Beni pubblici per la sicurezza sociale: nuove vulnerabilità - Hal-SHS
Transcript
Beni pubblici per la sicurezza sociale: nuove vulnerabilità - Hal-SHS
Beni pubblici per la sicurezza sociale: nuove vulnerabilità e impasse dell’azione politica Tommaso Vitale To cite this version: Tommaso Vitale. Beni pubblici per la sicurezza sociale: nuove vulnerabilità e impasse dell’azione politica. Consalvi, Fabrizio. La finanziarizzazione dell’economia e la sua crisi, Edizioni Alegre, pp.113-131, 2008. <hal-01037986> HAL Id: hal-01037986 https://hal-sciencespo.archives-ouvertes.fr/hal-01037986 Submitted on 23 Jul 2014 HAL is a multi-disciplinary open access archive for the deposit and dissemination of scientific research documents, whether they are published or not. The documents may come from teaching and research institutions in France or abroad, or from public or private research centers. L’archive ouverte pluridisciplinaire HAL, est destinée au dépôt et à la diffusion de documents scientifiques de niveau recherche, publiés ou non, émanant des établissements d’enseignement et de recherche français ou étrangers, des laboratoires publics ou privés. Beni pubblici per la sicurezza sociale: nuove vulnerabilità e empasse dell’azione politica in epoca tardo-neoliberista. di Tommaso Vitale Bozza non corretta In via di pubblicazione Citare come : Vitale, Tommaso (2008), “Beni pubblici per la sicurezza sociale: nuove vulnerabilità e empasse dell’azione politica in epoca tardoneoliberista”, in Fabrizio Consalvi (a cura di) La finanziarizzazione dell'economia mondiale e la sua crisi. Roma: Edizioni Alegre. In questo capitolo tratteggio un ragionamento che parte dalle più importanti trasformazioni nelle politiche economiche degli stati nazione, in Italia e non solo, per arrivare al ruolo dei beni collettivi, dei beni comuni e dei beni pubblici, con riferimento specifico alla sicurezza sociale, all'assistenza, al supporto alle persone 1. Vorrei, cioè, provare a discutere il tipo di impatto che ha una serie di trasformazioni nei processi di finanziarizzazione e nelle politiche economiche, sui sistemi di welfare, soprattutto di welfare a livello locale, cercando di guardare questo impatto con uno sguardo attento e molto vicino ai funzionamenti ordinari delle agenzie di welfare. 1 Il capitolo è stato scritto a partire da una relazione orale, e per questo ha una forma discorsiva molto marcata. 1. Gli obiettivi dei sistemi nazionali di protezione sociale Partiamo dalle premesse un po' scolastiche ma forse anche dovute, quantomeno da ricordare, e cioè dal perché siano nati i sistemi di protezione sociale. Essi sono nati, in Europa, in momenti leggermente diversi, con impostazioni diverse, più o meno sempre con la formazione dello stato nazione, più esattamente nell’ultima fase della formazione dello stato nazione. Ovviamente gli stati nazione si formano in Europa in momenti differenti, hanno andamenti differenti, però sempre i sistemi di protezione sociale si formano nella seconda fase di consolidamento degli stati nazione e nascono con due obiettivi, che ciascun stato nazione combina in maniera diversa, qualcuno ne sceglie solo uno, qualcuno li combina in maniera più equilibrata, ma gli obiettivi di fondo restano sempre due: proteggere dai rischi e ridurre le disuguaglianze. I sistemi di protezione sociale hanno sempre e comunque un obiettivo esplicito di riduzione delle disuguaglianze. Alcuni stati, per esempio l'Italia, si sono dati pochi obiettivi di riduzione delle disuguaglianze. In generale, i paesi dell'Europa continentale hanno sfumato un po' questi obiettivi di redistribuzione, molto importanti, invece, nei paesi anglosassoni, anche negli Stati Uniti, quantomeno fino agli anni '60 (Prasad, 2006), e sempre importanti nelle socialdemocrazie. Anche nei paesi che meno hanno accentuato questo aspetto, questo obiettivo era comunque presente. La protezione dai rischi era un obiettivo riferito ai rischi più prevedibili, i rischi collegati all'anzianità, alla malattia, all'invalidità e, successivamente alla seconda guerra mondiale, ai rischi collegati all'ignoranza. I sistemi di welfare sono nati per puntellare, per proteggere da questi rischi. 2. L’avvento di politiche neoliberiste e la crisi di consenso del welfare Se guardiamo a quanto è successo a partire dalla svolta neoliberista che ha attraversato con tempi e modalità differenti un po' tutto il mondo a partire dalla seconda metà degli anni '70 e con il momento topico dei governi Reagan e Thatcher, per non parlare di ciò che nel '78 è avvenuto ovviamente anche in Cina 2, dobbiamo considerare tre punti fondamentali per discutere dei sistemi di protezione sociale. Il primo punto riguarda i cambiamenti apportati da queste politiche. A mio parere il principale cambiamento è che il welfare smette di essere considerato un investimento. Nel quadro precedente alle politiche neoliberiste, sicuramente all'interno della fase d'oro delle politiche keynesiane, ma anche successivamente, il welfare era un investimento finalizzato a sostenere la domanda. Una delle idee di fondo era di ridurre le disuguaglianze, proteggere dai rischi per arrivare a demercificare, e garantire più potere di acquisto in una dinamica espansiva. Il welfare era un investimento in quanto si riconosceva agli interventi di protezione sociale la possibilità di moltiplicare le risorse “investite” per proteggere le persone dai rischi 3. La seconda cosa che è cambiata è che non solo il welfare non è più considerato un investimento ma addirittura è considerato una spesa a perdere, e quindi da contrarre per spostare gli investimenti a favore di forme di accumulazione diretta, quindi direttamente a sostegno dell'offerta 4. Quindi riprendono vigore processi di rimercificazione della protezione sociale e di rifamiliarizzazione di alcune prestazioni sociali. Pian piano si rimercificano molte prestazioni, e quelle che non si rimercificano tendenzialmente vengono di nuovo schiacciate sulla famiglia. Lentamente, ovverosia in un processo che simbolicamente facciamo iniziare dal '78, ma che si spalma fino alla fine degli anni '90, quando si può dire compiuto in quasi tutti i paesi, nonostante le differenze di regimi di welfare. In Italia ce ne si è accorti meno, perché l'Italia aveva poco defamiliarizzato le politiche di welfare, e quindi, tutto sommato, da questo punto di vista il dibattito pubblico si è concentrato più sul fatto che una serie di servizi (più nel campo 2 Sul rapporto fra Cina e neo-liberismo, si veda Harvey D. (2006, trad. it 2007) Breve storia del neoliberismo, Milano, il Saggiatore; una discussione approfondita e problematizzata è contenuta in Arrighi G., (2008), Adam Smith a Pechino, Milano, Feltrinelli. 3 Cfr. Hicks, A. and Esping‐Andersen, G. (2005), “Comparative and Historical Studies of Public Policy and the welfare State”, in T. Janowski, R. Alfors , A. Hicks , and M. A. Schwartz (eds.), The Handbook of Political Sociology, Cambridge, Cambridge University Press, pp. 509‐525. 4 Cfr. Boyer R. (2002), “Institutional reforms for growth, employment and social cohesion” in Rodrigues Maria Joao (Ed.), The New Knowledge Economy in Europe. A Strategy for International Competitiveness with Social Cohesion, Edward Elgar, Londres, p. 146-202. dell'assistenza e meno in quello della sanità) si stavano rimercificando, tornavano ad essere servizi da assolvere tramite un acquisto diretto del cittadino 5. In altri paesi questo è stato estremamente evidente, mentre per noi semplicemente non è mai arrivata una fase di defamiliarizzazione consistente 6. Terza cosa, ma non per questo meno importante: si è perso consenso politico sul welfare. Non è che si è perso esattamente nel '78, il cambiamento è stato graduale, con ritmi diversi e in maniera abbastanza indifferente rispetto a programmi politici orientati più a sinistra o più a destra. Progressivamente si è perso il consenso, e quando parlo di consenso mi riferisco a quello elettorale, diffuso nell'insieme della popolazione 7. Riassumendo, la questione cruciale è che il welfare non viene più considerato un investimento. In qualche maniera ciò ha comportato delle retoriche politiche e morali molto attente a rimercificare e a rifamiliarizzare. Secondo David Harley, un cambiamento neoliberista sul piano della politica economica si è sempre accompagnato con un cambiamento di morale in direzione di un maggiore patriarcato e con una moralizzazione molto forte del ruolo tradizionale della famiglia. Questo ha delle conseguenze precise anche sul piano politico. Se consideriamo l’analisi comparativa di Monica Prasad sulle condizioni politiche del neoliberismo, la riduzione di spesa sociale ha goduto di sempre maggiore consenso 8. 3. Il nuovo spirito del capitalismo Il cambiamento di indirizzo complessivo nelle politiche di welfare, in direzione neo-liberista è avvenuto in un contesto segnato da altri importanti cambiamenti. Sono cambiate innanzitutto l'organizzazione della produzione e l'organizzazione del lavoro. 5 Ferrera, M. (2005) (Ed.), welfare State Reform in Southern Europe. Fighting Poverty and Social exclusion in Italy, Spain, Portugal and Greece. London: Routledge / EUI Studies in the Political Economy of welfare. 6 Saraceno, C. (ed.) (2002), Social Assistance Dynamics in Europe. National and Local Poverty Regimes. Bristol: The Policy Press. 7 Blekesaune, M. e Quadagno, J. (2003), ‘Public Attitudes toward welfare State Policies: a comparative analysis of 24 nations’, European Sociological Review, 19 (5), 415−427. 8 Prasad, M. (2006), The Politics of Free Markets, The University of Chicago Press, Chicago. La grande fabbrica, con la sua indifferenza per i territori in cui era localizzata e le sue economie interne di scala, ha perso di centralità. In Italia la competizione sul prezzo affrontata aumentando la quantità di produzione per ridurre i costi è stata progressivamente superata. E’ emersa e si è diffusa l’impresa a rete, ancorata al proprio territorio, interessata a mettere in valore gli aspetti di prossimità, specializzazione e concentrazione produttiva, appoggiandosi su beni collettivi per la competitività, cooperando su reti lunghe anche transnazionali. Ma anche pronta a disancorarsi da un momento all’altro. La competizione avviene sempre più sulla qualità e l’innovazione. I fattori dimensionali perdono di importanza e aumenta la centralità dei fattori relazionali: il problema non è l’impresa piccola, ma l’impresa sola. Nel corso degli ultimi 6/7 anni è giunto a maturazione anche il cambiamento dell’organizzazione del lavoro. Se da un lato l’innovazione tecnologica e nuove tecniche di management hanno riconosciuto alcuni margini di autonomia e creatività al lavoro salariato, mettendoli in valore nel processo produttivo, dall’altro lato proprio l’innovazione tecnologica e le nuove tecniche di management hanno accresciuto le forme di controllo sui lavoratori. A partire dagli anni ’90, poi, gli orari di lavoro si sono intensificati notevolmente in tutti i settori, prima nel settore dei servizi, e poi anche nell’industria. Si sono anche intensificate le prove di performatività all’interno della carriera lavorativa, ovverosia i momenti in cui il lavoratore e valutato e la sua performance misurata, che in alcuni settori produttivi sono effettuate anche ogni tre mesi. Inoltre, in alcuni settori del mercato del lavoro, ad esempio in edilizia, sono riemerse le forme peggiori di caporalato, ed è andato aumentando nuovamente il lavoro nero. Il lavoro domestico, collaboratrici e badanti, rimane un settore di grande discrezionalità, in cui solidarietà private si confondono spesso con abissi di sfruttamento. E’ in questo quadro complessivo che si inseriscono i temi della precarietà, dell’accesso difficile per i più giovani a un contratto non “atipico”. E’ in questo quadro che si inserisce anche il tema della individualizzazione dei contratti di lavoro, della tendenza all’individualizzazione del rapporto fra lavoratore e datore di lavoro, del ruolo delle RSU e dell’azione collettiva. Non ultimo, è in questo quadro di nuova organizzazione del lavoro che si inscrive la questione preoccupante dei lavoratori poveri, di quei lavoratori che pur avendo un carico anche superiore alle 40 ore alla settimana non riescono a superare la soglia della povertà, spesso perché sono l’unica fonte di reddito del proprio nucleo familiare, perché sono in affitto, o perché hanno un familiare non autosufficiente 9. E’ un fenomeno ben noto in altri paesi, soprattutto del mondo anglosassone, ma che in Italia inizia a emergere con nuove caratteristiche solo a partire dal 2002 10. Questi cambiamenti sono avvenuti parallelamente e in connessione a quello che i sociologi chiamano un cambiamento nello spirito del capitalismo, cioè nei fattori motivazionali che spingono le persone a dedicare tutta la loro vita ad un lavoro sfrenato a favore dei processi di accumulazione 11. Il capitalismo ha bisogno di persone pienamente impegnate nelle attività di accumulazione e investimento.N on è un regime che possa basarsi sulla coercizione. Tuttavia, perché delle persone dovrebbero implicarsi e giocare tutte le proprie risorse di creatività, relazionalità, intelligenza, tempo e quant’altro nel capitalismo? In fondo il capitalismo è irrazionale, è un sistema assurdo, ci dicono i due autori. I lavoratori dipendenti non possiedono la proprietà dei risultati del proprio lavoro né una realistica possibilità di intraprendere una vita attiva al di fuori della subordinazione. Quanto ai capitalisti, essi si trovano incatenati in un processo infinito e insaziabile. Per tutti, impegnarsi nel processo capitalista appare privo di giustificazioni. È per questo che il capitalismo ha bisogno di qualcosa di esterno a sé, cioè non inerente alla definizione minimale di capitalismo che abbiamo richiamato sopranzi, che renda giustificabile impegnarsi nel capitalismo. Questo «qualcosa» è quello che Max Weber chiamava lo «spirito del capitalismo». Una forma di ideologia, secondo Boltanski e Chiapello, che ne precisano il significato sociologico: ideologia è da intendersi come una forma di giustificazione, autonoma dall’organizzazione della produzione, che fornisce delle ragioni per cui è giusto e desiderabile impegnarsi nel capitalismo, e che nel farlo fornisce dei vincoli reali e performativi al capitalismo stesso. Lo spirito del capitalismo, incorporato in dispositivi giuridici e organizzativi, è ciò che permette il coinvolgimento delle persone e, al tempo stesso, ciò che frena e costringe il capitalismo, dandogli dei limiti. 9 Cfr. Migliavacca M., Famiglie al lavoro, Bruno Mondadori, Milano. Cfr. Bonoli, G. (2006), New Social Risks and the Politics of Post‐Industrial Social Policies, in K. Armingeon and G. Botoli (eds), The Politics of Post ‐ Industrial Welfare States: Adapting Post ‐ War Social Policies to New social Risks. London and New York: Routledge, pp. 3‐26. 11 Boltanski L., Chiapello È (1999; trad. it 2008), Il nuovo spirito del capitalismo, Milano, Feltrinelli. 10 Nel nuovo spirito del capitalismo, il criterio per valutare persone e processi diviene quello dell’attività, o, più precisamente, l’attività finalizzata a generare progetti, esplorando le reti per rompere il proprio isolamento e poter stabilire nuovi legami che portino, a loro volta, a nuovi progetti. Diviene cruciale essere occupabili, cioè adattabili e flessibili, veloci ad adeguarsi alle nuove situazioni, polivalenti, abili nel cambiare i propri strumenti, attivi e autonomi, capaci di assumersi rischi per stabilire contatti sempre nuovi, scaltri nel reperire le informazioni più adatte a evitare legami ridondanti. In questo quadro, il momento in cui l’attività di una persona viene messa alla prova, e valutata, è il passaggio da un progetto all’altro. È qui che si rivelano le qualità della persona: la sua occupabilità e le sue capacità di coinvolgimento. Lo spirito del capitalismo si caratterizza, perciò, nel suo lato eccitante, per la riduzione delle gerarchie e per una leadership meno autoritaria, per un cambiamento continuo nell’azienda e nei percorsi di lavoro, nonché per una valorizzazione dell’innovazione e della creatività; la tensione verso la giustizia è garantita da nuove forme di meritocrazia che valorizzano la mobilità e la capacità di moltiplicare le relazioni e gestire una rete; il senso di sicurezza viene assicurato, ma solo in parte, dalla capacità di essere imprenditori di sé stessi, laddove si è disponibile a muoversi, adattarsi e rinunciare a tutti i legami che tengono radicati. Complessivamente, nel nuovo spirito del capitalismo, il registro di sicurezza è molto più debole (meno convincente) rispetto alle fasi precedenti 12. Non mi soffermo oltre; mi interessa, invece, mettere in luce una terza dinamica di cambiamento: il cambiamento demografico. 4. La nuova rivoluzione demografica Il cambiamento demografico è una vera e propria rivoluzione che avviene in concomitanza, anche se in maniera parzialmente indipendente, all'ingresso di politiche massicce neoliberiste. Esso è legato semmai all’incremento delle capacità tecnologiche. E' una rivoluzione: quella che i demografi chiamano la rivoluzione della longevità e che non possiamo considerare soltanto in termini di tensione sui sistemi pensionistici, dato che è una rivoluzione che 12 Vitale T. (2007), “Leggeri, flessibili e poco autoritari. I manager ed i quadri d’azienda nell’epoca della valutazione continua”, in Itinerari d’impresa, n. 11, pp. 219-229. impatta tutto il welfare, tutta la protezione sociale. In Lombardia, per esempio, gli ultrasessantacinquenni passano in trent’anni (dal 1971 al 2001) dal 10% al 20% della popolazione residente (immigrati compresi); ciò vuol dire che il numero di anziani per bambino passa da 1,1 a 3,4 in trent’anni. La rivoluzione demografica non è una piccola cosa. Innanzitutto bisogna evitare di considerare negativamente l'estensione della longevità delle persone, quasi fosse solo un fatto di cui essere preoccupati per ragioni di compatibilità economico finanziaria. Questo non vuol dire però sottostimare questo cambiamento. E’ una trasformazione di struttura totale, con anche degli importanti conseguenze culturali: la non autosufficienza, ad esempio, così come la stiamo conoscendo in questa fase è un fenomeno ampiamente nuovo. Certo può esserci stato qualcuno che un tempo si ammalava e risultava malato a lungo, ma era un fenomeno molto limitato: chi si ammalava tendenzialmente moriva e le persone con disabilità avevano un tempo di vita molto ristretto, per esempio le persone down avevano un tempo di vita compreso fra i 25 ed i a, 30 anni, mentre oggi abbiamo persone la cui autonomia possibile deve essere sostenuta per tempi più lunghi. Sempre per restare al caso della Lombardia, su circa 9 milioni e mezzo di abitanti, secondo l’IRER abbiamo 420.000 persone non autosufficienti, di cui solo una minoranza sono coperti da qualche forma di protezione pubblica mentre gli altri lo sono esclusivamente attraverso politiche che rifamiliarizzano i carichi di cura. Teniamo presente che almeno 300000 di questi 420000 sono fortemente non autosufficienti e che l'autonomia possibile per queste persone è da sostenere nel medio-lungo periodo 13. La non autosufficienza riguarda persone con disabilità, quali che siano le 13 Il ritardo è immenso, se si pensa che la Regione Lombardia prevede interventi di assistenza domiciliare integrata solo per circa 23.600 persone. Non è solo un problema quantitativo: vi è una fortissima spesa per interventi a ciclo residenziale e semi residenziale per anziani, disabili e minori: le strutture residenziali e semiresidenziali, rispettivamente 954 e 496, sono private per il 78% e per il 53%. Le strutture sociosanitarie destinate agli anziani (rsa, idr, hospice, cdi) sono 722 (nel 2004) con un aumento dei posti letto dal 1995 al 2004 pari al 38%. Nelle sole rsa vi sono 52.446 posti letto, con un incremento del 21% negli ultimi cinque anni. A fianco di questo sono disponibili 5298 posti in cdd (centri diurni per disabili), 2427 posti in residenze sanitarie per disabili e 982 in comunità sociosanitarie per disabili. In altri termini vi sono pochissimi interventi domiciliari e molti posti in strutture residenziali; cfr. Vitale T. (2008) “I servizi sociali e sociosanitari in Lombardia, fra centralismo regionale e poc’altro”, in Contest. Territori-Reti-Movimenti, n. 4, pp. 7-10. ragioni, psichiche, fisiche, accidentali, incidenti sul lavoro, malformazioni, e gli anziani, di cui, tendenzialmente e sempre di più, una quota molto significativa passa periodi lunghi di non autosufficienza, e questa quota andrà sempre più ad aumentare 14. Il fenomeno taglia trasversalmente tutte le classi sociali, anche se riguarda un po' più le fasce alte della popolazione, ma sicuramente arriva a comprendere anche il ceto medio e le classi operaie, e più in generale le classi di lavoratori dei servizi a basso reddito. Chi è investito un poco meno da questo fenomeno (meno, ma non ne è eclusa) è soltanto la fascia di estrema povertà rappresentata dall’under-class migrante, ma tutti gli altri sono toccati da questa trasformazione. Ci sono anche altri aspetti della rivoluzione demografica in corso, oltre al tema della non autosufficienza. Vi faccio solo brevemente cenno. Innanzitutto è ormai praticamente impossibile mantenere la struttura dei rapporti tra classi di età che abbiamo conosciuto nella seconda metà del XX secolo. Un altro aspetto del cambiamento demografico è dato dall'immigrazione e dalla presenza tra di noi di persone immigrate su cui non mi soffermo perché è un fenomeno assolutamente ben noto, anche per i risvolti demagogici di etnicizzazione dei conflitti. Ma la questione dell’immigrazione è rilevante anche perché i registra una specificità italiana nel forte tasso di donne immigrate impegnate nel lavoro di cura. Come sostiene Enzo Mingione, questo tipo di immigrazione “comporta una trasformazione del sistema di welfare familistico dove una quota di servizi restano in ambito domestico ma sono appannaggio di donne immigrate. Si realizza una sorte di defamiliarizzazione all’interno degli ambiti domestici” 15. 5. Nuove vulnerabilità, quali protezioni? I tre cambiamenti di cui abbiamo parlato nei precedenti paragrafi, il cambiamento negli schemi di politica sociale nella direzione del neoliberismo, il cambiamento nell’organizzazione del lavoro e della produzione, e il cambiamento demografico, nell’insieme hanno un impatto molto forte sui rischi che devono 14 Micheli G. (2007), “Anziani fragili: quale soglia di screening?”, in Prospettive sociali e sanitarie, 37 (14): 6-10. 15 Mingione, E., 2008, Family, Welfare and Districts: The Local Impact of New Migrants in Italy, EURS Workshop, London School of Economics. Vedi anche Mingione E., Borlini B., Vitale T., in via di pubblicazione, “Immigrati a Milano: bassa segregazione e alte tensioni”, in Urbanisme. fronteggiare le persone. Le persone non devono più fronteggiare semplicemente i rischi per cui sono nati i sistemi di protezione sociale, legati all'anzianità, all'ignoranza e alla malattia, ma devono fronteggiare anche dei “nuovi rischi”. Il termine nuovi rischi è stato introdotto a partire dalla seconda metà degli anni '80 e progressivamente molti hanno fatto a gara a tematizzare e a stimare quali fossero questi nuovi rischi da fronteggiare 16. Ovviamente ci sono nuovi rischi legati all'organizzazione del lavoro; nel momento in cui il lavoro diventa più precario, ci sono rischi importanti legati alla disoccupazione momentanea o alla disoccupazione in età adulta 17. Ci sono nuovi rischi legati al cambiamento demografico, per il quale i sistemi di protezione sociale non sono attrezzati. In Italia, ad esempio, abbiamo un welfare propriamente universalistico soltanto per ciò che attiene alle prestazioni sanitarie. La sanità italiana è uno degli interventi di welfare fra i più universalistici del mondo, che copre tutta la popolazione, su alcuni aspetti anche chi non è cittadino. Ma è un sistema sanitario pensato soltanto per eventi “apicali” per riprendere un termine molto usato in epidemiologia, cioè per i momenti in cui “ti spacchi, ti rompi, ti fai male, eccetera”, poi “o ti riparo o muori”. Non è un sistema di protezione pensato per 15 anni di non autosufficienza, cioè di un misto di autonomia e dipendenza. Ma ce ne sono altri di rischi; diciamo che questo insieme di trasformazioni nei criteri guida delle politiche pubbliche, nell’organizzazione della produzione e del lavoro, nella struttura della popolazione, aprono a nuovi rischi che già dall'inizio degli anni '80 cominciano ad essere visibili (ma poco discussi) nella maggior parte dei Paesi europei 18. Se vengono discussi, lo sono solo nel quadro di una riflessione sulla riduzione delle pensioni, come chiave per una nuova redistribuzione intergenerazionale. Complessivamente, il tema dei nuovi rischi per anni non sarà affrontato dalla politica 19. 16 Per una ricostruzione del dibattito, si veda Taylor Gooby, P. (ed.) (2004), New Risks, New Welfare: The Transformation of the European Welfare State. Oxford: Oxford University Press. 17 Ferrera, M. and Hemerijck, A. (2003), Recalibrating Europe’s Welfare Regimes, in J. Zeitlin and D. Trubek (eds.), Governing Work and Welfare in a New Economy: European and American Experiments. Oxford: Oxford University Press, pp. 88‐128. 18 Pfaller, A., Gough, I. and Therborn, G. (1991), Can the Welfare State Compete? A Comparative Study of Five Advanced Capitalist Countries, London: Macmillan. 19 Si vedano a questo proposito le considerazioni di Barbieri e MIngione ad introduzione della traduzione italiana del rapporto Supiot: Barbieri, P., Mingione E., 2003, “Introduzione” in Supiot A., Il futuro del Certo alcuni paesi li fronteggiano un po' di più, altri li trattano semplicemente come dimensioni simboliche da inserire ogni tanto nello scontro e nell'agone politico, ma tendenzialmente vengono poco affrontati 20. E’ in questo quadro che i sociologi iniziano a parlare, affianco al termine di disuguaglianza, che rimane il termine strutturante del dibattito sociologico, anche di vulnerabilità 21. Termine che non si sostituisce al concetto di disuguaglianza ma che vuole cogliere alcuni aspetti non rappresentabili ragionando solo in termini di diseguaglianze né solo in termini di rischi e nuovi rischi 22. Come ricorda Costanzo Ranci, “il passaggio dal rischio alla vulnerabilità coincide con un cambiamento non solo dei profili di rischio, ma della natura stessa dei rischi. Da eventi rari essi si sono trasformati in esperienze diffuse, quasi ineludibili. Da situazioni temporalmente circoscritte sono diventati stati indefiniti, dall’incerta origine e segnati dalla cronicità. Da situazioni relativamente stabili si sono trasformate in situazioni caratterizzate dalla precarietà e dall’indefinitezza” 23. La vulnerabilità non è una situazione di povertà, è una condizione di persone maggiormente sottoposte ad alcuni rischi, in contesti in cui si registra un “indebolimento della capacità dell’attività economica di fungere da meccanismo principale di integrazione sociale”, una “perdita graduale di densità delle reti familiari e di sociabilità primaria” ed in cui il “welfare è rimasto infatti intrappolato dentro un modello che non è più in sintonia con il profilo dei rischi sociali” 24. I nuclei familiari che hanno un solo reddito non è detto che siano i più poveri, ma hanno un rischio di cadere in povertà estremamente superiore, perché la precarizzazione del lavoro fa si che se quella persona perde il reddito quella famiglia non ha forme di protezione; oppure i nuclei familiari che hanno più di due figli sono estremamente vulnerabili, lavoro, Carocci, Roma. 20 Cfr. Pierson, P. (2001), “Post‐industrial Pressures on the Mature Welfare States”, in P. Pierson (ed.), The New Politics of the Welfare State. Oxford: Oxford University Press, pp. 80 ‐104. 21 Cfr. Ranci, C., 2002, Le nuove disuguaglianze sociali in Italia, Il Mulino, Bologna. 22 Migliavacca M. (2005), “Lavoro atipico tra famiglia e vulnerabilità sociale. Alcune riflessioni per esplorare nuovi approcci empirici”, in Atipici?, n. 95 di Sociologia del lavoro, a cura di Roberto Rizza e Sonia Bertolini, FrancoAngeli, Milano. 23 Ranci Costanzo, 2002b, Fenomenologia della vulnerabilità sociale, Rassegna Italiana di Sociologia n.4, Il Mulino, Bologna, p. 537.. 24 Ranci Costanzo, 2002b, Fenomenologia…, op. cit. non perché siano immediatamente più poveri ma perché basta un accidente, per fare cadere in povertà il nucleo familiare; ovviamente tutte le madri sole, anche se hanno un reddito superiore a quello di una coppia con due redditi, sono molto più vulnerabili perché rischiano di più, ecc. Il problema della vulnerabilità, secondo molti sociologi, è anche uno dei fattori principali di paura delle persone 25. Pone gli individui nella necessità di dover gestire continuativamente l’incertezza. Non è una condizione già di povertà, non una condizione immediatamente diseguale, ma attiene al fatto che le persone non riescono a darsi un progetto di vita proiettato su orizzonti di lungo periodo. Uso questo termine perché è il termine tipico dei processi di demercificazione del'800, come dire che la costruzione culturale che ha accompagnato la nascita di sistemi di produzione sociale differenti nei diversi paesi conteneva sempre l'idea occorresse che le persone si dotassero di un proprio progetto di vita, ovverosia potessero impegnarsi oggi nel sistema produttivo perché sicuri per il proprio domani 26. L'emergere della vulnerabilità ha ridotto l'orizzonte temporale degli individui, e ha creato paura perché le condizioni sociali diventano facilmente instabili, ed è difficile fronteggiare l’incertezza. E’ in questo quadro che si capisce la grande enfasi messa nel dibattito sul tema della solitudine, sulla difficoltà relazionale. Sottostante vi è l'idea che condizioni di contrasto ai rischi sono date soprattutto dai legami, innanzitutto dal legame di coppia, e dal legame di solidarietà verticale: pensiamo ai genitori che coprono i figli nel momento in cui questi sono in una situazione di disoccupazione, o ai genitori che pagano l'intervento dentistico al figlio, un figlio che già lavora un po' e quindi riesce ad aiutarli a pagare le spese per il nonno. In questo quadro la solitudine, la mancanza di legami, diventa un problema. Mi sto riferendo a legami di coppia pensando ad una tipologia articolata di coppie: omosessuale, eterosessuale, di amicizia profonda. Il punto è che sottolineare la rilevanza assunta dal nucleo di convivenza che stipula un patto di solidarietà. Il riferimento all’amicizia con base di un legame di coppia non è peregrino, non è un fenomeno residuale; crescono gli anziani che fanno dei patti di solidarietà forti che non sono finalizzati al piacere sessuale o a un progetto 25 Si veda, fra gli altri, Castel R., 2004, L’insicurezza sociale. Cosa significa essere protetti?, Einaudi, Torino. 26 Castel R., Haroche C. (2001), Propriété privée, propriété sociale, propriété de soi, Fayard, Paris. genitoriale, ma che si danno una solidarietà vincolante. Fanno così anche molte coppie omosessuali ed eterosessuali, che non hanno più una vita di sentimentale e che tendono a cambiare frequentemente partner, ma che mantengono un legame di solidarietà al fine di fronteggiare rischi molto forti. A tal fine le solidarietà orizzontali e verticali sono molto importanti 6. Integrazione e territorializzazione del welfare In questa situazione cosa succede? Quale è la risposta politica? Come rispondono quelli che noi chiamiamo i capitalismi di welfare, il welfare capitalism, nelle loro differenze? Pochi paesi riescono a fare politiche nazionali che aggrediscano le nuove vulnerabilità, e tendenzialmente tutti i paesi europei hanno giocato a “ping pong” con l'Europa, con una strategia politica classica: “noi non abbiamo le condizioni di consenso per fare delle riforme strutturali di ripresa della redistribuzione, per pensare ai nuovi sistemi di protezione a livello di stato nazione chiediamo a te Europa di imporceli”. In termini di consenso, soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni ’90 si è pensato fosse più semplice costruire un vincolo, un’imposizione a livello europeo che a livello nazionale 27. Qualcosa però non funziona, e quando l'Europa a metà degli anni '90 prova a giocare a rispondere al “ping pong” dicendo che va ripensata la spesa sociale e anno rielaborate le politiche di investimento, il gioco non funziona, nel senso che questa indicazione che viene dall'Europa viene filtrata e negata dalla maggioranza degli Stati nazione. Nascono così alcune scelte di metodo, per tentare di rinegoziare incrementalmente obiettivi e strumenti di politica sociale, tra cui il metodo aperto di coordinamento, ma sostanzialmente nessuno Stato riprende delle politiche di sostegno della domanda a partire da una messa in valore del welfare come forma di investimento 28. 27 Cfr. Graziano, P. and Vinck, C. (eds.) (2006), Europeanization: New Research Agendas, Basingstoke, Palgrave; Ferrera, M., Hemerick, A. and Rhodes, M. (2000) “Recasting European welfare states for the 21st century”, European Review, vol. 8, n. 3, pp. 427‐446. 28 Dehousse R., [2004, trad. it 2008], “Il metodo aperto di coordinamento: quando lo strumento prende il posto della politica”, in Lascoumes, Le Galès (a cura di), Governare attraverso strumenti, Bruno Mondadori, Milano; Zeitlin, J. (2005) ‘Conclusion: The Open Method of Coordination in Action. Theoretical Promise, Empirical Realities, Reform Strategy’, in J. Zeitlin, P. Pochet e L. Magnusson (a cura di) The Open Method Fra il '99 e il 2000 sono state introdotte alcune linee di welfare provenienti dal livello europeo nelle legislazioni sociali in molti dei paesi dell’Unione; in Italia è avvenuto alla fine del 2000 con la riforma dei servizi sociali, la legge 328, anche detta legge Turco. E’ una lege che fa perno su sue principi cardine, intelligenti ma parziali. I principi cardine posti dall'Europa e su cui si è strutturato anche il welfare italiano, sono principi di territorializzazione e principi di integrazione 29. Una delle interpretazioni possibili di questa legge è che poiché non si voleva aumentare in maniera consistente la spesa sociale, in particolare nella sua quota in servizi, si è cercato di vincolare gli enti locali a spendere al meglio le risorse messe a disposizione, e quindi territorializzare, in maniera tale da arrivare più vicini alle esigenze specifiche di ciascun territorio, cercando di integrare le risorse presenti, lavorando con quello che c'è e, se possibile, cercando di riconoscere e dare valore a dei potenziali, anche economici, locali. Questa strategia, che contiene molti elementi di saggezza, ha portato ad alcuni paradossi nel momento in cui non è stata accompagnata da un rifinanziamento consistente delle politiche sociali. Da un lato è stato sicuramente opportuno territorializzare i sistemi di protezione sociale e incentivare i comuni ad aggregarsi e programmare insieme la spesa e i servizi sociali e sociosanitari. Il welfare italiano è troppo frammentato e compartimentato, con una spaccatura forte fra il sistema sanitario e il sistema sociale, fra le ASL e i Comuni, ma anche fra le politiche sociali e le politiche del lavoro, fra le politiche sociali e le politiche del tempo libero. Era sicuramente giusto pensare di utilizzare anche dei potenziali locali, in termini di risorse di mutualità, di risorse volontarie, anche di patrimoni delle fondazioni bancarie i cui patrimoni accumulati nel tempo sono un bene a disposizione dei territori. Le prime analisi non hanno mostrato tuttavia esiti consistenti di integrazione, seppure vi sono state alcune innovazioni locali 30. of Co-ordination in Action: The European Employment and Social Inclusion Strategies, pp. 447-504. Brussels: PIE Peter Lang. 29 de Leonardis, O. (2003), Le nuove politiche sociali. In L. Bifulco (ed.), Il genius loci del welfare. Strutture e processi della qualità sociale, Roma: Officina Edizioni, pp. 15-28. 30 Mirabile M. L. (a cura di) (2005), Italie sociali. Il welfare locale fra Europa, riforme e federalismo, Donzelli, Roma; vedi anche Bifulco L., Centemeri L., 2007, “La partecipazione nei Piani sociali di zona: geometrie variabili di governance locale”, in Stato e mercato, n. 2, pp. 221-44. 7. Ri-familiarizzazione e ri-mercificazione, ma anche defamiliarizzazione domestica Vediamo rapidamente alcuni di questi esiti perversi. Innanzitutto nella congiunzione tra criteri economici e criteri morali del neoliberismo, di cui abbiamo parlato sopra, si è legittimata l'idea di un individuo attivo e protagonista del proprio benessere. Questa idea, da un lato era una vecchia rivendicazione sopratutto dei movimenti degli anni '60, fortemente contrari ad una statalizzazione che standardizzava, e nella fase “gloriosa” del ciclo di protesta degli anni ’60-’70 si accompagnava ad una rivendicazione di autonomia, autenticità e personalizzazione. Oggi, il tema si declina in termini di responsabilità individuale. L'individuo è responsabile della sua salute e del suo benessere. Questo spesso viene inteso in termini perversi, come se l’individuo dovesse farsi carico lui di integrare ciò che è istituzionalmente tenuto seperato 31. Un secondo aspetto negativo è che il principio di territorializzazione come principio di messa a regime di sistemi di welfare locale, in assenza di livelli essenziali di prestazioni sociali e sociosanitarie comuni per tutto il territorio nazionale, è diventato il cardine attraverso cui si è consolidata una forte frammentazione dei diritti sociali, anche all’interno di ciascuna Regione, a cui la riforma del titolo V della Costituzione, nel 2001, ha conferito poteri pressoché esclusivi in materia di politiche sociali Un terzo problema è la ri-familiarizzazione del welfare: famiglie fanno tutto nel welfare italiano, molto più che in qualsiasi altro sistema di welfare. Occorre per altro precisare quando si parla di famiglia si sta usando un termine che nasconde le forti diseguaglianze di genere interne alle convivenze ed un carico di cura addossato quasi esclusivamente alle donne 32. Il problema della rifamiliarizzazione (uso questo suffisso ri- perché c'è sempre stato familismo nelle politiche di welfare), è che oggi il soggetto fragile 31 Cfr. Borghi V., Van Berkel R. (2007), “Individualised service provision in an era of activation and new governance”, in International Journal of Sociology and Social Policy, 27 (9/10). 32 Cfr. Trifiletti R., “Southern European welfare regimes and the worsening position of women”, in Journal of European Social Policy, vol. 9 (1), 1999, pp. 49-64; Trifiletti R., “Il concetto di conciliazione e le pratiche quotidiane: un’analisi comparata in cinque paesi europei”, 2006, in Simonazzi A. (a cura di), Questioni di genere, questioni di politica. Trasformazioni economiche e sociali in una prospettiva di genre, Carocci, Roma, 2006. o che subisce delle mancanze non riesce ad accedere alle prestazioni pubbliche se non ha una famiglia; non si tratta solo del fatto che la famiglia deve provvedere a fare “questo, questo e quest'altro”. L’aspetto da sottolineare è per accedere alle prestazioni di cura e supporto che sono fornite dal terzo settore su mandato pubblico bisogna avere una famiglia. Siamo dentro un'articolazione neoliberista: l'individuo deve poter scegliere, ma per poter esercitare la capacità di scelta dell’individuo fragile ci deve essere qualcuno che sceglie per lui. Adesso siamo nel paradosso per cui se parliamo di benessere per persone che hanno problemi psichiatrici, per persone non autosufficienti, per persone che sono semplicemente troppo giovani per poter scegliere, per persone che hanno bassi livelli di istruzione, per persone in crisi, queste persone si devono appoggiare alle famiglie anche solo per poter accedere a delle prestazioni, più difficili da integrare e da trovare. Un quarto problema è che l’attribuzione di responsabilità, si traduce spesso in un’imputazione di colpe; è molto evidente se pensiamo alle politiche attive del lavoro, che da politiche di sostegno alle capacità al reimpiego, diventano politiche di workfare, anche in Italia, soprattutto in Lombardia, politiche di imputazione di colpa laddove l'individuo non è in grado, non è capace di reimpiegarsi, per esempio togliendo il sussidio piuttosto che dando sanzioni rispetto alle sue funzioni genitoriali, sottraendo il figlio o cose di questo tipo 33. Se negli USA questa dinamica è visibile per l’insieme della popolazione, in Italia inizia ad essere visibile per le fasce marginali, per esempio per i cittadini italiani considerati di etnia rom 34. L'esercizio della libertà diventa un obiettivo dello stato sociale, e questo come dire comporta i paradossi qui richiamati. L’aspetto fondamentale è che il mix di protezione e promozione, l'avere delle dotazioni e contemporaneamente il non creare dipendenza, si sbilancia drasticamente sul lato della promozione che non rimane più coerente con le sue finalità di capacitazione, sostegno, promozione, autonomia, individualizzazione, ma diventa un'imputazione di colpe, di responsabilità, perché gli elementi di protezione non sono sufficienti a garantire l’individuo. Il mix tra 33 Peck J., Theodore N., 2001, “Exporting Workfare/Importing Welfare-to-work: Exploring the Politics of Third Way Policy Transfer”, in Political Geography, 20: 427–460. 34 Vitale, T. (2008b), “Etnografia degli sgomberi di un insediamento rom a Milano. L’ipotesi di una politica locale eugenetica”, in Mondi migranti. Rivista di studi e ricerche sulle migrazioni internazionali, n. 4. dotazione di beni pubblici per la protezione e la sicurezza dell’individuo e il coinvolgimento e l’impegno che gli viene richiesto è molto sbilanciato sul lato del coinvolgimento dell'individuo 35. Questo non vuol dire che le dotazioni, cioè i beni e i servizi pubblici, siano stati smantellati, ma che sono molto selettivi, di difficile accesso, che richiedono una compartecipazione al costo, per cui se sei povero ce la fai solo se hai un po' di risorse e se sei capace di combinarle con le risorse pubbliche che ti arrivano, se sei molto ricco tendenzialmente ricorri esclusivamente al mercato privato e non hai problemi. In altri termini, è un sistema di welfare che aumenta le disuguaglianze e ridistribuiscono i benefici su un ceto medio che ha un po' di risorse economiche e molte risorse cognitive e relazionali, molte competenze nel combinare risorse e servizi di diversa natura. Il rischio attuale è che i sistemi di welfare locale al tempo stesso ri-familizzino e ri-mercifichino. E’ in questo quadro che si capisce perché oggi per parlare di sistemi di protezione sociale in Italia non possiamo non riconoscere il ruolo cruciale svolto dal lavoro immigrato delle “badanti”. Un sistema di protezione sociale completamente privato, mercificato e tendenzialmente in nero, che si inserisce dentro il quadro di trasformazione delle organizzazioni del lavoro, di politiche neoliberiste, di cambiamenti demografici, in cui la soluzione non è passata per la costruzione intenzionale di una politica nazionale per la non autosufficienza, ma mettendo in atto arrangiamenti territoriali e piccole e deboli sperimentazioni locali che in fondo hanno fatto sì che per provvedere alle esigenze di cura oggi l'Italia sia il paese che ha la concentrazione di badanti, di lavoratori e lavoratrici per l'assistenza alle persone non autosufficienti per numero di anziani, più alto in Europa. Oggi in Italia ci sono infatti oltre 700.000 badanti e collaboratrici domestiche immigrate, di cui si stima il 40/45% sia senza permesso di soggiorno, una percentuale doppia rispetto ad altri settori professionali 36. E’ una situazione in cui la de-familiarizzazione dei carichi di cura avviene comunque in ambiente domestico, e sempre con il contributo prevalente di donne (immigrate) 37. 8. Governare attraverso micro-scostamenti 35 Vitale T., 2005, “Contrattualizzazione sociale”, in La Rivista delle Politiche Sociali, n. 1/05, pp. 291-323. Pasquinelli S., “Badante e clandestina”, in la voce.info, http://www.lavoce.info/binary/la_voce/articoli/cache_pdf/BADANTE-E-CLANDESTINA.pdf 37 Cfr. Mingione, E., 2008, op. cit. 36 Non ultimo, le regioni assumono più potere e tendono sempre più a governare per decreto. Governo per decreto in termini tecnici vuol dire che non si governa attraverso un processo legislativo, cioè aperto al conflitto, discutibile, in cui nell'arena consiliare si può mediare. Significa al contrario che si governa implementando piccoli cambiamenti che non avvengono nemmeno attraverso delibere di giunta, ma con circolari prodotte dai singoli assessorati. Si attuano servizi, prestazioni e progetti estremamente territorializzati, poco formalizzati e quindi poco esigibili, poco tutelabili di fronte ad un giudice, continuamente cambiati, riarrangiati. Le trasformazioni non sono visibili e facilmente discutibili, non emergono proteste e rabbia di massa. Si governa attraverso una serie di piccoli micro scostamenti continui. In questo il modello lombardo di neocentralismo regionale è simile al modello studiato da Luc Boltanski ed Ève Chiapello nella riorganizzazione dell’organizzazione della produzione in Francia, o al modello di riforma della sanità in Inghilterra studiato da Patrick Le Galès e Alan Scott 38. Non stiamo parlando di grandi riforme che avvengo attraverso politiche di rottura, come ha fatto la destra neoliberista all’inizio degli anni ’80. Sono piccoli scostamenti rispetto alla situazione precedente, dei continui cambiamenti introdotti per via amministrativa che non cambiano le norme giuridiche, non cambiano le categorie giuridiche più legittime e perciò non suscitano clamore. La critica è sempre in ritardo sui continui cambiamenti amministrativi che si vanno cumulando nel corso del tempo, e nei rari momenti di riflessività che emergono, politici e sindacalisti, nonché leader associativi si rendono conto nell’ampiezza del cambiamento a cui si è giunti chiedendosi attoniti come sia stato possibile. Questo stile di governo si accompagna ad un rapporto fra centro e periferia, tra governo regionale e governo locale dei Comuni democraticamente eletti, che tende a svuotare di capacità amministrative e di capacità politiche di governo ed indirizzo i 38 Boltanski L., Chiapello E., 2002, “Esclusione e sfruttamento: il ruolo della mobilità nella produzione delle disuguaglianze sociali, in Borghi (a cura di), Vulnerabilità, inclusione sociale e lavoro, Franco Angeli, Milano; Le Galès, P., Scott A., « Une révolution bureaucratique britannique ? : autonomie sans contrôle ou "freer markets, more rules" », Revue française de sociologie, n° 2, 2008. Comuni, per spostare sempre più queste competenze verso la Regione, e nella Regione alla Giunta più che al Consiglio. Il modello lombardo è il modello più polarizzato, più estremo, di questo stile di governo, ma anche altre regioni puntano a questa forma. Si regola l'offerta, non si definiscono quali siano le prestazioni sociali a cui le persone hanno diritto, non si statuiscono dei diritti, si svuotano le competenze i Comuni, competenze nel doppio senso della parola, nel senso di spazio istituzionale ma anche di capacità e di cultura amministrativa, e lo si fa attraverso una modalità che riduce sistematicamente gli spazi di conflitto, perché molto tecnica, poco visibile 39. Continui piccoli cambiamenti in cui spesso è il terzo settore più che i partiti politici di sinistra o i sindacati che riesce a nominarli in termini di ingiustizia. Ma le denunce sono sempre in ritardo, sempre in reazione e senza avere margini politici di miglioramento 40. Ecco così spiegato uno dei più marcati cambiamenti di cultura politica dei partiti di sinistra e di centro sinistra 41. Disattenti a quanto succede quotidianamente e in maniera eterogenea e frammentata sul piano della protezione e della promozione sociale, le organizzazioni politiche figlie del movimento operaio non sembrano più concepire la protezione sociale come un elemento di consenso politico. Tommaso Vitale è Ricercatore di Sociologia generale presso il Dipartimento di Sociologia e ricerca sociale dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca, dove insegna Programmazione sociale e Sviluppo Locale e coordina il Gruppo di studio e ricerca sulle politiche locali per i rom e i sinti in Europa all’interno del Laboratorio di Sociologia dell’azione pubblica “Sui generis”. Ha pubblicato In nome di chi? Partecipazione e rappresentanza nelle mobilitazioni locali (FrancoAngeli, 2007), Le convenzioni del lavoro, il lavoro delle convenzioni (FrancoAngeli, 2007; con V. Borghi), Alla prova della violenza. Introduzione alla sociologia pragmatica dello stato (Editori Riuniti, 2008) e I rom e l’azione pubblica (Teti, 2008; con G. Bezzecchi e M. Pagani). 39 Vitale T., 2006, “A cosa serve la sussidiarietà? Un criterio guida contro il «carsismo istituzionale»”, in Animazione Sociale, vol. 36, n. 5, pp. 20-28. 40 Vitale T., 2008, “Conflitti urbani e spazi pubblici: tensioni fra partecipazione e rappresentanza”, R. Segatori (a cura di) Mutamenti della politica nell’Italia contemporanea. Governance, democrazia deliberativa e partecipazione politica, Rubbettino, Soveria Mannelli, pp. 159-73. 41 Sul piano teorico, sul cambiamento delle culture politiche cfr. Tosi S., Vitale T., 2008, « Catholiques et marxistes. Contradictions et changements des cultures politiques dans le mouvement pour la paix italien (1950-1967) », in Terrain. Revue d’ethnologie de l’Europe, numéro à dossier « Réligion et politique », sous la direction de E. Claverie, n. 51.