nazionalistici in tante materie: non è un mistero che alcuni Stati sono
entrati nell’UE con il preciso intento di sfruttarne talune potenzialità (specialmente dal punto di vista dell’economia) e, al tempo stesso, con il fermo
proposito di frenare qualsiasi progresso in settori sensibili o, più in generale, sul piano dell’integrazione politica.
Il rischio di paralisi o, peggio, di implosione non è così remoto. Qui è
necessario che la generazione Erasmus faccia sentire la sua voce, sia nei
confronti delle forze politiche dei rispettivi paesi, sia nei confronti della
propria comunità di riferimento, facilmente manipolabile da una superficiale retorica anti-europeistica.
Occorre uno rinnovato slancio ideale verso l’Europa, piuttosto che la
fuga verso i localismi miopi e sordi. L’UE è un patrimonio prezioso, che ha
assicurato la pace tra i suoi Stati e ha garantito un elevato tenore di vita a
buona parte della sua popolazione; ha portato stabilità e democratizzazione
in molti paesi reduci da esperienze autoritarie (Spagna e Portogallo; Grecia,
molti dei paesi dell’Europa centro orientale).
È il progetto politico più ambizioso e audace che un gruppo di Stati abbia mai scelto volontariamente di perseguire, senza esservi costretti dalla
pressione della violenza bellica. È probabilmente l’unica chance che hanno
gli Stati europei di contare qualcosa sul palcoscenico mondiale; è un esem20
pio per altre aree del mondo (America Latina, Africa), che hanno dato vita
negli ultimi decenni a tentativi (più o meno riusciti) di imitazione del modello europeo.
Per questi motivi, tutte le potenzialità dell’UE devono essere sfruttate,
inclusa quella di ricorrere alla cooperazione rafforzata laddove alcuni Stati
non siano pronti per nuove iniziative. Un’avanguardia di Stati può realizzare risultati che sarebbero impensabili nell’UE a 27 Stati: ma ciò non deve
essere necessariamente concepito come un atto negativo per il processo di
integrazione, considerato che una buona iniziativa potrebbe nel medio e
lungo periodo attrarre alcuni degli Stati che inizialmente ne sono rimasti
fuori e contribuire ad isolare quei paesi che perseguono unicamente prospettive egoistiche e ostruzionistiche.
Oltre a ciò, occorre fare una seria campagna per il passaggio al voto a
maggioranza qualificata in senso al Consiglio dell’UE e l’adozione della
procedura legislativa ordinaria nel più ampio numero di materie possibili:
ciò può essere fatto con una c.d. mini-riforma dei trattati regolata dall’art.
48 TUE. Gli Stati più restii potrebbero essere tutelati dall’espressa inclusione di una clausola di opting out, già sperimentata in alcune materie (si
pensi ai meccanismi decisionali previsti nell’ambito della lotta alle attività
criminali o della politica estera e di sicurezza comune).
Una quarta osservazione riguarda un meccanismo di partecipazione diretta introdotto dal Trattato di Lisbona: la presentazione di proposte di
normative di iniziativa popolare (v. art. 11 TUE). Perché non costruire un
percorso che conduca a rendere vitale tale opportunità?
In questi mesi è in discussione la proposta della Commissione che definisce le modalità di presentazione delle iniziative legislative popolari (doc.
COM 2010-119). I governi e il Parlamento europeo stanno prendendo posizione: la società civile, già coinvolta dalla Commissione prima di presentare la sua proposta, deve seguire il dibattito e far sentire la sua voce presso i
governi e i deputati europei. In un secondo momento, poi, i cittadini dovranno fare rete per costruire proposte europee di iniziativa popolare che
contribuiscano a costruire l’agenda politica dell’UE.
In fondo, i cittadini e gli Stati europei hanno bisogno non tanto di
un’Europa più debole e di un ritorno alle malconce e anacronistiche sovranità statali, ma di un’Europa più partecipata e trasparente. L’UE non è
esente da critiche, ma spararle addosso non è una scelta molto avveduta: i
detrattori dell’Europa mi devono ancora convincere che i singoli Stati sa21
rebbero stati meglio senza di essa e che in futuro potrebbero avere più peso
e maggiori possibilità di crescita e benessere senza l’UE.
La consapevolezza che l’UE abbia rappresentato un salto di qualità nelle
relazioni tra Stati europei, e tra questi e il resto del mondo, non deve indurre a pigri trionfalismi: occorre lavorare duro per conservare quanto sinora
ottenuto e per permettere a questa complessa struttura di continuare a lavorare proficuamente, insieme ai suoi Stati membri e ai suoi cittadini. L’UE è
un processo, come la democrazia: richiede una dedizione costante, una vigilanza continua, un esercizio virtuoso e convinto. Guai a darla per scontata, per irreversibile.
4.6 Spazio all’immaginazione: una nuova Comunità europea quale
nucleo duro dell’UE del terzo millennio
Ma è possibile andare oltre. Non è forse insensato cominciare a ragionare sulla creazione di una nuova struttura, aperta solo agli Stati più inclini a
un’entità dotata di maggior elementi di carattere federale e più coesa, che
conviva accanto all’UE attuale ma sia dotata di meccanismi decisionali più
efficienti. In tale prospettiva, da più parti si è fatto riferimento agli Stati che
hanno adottato l’euro, in quanto esprimerebbero una maggiore propensione
verso la condivisione di ulteriori aspetti significativi della sovranità statale.
Ma potrebbe anche darsi che il novero degli Stati like minded sia più ristretto.
Quello che mi induce a speculare in tal senso è la circostanza che, pur
perseguendo le migliorie suggerite nelle pagine precedenti, l’attuale cerchia
sociale degli Stati membri sia cresciuta troppo per osare ulteriori passi in
avanti sulla strada dell’integrazione politica.
Proseguendo con l’immaginazione, la nuova organizzazione potrebbe
essere denominata (nuova) Comunità europea, al fine di recuperare lo spirito della dichiarazione Schuman: non assorbirebbe gli Stati desiderosi di
parteciparvi, ma li renderebbe certamente più coesi. Non di una federazione
sui generis dovrebbe trattarsi, bensì di una versione più ambiziosa
dell’attuale UE.
Occorrerebbe un nuovo trattato e un meccanismo sofisticato di coordinamento con l’UE, ma non si tratterebbe di un’operazione impossibile dal
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punto di vista giuridico. Del resto, il Benelux ha convissuto con il processo
di integrazione europea per vari decenni.
La creazione di un Europa a cerchi concentrici potrebbe anche contribuire a sdrammatizzare alcuni temi: quello del prosieguo del processo di
allargamento, per esempio. Aumentare il numero degli Stati membri può
rafforzare le tendenze centrifughe: così non è, tuttavia, laddove tale processo venga concepito in modo tale da non indebolire le istituzioni comuni e
da non toccare necessariamente gli aspetti più impegnativi per la sovranità
statale. I nuovi Stati parteciperebbero da subito all’UE, mentre solo in un
secondo momento verrebbe valutata l’opportunità di una loro inclusione
nella più ristretta Comunità europea.
4.7 Una rivoluzione pacifica del sistema Italia
E ora, penso che sia giusto dedicare qualche considerazione finale al nostro paese.
Non ha senso invocare un atteggiamento meno provinciale nei nostri
rappresentanti, se non siamo prima noi cittadini ad approfittare delle opportunità dischiuse da internet e dai buoni libri, ad informarci anziché delegare, a leggere con attenzione anziché cliccare spasmodicamente da un sito
web all’altro. Troppo spesso le giovani generazioni confidano eccessivamente nella navigazione in internet, quasi che Wikipedia o Google possano
sostituire la vera informazione, un autentico percorso di approfondimento e
di comprensione di temi complessi. Troppo spesso l’abitudine alla nuove
tecnologie si traduce in un’insofferenza verso i tempi lenti e graduali
dell’apprendimento e della riflessione.
Occorre prendersi il giusto tempo per capire e poi scegliere, altrimenti
altri lo faranno per noi: questo è il miglior investimento democratico che le
giovani generazioni possono fare. Solo così sarà possibile premiare i media,
i giornalisti e gli scrittori che ci aiutano a organizzare le informazioni e ad
essere più consapevoli, oppure gli amministratori e i politici che governano
la cosa pubblica con coscienza e professionalità. Solo così avrà un senso
compiuto la richiesta ai nostri rappresentanti su cosa fanno e come agiscono, a casa nostra come a Bruxelles e in altri fori internazionali. Solo dopo
aver percorso, anche a fatica, il sentiero in salita della conoscenza e del
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confronto autentico potremmo passare ad agire sfruttando al massimo il potere di mobilitazione della rete e dei social network.
Il circuito democratico non funziona solo durante le elezioni, ma anche
e soprattutto nella vita quotidiana. I cittadini, come gli Stati, devono essere
credibili e seri nel quotidiano per poter alzare la voce al momento giusto o
chiedere comprensione e flessibilità in certi frangenti. Le dinamiche globali
ed europee non privano le persone e gli Stati della possibilità di farsi ascoltare e di orientare il proprio futuro: piuttosto, spingono a scrollarsi di dosso
la pigrizia e a valorizzare nuove tecniche di partecipazione.
Avendo viaggiato e vissuto in altri paesi, spesso capita di scoprire di
amare il proprio, nonostante tutti i suoi difetti. E ciò accade perché stando
fuori si riesce a guardare con occhio critico sia la propria realtà di provenienza sia la società che ci ospita.
L’Italia è un paese con grandi potenzialità, ma è anche un paese che si è
raggomitolato su sé stesso, la cui coscienza civile stenta a divenire pratica
quotidiana. Un paese ove lo studente che alza la mano e fa una domanda
all’insegnante è etichettato dai compagni come un secchione rompiscatole;
ove un quarantenne (o, peggio!, un trentenne) che propone progetti innovativi viene spesso etichettato da parte di superiori e colleghi più anziani come un “giovane” che si sta allargando; ove una presa di posizione decisa e
provocatoria di qualcuno viene spesso seguita da elaborati commenti dietrologici da parte di altri (Chi lo manda? Chi vuole colpire realmente? A
quale mulino sta portando l’acqua?), piuttosto che ricevere commenti costruttivi, anche critici.
Non tutto è perduto, le cose possono cambiare: i modelli culturali non
devono necessariamente esaurirsi al calciatore, al furbetto del quartierino o
di altri “circuiti”, alla velina, al c.d. opinionista che scalda i dibattiti televisivi urlando e interrompendo chi non la pensa come lui.
L’Italia ha molto di più da dire e da dare: la rivoluzione deve partire dal
basso e la mia generazione deve ritrovare la voglia di impegnarsi e di dedicare parte del suo tempo alla pratica democratica e alla trasmissione di valori sani ai giovani.
Solo così avremo diritto di protestare e indignarci, solo così potremo rovesciare con la forza della nostra legittima indignazione un sistema di potere politico ed economico che fa dell’opportunismo, delle convenienze e del
corto respiro i paradigmi quasi irrinunciabili del proprio agire.
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Solo così potremo essere convincenti quando chiederemo ai gerontocrati
o, più poeticamente, ai nostri padri di farsi da parte perché ora tocca a noi.
Solo così l’Italia potrà tornare a credere in sé stessa e, di conseguenza,
ad essere credibile a livello europeo e internazionale.
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