programma di sala - Società del Quartetto

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programma di sala - Società del Quartetto
Sala Verdi del Conservatorio
Martedì 1° marzo 2005, ore 20.30
S TA G I O N E 2 0 0 4 • 2 0 0 5
Quartetto Alban Berg
Mario Brunello violoncello
15
Consiglieri di turno
Prof. Francesco Cesarini
Avv. Mario Janni
Sig. Harry Richter
Sponsor istituzionali
Con il patrocinio e il sostegno di
Con il sostegno di
FONDAZIONE CARIPLO
Per assicurare agli artisti la migliore accoglienza e concentrazione
e al pubblico il clima più favorevole all’ascolto, si prega di:
• spegnere i telefoni cellulari e altri apparecchi con dispositivi acustici;
• limitare qualsiasi rumore, anche involontario (fruscio di programmi, tosse ...);
• non lasciare la sala prima del congedo dell’artista.
Si ricorda inoltre che registrazioni e fotografie non sono consentite.
Quartetto Alban Berg
Günter Pichler violino
Gerhard Schulz violino
Thomas Kakuska viola
Valentin Erben violoncello
Mario Brunello
violoncello
Franz Schubert
(Vienna 1797 - 1828)
Quartettsatz n. 12 in do minore D 703
Alban Berg
(Vienna 1885 - 1935)
Lyrische Suite
Intervallo
Franz Schubert
Quintetto in do maggiore op. 163 D 956
Franz Schubert
Quartettsatz n. 12
in do minore D 703
Allegro assai
Il quartetto per archi è un genere che Schubert amò profondamente durante
tutta la sua breve vita. Cominciò a scriverne da ragazzo, attorno al 1813, a poco
più di quindici anni, a uso del complesso d’archi domestico in cui lui suonava la
viola (o il violino), suo padre il violoncello e i fratelli completavano l’organico.
In questi primi lavori è già notevole la qualità, che discende direttamente dai
modelli classici di Haydn e Mozart e magari del giovane Beethoven (quello dell’op. 18). Ma è anche significativa la scontata componente quantitativa: sono una
quindicina le volte in cui l’adolescente Schubert prova a scrivere quartetti per
archi. Non è poco, e di sicuro è un chiaro segno d’interesse per un genere che allora sembrava avviato al declino. Sono infatti gli anni in cui lo stesso Beethoven tace
e i maggiori cultori del genere sono Georges Onslow e Ludwig Spohr.
A un certo punto (estate 1816) anche Schubert smette, lascia in sospeso tante
partiture e, forse deluso dai risultati di tanti sforzi, si dedica ad altro. Torna al
quartetto solo nel dicembre del 1820 con un pezzo quasi rivoluzionario.
È l’“Allegro assai” in do minore per quartetto d’archi che Otto Erich Deutsch
nel suo catalogo tematico delle opere di Schubert classifica col numero 703.
Rispetto alle esperienze precedenti è una svolta decisiva. I legami con la tradizione
di Mozart e Haydn sono bruscamente interrotti. Anche le più mature sperimentazioni beethoveniane dell’età centrale (op. 59, 74, 95) non sono più punti di riferimento obbligati. L’architettura non ha analogie con antecedenti e contemporanei.
L’organizzazione tripartita “esposizione-sviluppo-ripresa” della classica forma
sonata è in apparenza rispettata, però mancano i presupposti oggettivi perché
non esistono nette e contrastanti funzioni tematiche su tutta una serie di motivi
che fa da corona all’ampia melodia principale, per precisare e ampliare l’ambito
espressivo, certo non per creare contrasti. Dinamica e coerenza interna vengono garantiti con altri mezzi, coordinando entro un impianto armonico singolarmente efficace alcune cellule elementari che ricorrono per tutto il lavoro: il cupo
tremolo che apre il movimento, le brusche folate ascendenti, il pulsare di ritmi
ostinati anche nei momenti di maggiore distensione lirica. Ne esce un affresco
denso di suggestioni e di tensioni espressive, in cui il pessimismo di Schubert
appare, inconfondibile, al di là delle sordine che - qui come altrove - sono poste
ai sentimenti più personali.
Questo “Allegro assai” avrebbe dovuto essere il primo movimento di un quartetto di vaste proporzioni. Perché Schubert si sia fermato dopo aver scritto una
quarantina di battute del successivo “Adagio” non è dato sapere. Forse furono le
contingenze della vita, forse la carica innovativa dell’“Allegro assai” aveva bisogno di sedimentarsi prima di essere trasfusa negli altri movimenti. Di sicuro
sappiamo che per altri tre anni Schubert non scrisse quartetti; e che la lista
delle opere iniziate e non completate in quel tempo comprende la più famosa,
l’Ottava sinfonia, fermata al secondo movimento e infatti notissima come
“Incompiuta”. Poi viene la meravigliosa fioritura degli ultimi anni, quella che dà
a Schubert un ruolo essenziale nella storia del quartetto per archi.
Alban Berg
Lyrische Suite
Allegretto gioviale
Andante amoroso
Allegro misterioso - Trio estatico
Adagio appassionato
Presto delirando - Tenebroso
Largo desolato
«Questo “Presto delirando” può essere compreso solamente da chi ha la possibilità di presentire gli orrori e le pene che verranno. Degli orrori dei giorni col
loro battito ansimante... del dolente tenebroso delle notti, col loro cupo declinare verso ciò che difficilmente può essere chiamato suono - e ancora il giorno con
i suoi rapidi e folli batticuore - come se il cuore si potesse arrestare - di nuovo
“tenebroso” col suo pesante respiro che a malapena può dissimulare una dolorosa agitazione... come se per un momento il dolce conforto di un vero, oblioso
sogno scendesse su di me... Ma già il cuore si fa sentire... ed ancora giorno e così - avanti - senza cessare - questo delirio - senza fine.»
E non è solo a proposito del “Presto delirando-Tenebroso” che su una preziosa
partitura della Lyrische Suite si leggono parole come queste. Ogni altro movimento è esaurientemente commentato o - se si preferisce - descritto. «II primo
movimento, il cui per lo più modesto carattere espressivo non fa prevedere la
tragedia che seguirà, oscilla fra le tonalità di H (si bemolle) e F (fa) maggiore. Il
tema principale, una serie di dodici suoni che con le sue variazioni regge tutto il
lavoro, è nello stesso modo inquadrato dalle due iniziali F e H.» Del secondo
movimento si legge: «a te ed ai bambini ho dedicato questo rondò - una forma
musicale in cui i temi (e specialmente il tuo tema) si rincorrono continuamente
chiudendo un circolo grazioso.»
Chi scrive non è un esegeta visionario, ma lo stesso autore, Alban Berg, anno-
tando di proprio pugno ottantadue delle novanta pagine della partitura originale della Lyrische Suite, un autografo straordinario rimasto segreto per oltre cinquant’anni. E quando quell’autografo fu rintracciato (nel 1977, da George Perle)
per studiosi e amatori della musica di Berg fu quasi una liberazione. Tutti avevano intuito che tra le note si celasse un che di «segreto» (per citare il pur arcigno Theodor Wiesengrund Adorno), però c’erano solo indizi: titoli allusivi
(“Andante amoroso”, “Presto delirando”...), inattesi segnali musicali (il tema del
Tristano e Isotta di Wagner, il motivo del destino), criptici simbolismi numerici
(23 come numero fatale)... Mancavano però le prove e nessun biografo/critico
osò proporre un vero e proprio “programma” per la Lyrische Suite. Anche perché dal punto di vista solo musicale il lavoro funziona benissimo e si mantiene
fedele a una (apparente?) logica costruttiva.
La scelta del titolo, tanto per cominciare, è ineccepibile: si tratta di una suite in
sei movimenti e non di un quartetto per archi (che sarebbe stato il secondo, dopo
il Quartetto op. 3 del 1910); l’aggettivo “lirico” segnala un dato di fatto e una personale propensione dell’autore. La tecnica di scrittura non si discosta da quella
teorizzata dal caposcuola Schönberg ed è in linea coi tempi che correvano allora
(1925-1926): atonalità espressionista ovunque però due movimenti almeno sono
organizzati secondo la nuova tecnica dodecafonica da poco messa a punto. Il
primo tempo inizia infatti esponendo la serie dodecafonica nella forma originale
e la sviluppa secondo lo schema classico della sonata. L’ “Andante amoroso” non
ha struttura dodecafonica rigorosa, ma utilizza frammenti della serie e li ordina
secondo un'architettura di rondò. Dodecafonia parziale dovuta all'uso del nucleo
seriale si bemolle-fa-la-si (H-F-A-B, nella notazione alfabetica tedesca) si ha
anche nel terzo tempo; è uno “Scherzo” tripartito con un centrale “Trio estatico”
(non dodecafonico) che Luigi Rognoni definisce pagina fra le più allucinate e
accese di Berg. Il materiale musicale del “Trio estatico” viene ulteriormente sviluppato in forma molto libera e polifonica nel successivo “Adagio appassionato”
dove compare un paio di volte una citazione dalla Lyrische Symphonie di
Alexander von Zemlinsky (1871-1942). In forma di Scherzo con doppio trio è il
quinto movimento, dalla scrittura relativamente semplice perché l’espressione
possa davvero essere “delirante”. La tecnica dodecafonica torna nell'ultimo
movimento, ma senza apparire artificiosa, anzi lasciando spazio alla citazione del
tema del filtro (o desiderio) d’amore del Tristano. Il tessuto musicale si sfalda
nella desolazione prima, nel vuoto poi, perché ammutoliscono il secondo violino,
poi il violoncello, poi il primo violino; e la viola resta sola a ripetere due note, un
intervallo di terza, senza fine...
Ebbene, il manoscritto ritrovato da George Perle ci ha dato la prova, finalmente: c’è un “programma”, la Lyrische Suite è un messaggio d’amore, per Hanna
Fuchs, la donna che Berg aveva incontrato nel maggio del 1925 a Praga e alla
quale sarebbe rimasto (segretissimamente) legato fino alla morte. Tutto si spiega: la improvvisa velocità di composizione del lavoro; il suo delirio espressivo; la
simbologia. E - ciò che più conta - la Lyrische Suite mostra nei fatti come anche
la “gelida” organizzazione dodecafonico/seriale/atonale può servire per trasmettere emozioni appassionate, ovvero che anche nei protagonisti della
“Scuola di Vienna” batteva un cuore. Leggiamo ancora le annotazioni autografe
di Berg: «Per esempio, nella musica ho inserito segretamente le nostre iniziali
H.F. e A.B., ed ho legato ogni movimento ed ogni sezione di movimento al nostro
numero del destino, dieci e ventitré. Ho scritto queste lettere e questi numeri, e
molte cose che hanno altri significati, in questa partitura per te, per colei, e solamente per colei - nonostante la dedica ufficiale della pagina seguente - per la
quale ogni nota di questa musica è stata scritta. Possa essere un piccolo monumento a un grande amore.» La dedica ufficiale è infatti per Alexander von
Zemlinsky, colui che (senza nulla poter mai immaginare) era stato il catalizzatore del primo incontro, a Praga, dove lei risiedeva, moglie di un industriale.
La Lyrische Suite fu eseguita per la prima volta a Vienna l’8 gennaio 1927 dal
Quartetto Kolisch e divenne subito un grande successo, una delle più popolari
composizioni non solo di Berg ma di tutta la scuola dodecafonica di Schönberg,
anzi di tutto un secolo, quel Novecento che fino a pochi anni fa sembrava avanguardia e che invece ormai appartiene alla storia.
Franz Schubert
Quintetto in do maggiore op. 163
D 956
per due violini, viola
e due violoncelli
Allegro ma non troppo
Adagio
Scherzo. Presto
Allegretto
Tre grandi sonate per pianoforte e un quintetto per archi, più un considerevole
numero di Lieder fra cui quelli che formano la seconda parte del ciclo
Winterreise e la raccolta postuma Schwanengesang. Questa è la produzione di
settembre e ottobre del 1828, l’ultimo autunno di Schubert. Sono tutti lavori di
ragguardevoli dimensioni, quantitative oltre che artistiche. Cronometro alla
mano ognuno dura oltre mezz’ora (nessuno osa, naturalmente, scindere in singoli Lieder il poema Winterreise). Anzi, ognuno dei pezzi strumentali può essere definito «divinamente lungo», secondo l’espressione che Schumann coniò con
nobili intenti e che da allora è stata applicata - non sempre con benevolenza - a
tanti, troppi capolavori della maturità schubertiana. Solo un magico momento
creativo poteva consentire, anche a un compositore dalla penna facile come
Schubert, la realizzazione di tanta musica a tale livello: è un prodigio che non ha
forse eguali nella storia della musica, che da solo basterebbe a legittimare il mito
di Schubert.
A ben vedere, tuttavia, qualche crepa nella perfezione di quei capolavori si può
anche trovare. Come ad esempio, nel finale del Quintetto per archi che ascolteremo stasera. Che è indubbiamente finale di tutto rispetto, pieno di energie e di
invenzioni, con rivisitazioni “colte” di robusti ritmi campagnoli ungheresi e di
levigate melodie da caffè viennese. Piacciono il contagioso entusiasmo che anima
ogni battuta, la vena popolaresca del motivo principale, le articolate sezioni che
a questo si alternano, il tocco sentimentale che talvolta attenua le marcate
accentuazioni danzanti. Ma, alla fine, resta l’impressione di un discorso tirato via
con mestiere, senza troppa convinzione. Ed è un peccato, perché ci si poteva
aspettare qualcosa di ben più sostanzioso dopo la grandezza dei tre movimenti
precedenti, tutti a loro modo memorabili.
Memorabile è l’attacco del primo tempo, misterioso, armonicamente ambiguo,
nuovo nella forma perché equidistante fra le due sole battute di preparazione
del Quartetto in la minore e il più esteso “Adagio” introduttivo di classica memoria. Non si immagina preparazione migliore per il gran tema principale, che
sembra venire da tanto lontano; che ha la voce calda ma sommessa del violoncello (mentre il violino accompagna imponendo all’esecutore una difficile ricerca di intensità e di timbri adeguati); che è melodia lunga lunga, sensuale e serena a un tempo, ineffabile fenomeno di poesia musicale. Attorno ad essa Schubert
costruisce il movimento, senza proporre contrasti drammatici, senza alzare la
voce, cantando anzi in sordina.
Il colore è sempre scuro, perché ci sono due violoncelli e non due viole, come nei
quintetti di Mozart. Un violoncello “canta”, l’altro assicura il sostegno armonico
nel registro grave. Si noti la differenza con il famoso Quintetto “della Trota”, di
nove anni precedente, dove il ruolo del sostegno armonico è affidato al suono
ancora più profondo del contrabbasso, ma c’è il cristallino pianoforte che riequilibra nella regione acuta. La scelta timbrica oltretutto non è legata a un motivo
contingente, quale la pur nobile volontà di fare un regalo a un amico violoncellista. Tant’è che non ci sono spunti virtuosistici nella parte del primo (e del secondo) violoncello, ma solo transizioni, liriche e non drammatiche.
Pure scuro è il colore del secondo movimento: il violino sembra invocare, mentre gli altri strumenti mormorano un soave corale sul pizzicato del violoncello.
È una combinazione a più strati sovrapposti che riesce a tenere alta la tensione
con minimo impiego di mezzi, procedendo con moto lentissimo e introducendo
varianti così poco vistose da parere inavvertibili. Improvviso appare allora lo
scatto tzigano della parte centrale: il basso si muove nervosamente, il canto del
violino acquista aggressività, diventa improvvisatorio, poi si placa stemperando
nel patetico, torna ai disegni della prima parte, come vuole la classica concezione tripartita A - B - A. Molto a lungo su questo “Adagio” e sul precedente “Allegro”
deve aver meditato Brahms. Arthur Rubinstein, pur essendo un pianista, chiese
che fosse proprio questo sublime “Adagio” ad essere eseguito ai suoi funerali.
Nello “Scherzo” sono vistose le violente “strappate” degli archi, la dinamica travolgente delle parti laterali, ma è nel trio centrale che si può trovare una delle
più impressionanti e misteriose visioni di Schubert.
Del Finale si è già detto. Secondo J.A. Westrup sarebbe stato scritto con la massima velocità sperando in una immediata pubblicazione presso l’editore Probst di
Lipsia, che ovviamente non si realizzò. Così la prima edizione si ebbe solo nel 1853.
Enzo Beacco
QUARTETTO ALBAN BERG
In più di trent’anni di attività il Quartetto Alban Berg è stato ospite delle più rinomate sale da concerto e dei maggiori festival in tutto il mondo. Anima inoltre una
propria serie di concerti al Konzerthaus di Vienna dove ha debuttato nel 1971 e del
quale i quattro musicisti sono “membri onorari”, alla Royal Festival Hall di
Londra in qualità di “Associated Artists”, all’Opera di Zurigo, al Théâtre des
Champs-Elysées di Parigi, alla Philharmonie di Colonia e, dal 1998, alla Alte
Oper di Francoforte.
Il Quartetto si dedica con particolare impegno al costante arricchimento del proprio repertorio che spazia dal periodo classico a quello di avanguardia. Attivi
anche in campo didattico, i membri del Quartetto sono tutti docenti alla
Universität für Musik und darstellende Kunst di Vienna e, dal 1993, successori del
Quartetto Amadeus alla Musikhochschule di Colonia.
In campo discografico il Quartetto ha meritato oltre 30 riconoscimenti tra i quali
il “Grand Prix du Disque”, il “Deutscher Schallplattenpreis”, il premio “Edison”,
il “Japan Grand Prix”, il “Gramophone Magazine Award” e il “First International
Classic Award”. Tra le loro incisioni ricordiamo le integrali dei Quartetti di
Beethoven, Brahms, Berg, Webern e Bartók, il ciclo completo degli ultimi Quartetti
di Mozart, Schubert, Haydn, Dvořák, Schumann, Ravel, Debussy, Stravinskij, von
Einem, Haubenstock-Ramati e le incisioni dal vivo alla Carnegie Hall di New
York, all’Opéra-Comique di Parigi, alla Queen Elizabeth Hall di Londra e al
Konzerthaus di Vienna (registrazione audio e video di tutti i Quartetti di
Beethoven). Ha inoltre registrato dal vivo molte opere di musica contemporanea,
tra cui lavori di Urbanner, Berio (molti dei quali dedicati al Quartetto), Schnittke
e Rihm dedicati al Quartetto, i Quartetti di Janáček e il Quintetto con pianoforte
di Dvořák con Rudolf Buchbinder, oltre agli ultimi Quartetti di Schubert, il
Quintetto con clarinetto e il Quintetto per archi di Brahms, i Quartetti op. 51 e 106
di Dvořák, il Quintetto per pianoforte K 414 e il Quartetto in mi bemolle maggiore
di Mozart con Alfred Brendel e i Quartetti op. 12 e 13 di Mendelssohn. Più recente
è l’incisione, sempre dal vivo, di Tango Sensations di Piazzolla e Adieu Satie del compositore viennese Kurt Schwertsik con Per Arne Glorvigen al bandoneon.
Il Quartetto è stato ospite della nostra Società nel 1976, 1978, 1982, 1984, 1997,
1999, 2002 e 2004.
MARIO BRUNELLO
violoncello
Nato nel 1960 a Castelfranco Veneto, Mario Brunello ha studiato con Adriano
Vendramelli e Antonio Janigro. Nel 1986 ha vinto il primo premio al concorso
internazionale Čajkovskij di Mosca. Da allora, con un repertorio che si estende da
Bach ai contemporanei, si è esibito nelle maggiori sale da concerto di tutto il
mondo collaborando con orchestre e direttori di primo piano quali Claudio
Abbado, Semyon Bychkov, Sylvain Cambreling, Myung-Whun Chung, Daniele
Gatti, Gianluigi Gelmetti, Valery Gergiev, Carlo Maria Giulini, Eliahu Inbal,
Marek Janowski, Riccardo Muti, Zubin Mehta e Seiji Ozawa.
Fondatore e direttore dell’Orchestra d’Archi Italiana, collabora con solisti quali
Frank Peter Zimmermann, Andrea Lucchesini, Gidon Kremer e Salvatore
Accardo. Ha inoltre realizzato alcuni spettacoli teatrali con Maddalena Crippa e
Marco Paolini e ha partecipato a festival jazz con Vinicio Capossela, Uri Caine e
Gian Maria Testa.
Docente presso i corsi estivi di perfezionamento dell’Accademia Chigiana a Siena,
è stato recentemente nominato Accademico di Santa Cecilia.
Suona un violoncello Maggini del 1600 appartenuto a Franco Rossi, violoncellista
del Quartetto Italiano.
Mario Brunello è stato ospite della Società del Quartetto nel 1992, 1993, 1998 per
il ciclo “Note di viaggio” nella stagione 2001/02.
Prossimo concerto:
martedì 8 marzo 2005, ore 19.30
Sala Verdi del Conservatorio
Concerto Italiano
Rinaldo Alessandrini direttore
Società del Quartetto di Milano, via Durini 24 - 20122 Milano
tel. 02.795.393 – fax 02.7601.4281
www.quartettomilano.it – e-mail: [email protected]
È almeno triplo il motivo d’interesse per il prossimo concerto.
Riprendono infatti le nostre Settimane Bach, però non più dedicate alla
sola musica vocale ma estese a quella strumentale. Ed è appena il caso di
ricordare che per la musica strumentale Bach ebbe amore vero e fede
costante, al di là delle contingenze della vita che gli imposero di passare la
maturità e la vecchiaia a Lipsia, al servizio di una comunità religiosa
piuttosto pedante e conservatrice. Ascolteremo l’integrale dei Concerti
Brandeburghesi, ossia il manifesto del moderno concerto strumentale con
uno o più strumenti solisti in dialogo e contrasto con la massa orchestrale,
punto di sintesi fra i pionieri barocchi (Corelli, Vivaldi…) e i perfezionatori
classici (Mozart, Haydn, Beethoven…). Infine avremo il debutto alla
nostra Società del Concerto Italiano diretto da Rinaldo Alessandrini, come
dire un complesso nazionale che oggi finalmente è in grado di competere
con le massime formazioni internazionali nella cruciale arena
dell’interpretazione filologica dei grandi classici dell’età barocca.
Il buon ascolto non è pertanto un augurio, ma una certezza.
Programma (Discografia minima)
J.S. Bach
Sei Concerti Brandeburghesi
BWV 1046-1051
(Pinnock, English Concert
Archiv, 423492-2)