Pdf Opera - Penne Matte

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Pdf Opera - Penne Matte
IL QUARANTACINQUESIMO PARALLELO
Dedicato a chi ha messo radici nella mia anima
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IL QUARANTACINQUESIMO PARALLELO
E faceva sì che a tutti, piccoli e grandi,
ricchi e poveri, liberi e servi,
fosse posto un marchio sulla mano destra o sulla fronte;
e che nessuno potesse comprare o vendere se non chi avesse il
marchio,
cioè il nome della bestia o il numero del suo nome.
APOCALISSE 13:16-17
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IL QUARANTACINQUESIMO PARALLELO
PROLOGO
Quel tratto di cielo era terso, sgombro dalle nubi in cui la Regina
dei Cieli, che da anni pilotava, era incappata la mattina
precedente, alla stessa ora. La gobba frontale del grande aereo di
linea non aveva incontrato ostacoli nella traversata del
Mediterraneo e anche ora che avrebbe virato verso il Mar Tirreno
sembrava poter procedere placidamente alla velocità di crociera.
La serenità di quel cielo mattutino si respirava anche nella cabina
di pilotaggio. I passeggeri si erano altresì sbarazzati della tensione
del decollo e passeggiavano tranquilli lungo il corridoio centrale
dell’aereo. Quell’idillio, tuttavia, durò ancora per poco. Il pilota
notò un punto nero sopra l’isola di Stromboli, sotto la rotta che il
suo aereo stava seguendo. Avanzando, intuì che si trattava di un
elicottero che ingannava il tempo aggirandosi sopra il vulcano.
“Chiunque ci sia a bordo di quell’elicottero, è un pazzo!”, pensò il
pilota, ben conoscendo i ritmi di eruzione del vulcano.
Davanti ai suoi occhi si spalancò uno scenario mai visto: non fu
solo la lava a fuoriuscire dal cratere, ma una densa nube scura che
si alzò in cielo fino a toccare la Luna che, quella mattina, era una
spettatrice stanca. Nel cratere rimbombò il tonfo di
un’esplosione, mentre il cielo sopra Stromboli sembrava tingersi
di nero.
Il pilota diede il comando ai passeggeri di allacciarsi le cinture.
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IL QUARANTACINQUESIMO PARALLELO
Nessuno, tuttavia, voleva perdersi lo spettacolo di quell’eruzione
inconsueta, che fece cadere la cenere persino sulla Regina dei
Cieli.
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IL QUARANTACINQUESIMO PARALLELO
UNO
Firenze, giugno 2011
Come tutte le mattine da due settimane a questa parte, prima di
fare colazione, si infilava un paio di ciabatte, indossava una
vestaglia color crema e scendeva le scale di corsa, senza prendere
l’ascensore, poiché il tempo perso nell’attesa della chiamata
avrebbe aumentato la sua agitazione. Percorreva il buio atrio
d’ingresso, salutando con un cenno della mano l’anziana portinaia
dello stabile, la signora Luisa, e si fermava davanti alla lunga serie
di cassette postali, una per ogni famiglia. Spiava con un occhio
l’interno della sua cassetta e, con la stessa espressione disincantata
di ogni giorno, si ritraeva indietro e apriva la serratura con la
piccola chiave dorata. Il suo sguardo si spegneva man mano che
rovistava nella posta e vi trovava solo volantini pubblicitari.
«Hanno scambiato la mia cassetta delle lettere per un bidone
dell’immondizia?», domandò con i nervi a fior di pelle, i piedi
ruotati verso la portinaia e lo sguardo rivolto alla strada, nella
speranza che il postino non fosse ancora passato di lì.
La portinaia la guardava con lo stesso sguardo compassionevole
di tutti i giorni, da due settimane a questa parte, mentre
nervosamente stracciava le carte e i volantini che imbottivano la
sua cassetta delle lettere.
«Signorina Isabel, non faccia così, vedrà che domani mattina
troverà quello che aspetta!», le ripeteva come ogni giorno la
portinaia.
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IL QUARANTACINQUESIMO PARALLELO
«Domani è domenica!», ribatté sconsolata, attaccandosi al bottone
dell’ascensore.
Da circa un anno, Isabel viveva in un bilocale al quinto piano di
uno stabile ottocentesco di via Vacchereccia, ereditato dalla zia
pittrice defunta che, quando era in vita, lo usava come deposito di
tele invendute, vernici, tempere, oli e cornici usurate. La camera
da letto dava sulla Galleria degli Uffizi. Alle pareti si
conservavano appesi ancora molti quadri dipinti dalla zia, mentre
l’appartamento era stato ripulito in breve tempo da ogni altro
oggetto e dalla polvere.
La carnagione del viso di Isabel si intonava al colore della
vestaglia, portata con disinvoltura sopra della biancheria intima
che lei stessa definiva “da casa”. I capelli biondi, raccolti in uno
chignon improvvisato, le incorniciavano il volto con due ciocche
che le ricadevano da entrambi i lati, sfiorandole il collo vellutato.
Gli occhi grigi ricordavano il colore del mare d’inverno, prima
dell’arrivo di una tempesta. Lei stessa era così: placida, mite, ma
capace di stizzirsi per poco, di ritrovarsi nella burrasca che creava
dal nulla con le sue mani.
Quel giorno la bufera che accompagnava i suoi pensieri era
ingigantita dall’idea della lunga attesa che si sarebbe protratta fino
a lunedì. La portinaia non osò chiedere cosa aspettasse di così
importante, temeva che la sua curiosità avrebbe causato un feroce
attacco di collera nella ragazza.
“È così giovane”, pensava la signora Luisa, “forse attende una
lettera dall’innamorato”.
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IL QUARANTACINQUESIMO PARALLELO
Si limitava a pensare e a fare congetture, la portinaia, poi con la
testa china portava avanti il suo lavoro a uncinetto. Lo stesso da
un anno, ormai.
Arrivata sull’uscio di casa, dopo una lenta risalita in ascensore,
Isabel si arrestò. La sua porta era aperta, eppure lei era convinta
di averla chiusa. Aveva persino le chiavi di casa in mano.
“Sarò uscita più in fretta del solito e non avrò chiuso”, pensò
entrando in casa e serrando la porta dietro di lei.
Nonostante sforzasse la serratura, la porta non si chiudeva.
Qualcuno doveva essersi introdotto nella sua abitazione, ipotizzò
terrorizzata. Quale fu la sua rabbia quando davanti a lei si
presentò una scena che mai avrebbe immaginato di trovarsi: il suo
appartamento messo a soqquadro.
«O mio Dio!», gridò. «Chi c’è? C’è qualcuno?», domandò a voce
alta, come per informare che lei era lì.
Rimase un momento in silenzio, attenta a ogni più piccolo
movimento. Quell’assenza di rumori la inquietava. Fece alcuni
passi verso la cucina, piano e con circospezione, come aveva visto
tante volte fare nei film d’azione. Si accovacciò sotto il muretto
che separava l’angolo cottura dal salotto, guardò a destra, a
sinistra e ancora una volta a destra. Non c’era nessuno. Si alzò,
corse verso l’armadietto della cucina ed estrasse il coltello
seghettato che era solita usare per tagliare il pane. Se la portinaia
fosse entrata in quel momento, vedendo la ragazza così, in
vestaglia e con un coltello in mano, si sarebbe fatta un’idea di
quanto Isabel fosse bizzarra. La cucina e il salotto erano stati
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IL QUARANTACINQUESIMO PARALLELO
messi in subbuglio. Andò carponi verso la camera da letto e si
arrestò quando vide che tutti i suoi vestiti e la sua biancheria
erano stati rovesciati sul letto e sul pavimento.
“Chi può essere stato a buttare all’aria casa mia in così poco
tempo?”, si domandò. Restava il bagno da controllare. Se
qualcuno era in casa sua, doveva essere per forza lì, pensò.
Si avvicinò alla porta del bagno chiusa, e la spalancò con tutta la
forza che aveva in corpo, con il coltello ben serrato tra le sue
mani. Nessuno. Anche il bagno era stato messo sottosopra: i
cestini con i trucchi, le saponette, l’armadietto con le salviette e i
detersivi, tutto sparso sul tappeto sporcato di fondotinta e
shampoo che, nella caduta, si erano capovolti e, come nella più
sfortunata delle ipotesi, si erano aperti.
«Santo Cielo!», esclamò con le mani fra i capelli scompigliati. «Chi
si è intrufolato in casa mia?»
Lasciò tutti gli oggetti così come li aveva trovati sul pavimento e,
rischiando di inciampare, corse fuori da casa con l’intenzione di
chiedere aiuto ai vicini.
«Ah, i De Santis sono fuori città!», si ricordò appena prima di
battere alla loro porta. Decise di scendere di nuovo le scale per
informare la portinaia dell’accaduto.
“Forse lei può avere notato dei movimenti strani”, si disse, “ma è
talmente impegnata a finire quella sua coperta che non avrà visto
nessuno!”, pensò mentre scendeva di fretta le scale, per la
seconda volta in quella mattina. La portinaia la sentì arrivare
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IL QUARANTACINQUESIMO PARALLELO
rumorosamente, poiché rotolò giù dagli ultimi tre gradini,
inciampando nella vecchia gatta della signora del primo piano,
che, come la padrona, non godeva di ottimi riflessi.
«Ahi!», esclamò, massaggiandosi la testa. «Mannaggia a te e alla
tua padrona!», brontolò poi rialzandosi a fatica.
Isabel si diresse zoppicante verso la portinaia, con la vestaglia che
si era aperta nella caduta e lasciava intravedere un corpicino
snello, ma atletico, fasciato da un paio di culottes e da un
reggiseno color malva.
«Per Dio, signorina Isabel! Si è fatta male? Si allacci la vestaglia!»,
implorò la portinaia scandalizzata da dietro il vetro, senza mai
allentare la presa sulla sua coperta. «Il postino è già arrivato.
Anche oggi non c’è nulla di nuovo per lei!», concluse con
quell’aria saccente che inaspriva ogni volta Isabella.
«Non sono qui per la posta!», ribatté piccata e ancora dolorante la
giovane. «Qualcuno si è introdotto in casa mia stamattina,
certamente nel momento in cui sono scesa a controllare la posta,
e ha messo a soqquadro il mio appartamento!»
La portinaia strabuzzò gli occhi. «Stamattina? Intende dire poco
fa?»
Isabel annuì pesantemente. «Ha notato nessuno entrare e poi
salire per le scale o più probabilmente con l’ascensore? Nessuno
strano movimento?», domandò impaziente la ragazza.
La signora Luisa scosse la testa e, guardando da sopra gli occhiali,
si fermò un momento a riflettere. «Stamattina no», cominciò
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IL QUARANTACINQUESIMO PARALLELO
corrugando la fronte, «ma ieri pomeriggio è passato proprio
davanti ai miei occhi un giovanotto con un mazzo di fiori in
mano. Ha detto di dover fare una consegna al piano di sopra, è
stato molto vago, ma ha voluto portare personalmente i fiori».
«Sarà stato qualcuno che voleva fare una sorpresa alla nostra strip
teaser, forse nemmeno lei avrà tenuto il conto dei regali che ha
ricevuto!», rispose Isabel immaginando che quel giovanotto fosse
l’ennesimo amante della nota ballerina, che abitava nello stesso
palazzo.
La portinaia scosse la testa. «Riesco a tenere il conto di tutti gli
uomini di quella “streptaser1”», esordì mentre Isabel inorridiva
alla pronuncia della donna, «e posso dirle che nessun uomo si è
mai trattenuto più di un’ora da lei», continuò, picchiettando con il
dito indice sull’orologio.
Isabel la guardò di traverso, spalancando le braccia.
«Quel giovanotto, ora che mi ci fa pensare, non è mai uscito da
qui», sentenziò la signora Luisa, congiungendo le mani sotto il
mento.
Isabel indietreggiò. «Vuol dire che…se fosse lui, mi ha spiata da
ieri? Ha aspettato che uscissi di casa per mettermi l’appartamento
sottosopra?», domandò spaventata Isabel. «Ma poi deve essere
pur uscito, in casa mia non c’era nessuno quando sono salita!
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Scritto così come viene pronunciato dalla portinaia.
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IL QUARANTACINQUESIMO PARALLELO
Ricorda se qualcuno è uscito da quando ho preso l’ascensore per
salire le scale?»
La portinaia fece un visibile sforzo per ricordare. «Da qui non è
passato nessuno», disse sicura. «Potrebbe…».
«Potrebbe?», la incalzò Isabel.
«Potrebbe aver usato l’uscita di servizio sul retro. Di solito il
sabato mattina la tengo aperta per le signore delle pulizie»,
azzardò la portinaia.
Isabel si morse il labbro superiore. «Ricorda com’era
quell’uomo?», domandò mettendo premura all’anziana donna che
non poteva di certo ricordare i volti di tutti quelli che entravano e
uscivano ogni giorno dallo stabile.
«Aveva un bel fisico», rispose.
«Ah», esclamò Isabel spazientita, «adesso chiameremo i
carabinieri, lei testimonierà e di quell’uomo saprà dire soltanto
che aveva un bel fisico?»
«Si calmi, non mi faccia fretta, quando mi mettono pressione non
ricordo più nulla», disse con calma la signora Luisa, continuando
a lavorare alla coperta.
Isabel cercò di trattenersi, del resto si trovava di fronte a
un’anziana signora. “Vecchia insolente”, pensò solo tra sé.
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IL QUARANTACINQUESIMO PARALLELO
«Ricorda il numero dei carabinieri?», domandò in tono sarcastico
la ragazza. «Senza fretta, la prego, lo componga, devo
denunciare…»
«Cosa? Cosa deve denunciare?», chiese la portinaia prima di alzare
la cornetta.
Isabel vacillò, colta da un calo di pressione.
«Denunci che qualcuno è entrato all’interno 24 dello stabile di via
Vacchereccia al numero civico…», non riuscì a terminare la frase,
poiché un furgone bianco sfrecciò proprio in quel momento
davanti ai suoi occhi.
Isabel, turbata, uscì in strada, fece alcuni metri di corsa, ma non
riuscì a vedere il numero di targa, poiché il furgone si era già
allontanato. Rientrò sotto gli sguardi divertiti e bramosi di due
uomini che la incrociarono e ne esaminarono il corpo ben visibile
sotto la vestaglia, per colpa di quella cintura che proprio non
voleva restare allacciata.
«Niente da fare, non sono riuscita a vedere la targa e nemmeno
che direzione ha preso il furgone», sbuffò Isabel.
La portinaia la guardò di traverso, per l’abbigliamento osé che
continuava a ostentare.
«I carabinieri saranno qui a momenti, li ho appena chiamati. Vada
a rendersi presentabile», le ordinò senza più alzare lo sguardo
dalla trapunta.
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IL QUARANTACINQUESIMO PARALLELO
Isabel preferì salire con l’ascensore, per evitare che i vicini la
vedessero così conciata. Sapeva di non essere in uno stato
decoroso, non si era nemmeno lavata il viso e i denti.
“Come farò a prendere i vestiti senza toccare nulla?”, pensò
mentre i numeri sul display dell’ascensore salivano
progressivamente fino a 5.
Entrò in casa, questa volta senza armarsi di coltello. Saltò da una
parte all’altra della stanza, cercando di non calpestare gli oggetti
sparsi sul pavimento, fino ad arrivare alla camera. Si sedette ai
piedi del letto, guardando lo scompiglio che nell’arco di così poco
tempo si era creato.
“Non può essere stato da solo”, rifletté. “Chiunque sia stato, cosa
cercava?”, si domandò. Si alzò e andò a rovistare nel cassetto
dove teneva una busta con del denaro, sicura di non trovarla più.
Quando, in quel disordine, riuscì a palpare la busta, si spaventò.
La sua espressione si fece ancora più sgomenta quando notò che
all’interno i soldi erano ancora tutti presenti, fino all’ultimo
centesimo.
«Se non cercava i soldi, cosa voleva?», pensò a voce alta. D’un
tratto si fece cupa in volto, mentre cercava di contare le collane e
gli oggetti preziosi disseminati sul tappeto.
“Ci sono tutti”, si disse, “non ha preso nemmeno la collana di
perle della zia, che doveva esserle costata un patrimonio”.
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IL QUARANTACINQUESIMO PARALLELO
Non riusciva a comprendere cosa cercasse chi si era intrufolato in
casa sua, qualcosa non le tornava in quella faccenda che stava
assumendo i contorni di un giallo.
“Forse non ha fatto in tempo a prendere niente, mi avrà sentito
ritornare e sarà scappato. Sarà andata sicuramente così”, pensò
convincendosi di quella teoria che sembrava la più plausibile.
Nel frattempo, una volante dei Carabinieri aveva parcheggiato
sotto lo stabile di Via Vacchereccia, al numero 15. Isabel non si
era accorta che aveva ancora indosso la vestaglia di seta ormai
sgualcita.
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IL QUARANTACINQUESIMO PARALLELO
DUE
Manhattan, maggio 2011
Al quarantaquattresimo piano del Bloomberg Tower, i telefoni
continuavano a squillare quel pomeriggio. Inabissato da fogli,
cartellette e faldoni, Mark cercava di proseguire diritto lungo il
corridoio che doveva condurlo nella temuta Sala dei Congressi,
dove i migliori avvocati di tutti gli Stati Uniti d’America si
riunivano quel giorno. Aveva avuto l’ordine di sistemare tutti quei
faldoni sul lungo tavolo di cristallo che occupava l’intera stanza,
di disporre una bottiglia di acqua frizzante e una bottiglia di acqua
liscia accompagnate da un bicchiere, rigorosamente in cristallo, di
fronte a ognuna delle quindici poltrone in pelle nera che
circondavano il tavolo. Infine, non avrebbe dovuto far mancare
nulla agli avvocati lì riuniti durante il congresso. Se qualcuno tra
loro avesse finito l’acqua frizzante, doveva rimediare andando a
recuperare una bottiglia perfettamente sigillata. Aveva dunque il
permesso di assistere a quell’assemblea straordinaria degli
avvocati più rinomati di tutti i tempi.
Da qualche mese, Mark era stato preso in carico dallo studio
legale Fitzgerald & Smith di Manhattan come praticante.
Nonostante i due avvocati proprietari dello studio legale, Luis
Fitzgerald e Hannah Smith, si fossero dimostrati gentili con lui,
la scritta Fitzgerald & Smith che campeggiava su ogni porta, su
ogni faldone e persino su ogni penna dello studio lo intimoriva
ancora come fosse il primo giorno. La borsa di studio che gli era
stata conferita dall’università di Firenze, gli permetteva di
trascorrere sei mesi nello studio legale di Manhattan, città che lui
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IL QUARANTACINQUESIMO PARALLELO
stesso aveva scelto, quasi a caso, puntando il dito sul
mappamondo.
Come praticante, a lui spettavano i compiti più gravosi e
fastidiosi, quelli a cui i più esperti potevano sottrarsi demandando
a lui, l’ultimo arrivato, il fardello di portarli a termine. Tra questi
compiti rientrava appunto quello che lo avrebbe visto, nel tardo
pomeriggio, assistere come inserviente al meeting dell’anno: The
Fitzgerald & Smith Lawyer Congress 2011.
«Mark controlla che il pavimento sia pulito! Mark fai attenzione
che sul tavolo non ci siano aloni! Mark assicurati che le poltrone
siano pulite e la pelle non sia rovinata!» erano solo alcune delle
frasi che da qualche giorno erano sulla bocca di tutti, tranne che
su quella di Mark. Era talmente scocciato di farsi istruire da chi ne
sapeva di più, che non vedeva l’ora che quel congresso avesse
fine, liberandolo da un peso insostenibile. Finalmente, dopo aver
eseguito scrupolosamente il suo dovere, Mark sentì squillare i
telefoni degli uffici, segno lampante che gli avvocati di lì a poco
sarebbero saliti al quarantaquattresimo piano del Bloomberg
Tower. Decise di prendersi una pausa prima di ricominciare, ma
quando stava per avvicinarsi alla macchina del caffè, l’avvocato
Smith, una seducente donna sulla quarantina, gli mise una mano
sulla spalla, irrigidendo ogni suo muscolo.
«Stai tranquillo, Mark. Se hai fatto il tuo dovere, filerà tutto liscio.
Lascia fare a noi il resto», gli disse con quel suo fare provocante e
quello spacco nella gonna che lasciava poco spazio
all’immaginazione del ragazzo. «Ah», gli sussurrò poi, facendogli
venire la pelle d’oca, «ciò di cui parleremo in quella stanza è
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IL QUARANTACINQUESIMO PARALLELO
strettamente confidenziale. Abbiamo dato a te il compito di
assisterci perché di te ci fidiamo».
Hannah sapeva come lusingare ogni uomo, dal portinaio al
giornalista, dal collega avvocato al cliente più facoltoso. E in quel
momento, a Mark parve di essere l’uomo più importante dello
studio Fitzgerald & Smith, quasi che senza di lui l’evento
dell’anno non potesse avere luogo. La guardò andare via su quei
tacchi a spillo che slanciavano la sua figura e in quel suo tailleur
nero attillato che disegnava tutte le forme del suo corpo e
sospirò, senza nemmeno ricordarsi perché aveva quei 50 cent tra
le mani. Si vociferava che l’avvocato Smith avesse un interesse
particolare per gli uomini più giovani di lei.
“Chissà se un giorno riuscirò a portarmela a letto”, era il pensiero
che turbava la mente e il corpo di Mark, quando i primi avvocati
stavano per essere introdotti nella Sala dei Congressi. Mark si
accorse che stava fantasticando, rimise le monete in tasca e
affrettò il passo verso la stanza dove si stava radunando il fior
fiore degli avvocati degli Stati Uniti. L’avvocato Fitzgerald lo
guardò di traverso per essere arrivato qualche minuto in ritardo
rispetto agli ospiti. Quando la stanza fu gremita, i convenevoli
sbrigati, le persiane abbassate e il proiettore acceso, l’avvocato
Smith prese la parola, dando il benvenuto. Illustrò poi
brevemente agli ospiti le meraviglie di New York, fece una rapida
digressione sulla situazione economica e politica della città, senza
tralasciare di menzionare la difficoltà di essere un avvocato in una
metropoli in cui quartieri eleganti si mescolano ad aree più
povere, dove il tasso di delinquenza è elevatissimo. Sembrava una
lezione di geografia urbana, più che un congresso. Gli avvocati,
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IL QUARANTACINQUESIMO PARALLELO
seduti nelle loro comode poltrone, ascoltavano con attenzione il
discorso della donna. Gli uomini, a dire il vero, sembravano
molto più attenti alla scollatura che Hannah aveva accortamente
sistemato a quel modo per lasciar intravedere il bordo in pizzo
rosso del reggiseno. Quando la parola passò all’avvocato
Fitzgerald, il pubblico maschile appoggiò con nonchalance i
gomiti sul tavolo o la schiena alla spalliera della poltrona, in un
atteggiamento di totale distacco.
L’avvocato Luis Fitzgerald era un uomo sulla sessantina, basso e
tarchiato. Aveva i capelli grigi, ma non aveva il fascino che
assumono gli uomini brizzolati di una certa età. Il fascino, forse,
stava nel suo portafoglio. Data l’agiatezza in cui viveva, infatti, era
sempre circondato da tre donne belle e giovani, straniere, le quali,
si vociferava, nel weekend lo andavano a trovare tutte insieme
nella sua villa sul Pacifico e lo stremavano a tal punto che il lunedì
mattina si presentava in ufficio con gli occhi segnati da pesanti
occhiaie, chiudeva la porta a chiave e dormiva. Fortunatamente,
l’evento più importante dell’anno cadeva di martedì.
Mark si mise nell’angolo più nascosto della stanza, vicino al
frigorifero da cui, se ce ne fosse stata la necessità, avrebbe
prelevato le bottiglie d’acqua. Inoltre, data la riservatezza delle
informazioni di cui l’avvocato Smith lo aveva messo al corrente,
non voleva far credere che lui fosse lì per origliare. La sua doveva
essere una presenza discreta. E lo fu per più di un’ora, finché si
abbassarono le luci per permettere ai presenti di vedere ciò che
l’avvocato Fitzgerald avrebbe proiettato davanti ai loro occhi non
più così vigili.
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IL QUARANTACINQUESIMO PARALLELO
«Chiedo la vostra attenzione ancora per una mezz’ora, poi faremo
una pausa e vi sarà servito il caffè», annunciò Fitzgerald con voce
rauca, con lo stesso tono con cui avrebbe parlato in tribunale o
avrebbe elargito complimenti a una delle sue donne. Era un
personaggio monotono. Monotono, ma terribilmente potente. E
con la stessa piattezza dello sguardo, fece un cenno d’intesa a
Mark, il quale, essendo un ragazzo sveglio, afferrò al volo il
concetto. Uscì dalla stanza cercando di farsi invisibile,
conformando la camminata alla situazione in cui si trovava: testa
alta, sguardo in avanti, spalle ben aperte e passo lungo e disteso.
Prima avrebbe raggiunto la porta, prima avrebbe sciolto tutti i
suoi muscoli. Il piccolo angolo in cui avevano ricavato la cucina si
trovava
proprio
dalla
parte
opposta
dell’enorme
quarantaquattresimo piano. Fece con calma. L’avvocato
Fitzgerald si sarebbe dilungato per mezz’ora o forse più e, per
preparare una quindicina di caffè, ci avrebbe impiegato non più di
cinque minuti. Dieci, considerando che un caffè l’avrebbe bevuto
anche lui, seduto su uno sgabello della cucina, in una beata
solitudine. Purtroppo, Fitzgerald aveva scelto il momento
peggiore per affidare a Mark quel compito. Erano le 17:30, l’ora
della seconda pausa caffè, o del gossip che dir si voglia. Quasi
tutto il piano era radunato nei due metri quadri della cucina, chi
non era riuscito ad entrarvi aspettava fuori, nell’attesa che il
fornello per scaldare l’acqua del caffè o del the si liberasse. Nel
frattempo, si chiacchierava, si parlava del weekend passato o di
quello, ancora lontano, che doveva arrivare. Qualcuno azzardava
persino parlare delle vacanze. E chi non aveva weekend
interessanti da narrare o vacanze da organizzare, criticava la
gonna corta di quella o i tacchi alti dell’altra, per non parlare dello
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IL QUARANTACINQUESIMO PARALLELO
spacco nella minigonna della nuova arrivata. Gli uomini non
criticavano, si limitavano ad apprezzare, con sguardi eloquenti e
occhiate d’intesa a destra e a manca, le colleghe. Mark si arrestò di
colpo quando vide tutto quel trambusto che non si aspettava di
trovare. Poi prese coraggio e cercò di farsi largo tra la folla. Era
talmente minuto, che qualcuno non si accorse nemmeno di lui.
Finalmente, incontrò Julia, una praticante come lui, con la quale
scambiava sempre qualche battuta alla fotocopiatrice, mentre
entrambi erano in attesa di fotocopiare documenti. Si
incontravano più volte durante la giornata. A volte capitava loro
di imbattersi persino davanti al fax.
«Cosa succede? Perché sono tutti qui?», le chiese Mark in panico.
«Ciao Mark! La macchina del caffè non funziona oggi, pare
abbiano deciso di preparare una merenda, c’è anche la torta e ci
sono dei pasticcini. È il compleanno dell’avvocato Rogers».
Mark avrebbe voluto sprofondare. Guardò l’orologio. Mancavano
esattamente venti minuti alla pausa degli avvocati riuniti nella Sala
dei Congressi. Con tutta quella gente che occupava i fornelli,
come sarebbe potuto arrivare in tempo con i caffè? Julia lo
accarezzò con uno sguardo compassionevole.
«Perché non ti fermi con noi?», gli chiese.
Mark scosse la testa. «Julia, ho un problema. Sono stato incaricato
da Fitz – come lo chiamavano tra praticanti – di portare il caffè a
tutti quegli avvocati nella Sala dei Congressi. La pausa sarà tra
venti minuti. Come faccio?!», le disse, implorandola con lo
sguardo di aiutarlo.
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IL QUARANTACINQUESIMO PARALLELO
Julia non esitò nemmeno un istante.
«Scusate, ma ho una brutta notizia da darvi: i capi saranno qui tra
meno di due minuti, Mark è stato così gentile da venire ad
avvisarci», annunciò con tono seducente, che catturò in un baleno
l’attenzione di tutti.
In meno di due minuti, la cucina si svuotò e fu a completa
disposizione di Mark. Julia strizzò un occhio a Mark, che balbettò
una specie di “grazie” che gli rimase incastrato tra i denti.
«Come fai a essere così ingegnosa?», domandò mentre apriva il
rubinetto dell’acqua e riempiva la prima caffettiera. «Non ci sarei
mai arrivato, davvero!»
«Non puoi competere con una donna, almeno quando si tratta di
simulazioni», fece lei con aria maliziosa. «Visto che i capi non
arriveranno, se qualcuno mi chiederà dirò che hanno avuto un
contrattempo. Ciao ciao!», gli disse scivolando via dietro la porta.
Dopo nemmeno cinque minuti, i caffè erano pronti e versati nelle
fini tazzine di porcellana bianca che Mark aveva avuto l’ordine di
utilizzare. Il vassoio era così grande da riuscire a contenerle tutte
in una volta. Uscì dalla cucina senza guardarsi attorno, per il
timore di incontrare gli sguardi incattiviti di quelli a cui aveva
completamente rovinato il momento di pausa e, ancor peggio, la
festa all’avvocato Rogers. Sarebbe stato etichettato come un
guastafeste, insomma.
Il caffè fumava ancora, quando si ritrovò davanti alla porta della
Sala dei Congressi. Aveva entrambe le mani occupate e doveva
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IL QUARANTACINQUESIMO PARALLELO
aprire la porta, facendo in modo di non rovesciare le tazzine e di
non disturbare la riunione. Era impossibile. Ci pensò un po’ su,
poi decise di ricorrere ai piedi. Sollevò la gamba destra all’altezza
della vita e, con un agile movimento, abbassò la maniglia della
porta che si aprì in maniera brusca. Quando entrò, si sentì tutti gli
occhi addosso. Rosso di vergogna, appoggiò il vassoio su un
tavolino laterale e si fece da parte, intimidito dallo sguardo severo
di Hannah.
L’avvocato Fitzgerald non si era accorto del suo ingresso.
«Abbiamo ragione di credere che la scatola si trovi in Italia, a
Torino», disse Luis, indicando alcune coordinate geografiche
apparse in quel momento sulla slide proiettata alla parete, «forse
nei suoi sotterranei».
Hannah aveva lanciato uno sguardo di rimprovero al collega, il
quale tuttavia non si avvide di nulla, talmente il suo discorso lo
infervorava.
«Potrebbe essere proprio all’interno di una delle tre grotte
alchemiche!», sentenziò Luis sicuro di sé, mentre l’avvocato Smith
lo guardava indispettita.
Così dicendo, fece comparire sullo schermo un lungo testo scritto
in un alfabeto incomprensibile:
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IL QUARANTACINQUESIMO PARALLELO
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IL QUARANTACINQUESIMO PARALLELO
«Bene», intervenne Hannah, accostandosi al collega. In un baleno,
la donna iconizzò il documento e annerì lo schermo.
«Accendiamo le luci. Abbiamo bisogno di un momento di pausa»,
disse nello stupore generale.
Luis la guardò stranito: «Hannah, non ho…», iniziò senza poter
terminare la frase.
«Va bene così, Luis», proferì categorica, allungando lo sguardo
verso l’angolo in cui Mark stava immobile, con lo sguardo fisso
davanti a sé.
Il ragazzo aveva ascoltato solo una piccola parte della relazione
dell’avvocato Fitzgerald, ma gli fu sufficiente per comprendere
che quella non era un’assemblea di avvocati. O almeno, per
quanto ne sapeva lui, gli avvocati non parlavano di grotte
alchemiche durante le loro riunioni, ma di normative, fallimenti di
società, grossi capitali da muovere da una banca all’altra, bilanci di
società, istituti di credito.
“Figuriamoci se parlano di una scatola in un meeting di così alto
livello!”, pensò con gli occhi sempre persi nel vuoto, oltre il
quarantaquattresimo piano del grattacielo.
Hannah sembrò intuire il suo pensiero. «Mark, servici il caffè», gli
ordinò con una tale severità che la rendeva irriconoscibile.
Mark barcollò e per poco non cadde, scosso dalle dure parole
della donna. Servì a tutti il caffè, fingendo maniere garbate, anche
se in quel momento avrebbe voluto macchiare le candide camicie
degli avvocati con il liquido scuro che stava servendo e scappare
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IL QUARANTACINQUESIMO PARALLELO
lontano da lì. Avrebbe risparmiato soltanto le donne che
facevano mostra di un decolleté da urlo.
«Mark, sei libero, vai pure a casa. Penserai domani a sistemare la
stanza», gli disse Hannah accigliata.
«Mah…», ribatté il ragazzo.
«Non ti paghiamo gli straordinari. Vai!»
Mark non poté far altro che eseguire l’ordine. In meno di cinque
minuti era già al piano terra del Bloomberg Tower, con mille
pensieri che gli riempivano la testa. Aveva con sé il cellulare,
toccò il tasto per aprire la rubrica e sfiorò appena la lettera “I”.
Poi uscì dall’edificio e girò a destra. Erano anni che non entrava
in una cabina telefonica, ma quello gli sembrava il modo più
sicuro per fare una telefonata. Alzò la cornetta, unta e sporca,
mise alcune monete e digitò un numero lunghissimo, consultando
la rubrica del suo cellulare.
Fece squillare più volte il telefono senza ottenere risposta, tanto
che pensò di riattaccare.
«Pronto?», rispose una voce di donna dall’altra parte della
cornetta.
«Per fortuna ti ho trovata! Pensavo non ci fossi!», disse agitato
Mark.
La donna lo aveva riconosciuto, ma sembrava seccata dal tono
che aveva l’amico.
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«Potresti almeno salutarmi, chiedermi come sto, a che punto sono
con la mia tesi…», disse lei lentamente.
«Appunto, la tua tesi su Torino. Credo di poterti fornire qualcosa
di veramente eccezionale, qualcosa che nemmeno il tuo
professore può immaginare. Una tesi da 110 e lode, e magari un
posto all’università», disse tutto d’un fiato Mark, che vedeva
scendere velocemente il credito sul display del telefono.
«Mark, che stai dicendo?», ribatté lei incredula.
«Controlla la post…», disse Mark veloce, ma non abbastanza per
terminare la frase.
Avrebbe voluto dirle di controllare la posta elettronica nei giorni
successivi, poiché, se ci fosse riuscito, le avrebbe inviato un
documento scottante. Purtroppo, aveva esaurito tutta la moneta.
«Mark? Mark?», strillò la ragazza, senza che l’amico potesse
sentirla.
Mark riattaccò, uscì rapido dalla cabina e lanciò un’occhiata al
quarantaquattresimo piano del Bloomberg Tower. Gli sembrò di
scorgere alla finestra una figura nera che guardava in basso, nella
sua direzione. Abbassò lo sguardo e proseguì verso casa, si mise
le cuffie nelle orecchie e si abbandonò alle piacevoli note del
Chiaro di Luna di Chopin.
Quella notte la luna avrebbe rischiarato tutta Manhattan. Soltanto
i pensieri di Mark si tinsero di scuro.
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IL QUARANTACINQUESIMO PARALLELO
TRE
Isabel era ancora seduta ai piedi del letto quando sentì bussare
alla porta. Si ripigliò velocemente, sciolse lo chignon scombinato
che la faceva sembrare appena svegliata, mise le forcine che
ricordavano due marshmallows in tasca e lasciò scendere sulle
spalle una folta chioma di capelli arruffati che le conferiva un’aria
sexy. Corse alla porta e si fermò di colpo quando vide la coppia di
carabinieri accompagnati dalla portinaia. La signora Luisa le
lanciò un’occhiataccia. Isabel si guardò attorno, poi guardò i due
carabinieri, infine rivolse lo sguardo alle sue maniche. Si portò
una mano alla fronte, imprecando tra sé: aveva dimenticato di
togliersi la vestaglia e di mettersi qualcosa di più decente addosso.
«Dovete scusarmi, ma non ho avuto il tempo di vestirmi», si
giustificò Isabel stringendo forte la cintura in vita.
«Non si preoccupi. Non è nuda», la scagionò il più vecchio tra i
due. «Dobbiamo farle qualche domanda. Possiamo sederci?»,
domandò.
«Certo, accomodatevi. Il disordine, beh…non l’ho provocato io.
Ho pensato di non toccare nulla e di lasciare tutto come ho
trovato».
«Ha pensato bene, signora. O signorina?», chiese ancora il più
vecchio dei due.
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«Signorina», scandì la giovane, indicando il divano proprio di
fronte a loro. «Sedetevi, prego. Signora Luisa, si accomodi pure
lì», disse, mostrandole la poltrona alla sua destra.
«Prima di raccontarci quello che è avvenuto, abbiamo bisogno di
sbrigare alcune formalità», fu il più giovane a parlare, questa volta.
«Abbiamo bisogno della sua carta d’identità».
Isabel deglutì vigorosamente, poi balbettò qualcosa per prendere
tempo poiché non ricordava dove avesse messo il documento.
«Torno subito», disse ostentando tranquillità.
Tornò dopo cinque minuti che bastarono a spazientire la signora
Luisa, che già temeva di non riuscire a portare a termine la sua
coperta infinita.
«Ecco», disse con il fiatone.
«Un passaporto?», domandò il carabiniere.
«Sì, sono americana. Sono qui per motivi di studio», tenne a
precisare la ragazza.
«Ah, bene», commentò l’uomo. «Dunque lei si chiama Isabel
Ricciardi, è nata a New York il 27 ottobre 1986», dettò al collega.
«Ricciardi non è un cognome americano…»
«Infatti. Mio papà è italiano, ha vissuto a Firenze per parecchi
anni, finché ha conosciuto mia madre e si sono trasferiti nella
città natale di lei, New York, dove io sono nata venticinque anni
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fa», puntualizzò. «Ho ereditato questo appartamento dalla sorella
di mio padre, la pittrice Maddalena Ricciardi», precisò ancora.
«Ah», fece il più vecchio, che non aveva tuttavia mai sentito
parlare della pittrice. «Ha detto di essere in Italia per motivi di
studio. Cosa studia, di preciso?»
Isabel si sentiva sotto interrogatorio.
«Studio archeologia all’Università di Firenze», rispose cercando di
mantenere i nervi sotto controllo.
«Interessante», replicò il Carabiniere. «Ora che abbiamo le sue
generalità, ci spieghi cos’è successo stamattina. Cerchi di riportare
tutti i dettagli, se li ricorda».
“Forse sarebbe meglio prendeste le generalità del ladro”, pensò
Isabel quasi infastidita da quei due.
«È successo tutto così in fretta e in così poco tempo che non
credo vi potrò fornire molti dettagli», iniziò la ragazza portando i
capelli dietro le orecchie. «Sono scesa a controllare la posta, come
tutte le mattine, prendendo le scale, sono risalita con l’ascensore e
quando sono arrivata ho trovato la porta di casa aperta. Ero
sicurissima di averla chiusa a chiave. Quando ho aperto, ho
trovato la baraonda che è sotto i vostri occhi».
«Ha notato se manca qualcosa di prezioso?», chiese giustamente il
carabiniere più giovane, seduto accanto a Isabel.
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«La cosa che mi ha lasciata più perplessa è che non hanno portato
via nulla di ciò che avevo di prezioso!», rispose la giovane sotto lo
sguardo attento della portinaia.
Il carabiniere più giovane aprì la bocca stupito, il più vecchio
aggrottò le sopracciglia.
“Sono in una botte di ferro”, pensò Isabel fingendo la solita
pacatezza.
«I soldi, la collana di perle, i miei gioielli…non hanno preso
niente», ribadì la ragazza.
«Quindi lei ci ha chiamati per comunicarci che qualcuno è entrato
in casa sua, ha messo sottosopra l’appartamento, ma non ha
rubato nulla?»
Isabel annuì.
«Signora…Signorina, noi le crediamo. La denuncia è stata fatta,
ma per dare il via alle indagini è necessario che almeno qualcosa
le sia stato rubato», disse il più vecchio, alzandosi.
Isabel sorrise in maniera beffarda.
«Questa è bella! Ahah…Non vi basta la stranezza di quanto è
successo per approfondire il caso?»
I due si scambiarono uno sguardo sconsolato. Il più vecchio si
sedette di nuovo e riprese a parlare: «Sospetta di qualcuno? Ha
visto qualcosa?», domandò riprendendo il bloc-notes che aveva
già rimesso nella tasca dei pantaloni.
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La portinaia si schiarì la voce, sentendosi chiamata finalmente in
causa.
«Questa mattina non è entrato nessuno. Ma ieri pomeriggio è
entrato un giovane con un mazzo di fiori in mano. Non l’avevo
mai visto prima. Doveva consegnare i fiori, quindi l’ho lasciato
passare», disse gesticolando a dismisura, quasi stesse ancora
lavorando a uncinetto. «Quel giovanotto però non è più uscito
dallo stabile», concluse con un gesto esagerato, che avrebbe fatto
cadere a terra i ferri del suo lavoro, se solo li avesse avuti ancora
in mano.
«Interessante», rispose il carabiniere, che almeno qualcosa di
curioso trovava in quella vicenda. «L’ha visto in volto?»
Isabel alzò gli occhi al cielo e riunì le mani come in preghiera.
«Beh… quel giovanotto avrà avuto trent’anni, non di più. Spalle
larghe, un bel fisico…», tentò di fornire altri particolari ma non
ne fu in grado.
«Ricorda com’erano i capelli? Gli occhi? Cosa indossava?»
La signora Luisa assunse la stessa espressione di fatica che poteva
avere quando era sul gabinetto.
«Portava un paio di occhiali scuri e i capelli…non ricordo,
indossava un cappellino con la visiera…e un paio di jeans, sì
quelli me li ricordo».
“Sì, anche il fondoschiena immagino”, la canzonò tra sé e sé
Isabel , sicura che la portinaia non sarebbe stata in grado di farne
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una descrizione completa, benché avesse fornito alcuni dettagli
sull’abbigliamento dell’uomo.
La signora Luisa si sentiva molto importante in quel momento.
«Stamattina», intervenne Isabel, troncando l’istante di popolarità
della portinaia, «abbiamo visto un furgone bianco sfrecciare
davanti all’entrata. Pensiamo possa esser uscito dalla porta di
servizio dei sotterranei».
I due si guardarono sorridendo.
«Bene, avete la stoffa delle investigatrici. Per prima cosa
prenderemo le impronte. Qui ce ne saranno ovunque. Purtroppo
le maniglie delle porte saranno state toccate da chissà quante
persone. Poi andremo a verificare che nessuno abbia ricevuto
quei fiori. Infine», disse il più vecchio, che adesso sembrava aver
preso a cuore il caso, «ho bisogno di alcune indicazioni temporali
che non mi avete fornito». Rimase zitto un istante poi riprese: «A
che ora è scesa a controllare la posta?»
Isabel fece due conti rapidi. “La sveglia è suonata alle 8, mi sono
messa la vestaglia, le ciabatte…”
«Alle 8:05 o al massimo alle 8:10 ero già nell’atrio».
«Bene. Quanto tempo si è fermata all’ingresso?», continuò,
pronto ad annotare altri dati con la sua penna a sfera.
«Non più di cinque minuti. Poi ho preso l’ascensore per salire».
«Quanto tempo impiega l’ascensore per arrivare al quinto piano?».
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Isabel non sapeva rispondere. Le venne in aiuto la portinaia.
«Esattamente cinquanta secondi. È vecchio e un po’ lento, ma
funziona bene», si giustificò, poiché aveva la stessa età di
quell’ascensore da rottamare.
«E quando è scesa ha detto di aver usato le scale, vero? In quanto
tempo le ha percorse?»
«Non saprei, forse in un paio di minuti», rispose Isabel, sfiancata
da tutte quelle domande.
«In totale sarebbero sette minuti e cinquanta che lei ha trascorso
fuori casa. In questo lasso di tempo un ladro è capace di mettere
sottosopra un appartamento come questo e di portare via la
refurtiva. Ammesso che trovi quello che cerca», concluse il
carabiniere più vecchio.
I due poi si alzarono e si guardarono attorno.
«Ora daremo un’occhiata e prenderemo le impronte. Lei può
andare, grazie», disse alla portinaia. «Se avremo bisogno di lei per
un confronto, la manderemo a chiamare. Rimanga a nostra
disposizione».
La portinaia annuì e in un baleno fu fuori dalla porta. Isabel
rimase seduta sul divano mentre i carabinieri ispezionavano la
casa e prendevano alcuni oggetti a campione per rilevare le
impronte. Non le era mai capitato nulla di simile, aveva paura, ma
il fatto che qualcuno si stesse adoperando per lei la faceva sentire
più serena.
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“Che debba scapparci il morto prima che intervengano, mi pare
proprio assurdo”, pensava, tornando al momento in cui il più
vecchio dei due carabinieri voleva lasciare il caso irrisolto. Perché
per Isabel si trattava proprio di un caso. Ne andava quasi fiera,
avrebbe potuto paragonarsi ai personaggi dei suoi gialli preferiti.
«Bene, abbiamo raccolto quello che ci è parso più opportuno»,
disse il più giovane con un sacchetto tra le mani. «Li porteremo in
laboratorio e appena avremo una risposta la contatteremo.
Rimanga a nostra disposizione».
Isabel avrebbe voluto chiedere ai due carabinieri di fermarsi ad
aiutarla a rimettere ordine, ma non poteva pretendere che
facessero anche questo per lei.
«Lasci tutto così», disse il carabiniere, anticipando il pensiero di
Isabel. «Almeno per qualche giorno, finché non avremo alcune
risposte. Non ci sembra il caso di transennare l’abitazione, ma se
inquinerà troppo l’ambiente renderà le cose più difficili. Sistemerà
più avanti, quando avrà tempo».
Isabel lo guardò esitante. Non sapeva cosa obiettare al carabiniere
e fece bene a stare zitta.
«Ora facciamo un giro tra gli inquilini. Chiederemo se qualcuno di
loro ieri ha ricevuto un mazzo di fiori».
Isabel non capiva perché quel particolare interessasse così tanto ai
carabinieri. Il dubbio che aveva le si dipinse in volto.
«Se nessuno ha ricevuto i fiori, è probabile che sia stato quel
giovanotto a ribaltarle l’appartamento. Se invece qualcuno li ha
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ricevuti, sarà improbabile che sia stato lui», spiegò il carabiniere
più giovane, che lasciò per ultimo l’abitazione. «Ora torni dentro,
chiami qualcuno a far sistemare la serratura e stia tranquilla, la
informeremo noi su tutto. Arrivederla», disse, terminando con un
inchino quasi grottesco.
Isabel pensò che forse aveva esagerato nel chiamare i carabinieri,
forse chi si era intrufolato in casa sua aveva sbagliato
appartamento, magari voleva entrare dai vicini benestanti, ma
aveva confuso la porta. Le saltavano alla mente tante ipotesi, però
poi tornava sempre a farsi suggestionare dai romanzi gialli di cui
era un’avida lettrice.
“E se volevano uccidermi?”, si chiese sulla scia dell’ultimo noir
letto. “Anche Camille era una brava e innocente ragazza, eppure
che fine ha fatto?”, pensò, considerando il finale del libro. “Ma
che senso avrebbe, no…se avessero voluto uccidermi, sarebbero
entrati quando ero in casa o mi avrebbero teso un agguato sul
pianerottolo!”, fantasticò. Queste e altre idee passavano nella
mente di Isabel, finché ne ebbe una che anche la portinaia
avrebbe approvato.
«Togliamoci questa vestaglia, mi sono messa in ridicolo
abbastanza per oggi», si disse.
Raccolse un paio di jeans da terra, se li infilò a fatica talmente
erano attillati, indossò una maglietta bianca sotto la quale si
intravedevano i capezzoli inturgiditi dei suoi piccoli seni. Si infilò
un paio di scarpe da ginnastica e decise che avrebbe prima
controllato la sua casella di posta elettronica che non apriva da un
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paio di settimane o forse più, poi avrebbe chiamato il fabbro per
far sistemare la serratura.
Accese il computer, un vecchio modello ereditato, insieme ai
quadri, dalla zia, forse più vecchio persino dell’ascensore – e della
portinaia-, si stirò i muscoli del collo mentre attendeva
l’accensione e fece alcuni lunghi respiri, come aveva imparato a
fare da quando seguiva un corso di yoga alla televisione.
Finalmente il computer diede segni di vita. La connessione a
internet avrebbe richiesto forse il doppio del tempo necessario ad
accendersi. Ripeté l’OM tre volte a occhi chiusi e quando li riaprì
la connessione era attiva, anche se debole. Cliccò sull’icona di
Internet, le apparve la homepage e digitò TISCALI. Finalmente,
dopo un’attesa estenuante, entrò nella sua casella di posta
elettronica.
«Ma tu pensa quanta pubblicità! Viviamo sommersi dalla
propaganda», disse seccata dopo quella tragica scoperta. Selezionò
tutte le caselle, cercando di mantenere la calma perché avrebbe
voluto buttare nello stesso cestino anche il computer, indirizzò la
freccia del mouse sul piccolo bidone semitrasparente, ma a un
tratto si fermò.
«E questa cos’è? Non sembra pubblicità…», esclamò, vedendo
una mail proveniente da un indirizzo a lei noto.
«marksantinichiocciolagmailpuntocom», lesse tutto d’un fiato.
«Ah, ecco che si fa sentire. Vediamo un po’ cos’ha da dirmi. Si
vorrà giustificare per non avermi ancora spedito quella cosa che
mi dovrebbe assicurare una cattedra all’Università», disse ridendo
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da sola. Cliccò due volte sopra la mail, poi altre due, stizzita,
finché il computer si impallò.
«Ma ce l’hanno tutti con me?», sbottò in un attacco d’ira.
Fortunatamente il computer tornò a funzionare a dovere. Si
aprirono due pagine bianche identiche, alcune icone sembravano
lampeggiare, mentre altre si moltiplicavano, nonostante ciò quella
carcassa – come la definiva Isabel – ora funzionava a dovere.
«Dai, chiuditi!», disse alla pagina di troppo. «No, aspetta un
attimo, cosa…Non ci posso credere! Isabel sei un genio!», strillò
dandosi un colpo dietro la testa. «Mark ha detto di controllare la
posta, intendeva questa posta, non la cassetta delle lettere! Che
stupida!»
19 maggio 2011
Cara Isabel,
scusa ma l’altro giorno ti ho chiamata da una cabina telefonica e la
comunicazione si è interrotta proprio sul più bello (non avevo più monete!).
Ero sicuro che avresti capito che si trattava di posta elettronica, così non ti ho
richiamata.
«Pff…certo, come no!», commentò, mentre leggeva il testo della
mail. «Immagino cosa dirai quando saprai cosa facevo tutte le
mattine appena alzata…»
Il file che ti allego è strettamente confidenziale, nessuno sa che l’ho preso e che
te l’ho inviato, Dio solo sa cosa mi succederebbe se l’avvocato Hannah Smith
lo scoprisse. Credo ti possa essere molto utile. Devi farti aiutare dal tuo
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IL QUARANTACINQUESIMO PARALLELO
professore, mi sembra scritto in uno strano alfabeto. Se andrà come prevedo,
mi dovrai una cena. A Natale torno in Italia. Prenota alle Murate, sto già
assaporando la loro fiorentina!
Un bacio, Mark
«Un po’ troppo sicuro di sé – e di me – il ragazzo. Mi costerà un
capitale quella cena. Vediamo un po’ se ne vale la pena…»,
borbottò mentre dava il tempo alla carcassa di aprire il pesante
allegato.
Lesse il titolo del documento, quando finalmente comparve nella
sua pienezza:
Il quarantacinquesimo parallelo
“Perché dovrebbe tornarmi utile?”, pensò. Si mise comoda sulla
sedia, spalancò gli occhi davanti alla pagina che si era caricata e
sentì un brivido freddo attraversarle la schiena, le labbra seccarsi e
un nodo stringerle la gola fino quasi a non farla respirare.
Considera la cena già prenotata, mio caro Mark!
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