Beni pubblici per la sicurezza sociale: nuove vulnerabilità - Hal-SHS

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Beni pubblici per la sicurezza sociale: nuove vulnerabilità - Hal-SHS
Beni pubblici per la sicurezza sociale: nuove
vulnerabilità e impasse dell’azione politica
Tommaso Vitale
To cite this version:
Tommaso Vitale. Beni pubblici per la sicurezza sociale: nuove vulnerabilità e impasse
dell’azione politica. Consalvi, Fabrizio. La finanziarizzazione dell’economia e la sua crisi,
Edizioni Alegre, pp.113-131, 2008. <hal-01037986>
HAL Id: hal-01037986
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Submitted on 23 Jul 2014
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Beni pubblici per la sicurezza sociale:
nuove vulnerabilità e empasse dell’azione
politica in epoca tardo-neoliberista.
di Tommaso Vitale
Bozza non corretta
In via di pubblicazione
Citare come :
Vitale, Tommaso (2008), “Beni pubblici per la sicurezza sociale:
nuove vulnerabilità e empasse dell’azione politica in epoca tardoneoliberista”, in Fabrizio Consalvi (a cura di) La finanziarizzazione
dell'economia mondiale e la sua crisi. Roma: Edizioni Alegre.
In questo capitolo tratteggio un ragionamento che parte dalle
più importanti trasformazioni nelle politiche economiche degli stati
nazione, in Italia e non solo, per arrivare al ruolo dei beni collettivi,
dei beni comuni e dei beni pubblici, con riferimento specifico alla
sicurezza sociale, all'assistenza, al supporto alle persone 1. Vorrei,
cioè, provare a discutere il tipo di impatto che ha una serie di
trasformazioni nei processi di finanziarizzazione e nelle politiche
economiche, sui sistemi di welfare, soprattutto di welfare a livello
locale, cercando di guardare questo impatto con uno sguardo
attento e molto vicino ai funzionamenti ordinari delle agenzie di
welfare.
1
Il capitolo è stato scritto a partire da una relazione orale, e per questo ha una forma discorsiva molto
marcata.
1. Gli obiettivi dei sistemi nazionali di protezione sociale
Partiamo dalle premesse un po' scolastiche ma forse anche
dovute, quantomeno da ricordare, e cioè dal perché siano nati i
sistemi di protezione sociale. Essi sono nati, in Europa, in momenti
leggermente diversi, con impostazioni diverse, più o meno sempre
con la formazione dello stato nazione, più esattamente nell’ultima
fase della formazione dello stato nazione. Ovviamente gli stati
nazione si formano in Europa in momenti differenti, hanno
andamenti differenti, però sempre i sistemi di protezione sociale si
formano nella seconda fase di consolidamento degli stati nazione e
nascono con due obiettivi, che ciascun stato nazione combina in
maniera diversa, qualcuno ne sceglie solo uno, qualcuno li combina
in maniera più equilibrata, ma gli obiettivi di fondo restano sempre
due: proteggere dai rischi e ridurre le disuguaglianze. I sistemi di
protezione sociale hanno sempre e comunque un obiettivo esplicito
di riduzione delle disuguaglianze. Alcuni stati, per esempio l'Italia,
si sono dati pochi obiettivi di riduzione delle disuguaglianze. In
generale, i paesi dell'Europa continentale hanno sfumato un po'
questi obiettivi di redistribuzione, molto importanti, invece, nei
paesi anglosassoni, anche negli Stati Uniti, quantomeno fino agli
anni '60 (Prasad, 2006), e sempre importanti nelle socialdemocrazie. Anche nei paesi che meno hanno accentuato questo
aspetto, questo obiettivo era comunque presente. La protezione dai
rischi era un obiettivo riferito ai rischi più prevedibili, i rischi
collegati
all'anzianità,
alla
malattia,
all'invalidità
e,
successivamente alla seconda guerra mondiale, ai rischi collegati
all'ignoranza. I sistemi di welfare sono nati per puntellare, per
proteggere da questi rischi.
2. L’avvento di politiche neoliberiste e la crisi di consenso del
welfare
Se guardiamo a quanto è successo a partire dalla svolta
neoliberista che ha attraversato con tempi e modalità differenti un
po' tutto il mondo a partire dalla seconda metà degli anni '70 e con
il momento topico dei governi Reagan e Thatcher, per non parlare
di ciò che nel '78 è avvenuto ovviamente anche in Cina 2, dobbiamo
considerare tre punti fondamentali per discutere dei sistemi di
protezione sociale.
Il primo punto riguarda i cambiamenti apportati da queste
politiche. A mio parere il principale cambiamento è che il welfare
smette di essere considerato un investimento. Nel quadro
precedente alle politiche neoliberiste, sicuramente all'interno della
fase d'oro delle politiche keynesiane, ma anche successivamente, il
welfare era un investimento finalizzato a sostenere la domanda.
Una delle idee di fondo era di ridurre le disuguaglianze, proteggere
dai rischi per arrivare a demercificare, e garantire più potere di
acquisto in una dinamica espansiva. Il welfare era un investimento
in quanto si riconosceva agli interventi di protezione sociale la
possibilità di moltiplicare le risorse “investite” per proteggere le
persone dai rischi 3.
La seconda cosa che è cambiata è che non solo il welfare non
è più considerato un investimento ma addirittura è considerato una
spesa a perdere, e quindi da contrarre per spostare gli investimenti a
favore di forme di accumulazione diretta, quindi direttamente a
sostegno dell'offerta 4. Quindi riprendono vigore processi di
rimercificazione della protezione sociale e di rifamiliarizzazione di
alcune prestazioni sociali. Pian piano si rimercificano molte
prestazioni, e quelle che non si rimercificano tendenzialmente
vengono di nuovo schiacciate sulla famiglia. Lentamente,
ovverosia in un processo che simbolicamente facciamo iniziare dal
'78, ma che si spalma fino alla fine degli anni '90, quando si può
dire compiuto in quasi tutti i paesi, nonostante le differenze di
regimi di welfare. In Italia ce ne si è accorti meno, perché l'Italia
aveva poco defamiliarizzato le politiche di welfare, e quindi, tutto
sommato, da questo punto di vista il dibattito pubblico si è
concentrato più sul fatto che una serie di servizi (più nel campo
2
Sul rapporto fra Cina e neo-liberismo, si veda Harvey D. (2006, trad. it 2007) Breve storia del
neoliberismo, Milano, il Saggiatore; una discussione approfondita e problematizzata è contenuta in Arrighi
G., (2008), Adam Smith a Pechino, Milano, Feltrinelli.
3
Cfr. Hicks, A. and Esping‐Andersen, G. (2005), “Comparative and Historical Studies of Public Policy and
the welfare State”, in T. Janowski, R. Alfors , A. Hicks , and M. A. Schwartz (eds.), The Handbook of
Political Sociology, Cambridge, Cambridge University Press, pp. 509‐525.
4
Cfr. Boyer R. (2002), “Institutional reforms for growth, employment and social cohesion” in Rodrigues
Maria Joao (Ed.), The New Knowledge Economy in Europe. A Strategy for International Competitiveness
with Social Cohesion, Edward Elgar, Londres, p. 146-202.
dell'assistenza e meno in quello della sanità) si stavano
rimercificando, tornavano ad essere servizi da assolvere tramite un
acquisto diretto del cittadino 5. In altri paesi questo è stato
estremamente evidente, mentre per noi semplicemente non è mai
arrivata una fase di defamiliarizzazione consistente 6.
Terza cosa, ma non per questo meno importante: si è perso
consenso politico sul welfare. Non è che si è perso esattamente nel
'78, il cambiamento è stato graduale, con ritmi diversi e in maniera
abbastanza indifferente rispetto a programmi politici orientati più a
sinistra o più a destra. Progressivamente si è perso il consenso, e
quando parlo di consenso mi riferisco a quello elettorale, diffuso
nell'insieme della popolazione 7.
Riassumendo, la questione cruciale è che il welfare non viene
più considerato un investimento. In qualche maniera ciò ha
comportato delle retoriche politiche e morali molto attente a
rimercificare e a rifamiliarizzare. Secondo David Harley, un
cambiamento neoliberista sul piano della politica economica si è
sempre accompagnato con un cambiamento di morale in direzione
di un maggiore patriarcato e con una moralizzazione molto forte
del ruolo tradizionale della famiglia. Questo ha delle conseguenze
precise anche sul piano politico. Se consideriamo l’analisi
comparativa di Monica Prasad sulle condizioni politiche del
neoliberismo, la riduzione di spesa sociale ha goduto di sempre
maggiore consenso 8.
3. Il nuovo spirito del capitalismo
Il cambiamento di indirizzo complessivo nelle politiche di
welfare, in direzione neo-liberista è avvenuto in un contesto
segnato da altri importanti cambiamenti. Sono cambiate
innanzitutto l'organizzazione della produzione e l'organizzazione
del lavoro.
5
Ferrera, M. (2005) (Ed.), welfare State Reform in Southern Europe. Fighting Poverty and Social exclusion
in Italy, Spain, Portugal and Greece. London: Routledge / EUI Studies in the Political Economy of welfare.
6
Saraceno, C. (ed.) (2002), Social Assistance Dynamics in Europe. National and Local Poverty Regimes.
Bristol: The Policy Press.
7
Blekesaune, M. e Quadagno, J. (2003), ‘Public Attitudes toward welfare State Policies: a comparative
analysis of 24 nations’, European Sociological Review, 19 (5), 415−427.
8
Prasad, M. (2006), The Politics of Free Markets, The University of Chicago Press, Chicago.
La grande fabbrica, con la sua indifferenza per i territori in
cui era localizzata e le sue economie interne di scala, ha perso di
centralità. In Italia la competizione sul prezzo affrontata
aumentando la quantità di produzione per ridurre i costi è stata
progressivamente superata. E’ emersa e si è diffusa l’impresa a
rete, ancorata al proprio territorio, interessata a mettere in valore gli
aspetti di prossimità, specializzazione e concentrazione produttiva,
appoggiandosi su beni collettivi per la competitività, cooperando su
reti lunghe anche transnazionali. Ma anche pronta a disancorarsi da
un momento all’altro. La competizione avviene sempre più sulla
qualità e l’innovazione. I fattori dimensionali perdono di
importanza e aumenta la centralità dei fattori relazionali: il
problema non è l’impresa piccola, ma l’impresa sola.
Nel corso degli ultimi 6/7 anni è giunto a maturazione anche
il cambiamento dell’organizzazione del lavoro. Se da un lato
l’innovazione tecnologica e nuove tecniche di management hanno
riconosciuto alcuni margini di autonomia e creatività al lavoro
salariato, mettendoli in valore nel processo produttivo, dall’altro
lato proprio l’innovazione tecnologica e le nuove tecniche di
management hanno accresciuto le forme di controllo sui lavoratori.
A partire dagli anni ’90, poi, gli orari di lavoro si sono intensificati
notevolmente in tutti i settori, prima nel settore dei servizi, e poi
anche nell’industria. Si sono anche intensificate le prove di
performatività all’interno della carriera lavorativa, ovverosia i
momenti in cui il lavoratore e valutato e la sua performance
misurata, che in alcuni settori produttivi sono effettuate anche ogni
tre mesi. Inoltre, in alcuni settori del mercato del lavoro, ad
esempio in edilizia, sono riemerse le forme peggiori di caporalato,
ed è andato aumentando nuovamente il lavoro nero. Il lavoro
domestico, collaboratrici e badanti, rimane un settore di grande
discrezionalità, in cui solidarietà private si confondono spesso con
abissi di sfruttamento. E’ in questo quadro complessivo che si
inseriscono i temi della precarietà, dell’accesso difficile per i più
giovani a un contratto non “atipico”. E’ in questo quadro che si
inserisce anche il tema della individualizzazione dei contratti di
lavoro, della tendenza all’individualizzazione del rapporto fra
lavoratore e datore di lavoro, del ruolo delle RSU e dell’azione
collettiva. Non ultimo, è in questo quadro di nuova organizzazione
del lavoro che si inscrive la questione preoccupante dei lavoratori
poveri, di quei lavoratori che pur avendo un carico anche superiore
alle 40 ore alla settimana non riescono a superare la soglia della
povertà, spesso perché sono l’unica fonte di reddito del proprio
nucleo familiare, perché sono in affitto, o perché hanno un
familiare non autosufficiente 9. E’ un fenomeno ben noto in altri
paesi, soprattutto del mondo anglosassone, ma che in Italia inizia a
emergere con nuove caratteristiche solo a partire dal 2002 10.
Questi cambiamenti sono avvenuti parallelamente e in
connessione a quello che i sociologi chiamano un cambiamento
nello spirito del capitalismo, cioè nei fattori motivazionali che
spingono le persone a dedicare tutta la loro vita ad un lavoro
sfrenato a favore dei processi di accumulazione 11.
Il capitalismo ha bisogno di persone pienamente impegnate
nelle attività di accumulazione e investimento.N on è un regime
che possa basarsi sulla coercizione. Tuttavia, perché delle persone
dovrebbero implicarsi e giocare tutte le proprie risorse di creatività,
relazionalità, intelligenza, tempo e quant’altro nel capitalismo? In
fondo il capitalismo è irrazionale, è un sistema assurdo, ci dicono i
due autori. I lavoratori dipendenti non possiedono la proprietà dei
risultati del proprio lavoro né una realistica possibilità di
intraprendere una vita attiva al di fuori della subordinazione.
Quanto ai capitalisti, essi si trovano incatenati in un processo
infinito e insaziabile. Per tutti, impegnarsi nel processo capitalista
appare privo di giustificazioni. È per questo che il capitalismo ha
bisogno di qualcosa di esterno a sé, cioè non inerente alla
definizione minimale di capitalismo che abbiamo richiamato
sopranzi, che renda giustificabile impegnarsi nel capitalismo.
Questo «qualcosa» è quello che Max Weber chiamava lo «spirito
del capitalismo». Una forma di ideologia, secondo Boltanski e
Chiapello, che ne precisano il significato sociologico: ideologia è
da intendersi come una forma di giustificazione, autonoma
dall’organizzazione della produzione, che fornisce delle ragioni per
cui è giusto e desiderabile impegnarsi nel capitalismo, e che nel
farlo fornisce dei vincoli reali e performativi al capitalismo stesso.
Lo spirito del capitalismo, incorporato in dispositivi giuridici e
organizzativi, è ciò che permette il coinvolgimento delle persone e,
al tempo stesso, ciò che frena e costringe il capitalismo, dandogli
dei limiti.
9
Cfr. Migliavacca M., Famiglie al lavoro, Bruno Mondadori, Milano.
Cfr. Bonoli, G. (2006), New Social Risks and the Politics of Post‐Industrial Social Policies, in K.
Armingeon and G. Botoli (eds), The Politics of Post ‐ Industrial Welfare States: Adapting Post ‐ War Social
Policies to New social Risks. London and New York: Routledge, pp. 3‐26.
11
Boltanski L., Chiapello È (1999; trad. it 2008), Il nuovo spirito del capitalismo, Milano, Feltrinelli.
10
Nel nuovo spirito del capitalismo, il criterio per valutare
persone e processi diviene quello dell’attività, o, più precisamente,
l’attività finalizzata a generare progetti, esplorando le reti per
rompere il proprio isolamento e poter stabilire nuovi legami che
portino, a loro volta, a nuovi progetti. Diviene cruciale essere
occupabili, cioè adattabili e flessibili, veloci ad adeguarsi alle
nuove situazioni, polivalenti, abili nel cambiare i propri strumenti,
attivi e autonomi, capaci di assumersi rischi per stabilire contatti
sempre nuovi, scaltri nel reperire le informazioni più adatte a
evitare legami ridondanti. In questo quadro, il momento in cui
l’attività di una persona viene messa alla prova, e valutata, è il
passaggio da un progetto all’altro. È qui che si rivelano le qualità
della persona: la sua occupabilità e le sue capacità di
coinvolgimento. Lo spirito del capitalismo si caratterizza, perciò,
nel suo lato eccitante, per la riduzione delle gerarchie e per una
leadership meno autoritaria, per un cambiamento continuo
nell’azienda e nei percorsi di lavoro, nonché per una valorizzazione
dell’innovazione e della creatività; la tensione verso la giustizia è
garantita da nuove forme di meritocrazia che valorizzano la
mobilità e la capacità di moltiplicare le relazioni e gestire una rete;
il senso di sicurezza viene assicurato, ma solo in parte, dalla
capacità di essere imprenditori di sé stessi, laddove si è disponibile
a muoversi, adattarsi e rinunciare a tutti i legami che tengono
radicati. Complessivamente, nel nuovo spirito del capitalismo, il
registro di sicurezza è molto più debole (meno convincente)
rispetto alle fasi precedenti 12.
Non mi soffermo oltre; mi interessa, invece, mettere in luce
una terza dinamica di cambiamento: il cambiamento demografico.
4. La nuova rivoluzione demografica
Il cambiamento demografico è una vera e propria rivoluzione
che avviene in concomitanza, anche se in maniera parzialmente
indipendente, all'ingresso di politiche massicce neoliberiste. Esso è
legato semmai all’incremento delle capacità tecnologiche. E' una
rivoluzione: quella che i demografi chiamano la rivoluzione della
longevità e che non possiamo considerare soltanto in termini di
tensione sui sistemi pensionistici, dato che è una rivoluzione che
12
Vitale T. (2007), “Leggeri, flessibili e poco autoritari. I manager ed i quadri d’azienda nell’epoca della
valutazione continua”, in Itinerari d’impresa, n. 11, pp. 219-229.
impatta tutto il welfare, tutta la protezione sociale. In Lombardia,
per esempio, gli ultrasessantacinquenni passano in trent’anni (dal
1971 al 2001) dal 10% al 20% della popolazione residente
(immigrati compresi); ciò vuol dire che il numero di anziani per
bambino passa da 1,1 a 3,4 in trent’anni.
La rivoluzione demografica non è una piccola cosa.
Innanzitutto bisogna evitare di considerare negativamente
l'estensione della longevità delle persone, quasi fosse solo un fatto
di cui essere preoccupati per ragioni di compatibilità economico
finanziaria. Questo non vuol dire però sottostimare questo
cambiamento. E’ una trasformazione di struttura totale, con anche
degli importanti conseguenze culturali: la non autosufficienza, ad
esempio, così come la stiamo conoscendo in questa fase è un
fenomeno ampiamente nuovo. Certo può esserci stato qualcuno che
un tempo si ammalava e risultava malato a lungo, ma era un
fenomeno molto limitato: chi si ammalava tendenzialmente moriva
e le persone con disabilità avevano un tempo di vita molto ristretto,
per esempio le persone down avevano un tempo di vita compreso
fra i 25 ed i a, 30 anni, mentre oggi abbiamo persone la cui
autonomia possibile deve essere sostenuta per tempi più lunghi.
Sempre per restare al caso della Lombardia, su circa 9 milioni e
mezzo di abitanti, secondo l’IRER abbiamo 420.000 persone non
autosufficienti, di cui solo una minoranza sono coperti da qualche
forma di protezione pubblica mentre gli altri lo sono
esclusivamente attraverso politiche che rifamiliarizzano i carichi di
cura. Teniamo presente che almeno 300000 di questi 420000 sono
fortemente non autosufficienti e che l'autonomia possibile per
queste persone è da sostenere nel medio-lungo periodo 13. La non
autosufficienza riguarda persone con disabilità, quali che siano le
13
Il ritardo è immenso, se si pensa che la Regione Lombardia prevede interventi di assistenza domiciliare
integrata solo per circa 23.600 persone. Non è solo un problema quantitativo: vi è una fortissima spesa per
interventi a ciclo residenziale e semi residenziale per anziani, disabili e minori: le strutture residenziali e
semiresidenziali, rispettivamente 954 e 496, sono private per il 78% e per il 53%. Le strutture sociosanitarie
destinate agli anziani (rsa, idr, hospice, cdi) sono 722 (nel 2004) con un aumento dei posti letto dal 1995 al
2004 pari al 38%. Nelle sole rsa vi sono 52.446 posti letto, con un incremento del 21% negli ultimi cinque
anni. A fianco di questo sono disponibili 5298 posti in cdd (centri diurni per disabili), 2427 posti in residenze
sanitarie per disabili e 982 in comunità sociosanitarie per disabili. In altri termini vi sono pochissimi
interventi domiciliari e molti posti in strutture residenziali; cfr. Vitale T. (2008) “I servizi sociali e sociosanitari in Lombardia, fra centralismo regionale e poc’altro”, in Contest. Territori-Reti-Movimenti, n. 4, pp.
7-10.
ragioni, psichiche, fisiche, accidentali, incidenti sul lavoro,
malformazioni, e gli anziani, di cui, tendenzialmente e sempre di
più, una quota molto significativa passa periodi lunghi di non
autosufficienza, e questa quota andrà sempre più ad aumentare 14. Il
fenomeno taglia trasversalmente tutte le classi sociali, anche se
riguarda un po' più le fasce alte della popolazione, ma sicuramente
arriva a comprendere anche il ceto medio e le classi operaie, e più
in generale le classi di lavoratori dei servizi a basso reddito. Chi è
investito un poco meno da questo fenomeno (meno, ma non ne è
eclusa) è soltanto la fascia di estrema povertà rappresentata
dall’under-class migrante, ma tutti gli altri sono toccati da questa
trasformazione.
Ci sono anche altri aspetti della rivoluzione demografica in
corso, oltre al tema della non autosufficienza. Vi faccio solo
brevemente cenno. Innanzitutto è ormai praticamente impossibile
mantenere la struttura dei rapporti tra classi di età che abbiamo
conosciuto nella seconda metà del XX secolo. Un altro aspetto del
cambiamento demografico è dato dall'immigrazione e dalla
presenza tra di noi di persone immigrate su cui non mi soffermo
perché è un fenomeno assolutamente ben noto, anche per i risvolti
demagogici di etnicizzazione dei conflitti. Ma la questione
dell’immigrazione è rilevante anche perché i registra una specificità
italiana nel forte tasso di donne immigrate impegnate nel lavoro di
cura. Come sostiene Enzo Mingione, questo tipo di immigrazione
“comporta una trasformazione del sistema di welfare familistico
dove una quota di servizi restano in ambito domestico ma sono
appannaggio di donne immigrate. Si realizza una sorte di
defamiliarizzazione all’interno degli ambiti domestici” 15.
5. Nuove vulnerabilità, quali protezioni?
I tre cambiamenti di cui abbiamo parlato nei precedenti
paragrafi, il cambiamento negli schemi di politica sociale nella
direzione del neoliberismo, il cambiamento nell’organizzazione del
lavoro e della produzione, e il cambiamento demografico,
nell’insieme hanno un impatto molto forte sui rischi che devono
14
Micheli G. (2007), “Anziani fragili: quale soglia di screening?”, in Prospettive sociali e sanitarie, 37 (14):
6-10.
15
Mingione, E., 2008, Family, Welfare and Districts: The Local Impact of New Migrants in Italy, EURS
Workshop, London School of Economics. Vedi anche Mingione E., Borlini B., Vitale T., in via di
pubblicazione, “Immigrati a Milano: bassa segregazione e alte tensioni”, in Urbanisme.
fronteggiare le persone. Le persone non devono più fronteggiare
semplicemente i rischi per cui sono nati i sistemi di protezione
sociale, legati all'anzianità, all'ignoranza e alla malattia, ma devono
fronteggiare anche dei “nuovi rischi”. Il termine nuovi rischi è stato
introdotto a partire dalla seconda metà degli anni '80 e
progressivamente molti hanno fatto a gara a tematizzare e a stimare
quali fossero questi nuovi rischi da fronteggiare 16. Ovviamente ci
sono nuovi rischi legati all'organizzazione del lavoro; nel momento
in cui il lavoro diventa più precario, ci sono rischi importanti legati
alla disoccupazione momentanea o alla disoccupazione in età
adulta 17. Ci sono nuovi rischi legati al cambiamento demografico,
per il quale i sistemi di protezione sociale non sono attrezzati. In
Italia, ad esempio, abbiamo un welfare propriamente
universalistico soltanto per ciò che attiene alle prestazioni sanitarie.
La sanità italiana è uno degli interventi di welfare fra i più
universalistici del mondo, che copre tutta la popolazione, su alcuni
aspetti anche chi non è cittadino. Ma è un sistema sanitario pensato
soltanto per eventi “apicali” per riprendere un termine molto usato
in epidemiologia, cioè per i momenti in cui “ti spacchi, ti rompi, ti
fai male, eccetera”, poi “o ti riparo o muori”. Non è un sistema di
protezione pensato per 15 anni di non autosufficienza, cioè di un
misto di autonomia e dipendenza. Ma ce ne sono altri di rischi;
diciamo che questo insieme di trasformazioni nei criteri guida delle
politiche pubbliche, nell’organizzazione della produzione e del
lavoro, nella struttura della popolazione, aprono a nuovi rischi che
già dall'inizio degli anni '80 cominciano ad essere visibili (ma poco
discussi) nella maggior parte dei Paesi europei 18. Se vengono
discussi, lo sono solo nel quadro di una riflessione sulla riduzione
delle pensioni, come chiave per una nuova redistribuzione
intergenerazionale. Complessivamente, il tema dei nuovi rischi per
anni non sarà affrontato dalla politica 19.
16
Per una ricostruzione del dibattito, si veda Taylor Gooby, P. (ed.) (2004), New Risks, New Welfare: The
Transformation of the European Welfare State. Oxford: Oxford University Press.
17
Ferrera, M. and Hemerijck, A. (2003), Recalibrating Europe’s Welfare Regimes, in J. Zeitlin and D.
Trubek (eds.), Governing Work and Welfare in a New Economy: European and American Experiments.
Oxford: Oxford University Press, pp. 88‐128.
18
Pfaller, A., Gough, I. and Therborn, G. (1991), Can the Welfare State Compete? A Comparative Study of
Five Advanced Capitalist Countries, London: Macmillan.
19
Si vedano a questo proposito le considerazioni di Barbieri e MIngione ad introduzione della traduzione
italiana del rapporto Supiot: Barbieri, P., Mingione E., 2003, “Introduzione” in Supiot A., Il futuro del
Certo alcuni paesi li fronteggiano un po' di più, altri li trattano
semplicemente come dimensioni simboliche da inserire ogni tanto
nello scontro e nell'agone politico, ma tendenzialmente vengono
poco affrontati 20. E’ in questo quadro che i sociologi iniziano a
parlare, affianco al termine di disuguaglianza, che rimane il termine
strutturante del dibattito sociologico, anche di vulnerabilità 21.
Termine che non si sostituisce al concetto di disuguaglianza ma che
vuole cogliere alcuni aspetti non rappresentabili ragionando solo in
termini di diseguaglianze né solo in termini di rischi e nuovi
rischi 22. Come ricorda Costanzo Ranci, “il passaggio dal rischio
alla vulnerabilità coincide con un cambiamento non solo dei profili
di rischio, ma della natura stessa dei rischi. Da eventi rari essi si
sono trasformati in esperienze diffuse, quasi ineludibili. Da
situazioni temporalmente circoscritte sono diventati stati indefiniti,
dall’incerta origine e segnati dalla cronicità. Da situazioni
relativamente stabili si sono trasformate in situazioni caratterizzate
dalla precarietà e dall’indefinitezza” 23.
La vulnerabilità non è una situazione di povertà, è una
condizione di persone maggiormente sottoposte ad alcuni rischi, in
contesti in cui si registra un “indebolimento della capacità
dell’attività economica di fungere da meccanismo principale di
integrazione sociale”, una “perdita graduale di densità delle reti
familiari e di sociabilità primaria” ed in cui il “welfare è rimasto
infatti intrappolato dentro un modello che non è più in sintonia con
il profilo dei rischi sociali” 24. I nuclei familiari che hanno un solo
reddito non è detto che siano i più poveri, ma hanno un rischio di
cadere in povertà estremamente superiore, perché la
precarizzazione del lavoro fa si che se quella persona perde il
reddito quella famiglia non ha forme di protezione; oppure i nuclei
familiari che hanno più di due figli sono estremamente vulnerabili,
lavoro, Carocci, Roma.
20
Cfr. Pierson, P. (2001), “Post‐industrial Pressures on the Mature Welfare States”, in P. Pierson (ed.), The
New Politics of the Welfare State. Oxford: Oxford University Press, pp. 80
‐104.
21
Cfr. Ranci, C., 2002, Le nuove disuguaglianze sociali in Italia, Il Mulino, Bologna.
22
Migliavacca M. (2005), “Lavoro atipico tra famiglia e vulnerabilità sociale. Alcune riflessioni per
esplorare nuovi approcci empirici”, in Atipici?, n. 95 di Sociologia del lavoro, a cura di Roberto Rizza e
Sonia Bertolini, FrancoAngeli, Milano.
23
Ranci Costanzo, 2002b, Fenomenologia della vulnerabilità sociale, Rassegna Italiana di Sociologia n.4, Il
Mulino, Bologna, p. 537..
24
Ranci Costanzo, 2002b, Fenomenologia…, op. cit.
non perché siano immediatamente più poveri ma perché basta un
accidente, per fare cadere in povertà il nucleo familiare;
ovviamente tutte le madri sole, anche se hanno un reddito superiore
a quello di una coppia con due redditi, sono molto più vulnerabili
perché rischiano di più, ecc.
Il problema della vulnerabilità, secondo molti sociologi, è
anche uno dei fattori principali di paura delle persone 25. Pone gli
individui nella necessità di dover gestire continuativamente
l’incertezza. Non è una condizione già di povertà, non una
condizione immediatamente diseguale, ma attiene al fatto che le
persone non riescono a darsi un progetto di vita proiettato su
orizzonti di lungo periodo. Uso questo termine perché è il termine
tipico dei processi di demercificazione del'800, come dire che la
costruzione culturale che ha accompagnato la nascita di sistemi di
produzione sociale differenti nei diversi paesi conteneva sempre
l'idea occorresse che le persone si dotassero di un proprio progetto
di vita, ovverosia potessero impegnarsi oggi nel sistema produttivo
perché sicuri per il proprio domani 26. L'emergere della vulnerabilità
ha ridotto l'orizzonte temporale degli individui, e ha creato paura
perché le condizioni sociali diventano facilmente instabili, ed è
difficile fronteggiare l’incertezza.
E’ in questo quadro che si capisce la grande enfasi messa nel
dibattito sul tema della solitudine, sulla difficoltà relazionale.
Sottostante vi è l'idea che condizioni di contrasto ai rischi sono date
soprattutto dai legami, innanzitutto dal legame di coppia, e dal
legame di solidarietà verticale: pensiamo ai genitori che coprono i
figli nel momento in cui questi sono in una situazione di
disoccupazione, o ai genitori che pagano l'intervento dentistico al
figlio, un figlio che già lavora un po' e quindi riesce ad aiutarli a
pagare le spese per il nonno. In questo quadro la solitudine, la
mancanza di legami, diventa un problema. Mi sto riferendo a
legami di coppia pensando ad una tipologia articolata di coppie:
omosessuale, eterosessuale, di amicizia profonda. Il punto è che
sottolineare la rilevanza assunta dal nucleo di convivenza che
stipula un patto di solidarietà. Il riferimento all’amicizia con base
di un legame di coppia non è peregrino, non è un fenomeno
residuale; crescono gli anziani che fanno dei patti di solidarietà
forti che non sono finalizzati al piacere sessuale o a un progetto
25
Si veda, fra gli altri, Castel R., 2004, L’insicurezza sociale. Cosa significa essere protetti?, Einaudi,
Torino.
26
Castel R., Haroche C. (2001), Propriété privée, propriété sociale, propriété de soi, Fayard, Paris.
genitoriale, ma che si danno una solidarietà vincolante. Fanno così
anche molte coppie omosessuali ed eterosessuali, che non hanno
più una vita di sentimentale e che tendono a cambiare
frequentemente partner, ma che mantengono un legame di
solidarietà al fine di fronteggiare rischi molto forti. A tal fine le
solidarietà orizzontali e verticali sono molto importanti
6. Integrazione e territorializzazione del welfare
In questa situazione cosa succede? Quale è la risposta
politica? Come rispondono quelli che noi chiamiamo i capitalismi
di welfare, il welfare capitalism, nelle loro differenze?
Pochi paesi riescono a fare politiche nazionali che
aggrediscano le nuove vulnerabilità, e tendenzialmente tutti i paesi
europei hanno giocato a “ping pong” con l'Europa, con una
strategia politica classica: “noi non abbiamo le condizioni di
consenso per fare delle riforme strutturali di ripresa della
redistribuzione, per pensare ai nuovi sistemi di protezione a livello
di stato nazione chiediamo a te Europa di imporceli”. In termini di
consenso, soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni ’90 si
è pensato fosse più semplice costruire un vincolo, un’imposizione a
livello europeo che a livello nazionale 27. Qualcosa però non
funziona, e quando l'Europa a metà degli anni '90 prova a giocare a
rispondere al “ping pong” dicendo che va ripensata la spesa sociale
e anno rielaborate le politiche di investimento, il gioco non
funziona, nel senso che questa indicazione che viene dall'Europa
viene filtrata e negata dalla maggioranza degli Stati nazione.
Nascono così alcune scelte di metodo, per tentare di rinegoziare
incrementalmente obiettivi e strumenti di politica sociale, tra cui il
metodo aperto di coordinamento, ma sostanzialmente nessuno Stato
riprende delle politiche di sostegno della domanda a partire da una
messa in valore del welfare come forma di investimento 28.
27
Cfr. Graziano, P. and Vinck, C. (eds.) (2006), Europeanization: New Research Agendas,
Basingstoke, Palgrave; Ferrera, M., Hemerick, A. and Rhodes, M. (2000) “Recasting European welfare
states for the 21st century”, European Review, vol. 8, n. 3, pp. 427‐446.
28
Dehousse R., [2004, trad. it 2008], “Il metodo aperto di coordinamento: quando lo strumento prende il
posto della politica”, in Lascoumes, Le Galès (a cura di), Governare attraverso strumenti, Bruno Mondadori,
Milano; Zeitlin, J. (2005) ‘Conclusion: The Open Method of Coordination in Action. Theoretical Promise,
Empirical Realities, Reform Strategy’, in J. Zeitlin, P. Pochet e L. Magnusson (a cura di) The Open Method
Fra il '99 e il 2000 sono state introdotte alcune linee di
welfare provenienti dal livello europeo nelle legislazioni sociali in
molti dei paesi dell’Unione; in Italia è avvenuto alla fine del 2000
con la riforma dei servizi sociali, la legge 328, anche detta legge
Turco. E’ una lege che fa perno su sue principi cardine, intelligenti
ma parziali. I principi cardine posti dall'Europa e su cui si è
strutturato anche il welfare italiano, sono principi di
territorializzazione e principi di integrazione 29. Una delle
interpretazioni possibili di questa legge è che poiché non si voleva
aumentare in maniera consistente la spesa sociale, in particolare
nella sua quota in servizi, si è cercato di vincolare gli enti locali a
spendere al meglio le risorse messe a disposizione, e quindi
territorializzare, in maniera tale da arrivare più vicini alle esigenze
specifiche di ciascun territorio, cercando di integrare le risorse
presenti, lavorando con quello che c'è e, se possibile, cercando di
riconoscere e dare valore a dei potenziali, anche economici, locali.
Questa strategia, che contiene molti elementi di saggezza, ha
portato ad alcuni paradossi nel momento in cui non è stata
accompagnata da un rifinanziamento consistente delle politiche
sociali. Da un lato è stato sicuramente opportuno territorializzare i
sistemi di protezione sociale e incentivare i comuni ad aggregarsi e
programmare insieme la spesa e i servizi sociali e sociosanitari. Il
welfare italiano è troppo frammentato e compartimentato, con una
spaccatura forte fra il sistema sanitario e il sistema sociale, fra le
ASL e i Comuni, ma anche fra le politiche sociali e le politiche del
lavoro, fra le politiche sociali e le politiche del tempo libero. Era
sicuramente giusto pensare di utilizzare anche dei potenziali locali,
in termini di risorse di mutualità, di risorse volontarie, anche di
patrimoni delle fondazioni bancarie i cui patrimoni accumulati nel
tempo sono un bene a disposizione dei territori. Le prime analisi
non hanno mostrato tuttavia esiti consistenti di integrazione,
seppure vi sono state alcune innovazioni locali 30.
of Co-ordination in Action: The European Employment and Social Inclusion Strategies, pp. 447-504.
Brussels: PIE Peter Lang.
29
de Leonardis, O. (2003), Le nuove politiche sociali. In L. Bifulco (ed.), Il genius loci del welfare. Strutture
e processi della qualità sociale, Roma: Officina Edizioni, pp. 15-28.
30
Mirabile M. L. (a cura di) (2005), Italie sociali. Il welfare locale fra Europa, riforme e federalismo,
Donzelli, Roma; vedi anche Bifulco L., Centemeri L., 2007, “La partecipazione nei Piani sociali di zona:
geometrie variabili di governance locale”, in Stato e mercato, n. 2, pp. 221-44.
7. Ri-familiarizzazione e ri-mercificazione, ma anche defamiliarizzazione domestica
Vediamo rapidamente alcuni di questi esiti perversi.
Innanzitutto nella congiunzione tra criteri economici e criteri
morali del neoliberismo, di cui abbiamo parlato sopra, si è
legittimata l'idea di un individuo attivo e protagonista del proprio
benessere. Questa idea, da un lato era una vecchia rivendicazione
sopratutto dei movimenti degli anni '60, fortemente contrari ad una
statalizzazione che standardizzava, e nella fase “gloriosa” del ciclo
di protesta degli anni ’60-’70 si accompagnava ad una
rivendicazione di autonomia, autenticità e personalizzazione. Oggi,
il tema si declina in termini di responsabilità individuale.
L'individuo è responsabile della sua salute e del suo benessere.
Questo spesso viene inteso in termini perversi, come se l’individuo
dovesse farsi carico lui di integrare ciò che è istituzionalmente
tenuto seperato 31.
Un secondo aspetto negativo è che il principio di
territorializzazione come principio di messa a regime di sistemi di
welfare locale, in assenza di livelli essenziali di prestazioni sociali
e sociosanitarie comuni per tutto il territorio nazionale, è diventato
il cardine attraverso cui si è consolidata una forte frammentazione
dei diritti sociali, anche all’interno di ciascuna Regione, a cui la
riforma del titolo V della Costituzione, nel 2001, ha conferito poteri
pressoché esclusivi in materia di politiche sociali
Un terzo problema è la ri-familiarizzazione del welfare:
famiglie fanno tutto nel welfare italiano, molto più che in qualsiasi
altro sistema di welfare. Occorre per altro precisare quando si parla
di famiglia si sta usando un termine che nasconde le forti
diseguaglianze di genere interne alle convivenze ed un carico di
cura addossato quasi esclusivamente alle donne 32. Il problema della
rifamiliarizzazione (uso questo suffisso ri- perché c'è sempre stato
familismo nelle politiche di welfare), è che oggi il soggetto fragile
31
Cfr. Borghi V., Van Berkel R. (2007), “Individualised service provision in an era of activation and new
governance”, in International Journal of Sociology and Social Policy, 27 (9/10).
32
Cfr. Trifiletti R., “Southern European welfare regimes and the worsening position of women”, in Journal
of European Social Policy, vol. 9 (1), 1999, pp. 49-64; Trifiletti R., “Il concetto di conciliazione e le pratiche
quotidiane: un’analisi comparata in cinque paesi europei”, 2006, in Simonazzi A. (a cura di), Questioni di
genere, questioni di politica. Trasformazioni economiche e sociali in una prospettiva di genre, Carocci,
Roma, 2006.
o che subisce delle mancanze non riesce ad accedere alle
prestazioni pubbliche se non ha una famiglia; non si tratta solo del
fatto che la famiglia deve provvedere a fare “questo, questo e
quest'altro”. L’aspetto da sottolineare è per accedere alle
prestazioni di cura e supporto che sono fornite dal terzo settore su
mandato pubblico bisogna avere una famiglia. Siamo dentro
un'articolazione neoliberista: l'individuo deve poter scegliere, ma
per poter esercitare la capacità di scelta dell’individuo fragile ci
deve essere qualcuno che sceglie per lui. Adesso siamo nel
paradosso per cui se parliamo di benessere per persone che hanno
problemi psichiatrici, per persone non autosufficienti, per persone
che sono semplicemente troppo giovani per poter scegliere, per
persone che hanno bassi livelli di istruzione, per persone in crisi,
queste persone si devono appoggiare alle famiglie anche solo per
poter accedere a delle prestazioni, più difficili da integrare e da
trovare.
Un quarto problema è che l’attribuzione di responsabilità, si
traduce spesso in un’imputazione di colpe; è molto evidente se
pensiamo alle politiche attive del lavoro, che da politiche di
sostegno alle capacità al reimpiego, diventano politiche di
workfare, anche in Italia, soprattutto in Lombardia, politiche di
imputazione di colpa laddove l'individuo non è in grado, non è
capace di reimpiegarsi, per esempio togliendo il sussidio piuttosto
che dando sanzioni rispetto alle sue funzioni genitoriali, sottraendo
il figlio o cose di questo tipo 33. Se negli USA questa dinamica è
visibile per l’insieme della popolazione, in Italia inizia ad essere
visibile per le fasce marginali, per esempio per i cittadini italiani
considerati di etnia rom 34.
L'esercizio della libertà diventa un obiettivo dello stato
sociale, e questo come dire comporta i paradossi qui richiamati.
L’aspetto fondamentale è che il mix di protezione e promozione,
l'avere delle dotazioni e contemporaneamente il non creare
dipendenza, si sbilancia drasticamente sul lato della promozione
che non rimane più coerente con le sue finalità di capacitazione,
sostegno, promozione, autonomia, individualizzazione, ma diventa
un'imputazione di colpe, di responsabilità, perché gli elementi di
protezione non sono sufficienti a garantire l’individuo. Il mix tra
33
Peck J., Theodore N., 2001, “Exporting Workfare/Importing Welfare-to-work: Exploring the Politics of
Third Way Policy Transfer”, in Political Geography, 20: 427–460.
34
Vitale, T. (2008b), “Etnografia degli sgomberi di un insediamento rom a Milano. L’ipotesi di una politica
locale eugenetica”, in Mondi migranti. Rivista di studi e ricerche sulle migrazioni internazionali, n. 4.
dotazione di beni pubblici per la protezione e la sicurezza
dell’individuo e il coinvolgimento e l’impegno che gli viene
richiesto è molto sbilanciato sul lato del coinvolgimento
dell'individuo 35. Questo non vuol dire che le dotazioni, cioè i beni e
i servizi pubblici, siano stati smantellati, ma che sono molto
selettivi, di difficile accesso, che richiedono una compartecipazione
al costo, per cui se sei povero ce la fai solo se hai un po' di risorse e
se sei capace di combinarle con le risorse pubbliche che ti arrivano,
se sei molto ricco tendenzialmente ricorri esclusivamente al
mercato privato e non hai problemi. In altri termini, è un sistema di
welfare che aumenta le disuguaglianze e ridistribuiscono i benefici
su un ceto medio che ha un po' di risorse economiche e molte
risorse cognitive e relazionali, molte competenze nel combinare
risorse e servizi di diversa natura. Il rischio attuale è che i sistemi di
welfare locale al tempo stesso ri-familizzino e ri-mercifichino.
E’ in questo quadro che si capisce perché oggi per parlare di
sistemi di protezione sociale in Italia non possiamo non riconoscere
il ruolo cruciale svolto dal lavoro immigrato delle “badanti”. Un
sistema di protezione sociale completamente privato, mercificato e
tendenzialmente in nero, che si inserisce dentro il quadro di
trasformazione delle organizzazioni del lavoro, di politiche
neoliberiste, di cambiamenti demografici, in cui la soluzione non è
passata per la costruzione intenzionale di una politica nazionale per
la non autosufficienza, ma mettendo in atto arrangiamenti
territoriali e piccole e deboli sperimentazioni locali che in fondo
hanno fatto sì che per provvedere alle esigenze di cura oggi l'Italia
sia il paese che ha la concentrazione di badanti, di lavoratori e
lavoratrici per l'assistenza alle persone non autosufficienti per
numero di anziani, più alto in Europa. Oggi in Italia ci sono infatti
oltre 700.000 badanti e collaboratrici domestiche immigrate, di cui
si stima il 40/45% sia senza permesso di soggiorno, una
percentuale doppia rispetto ad altri settori professionali 36. E’ una
situazione in cui la de-familiarizzazione dei carichi di cura avviene
comunque in ambiente domestico, e sempre con il contributo
prevalente di donne (immigrate) 37.
8. Governare attraverso micro-scostamenti
35
Vitale T., 2005, “Contrattualizzazione sociale”, in La Rivista delle Politiche Sociali, n. 1/05, pp. 291-323.
Pasquinelli
S.,
“Badante
e
clandestina”,
in
la
voce.info,
http://www.lavoce.info/binary/la_voce/articoli/cache_pdf/BADANTE-E-CLANDESTINA.pdf
37
Cfr. Mingione, E., 2008, op. cit.
36
Non ultimo, le regioni assumono più potere e tendono sempre
più a governare per decreto. Governo per decreto in termini tecnici
vuol dire che non si governa attraverso un processo legislativo, cioè
aperto al conflitto, discutibile, in cui nell'arena consiliare si può
mediare. Significa al contrario che si governa implementando
piccoli cambiamenti che non avvengono nemmeno attraverso
delibere di giunta, ma con circolari prodotte dai singoli assessorati.
Si attuano servizi, prestazioni e progetti estremamente
territorializzati, poco formalizzati e quindi poco esigibili, poco
tutelabili di fronte ad un giudice, continuamente cambiati,
riarrangiati. Le trasformazioni non sono visibili e facilmente
discutibili, non emergono proteste e rabbia di massa. Si governa
attraverso una serie di piccoli micro scostamenti continui. In questo
il modello lombardo di neocentralismo regionale è simile al
modello studiato da Luc Boltanski ed Ève Chiapello nella
riorganizzazione dell’organizzazione della produzione in Francia, o
al modello di riforma della sanità in Inghilterra studiato da Patrick
Le Galès e Alan Scott 38.
Non stiamo parlando di grandi riforme che avvengo
attraverso politiche di rottura, come ha fatto la destra neoliberista
all’inizio degli anni ’80. Sono piccoli scostamenti rispetto alla
situazione precedente, dei continui cambiamenti introdotti per via
amministrativa che non cambiano le norme giuridiche, non
cambiano le categorie giuridiche più legittime e perciò non
suscitano clamore. La critica è sempre in ritardo sui continui
cambiamenti amministrativi che si vanno cumulando nel corso del
tempo, e nei rari momenti di riflessività che emergono, politici e
sindacalisti, nonché leader associativi si rendono conto
nell’ampiezza del cambiamento a cui si è giunti chiedendosi
attoniti come sia stato possibile.
Questo stile di governo si accompagna ad un rapporto fra
centro e periferia, tra governo regionale e governo locale dei
Comuni democraticamente eletti, che tende a svuotare di capacità
amministrative e di capacità politiche di governo ed indirizzo i
38
Boltanski L., Chiapello E., 2002, “Esclusione e sfruttamento: il ruolo della mobilità nella produzione delle
disuguaglianze sociali, in Borghi (a cura di), Vulnerabilità, inclusione sociale e lavoro, Franco Angeli,
Milano; Le Galès, P., Scott A., « Une révolution bureaucratique britannique ? : autonomie sans contrôle ou
"freer markets, more rules" », Revue française de sociologie,
n° 2, 2008.
Comuni, per spostare sempre più queste competenze verso la
Regione, e nella Regione alla Giunta più che al Consiglio. Il
modello lombardo è il modello più polarizzato, più estremo, di
questo stile di governo, ma anche altre regioni puntano a questa
forma. Si regola l'offerta, non si definiscono quali siano le
prestazioni sociali a cui le persone hanno diritto, non si statuiscono
dei diritti, si svuotano le competenze i Comuni, competenze nel
doppio senso della parola, nel senso di spazio istituzionale ma
anche di capacità e di cultura amministrativa, e lo si fa attraverso
una modalità che riduce sistematicamente gli spazi di conflitto,
perché molto tecnica, poco visibile 39. Continui piccoli cambiamenti
in cui spesso è il terzo settore più che i partiti politici di sinistra o i
sindacati che riesce a nominarli in termini di ingiustizia. Ma le
denunce sono sempre in ritardo, sempre in reazione e senza avere
margini politici di miglioramento 40. Ecco così spiegato uno dei più
marcati cambiamenti di cultura politica dei partiti di sinistra e di
centro sinistra 41. Disattenti a quanto succede quotidianamente e in
maniera eterogenea e frammentata sul piano della protezione e
della promozione sociale, le organizzazioni politiche figlie del
movimento operaio non sembrano più concepire la protezione
sociale come un elemento di consenso politico.
Tommaso Vitale è Ricercatore di Sociologia generale presso il Dipartimento di Sociologia e ricerca sociale dell’Università
degli Studi di Milano-Bicocca, dove insegna Programmazione sociale e Sviluppo Locale e coordina il Gruppo di studio e ricerca
sulle politiche locali per i rom e i sinti in Europa all’interno del Laboratorio di Sociologia dell’azione pubblica “Sui generis”. Ha
pubblicato In nome di chi? Partecipazione e rappresentanza nelle mobilitazioni locali (FrancoAngeli, 2007), Le convenzioni del
lavoro, il lavoro delle convenzioni (FrancoAngeli, 2007; con V. Borghi), Alla prova della violenza. Introduzione alla sociologia
pragmatica dello stato (Editori Riuniti, 2008) e I rom e l’azione pubblica (Teti, 2008; con G. Bezzecchi e M. Pagani).
39
Vitale T., 2006, “A cosa serve la sussidiarietà? Un criterio guida contro il «carsismo istituzionale»”, in
Animazione Sociale, vol. 36, n. 5, pp. 20-28.
40
Vitale T., 2008, “Conflitti urbani e spazi pubblici: tensioni fra partecipazione e rappresentanza”, R.
Segatori (a cura di) Mutamenti della politica nell’Italia contemporanea. Governance, democrazia
deliberativa e partecipazione politica, Rubbettino, Soveria Mannelli, pp. 159-73.
41
Sul piano teorico, sul cambiamento delle culture politiche cfr. Tosi S., Vitale T., 2008, « Catholiques et
marxistes. Contradictions et changements des cultures politiques dans le mouvement pour la paix italien
(1950-1967) », in Terrain. Revue d’ethnologie de l’Europe, numéro à dossier « Réligion et politique », sous
la direction de E. Claverie, n. 51.