SpecchioEconomico 042012

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SpecchioEconomico 042012
SPECCHIO
ECONOMICO
ARTICOLO 18:
S
A CONSULTO
SINDACALISTI,
POLITICI, INDOVINI
E VEGGENTI
ul famoso o famigerato articolo 18 dello
Statuto dei lavoratori,
che vieta i licenziamenti senza
giustificato motivo nelle
aziende con oltre 15 dipendenti, si è assistito per varie
settimane ad una specie di
lunga e stucchevole telenovela, di quelle grossolanamente
raffazzonate e trasmesse dalla
televisione, farcita di pseudo
buoni propositi, sentimenti
umani e umanitari, emozioni,
momenti drammatici e di alta
tensione, accordi e contrasti.
E, soprattutto, da sicurissime,
infallibili previsioni sul futuro non solo
di una massa di lavoratori e delle loro famiglie, ma di tutto il Paese, dell’economia nazionale, del destino di intere generazioni di giovani già presenti su questa terra o ancora da nascere nei decenni
a venire.
Si è svolto, in sostanza, un lungo e inconcludente dibattito televisivo costituito da un’innumerevole serie di trasmissioni, dichiarazioni, discussioni, telegiornali, di cui sono stati protagonisti
esclusivamente politici, sindacalisti e
aspiranti tali. Raramente e fugacemente
sono stati interpellati i protagonisti reali
del vero «mercato del lavoro», ossia piccoli e medi imprenditori privi di scaltriti
portavoce e di uffici stampa professionali; protagonisti che, oltre tutto, rifuggono
da apparizioni ed esibizioni inutili, capaci solo di fargli perdere tempo prezioso,
da dedicare invece forzatamente e più
fruttuosamente alla gestione delle aziende per evitare, o almeno attenuare, le difficoltà produttive, finanziarie e fiscali
che rischiano, molto realisticamente, di
provocare, queste sì, vere ondate di licenziamenti. Altro che la soppressione
dell’articolo 18.
Difficoltà che comunque spingono i
piccoli e medi imprenditori a guardarsi
bene dall’assumere nuovo personale, in
particolare i giovani, e a tenersi a distanza di sicurezza da quel discussissimo articolo 18. Società specializzate di consulenza indicano in circa tre milioni il numero delle imprese attive di piccola e
media dimensione, composte da meno di
10 addetti, esistenti in Italia, un numero
più alto che in ogni altro Paese d’Europa. Qualcuno le definisce anche «forza
motrice» dell’economia nazionale.
Se anche ogni piccola e media azienda, oggi con meno di 15 dipendenti, assumesse mediamente un solo giovane,
sarebbe avviato a soluzione il problema
italiano del grande numero di precari, disoccupati, sottoccupati esistenti. Sempreché i giovani abbandonino il falso
mito del posto fisso, dell’assunzione
prevalentemente nella Pubblica Ammi-
d i V I C T O R C I U F FA
nistrazione o in grandissime aziende, insomma dove - soprattutto nella prima - è
facile coltivare l’assenteismo, la bassa
produttività, il falso sindacalismo e tutti
gli altri difetti che hanno condotto l’Italia alla situazione attuale.
La principale argomentazione usata in
queste settimane da sindacalisti e politici, per impedire l’abrogazione o la trasformazione dell’articolo 18 proposta
dal presidente del Consiglio Mario Monti, è stata questa: le aziende addurranno
difficoltà economiche per licenziare i lavoratori sgraditi, improduttivi, sindacalizzati, o addirittura «diversi»; oppure
semplicemente per rimpiazzarli con elementi per esse più convenienti. Si tratta
di un dubbio, di un timore, di una previsione o di una certezza?
La linea dura opposta alla soluzione
governativa da parte di alcuni sindacati e
di alcune forze politiche induce il cittadino comune, lo spettatore indipendente
- ma anche lo stesso lavoratore interessato al problema ma onesto verso la propria azienda e in buona fede -, a formulare due ipotesi: o questi sindacati e politici oppositori hanno il dono della preveggenza, o sono in mala fede e il loro
scopo è un altro. Precisamente quello di
continuare a detenere l’adesione, l’iscrizione, l’appoggio e il consenso di quei
lavoratori che l’articolo 18 vieta di licenziare anche quando non lavorano,
quando sfruttano l’azienda e poi, ricorrendo alla magistratura nei rari casi di licenziamento, ottengono anche un pre-
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mio: l’annullamento del provvedimento e il reintegro nell’impresa.
Ottengono, cioè, la prosecuzione di quella situazione assurda, paradossale, esistente
in Italia proprio a causa della
presenza dell’articolo 18, caratterizzata da sentenze giudiziarie quasi sempre favorevoli
al lavoratore a prescindere dal
suo eventuale indegno comportamento, e costituenti non
solo un danno economico all’azienda ma anche uno scherno al datore di lavoro.
Un’altra stranezza evidenziata in quei numerosi e lunghi dibattiti pro
o contro l’articolo 18 è anche questa. Io
non ho mai sentito dire da un sindacalista o da un politico contrario all’abrogazione o alla trasformazione dell’articolo
18, che i lavoratori assenteisti, scansafatiche, lavativi, furbi, contestatari per
principio, prima ancora che l’azienda
danneggiano gli altri lavoratori: non solo
i giovani e i disoccupati, ostacolandone
l’assunzione, ma anche i loro colleghi
occupati. E questo per il semplice motivo che causano un danno economico-finanziario all’azienda costituito sia da
minore produzione e produttività, sia da
maggiori costi di produzione, maggiori
oneri sociali e previdenziali, spese legali
e giudiziarie, nonché pregiudizio all’immagine dell’impresa nei mercati finanziari, agli occhi degli investitori e della
stessa clientela.
Di chi la colpa di tale situazione? Certamente di tutta la società italiana dagli
anni 70 in poi, la cosiddetta «società affluente» che, grazie agli equilibri internazionali dell’epoca, poteva contare su
uno sviluppo continuo, raramente interrotto da temporanee crisi fisiologiche
proprie del sistema economico, e su
massicci interventi antirecessivi dello
Stato attraverso l’esecuzione di grandi
opere pubbliche e la concessione di sostegni alle categorie meno abbienti. Fu
proprio in quegli anni, appunto il 1970,
che ci si poté permettere l’articolo 18.
A 40 anni di distanza tutto è cambiato:
in Italia niente più cattedrali nel deserto,
intervento straordinario nel Mezzogiorno, pensioni facili, falsi invalidi ecc. ecc.
Grazie ai progressi della scienza non ci
sono più confini economici tra Paesi,
cortine di ferro, ostacoli tra i popoli. Anziché il Sud, l’Italia mantiene 4 milioni
di immigrati e le loro famiglie all’estero;
il lavoro si è ridotto, tantissime aziende
hanno chiuso o si sono trasferite in altri
Paesi. Gli strumenti dello Stato per risollevare l’economia sono stati svenduti ai
privati, gli unici settori che si sviluppano
sono la politica e la burocrazia. Parassitariamente, è ovvio.
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