4 2 Sumario 8 PG

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4 2 Sumario 8 PG
Dante (Inf. V) e Buster Keaton:
la mediazione comica del desiderio
Dante (Inf. V) e Buster Keaton:
la mediazione comica del desiderio
RAFFAELE PINTO
RAFFAELE PINTO
Universitat de Barcelona
Societat Catalana d’Estudis Dantescos
Universitat de Barcelona
Societat Catalana d’Estudis Dantescos
RESUMEN:
RESUMEN:
En la escena final del film de Buster Keaton Sherlock Holmes junior se
observa una influencia de los versos finales del V canto del Infierno, y en
particular la reformulación, en términos cinematográficos, de la mediación
que el texto literario desempeña en la manifestación de la relación de deseo
entre los dos amantes. A partir de la consideración de la metáfora del
atravesamiento de la pantalla (que aparece en el film) como signo del
ingreso del personaje/espectador en la dimensión de la ficción, se propone
una teoría de la comicidad basada en la neutralización de la oposición entre
realidad y ficción.
En la escena final del film de Buster Keaton Sherlock Holmes junior se
observa una influencia de los versos finales del V canto del Infierno, y en
particular la reformulación, en términos cinematográficos, de la mediación
que el texto literario desempeña en la manifestación de la relación de deseo
entre los dos amantes. A partir de la consideración de la metáfora del
atravesamiento de la pantalla (que aparece en el film) como signo del
ingreso del personaje/espectador en la dimensión de la ficción, se propone
una teoría de la comicidad basada en la neutralización de la oposición entre
realidad y ficción.
Palabras clave: cine, comicidad, pantalla, ficción, deseo.
Palabras clave: cine, comicidad, pantalla, ficción, deseo.
ABSTRACT:
ABSTRACT:
In the last scene of Buster Keaton's film Sherlock Holmes Junior, we
can sea a clear influence of the last verses of Canto V of the Inferno,
specifically the re-working in cinematographic format of the mediation in
the relatioship of desire between the two lovers which the text effects.
Taking the metaphor of coming through the screen (as seen in the film) as a
starting point, it becomes a symbol of the character/viewer’s entry into a
fictional dimension, which suggest a theory of humour based on the
neutralization of the opposition of reality and fiction.
In the last scene of Buster Keaton's film Sherlock Holmes Junior, we
can sea a clear influence of the last verses of Canto V of the Inferno,
specifically the re-working in cinematographic format of the mediation in
the relatioship of desire between the two lovers which the text effects.
Taking the metaphor of coming through the screen (as seen in the film) as a
starting point, it becomes a symbol of the character/viewer’s entry into a
fictional dimension, which suggest a theory of humour based on the
neutralization of the opposition of reality and fiction.
Key words: cinema, humour, screen, fiction, desire.
Key words: cinema, humour, screen, fiction, desire.
L’ultima esilarante scena de Il moderno Sherlock Holmes
(Sherlock Holmes junior, 1924) ricalca molto da vicino i versi finali
L’ultima esilarante scena de Il moderno Sherlock Holmes
(Sherlock Holmes junior, 1924) ricalca molto da vicino i versi finali
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Dante (Inf. V) e Buster Keaton:
la mediazione comica del desiderio
Dante (Inf. V) e Buster Keaton:
la mediazione comica del desiderio
RAFFAELE PINTO
RAFFAELE PINTO
Universitat de Barcelona
Societat Catalana d’Estudis Dantescos
Universitat de Barcelona
Societat Catalana d’Estudis Dantescos
RESUMEN:
RESUMEN:
En la escena final del film de Buster Keaton Sherlock Holmes junior se
observa una influencia de los versos finales del V canto del Infierno, y en
particular la reformulación, en términos cinematográficos, de la mediación
que el texto literario desempeña en la manifestación de la relación de deseo
entre los dos amantes. A partir de la consideración de la metáfora del
atravesamiento de la pantalla (que aparece en el film) como signo del
ingreso del personaje/espectador en la dimensión de la ficción, se propone
una teoría de la comicidad basada en la neutralización de la oposición entre
realidad y ficción.
En la escena final del film de Buster Keaton Sherlock Holmes junior se
observa una influencia de los versos finales del V canto del Infierno, y en
particular la reformulación, en términos cinematográficos, de la mediación
que el texto literario desempeña en la manifestación de la relación de deseo
entre los dos amantes. A partir de la consideración de la metáfora del
atravesamiento de la pantalla (que aparece en el film) como signo del
ingreso del personaje/espectador en la dimensión de la ficción, se propone
una teoría de la comicidad basada en la neutralización de la oposición entre
realidad y ficción.
Palabras clave: cine, comicidad, pantalla, ficción, deseo.
Palabras clave: cine, comicidad, pantalla, ficción, deseo.
ABSTRACT:
ABSTRACT:
In the last scene of Buster Keaton's film Sherlock Holmes Junior, we
can sea a clear influence of the last verses of Canto V of the Inferno,
specifically the re-working in cinematographic format of the mediation in
the relatioship of desire between the two lovers which the text effects.
Taking the metaphor of coming through the screen (as seen in the film) as a
starting point, it becomes a symbol of the character/viewer’s entry into a
fictional dimension, which suggest a theory of humour based on the
neutralization of the opposition of reality and fiction.
In the last scene of Buster Keaton's film Sherlock Holmes Junior, we
can sea a clear influence of the last verses of Canto V of the Inferno,
specifically the re-working in cinematographic format of the mediation in
the relatioship of desire between the two lovers which the text effects.
Taking the metaphor of coming through the screen (as seen in the film) as a
starting point, it becomes a symbol of the character/viewer’s entry into a
fictional dimension, which suggest a theory of humour based on the
neutralization of the opposition of reality and fiction.
Key words: cinema, humour, screen, fiction, desire.
Key words: cinema, humour, screen, fiction, desire.
L’ultima esilarante scena de Il moderno Sherlock Holmes
(Sherlock Holmes junior, 1924) ricalca molto da vicino i versi finali
L’ultima esilarante scena de Il moderno Sherlock Holmes
(Sherlock Holmes junior, 1924) ricalca molto da vicino i versi finali
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Tenzone 8
2007
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del canto V dell’Inferno, e non solo, clamorosamente, nel rapporto
imitativo che si stabilisce nel corso della lettura fra Paolo e
Lancillotto (nel film, Buster bacia la ragazza copiando i gesti del
protagonista del film che sta guardando), ma anche, più sottilmente,
nella censura narrativa con la quale Francesca interrompe la sua
cronaca («quel giorno più non vi leggemmo avante»), che diviene,
nel film-modello che illustra a Buster la ignota tecnica amatoria, il
brusco passaggio dalla sequenza del bacio alla inquadratura degli
sposi, che hanno già dei pargoletti. Lo stacco ed il salto da una
situazione all’altra produce una ellissi che getta nello sconforto
Buster, privo di informazioni e modelli su una operazione così
delicata e decisiva come la generazione dei bambini.
del canto V dell’Inferno, e non solo, clamorosamente, nel rapporto
imitativo che si stabilisce nel corso della lettura fra Paolo e
Lancillotto (nel film, Buster bacia la ragazza copiando i gesti del
protagonista del film che sta guardando), ma anche, più sottilmente,
nella censura narrativa con la quale Francesca interrompe la sua
cronaca («quel giorno più non vi leggemmo avante»), che diviene,
nel film-modello che illustra a Buster la ignota tecnica amatoria, il
brusco passaggio dalla sequenza del bacio alla inquadratura degli
sposi, che hanno già dei pargoletti. Lo stacco ed il salto da una
situazione all’altra produce una ellissi che getta nello sconforto
Buster, privo di informazioni e modelli su una operazione così
delicata e decisiva come la generazione dei bambini.
Tale ripresa parodica dei versi danteschi potrebbe essere solo un
altro capitolo della precoce ricezione cinematografica della storia dei
due amanti di Rimini, che, come ha mostrato Amilcare Iannucci,
inizia proprio negli Stati Uniti già nel 19071. Si osservi, però, che qui
non si tratta di una versione della tragica storia ripresa da Dante,
poiché della vicenda narrata nel canto V dell’Inferno vengono
allusivamente parodiati soltanto i versi finali. Conviene parlare,
piuttosto, di un rapporto intertestuale in cui la fonte viene citata e
liberamente riutilizzata in un contesto tematico del tutto estraneo.
Ciò rende la citazione molto più significativa, dal punto di vista della
ricezione, poiché ci mostra non un regista alle prese con un classico
da interpretare e transcodificare, ma un classico che sotterraneamente
rivive, come suggestione inventiva, nella strategia espressiva di un
regista. Questi non tiene conto della conoscenza previa che lo
spettatore può avere dell’opera citata, ed anzi dissimula la citazione,
poiché non c’è nulla nella trama del film che ricordi quella della
storia dantesca. Al cineasta, evidentemente, interessa solo l’episodio
della lettura e del bacio ed il rapporto dei due amanti col libro, che
trascrive nel rapporto di Buster con il film che sta proiettando2.
Tale ripresa parodica dei versi danteschi potrebbe essere solo un
altro capitolo della precoce ricezione cinematografica della storia dei
due amanti di Rimini, che, come ha mostrato Amilcare Iannucci,
inizia proprio negli Stati Uniti già nel 19071. Si osservi, però, che qui
non si tratta di una versione della tragica storia ripresa da Dante,
poiché della vicenda narrata nel canto V dell’Inferno vengono
allusivamente parodiati soltanto i versi finali. Conviene parlare,
piuttosto, di un rapporto intertestuale in cui la fonte viene citata e
liberamente riutilizzata in un contesto tematico del tutto estraneo.
Ciò rende la citazione molto più significativa, dal punto di vista della
ricezione, poiché ci mostra non un regista alle prese con un classico
da interpretare e transcodificare, ma un classico che sotterraneamente
rivive, come suggestione inventiva, nella strategia espressiva di un
regista. Questi non tiene conto della conoscenza previa che lo
spettatore può avere dell’opera citata, ed anzi dissimula la citazione,
poiché non c’è nulla nella trama del film che ricordi quella della
storia dantesca. Al cineasta, evidentemente, interessa solo l’episodio
della lettura e del bacio ed il rapporto dei due amanti col libro, che
trascrive nel rapporto di Buster con il film che sta proiettando2.
La connessione fra i due testi, inesistente sul piano della trama, è
però fortissima sul piano delle questioni estetiche che in essi sono
affrontate. La scena finale del film di Keaton culmina
La connessione fra i due testi, inesistente sul piano della trama, è
però fortissima sul piano delle questioni estetiche che in essi sono
affrontate. La scena finale del film di Keaton culmina
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del canto V dell’Inferno, e non solo, clamorosamente, nel rapporto
imitativo che si stabilisce nel corso della lettura fra Paolo e
Lancillotto (nel film, Buster bacia la ragazza copiando i gesti del
protagonista del film che sta guardando), ma anche, più sottilmente,
nella censura narrativa con la quale Francesca interrompe la sua
cronaca («quel giorno più non vi leggemmo avante»), che diviene,
nel film-modello che illustra a Buster la ignota tecnica amatoria, il
brusco passaggio dalla sequenza del bacio alla inquadratura degli
sposi, che hanno già dei pargoletti. Lo stacco ed il salto da una
situazione all’altra produce una ellissi che getta nello sconforto
Buster, privo di informazioni e modelli su una operazione così
delicata e decisiva come la generazione dei bambini.
del canto V dell’Inferno, e non solo, clamorosamente, nel rapporto
imitativo che si stabilisce nel corso della lettura fra Paolo e
Lancillotto (nel film, Buster bacia la ragazza copiando i gesti del
protagonista del film che sta guardando), ma anche, più sottilmente,
nella censura narrativa con la quale Francesca interrompe la sua
cronaca («quel giorno più non vi leggemmo avante»), che diviene,
nel film-modello che illustra a Buster la ignota tecnica amatoria, il
brusco passaggio dalla sequenza del bacio alla inquadratura degli
sposi, che hanno già dei pargoletti. Lo stacco ed il salto da una
situazione all’altra produce una ellissi che getta nello sconforto
Buster, privo di informazioni e modelli su una operazione così
delicata e decisiva come la generazione dei bambini.
Tale ripresa parodica dei versi danteschi potrebbe essere solo un
altro capitolo della precoce ricezione cinematografica della storia dei
due amanti di Rimini, che, come ha mostrato Amilcare Iannucci,
inizia proprio negli Stati Uniti già nel 19071. Si osservi, però, che qui
non si tratta di una versione della tragica storia ripresa da Dante,
poiché della vicenda narrata nel canto V dell’Inferno vengono
allusivamente parodiati soltanto i versi finali. Conviene parlare,
piuttosto, di un rapporto intertestuale in cui la fonte viene citata e
liberamente riutilizzata in un contesto tematico del tutto estraneo.
Ciò rende la citazione molto più significativa, dal punto di vista della
ricezione, poiché ci mostra non un regista alle prese con un classico
da interpretare e transcodificare, ma un classico che sotterraneamente
rivive, come suggestione inventiva, nella strategia espressiva di un
regista. Questi non tiene conto della conoscenza previa che lo
spettatore può avere dell’opera citata, ed anzi dissimula la citazione,
poiché non c’è nulla nella trama del film che ricordi quella della
storia dantesca. Al cineasta, evidentemente, interessa solo l’episodio
della lettura e del bacio ed il rapporto dei due amanti col libro, che
trascrive nel rapporto di Buster con il film che sta proiettando2.
Tale ripresa parodica dei versi danteschi potrebbe essere solo un
altro capitolo della precoce ricezione cinematografica della storia dei
due amanti di Rimini, che, come ha mostrato Amilcare Iannucci,
inizia proprio negli Stati Uniti già nel 19071. Si osservi, però, che qui
non si tratta di una versione della tragica storia ripresa da Dante,
poiché della vicenda narrata nel canto V dell’Inferno vengono
allusivamente parodiati soltanto i versi finali. Conviene parlare,
piuttosto, di un rapporto intertestuale in cui la fonte viene citata e
liberamente riutilizzata in un contesto tematico del tutto estraneo.
Ciò rende la citazione molto più significativa, dal punto di vista della
ricezione, poiché ci mostra non un regista alle prese con un classico
da interpretare e transcodificare, ma un classico che sotterraneamente
rivive, come suggestione inventiva, nella strategia espressiva di un
regista. Questi non tiene conto della conoscenza previa che lo
spettatore può avere dell’opera citata, ed anzi dissimula la citazione,
poiché non c’è nulla nella trama del film che ricordi quella della
storia dantesca. Al cineasta, evidentemente, interessa solo l’episodio
della lettura e del bacio ed il rapporto dei due amanti col libro, che
trascrive nel rapporto di Buster con il film che sta proiettando2.
La connessione fra i due testi, inesistente sul piano della trama, è
però fortissima sul piano delle questioni estetiche che in essi sono
affrontate. La scena finale del film di Keaton culmina
La connessione fra i due testi, inesistente sul piano della trama, è
però fortissima sul piano delle questioni estetiche che in essi sono
affrontate. La scena finale del film di Keaton culmina
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Raffaele PINTO
Dante (Inf. V) e Buster Keaton...
Raffaele PINTO
Dante (Inf. V) e Buster Keaton...
magistralmente una storia che, con il solito pretesto melodrammatico
di una contrastata passione d’amore, esplora comicamente il rapporto
esistenziale del protagonista con la finzione filmica. Egli addirittura
entra fisicamente, in sogno, nella storia proiettata sullo schermo,
opponendo la rigidità e la pesantezza del suo corpo, di cui
l’immagine artificiale è priva per definizione, alla aerea leggerezza
delle figure cinematografiche, il che lo rende vittima di tutti gli
arbitrari cambi di scenario che, attraverso il montaggio, si producono
nel film3. Un analogo problema affrontò Dante quando immaginò
anch’egli in una esperienza presentata come onirica («tant’era pien di
sonno... » Inf. I 11) di attraversare l’al di là con il proprio corpo, che
in questo modo era sottoposto agli stimoli di paesaggi che, pur
materialissimi nel loro ordinamento cosmologico, erano però virtuali
dal punto di vista di un individuo ancora vivente4. Ed anche lui deve
subire, nel corpo, gli effetti del ‘montaggio’ teologico dell’al di là,
con tutti gli strabilianti cambiamenti di scenario che esso implica.
L’analogia fra le due situazioni estetiche risulterà chiara
semplicemente pensando al fatto che è tanto miracoloso o
inverosimile che il personaggio Dante vada con il corpo nell’al di là,
quanto che il personaggio Buster porti con sé il suo corpo sullo
schermo. Entrambi devono attraversare la soglia che separa la realtà
dalla finzione. Certo, la plausibilità dell’attraversamento dantesco è
garantita dal paradigma teologico entro il quale il poeta opera,
mentre quella dell’attraversamento di Keaton è garantita dal registro
comico in cui il film è svolto. In entrambi i casi, però, si tratta di
penetrare, con il corpo, in una zona che per definizione è fittizia,
anche se in Dante il fittizio dell’al di là è più irreale che falso, mentre
in Keaton il fittizio del film è più falso che irreale. Ciò che
comunque bisognerebbe aver chiaro, per capire la dimensione
estetica comune ad entrambi, è che non solo Dante sta già parlando
di cinema ma anche che Keaton sta ancora parlando di teologia
(indipendentemente dalla consapevolezza che l’uno e l’altro possano
avere delle implicazioni storiche delle questioni estetiche svolte nella
loro opera).
magistralmente una storia che, con il solito pretesto melodrammatico
di una contrastata passione d’amore, esplora comicamente il rapporto
esistenziale del protagonista con la finzione filmica. Egli addirittura
entra fisicamente, in sogno, nella storia proiettata sullo schermo,
opponendo la rigidità e la pesantezza del suo corpo, di cui
l’immagine artificiale è priva per definizione, alla aerea leggerezza
delle figure cinematografiche, il che lo rende vittima di tutti gli
arbitrari cambi di scenario che, attraverso il montaggio, si producono
nel film3. Un analogo problema affrontò Dante quando immaginò
anch’egli in una esperienza presentata come onirica («tant’era pien di
sonno... » Inf. I 11) di attraversare l’al di là con il proprio corpo, che
in questo modo era sottoposto agli stimoli di paesaggi che, pur
materialissimi nel loro ordinamento cosmologico, erano però virtuali
dal punto di vista di un individuo ancora vivente4. Ed anche lui deve
subire, nel corpo, gli effetti del ‘montaggio’ teologico dell’al di là,
con tutti gli strabilianti cambiamenti di scenario che esso implica.
L’analogia fra le due situazioni estetiche risulterà chiara
semplicemente pensando al fatto che è tanto miracoloso o
inverosimile che il personaggio Dante vada con il corpo nell’al di là,
quanto che il personaggio Buster porti con sé il suo corpo sullo
schermo. Entrambi devono attraversare la soglia che separa la realtà
dalla finzione. Certo, la plausibilità dell’attraversamento dantesco è
garantita dal paradigma teologico entro il quale il poeta opera,
mentre quella dell’attraversamento di Keaton è garantita dal registro
comico in cui il film è svolto. In entrambi i casi, però, si tratta di
penetrare, con il corpo, in una zona che per definizione è fittizia,
anche se in Dante il fittizio dell’al di là è più irreale che falso, mentre
in Keaton il fittizio del film è più falso che irreale. Ciò che
comunque bisognerebbe aver chiaro, per capire la dimensione
estetica comune ad entrambi, è che non solo Dante sta già parlando
di cinema ma anche che Keaton sta ancora parlando di teologia
(indipendentemente dalla consapevolezza che l’uno e l’altro possano
avere delle implicazioni storiche delle questioni estetiche svolte nella
loro opera).
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Raffaele PINTO
Dante (Inf. V) e Buster Keaton...
Raffaele PINTO
Dante (Inf. V) e Buster Keaton...
magistralmente una storia che, con il solito pretesto melodrammatico
di una contrastata passione d’amore, esplora comicamente il rapporto
esistenziale del protagonista con la finzione filmica. Egli addirittura
entra fisicamente, in sogno, nella storia proiettata sullo schermo,
opponendo la rigidità e la pesantezza del suo corpo, di cui
l’immagine artificiale è priva per definizione, alla aerea leggerezza
delle figure cinematografiche, il che lo rende vittima di tutti gli
arbitrari cambi di scenario che, attraverso il montaggio, si producono
nel film3. Un analogo problema affrontò Dante quando immaginò
anch’egli in una esperienza presentata come onirica («tant’era pien di
sonno... » Inf. I 11) di attraversare l’al di là con il proprio corpo, che
in questo modo era sottoposto agli stimoli di paesaggi che, pur
materialissimi nel loro ordinamento cosmologico, erano però virtuali
dal punto di vista di un individuo ancora vivente4. Ed anche lui deve
subire, nel corpo, gli effetti del ‘montaggio’ teologico dell’al di là,
con tutti gli strabilianti cambiamenti di scenario che esso implica.
L’analogia fra le due situazioni estetiche risulterà chiara
semplicemente pensando al fatto che è tanto miracoloso o
inverosimile che il personaggio Dante vada con il corpo nell’al di là,
quanto che il personaggio Buster porti con sé il suo corpo sullo
schermo. Entrambi devono attraversare la soglia che separa la realtà
dalla finzione. Certo, la plausibilità dell’attraversamento dantesco è
garantita dal paradigma teologico entro il quale il poeta opera,
mentre quella dell’attraversamento di Keaton è garantita dal registro
comico in cui il film è svolto. In entrambi i casi, però, si tratta di
penetrare, con il corpo, in una zona che per definizione è fittizia,
anche se in Dante il fittizio dell’al di là è più irreale che falso, mentre
in Keaton il fittizio del film è più falso che irreale. Ciò che
comunque bisognerebbe aver chiaro, per capire la dimensione
estetica comune ad entrambi, è che non solo Dante sta già parlando
di cinema ma anche che Keaton sta ancora parlando di teologia
(indipendentemente dalla consapevolezza che l’uno e l’altro possano
avere delle implicazioni storiche delle questioni estetiche svolte nella
loro opera).
magistralmente una storia che, con il solito pretesto melodrammatico
di una contrastata passione d’amore, esplora comicamente il rapporto
esistenziale del protagonista con la finzione filmica. Egli addirittura
entra fisicamente, in sogno, nella storia proiettata sullo schermo,
opponendo la rigidità e la pesantezza del suo corpo, di cui
l’immagine artificiale è priva per definizione, alla aerea leggerezza
delle figure cinematografiche, il che lo rende vittima di tutti gli
arbitrari cambi di scenario che, attraverso il montaggio, si producono
nel film3. Un analogo problema affrontò Dante quando immaginò
anch’egli in una esperienza presentata come onirica («tant’era pien di
sonno... » Inf. I 11) di attraversare l’al di là con il proprio corpo, che
in questo modo era sottoposto agli stimoli di paesaggi che, pur
materialissimi nel loro ordinamento cosmologico, erano però virtuali
dal punto di vista di un individuo ancora vivente4. Ed anche lui deve
subire, nel corpo, gli effetti del ‘montaggio’ teologico dell’al di là,
con tutti gli strabilianti cambiamenti di scenario che esso implica.
L’analogia fra le due situazioni estetiche risulterà chiara
semplicemente pensando al fatto che è tanto miracoloso o
inverosimile che il personaggio Dante vada con il corpo nell’al di là,
quanto che il personaggio Buster porti con sé il suo corpo sullo
schermo. Entrambi devono attraversare la soglia che separa la realtà
dalla finzione. Certo, la plausibilità dell’attraversamento dantesco è
garantita dal paradigma teologico entro il quale il poeta opera,
mentre quella dell’attraversamento di Keaton è garantita dal registro
comico in cui il film è svolto. In entrambi i casi, però, si tratta di
penetrare, con il corpo, in una zona che per definizione è fittizia,
anche se in Dante il fittizio dell’al di là è più irreale che falso, mentre
in Keaton il fittizio del film è più falso che irreale. Ciò che
comunque bisognerebbe aver chiaro, per capire la dimensione
estetica comune ad entrambi, è che non solo Dante sta già parlando
di cinema ma anche che Keaton sta ancora parlando di teologia
(indipendentemente dalla consapevolezza che l’uno e l’altro possano
avere delle implicazioni storiche delle questioni estetiche svolte nella
loro opera).
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Tale complessità di implicazioni del riuso che fa Keaton
dell’episodio dantesco, rende opportuna una riflessione, come quella
che qui propongo, sul significato storico del rapporto intertestuale fra
il cineasta e il poeta, sulla lunga durata di problematiche che si
rivelano culturalmente operative non solo a parte subiecti, per il
valore che il film attribuisce a quei versi della Commedia, ma anche
a parte obiecti, cioè per la nuova luce in cui il testo poetico ci appare
grazie alla citazione e al riuso che ne fa Keaton.
Tale complessità di implicazioni del riuso che fa Keaton
dell’episodio dantesco, rende opportuna una riflessione, come quella
che qui propongo, sul significato storico del rapporto intertestuale fra
il cineasta e il poeta, sulla lunga durata di problematiche che si
rivelano culturalmente operative non solo a parte subiecti, per il
valore che il film attribuisce a quei versi della Commedia, ma anche
a parte obiecti, cioè per la nuova luce in cui il testo poetico ci appare
grazie alla citazione e al riuso che ne fa Keaton.
Un primo notevole risultato lo otteniamo facendo reagire la
lettura di Keaton con l’ampio ventaglio di interpretazioni dei critici
di professione che hanno letto il canto V dell’Inferno. Infatti,
sebbene non abbia senso aspettarsi dall’attore-regista una esplicita
posizione interpretativa rispetto all’episodio della Commedia,
tuttavia la sua messa a fuoco implica una scelta molto chiara degli
aspetti di esso per lui significativi, e quindi una implicita
propensione, magari ante litteram, per una delle tante letture del
canto che la filologia ha prodotto. Di queste una, soprattutto, si rivela
pertinente per capire Dante nella prospettiva di Keaton, e cioè quella
fornita da René Girard nel quadro della sua teoria sulla mediazione
del desiderio. Mi riferisco in particolare al volume Menzogna
romantica e verità romanzesca (1965), saggio esemplare di critica
antropologica della letteratura, nel quale viene inizialmente elaborata
la teoria del desiderio triangolare, teoria che lo studioso ha poi
sviluppato in articoli e volumi che hanno allargato progressivamente
il suo campo di applicazione. Qui non si terrà conto di tutti gli
sviluppi della teoria, ma si utilizzeranno solamente, e liberamente, i
suoi assiomi principali.
Un primo notevole risultato lo otteniamo facendo reagire la
lettura di Keaton con l’ampio ventaglio di interpretazioni dei critici
di professione che hanno letto il canto V dell’Inferno. Infatti,
sebbene non abbia senso aspettarsi dall’attore-regista una esplicita
posizione interpretativa rispetto all’episodio della Commedia,
tuttavia la sua messa a fuoco implica una scelta molto chiara degli
aspetti di esso per lui significativi, e quindi una implicita
propensione, magari ante litteram, per una delle tante letture del
canto che la filologia ha prodotto. Di queste una, soprattutto, si rivela
pertinente per capire Dante nella prospettiva di Keaton, e cioè quella
fornita da René Girard nel quadro della sua teoria sulla mediazione
del desiderio. Mi riferisco in particolare al volume Menzogna
romantica e verità romanzesca (1965), saggio esemplare di critica
antropologica della letteratura, nel quale viene inizialmente elaborata
la teoria del desiderio triangolare, teoria che lo studioso ha poi
sviluppato in articoli e volumi che hanno allargato progressivamente
il suo campo di applicazione. Qui non si terrà conto di tutti gli
sviluppi della teoria, ma si utilizzeranno solamente, e liberamente, i
suoi assiomi principali.
Posta la necessità di un mediatore in ogni relazione di desiderio,
lo sviluppo della modernità, e in particolare la secolarizzazione della
cultura, consiste nel progressivo avvicinamento del mediatore al
soggetto desiderante, como esempio da imitare o come rivale da
sconfiggere. Tale avvicinamento riduce fino ad annullare la distanza
e quindi la trascendenza del modello, che da esterno, cioè
mimeticamente inaccessibile, diviene interno: «A mano a mano che
Posta la necessità di un mediatore in ogni relazione di desiderio,
lo sviluppo della modernità, e in particolare la secolarizzazione della
cultura, consiste nel progressivo avvicinamento del mediatore al
soggetto desiderante, como esempio da imitare o come rivale da
sconfiggere. Tale avvicinamento riduce fino ad annullare la distanza
e quindi la trascendenza del modello, che da esterno, cioè
mimeticamente inaccessibile, diviene interno: «A mano a mano che
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Tale complessità di implicazioni del riuso che fa Keaton
dell’episodio dantesco, rende opportuna una riflessione, come quella
che qui propongo, sul significato storico del rapporto intertestuale fra
il cineasta e il poeta, sulla lunga durata di problematiche che si
rivelano culturalmente operative non solo a parte subiecti, per il
valore che il film attribuisce a quei versi della Commedia, ma anche
a parte obiecti, cioè per la nuova luce in cui il testo poetico ci appare
grazie alla citazione e al riuso che ne fa Keaton.
Tale complessità di implicazioni del riuso che fa Keaton
dell’episodio dantesco, rende opportuna una riflessione, come quella
che qui propongo, sul significato storico del rapporto intertestuale fra
il cineasta e il poeta, sulla lunga durata di problematiche che si
rivelano culturalmente operative non solo a parte subiecti, per il
valore che il film attribuisce a quei versi della Commedia, ma anche
a parte obiecti, cioè per la nuova luce in cui il testo poetico ci appare
grazie alla citazione e al riuso che ne fa Keaton.
Un primo notevole risultato lo otteniamo facendo reagire la
lettura di Keaton con l’ampio ventaglio di interpretazioni dei critici
di professione che hanno letto il canto V dell’Inferno. Infatti,
sebbene non abbia senso aspettarsi dall’attore-regista una esplicita
posizione interpretativa rispetto all’episodio della Commedia,
tuttavia la sua messa a fuoco implica una scelta molto chiara degli
aspetti di esso per lui significativi, e quindi una implicita
propensione, magari ante litteram, per una delle tante letture del
canto che la filologia ha prodotto. Di queste una, soprattutto, si rivela
pertinente per capire Dante nella prospettiva di Keaton, e cioè quella
fornita da René Girard nel quadro della sua teoria sulla mediazione
del desiderio. Mi riferisco in particolare al volume Menzogna
romantica e verità romanzesca (1965), saggio esemplare di critica
antropologica della letteratura, nel quale viene inizialmente elaborata
la teoria del desiderio triangolare, teoria che lo studioso ha poi
sviluppato in articoli e volumi che hanno allargato progressivamente
il suo campo di applicazione. Qui non si terrà conto di tutti gli
sviluppi della teoria, ma si utilizzeranno solamente, e liberamente, i
suoi assiomi principali.
Un primo notevole risultato lo otteniamo facendo reagire la
lettura di Keaton con l’ampio ventaglio di interpretazioni dei critici
di professione che hanno letto il canto V dell’Inferno. Infatti,
sebbene non abbia senso aspettarsi dall’attore-regista una esplicita
posizione interpretativa rispetto all’episodio della Commedia,
tuttavia la sua messa a fuoco implica una scelta molto chiara degli
aspetti di esso per lui significativi, e quindi una implicita
propensione, magari ante litteram, per una delle tante letture del
canto che la filologia ha prodotto. Di queste una, soprattutto, si rivela
pertinente per capire Dante nella prospettiva di Keaton, e cioè quella
fornita da René Girard nel quadro della sua teoria sulla mediazione
del desiderio. Mi riferisco in particolare al volume Menzogna
romantica e verità romanzesca (1965), saggio esemplare di critica
antropologica della letteratura, nel quale viene inizialmente elaborata
la teoria del desiderio triangolare, teoria che lo studioso ha poi
sviluppato in articoli e volumi che hanno allargato progressivamente
il suo campo di applicazione. Qui non si terrà conto di tutti gli
sviluppi della teoria, ma si utilizzeranno solamente, e liberamente, i
suoi assiomi principali.
Posta la necessità di un mediatore in ogni relazione di desiderio,
lo sviluppo della modernità, e in particolare la secolarizzazione della
cultura, consiste nel progressivo avvicinamento del mediatore al
soggetto desiderante, como esempio da imitare o come rivale da
sconfiggere. Tale avvicinamento riduce fino ad annullare la distanza
e quindi la trascendenza del modello, che da esterno, cioè
mimeticamente inaccessibile, diviene interno: «A mano a mano che
Posta la necessità di un mediatore in ogni relazione di desiderio,
lo sviluppo della modernità, e in particolare la secolarizzazione della
cultura, consiste nel progressivo avvicinamento del mediatore al
soggetto desiderante, como esempio da imitare o come rivale da
sconfiggere. Tale avvicinamento riduce fino ad annullare la distanza
e quindi la trascendenza del modello, che da esterno, cioè
mimeticamente inaccessibile, diviene interno: «A mano a mano che
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Raffaele PINTO
Dante (Inf. V) e Buster Keaton...
Raffaele PINTO
Dante (Inf. V) e Buster Keaton...
il mediatore si avvicina al soggetto che desidera, la trascendenza si
allontana ... È appunto nella mediazione interna che si trova la verità
profonda del moderno» (Girard 1965: 80). Nel Quijote, archetipo
romanzesco, le due coppie «Don Quijote - Amadís» e «Anselmo Lotario» (protagonisti, questi ultimi, del racconto interno al romanzo
El curioso impertinente) mostrano rispettivamente il massimo e il
minimo di distanza fra soggetto e mediatore (mediatore esterno mediatore interno). La verità romanzesca sarebbe così la
esplicitazione della alterità che si annida in ogni desiderio, opposta
alla menzogna romantica che la dissimula, nella sua illusione di
assolutezza ed autenticità dell’io desiderante5.
il mediatore si avvicina al soggetto che desidera, la trascendenza si
allontana ... È appunto nella mediazione interna che si trova la verità
profonda del moderno» (Girard 1965: 80). Nel Quijote, archetipo
romanzesco, le due coppie «Don Quijote - Amadís» e «Anselmo Lotario» (protagonisti, questi ultimi, del racconto interno al romanzo
El curioso impertinente) mostrano rispettivamente il massimo e il
minimo di distanza fra soggetto e mediatore (mediatore esterno mediatore interno). La verità romanzesca sarebbe così la
esplicitazione della alterità che si annida in ogni desiderio, opposta
alla menzogna romantica che la dissimula, nella sua illusione di
assolutezza ed autenticità dell’io desiderante5.
Oggetto d’analisi in uno studio monograficamente ad esso
dedicato, il canto V dell’Inferno viene incluso da Girard (1978) nella
serie dei classici che mostrano in atto il soggetto di desiderio
orientato nella scelta dell’oggetto da un modello, che per questo
funge da mediatore. In una intervista, lo studioso così riassume il
problema:
Oggetto d’analisi in uno studio monograficamente ad esso
dedicato, il canto V dell’Inferno viene incluso da Girard (1978) nella
serie dei classici che mostrano in atto il soggetto di desiderio
orientato nella scelta dell’oggetto da un modello, che per questo
funge da mediatore. In una intervista, lo studioso così riassume il
problema:
Come sappiamo, è Francesca a raccontare la storia del loro
innamoramento. Francesca è la sposa del fratello di Paolo e
inizialmente sembrano non essere affatto innamorati l'uno dell'altro.
Passano il tempo a leggere il romanzo cavalleresco «Lancillotto del
Lago», dove la regina Ginevra, spinta da un traditore, Galeotto, si
innamora dell'eroe Lancillotto. Nel momento in cui il cavaliere
Lancillotto bacia la regina, anche Paolo e Francesca si baciano. Così
ha inizio il loro amore ... Una spiegazione di Dante sta nella frase
«Galeotto fu il libro e chi lo scrisse». Vale a dire che i libri non sono
innocenti, dietro ogni libro c'è un autore che cerca di sedurti, che fa
sì che tu voglia imitarlo. Nella mia terminologia il libro svolge la
funzione di mediatore, di modello di Paolo e Francesca: il loro amore
è dunque in un certo senso un amore copiato.
Come sappiamo, è Francesca a raccontare la storia del loro
innamoramento. Francesca è la sposa del fratello di Paolo e
inizialmente sembrano non essere affatto innamorati l'uno dell'altro.
Passano il tempo a leggere il romanzo cavalleresco «Lancillotto del
Lago», dove la regina Ginevra, spinta da un traditore, Galeotto, si
innamora dell'eroe Lancillotto. Nel momento in cui il cavaliere
Lancillotto bacia la regina, anche Paolo e Francesca si baciano. Così
ha inizio il loro amore ... Una spiegazione di Dante sta nella frase
«Galeotto fu il libro e chi lo scrisse». Vale a dire che i libri non sono
innocenti, dietro ogni libro c'è un autore che cerca di sedurti, che fa
sì che tu voglia imitarlo. Nella mia terminologia il libro svolge la
funzione di mediatore, di modello di Paolo e Francesca: il loro amore
è dunque in un certo senso un amore copiato.
La serie dei testi che da Dante arriva a Keaton (e della quale
fanno parte fra gli altri, secondo Girard, il Julien Sorel del Rosso e il
Nero, Madame Bovary, L’eterno marito di Dostoyevski, il Marcel
della proustiana Recherche) ci permette di isolare l’elemento
La serie dei testi che da Dante arriva a Keaton (e della quale
fanno parte fra gli altri, secondo Girard, il Julien Sorel del Rosso e il
Nero, Madame Bovary, L’eterno marito di Dostoyevski, il Marcel
della proustiana Recherche) ci permette di isolare l’elemento
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Raffaele PINTO
Dante (Inf. V) e Buster Keaton...
Raffaele PINTO
Dante (Inf. V) e Buster Keaton...
il mediatore si avvicina al soggetto che desidera, la trascendenza si
allontana ... È appunto nella mediazione interna che si trova la verità
profonda del moderno» (Girard 1965: 80). Nel Quijote, archetipo
romanzesco, le due coppie «Don Quijote - Amadís» e «Anselmo Lotario» (protagonisti, questi ultimi, del racconto interno al romanzo
El curioso impertinente) mostrano rispettivamente il massimo e il
minimo di distanza fra soggetto e mediatore (mediatore esterno mediatore interno). La verità romanzesca sarebbe così la
esplicitazione della alterità che si annida in ogni desiderio, opposta
alla menzogna romantica che la dissimula, nella sua illusione di
assolutezza ed autenticità dell’io desiderante5.
il mediatore si avvicina al soggetto che desidera, la trascendenza si
allontana ... È appunto nella mediazione interna che si trova la verità
profonda del moderno» (Girard 1965: 80). Nel Quijote, archetipo
romanzesco, le due coppie «Don Quijote - Amadís» e «Anselmo Lotario» (protagonisti, questi ultimi, del racconto interno al romanzo
El curioso impertinente) mostrano rispettivamente il massimo e il
minimo di distanza fra soggetto e mediatore (mediatore esterno mediatore interno). La verità romanzesca sarebbe così la
esplicitazione della alterità che si annida in ogni desiderio, opposta
alla menzogna romantica che la dissimula, nella sua illusione di
assolutezza ed autenticità dell’io desiderante5.
Oggetto d’analisi in uno studio monograficamente ad esso
dedicato, il canto V dell’Inferno viene incluso da Girard (1978) nella
serie dei classici che mostrano in atto il soggetto di desiderio
orientato nella scelta dell’oggetto da un modello, che per questo
funge da mediatore. In una intervista, lo studioso così riassume il
problema:
Oggetto d’analisi in uno studio monograficamente ad esso
dedicato, il canto V dell’Inferno viene incluso da Girard (1978) nella
serie dei classici che mostrano in atto il soggetto di desiderio
orientato nella scelta dell’oggetto da un modello, che per questo
funge da mediatore. In una intervista, lo studioso così riassume il
problema:
Come sappiamo, è Francesca a raccontare la storia del loro
innamoramento. Francesca è la sposa del fratello di Paolo e
inizialmente sembrano non essere affatto innamorati l'uno dell'altro.
Passano il tempo a leggere il romanzo cavalleresco «Lancillotto del
Lago», dove la regina Ginevra, spinta da un traditore, Galeotto, si
innamora dell'eroe Lancillotto. Nel momento in cui il cavaliere
Lancillotto bacia la regina, anche Paolo e Francesca si baciano. Così
ha inizio il loro amore ... Una spiegazione di Dante sta nella frase
«Galeotto fu il libro e chi lo scrisse». Vale a dire che i libri non sono
innocenti, dietro ogni libro c'è un autore che cerca di sedurti, che fa
sì che tu voglia imitarlo. Nella mia terminologia il libro svolge la
funzione di mediatore, di modello di Paolo e Francesca: il loro amore
è dunque in un certo senso un amore copiato.
Come sappiamo, è Francesca a raccontare la storia del loro
innamoramento. Francesca è la sposa del fratello di Paolo e
inizialmente sembrano non essere affatto innamorati l'uno dell'altro.
Passano il tempo a leggere il romanzo cavalleresco «Lancillotto del
Lago», dove la regina Ginevra, spinta da un traditore, Galeotto, si
innamora dell'eroe Lancillotto. Nel momento in cui il cavaliere
Lancillotto bacia la regina, anche Paolo e Francesca si baciano. Così
ha inizio il loro amore ... Una spiegazione di Dante sta nella frase
«Galeotto fu il libro e chi lo scrisse». Vale a dire che i libri non sono
innocenti, dietro ogni libro c'è un autore che cerca di sedurti, che fa
sì che tu voglia imitarlo. Nella mia terminologia il libro svolge la
funzione di mediatore, di modello di Paolo e Francesca: il loro amore
è dunque in un certo senso un amore copiato.
La serie dei testi che da Dante arriva a Keaton (e della quale
fanno parte fra gli altri, secondo Girard, il Julien Sorel del Rosso e il
Nero, Madame Bovary, L’eterno marito di Dostoyevski, il Marcel
della proustiana Recherche) ci permette di isolare l’elemento
La serie dei testi che da Dante arriva a Keaton (e della quale
fanno parte fra gli altri, secondo Girard, il Julien Sorel del Rosso e il
Nero, Madame Bovary, L’eterno marito di Dostoyevski, il Marcel
della proustiana Recherche) ci permette di isolare l’elemento
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Tenzone 8
2007
Tenzone 8
2007
storicamente più produttivo del canto V dell’Inferno, senz’altro
quello meglio sintonizzato con l’estetica moderna, della quale Dante
ha intuito la nuova funzione di modello ideale che in essa la
letteratura (in quanto finzione) acquista, soppiantando il mito e la
religione (‘veri’ per definizione6). Si tratta del carattere imitativo che
il desiderio assume nel quadro di una cultura nella quale il soggetto
(lettore o spettatore) interiorizza l’altro assumendolo como modello
di comportamento. L’eroe ed il santo, in quanto soprannaturali, sono
infatti ‘inimitabili’, e quindi non interiorizzabili come effettuali
modelli di comportamento. La loro esemplarità è certo fondamentale
nel definire valori ideologici e contenuti etici, ma esclude una
compiuta mimesi identitaria, come quella che si osserva negli esempi
letterari (e cinematografici) appena citati, poiché sia l’eroe mitico
che il santo si situano in una dimensione trascendente normalmente
inaccessibile al lettore in quanto tale. La loro mediazione è quindi del
tutto esterna. Il romanzo moderno, invece, avvicinando il mediatore,
ne consente la mimesi fino alla eventuale identificazione. Proprio
mettendo nel dovuto rilievo i meccanismi di identificazione ed
imitazione che Dante descrive, apprezzeremo il contributo di Girard
ad una più piena comprensione del testo.
storicamente più produttivo del canto V dell’Inferno, senz’altro
quello meglio sintonizzato con l’estetica moderna, della quale Dante
ha intuito la nuova funzione di modello ideale che in essa la
letteratura (in quanto finzione) acquista, soppiantando il mito e la
religione (‘veri’ per definizione6). Si tratta del carattere imitativo che
il desiderio assume nel quadro di una cultura nella quale il soggetto
(lettore o spettatore) interiorizza l’altro assumendolo como modello
di comportamento. L’eroe ed il santo, in quanto soprannaturali, sono
infatti ‘inimitabili’, e quindi non interiorizzabili come effettuali
modelli di comportamento. La loro esemplarità è certo fondamentale
nel definire valori ideologici e contenuti etici, ma esclude una
compiuta mimesi identitaria, come quella che si osserva negli esempi
letterari (e cinematografici) appena citati, poiché sia l’eroe mitico
che il santo si situano in una dimensione trascendente normalmente
inaccessibile al lettore in quanto tale. La loro mediazione è quindi del
tutto esterna. Il romanzo moderno, invece, avvicinando il mediatore,
ne consente la mimesi fino alla eventuale identificazione. Proprio
mettendo nel dovuto rilievo i meccanismi di identificazione ed
imitazione che Dante descrive, apprezzeremo il contributo di Girard
ad una più piena comprensione del testo.
Rileggiamo allora brevemente l’episodio alla luce del rapporto
con l’alterità romanzesca che la coppia di adulteri sperimenta nella
propria esperienza di desiderio. Come si ricorderà, dopo il primo
succinto racconto della vicenda sentimentale che la legò al cognato
ed espose entrambi alla vendetta del marito, Francesca viene
interrogata da Dante circa la finalità ed il modo in cui i due amanti
giunsero a conoscere l’uno il desiderio dell’altro (vv. 118-120):
Rileggiamo allora brevemente l’episodio alla luce del rapporto
con l’alterità romanzesca che la coppia di adulteri sperimenta nella
propria esperienza di desiderio. Come si ricorderà, dopo il primo
succinto racconto della vicenda sentimentale che la legò al cognato
ed espose entrambi alla vendetta del marito, Francesca viene
interrogata da Dante circa la finalità ed il modo in cui i due amanti
giunsero a conoscere l’uno il desiderio dell’altro (vv. 118-120):
Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi disiri?
Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi disiri?
La domanda incide su uno degli aspetti della etica del desiderio
che stanno maggiormente a cuore al poeta, ossia la sua esprimibilità,
che rappresenta, al di là della pura sessualità, l’obiettivo primario
La domanda incide su uno degli aspetti della etica del desiderio
che stanno maggiormente a cuore al poeta, ossia la sua esprimibilità,
che rappresenta, al di là della pura sessualità, l’obiettivo primario
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storicamente più produttivo del canto V dell’Inferno, senz’altro
quello meglio sintonizzato con l’estetica moderna, della quale Dante
ha intuito la nuova funzione di modello ideale che in essa la
letteratura (in quanto finzione) acquista, soppiantando il mito e la
religione (‘veri’ per definizione6). Si tratta del carattere imitativo che
il desiderio assume nel quadro di una cultura nella quale il soggetto
(lettore o spettatore) interiorizza l’altro assumendolo como modello
di comportamento. L’eroe ed il santo, in quanto soprannaturali, sono
infatti ‘inimitabili’, e quindi non interiorizzabili come effettuali
modelli di comportamento. La loro esemplarità è certo fondamentale
nel definire valori ideologici e contenuti etici, ma esclude una
compiuta mimesi identitaria, come quella che si osserva negli esempi
letterari (e cinematografici) appena citati, poiché sia l’eroe mitico
che il santo si situano in una dimensione trascendente normalmente
inaccessibile al lettore in quanto tale. La loro mediazione è quindi del
tutto esterna. Il romanzo moderno, invece, avvicinando il mediatore,
ne consente la mimesi fino alla eventuale identificazione. Proprio
mettendo nel dovuto rilievo i meccanismi di identificazione ed
imitazione che Dante descrive, apprezzeremo il contributo di Girard
ad una più piena comprensione del testo.
storicamente più produttivo del canto V dell’Inferno, senz’altro
quello meglio sintonizzato con l’estetica moderna, della quale Dante
ha intuito la nuova funzione di modello ideale che in essa la
letteratura (in quanto finzione) acquista, soppiantando il mito e la
religione (‘veri’ per definizione6). Si tratta del carattere imitativo che
il desiderio assume nel quadro di una cultura nella quale il soggetto
(lettore o spettatore) interiorizza l’altro assumendolo como modello
di comportamento. L’eroe ed il santo, in quanto soprannaturali, sono
infatti ‘inimitabili’, e quindi non interiorizzabili come effettuali
modelli di comportamento. La loro esemplarità è certo fondamentale
nel definire valori ideologici e contenuti etici, ma esclude una
compiuta mimesi identitaria, come quella che si osserva negli esempi
letterari (e cinematografici) appena citati, poiché sia l’eroe mitico
che il santo si situano in una dimensione trascendente normalmente
inaccessibile al lettore in quanto tale. La loro mediazione è quindi del
tutto esterna. Il romanzo moderno, invece, avvicinando il mediatore,
ne consente la mimesi fino alla eventuale identificazione. Proprio
mettendo nel dovuto rilievo i meccanismi di identificazione ed
imitazione che Dante descrive, apprezzeremo il contributo di Girard
ad una più piena comprensione del testo.
Rileggiamo allora brevemente l’episodio alla luce del rapporto
con l’alterità romanzesca che la coppia di adulteri sperimenta nella
propria esperienza di desiderio. Come si ricorderà, dopo il primo
succinto racconto della vicenda sentimentale che la legò al cognato
ed espose entrambi alla vendetta del marito, Francesca viene
interrogata da Dante circa la finalità ed il modo in cui i due amanti
giunsero a conoscere l’uno il desiderio dell’altro (vv. 118-120):
Rileggiamo allora brevemente l’episodio alla luce del rapporto
con l’alterità romanzesca che la coppia di adulteri sperimenta nella
propria esperienza di desiderio. Come si ricorderà, dopo il primo
succinto racconto della vicenda sentimentale che la legò al cognato
ed espose entrambi alla vendetta del marito, Francesca viene
interrogata da Dante circa la finalità ed il modo in cui i due amanti
giunsero a conoscere l’uno il desiderio dell’altro (vv. 118-120):
Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi disiri?
Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi disiri?
La domanda incide su uno degli aspetti della etica del desiderio
che stanno maggiormente a cuore al poeta, ossia la sua esprimibilità,
che rappresenta, al di là della pura sessualità, l’obiettivo primario
La domanda incide su uno degli aspetti della etica del desiderio
che stanno maggiormente a cuore al poeta, ossia la sua esprimibilità,
che rappresenta, al di là della pura sessualità, l’obiettivo primario
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Raffaele PINTO
Dante (Inf. V) e Buster Keaton...
Raffaele PINTO
Dante (Inf. V) e Buster Keaton...
della tensione d’amore, coltivata dalla poesia proprio in quanto
motore della espressione7. Così infatti lo intende Dante nella Vita
Nuova quando dichiara che il fine ultimo del suo amore per Beatrice
sono le parole scritte in lode di lei («quelle parole che lodano la
donna mia», cap. XVIII). La domanda posta a Francesca sottintende
che la loro colpa non consiste nell’essersi desiderati, essendo il
desiderio prerogativa dei cuori gentili, ma nell’aver frainteso la
finalità e le modalità espressive del desiderio. Non il desiderio ha
condannato i due amanti, ma gli obiettivi per i quali esso è stato
coltivato, e le forme con le quali esso è stato manifestato. Se fosse
rimasto occulto, o espresso in modo diverso, non ci sarebbe stato
alcun peccato. E quindi diviene essenziale, per intendere in cosa
consista la sua colpa, che Francesca narri, per il poeta che la
interroga e per il lettore della Commedia, la situazione in cui i due
amanti vennero a conoscenza l’uno del desiderio dell’altro, che riveli
cioè in che modo poté affiorare ed esprimersi ciò che sarebbe dovuto
restare sepolto nella intimità del cuore.
della tensione d’amore, coltivata dalla poesia proprio in quanto
motore della espressione7. Così infatti lo intende Dante nella Vita
Nuova quando dichiara che il fine ultimo del suo amore per Beatrice
sono le parole scritte in lode di lei («quelle parole che lodano la
donna mia», cap. XVIII). La domanda posta a Francesca sottintende
che la loro colpa non consiste nell’essersi desiderati, essendo il
desiderio prerogativa dei cuori gentili, ma nell’aver frainteso la
finalità e le modalità espressive del desiderio. Non il desiderio ha
condannato i due amanti, ma gli obiettivi per i quali esso è stato
coltivato, e le forme con le quali esso è stato manifestato. Se fosse
rimasto occulto, o espresso in modo diverso, non ci sarebbe stato
alcun peccato. E quindi diviene essenziale, per intendere in cosa
consista la sua colpa, che Francesca narri, per il poeta che la
interroga e per il lettore della Commedia, la situazione in cui i due
amanti vennero a conoscenza l’uno del desiderio dell’altro, che riveli
cioè in che modo poté affiorare ed esprimersi ciò che sarebbe dovuto
restare sepolto nella intimità del cuore.
Si osservi come questa domanda ponga una questione
antropologica nella quale riconosciamo agevolmente un tratto della
nostra cultura e della nostra mentalità, e cioè la dialettica espressiva
fra la esperienza interiore e la sua manifestazione verbale esterna. È
appunto circa tale dialettica che Francesca è invitata a pronunciarsi.
Nella dicotomia, che il desiderio apre, tra una dimensione latente
della soggettività ed una dimensione manifesta, e nella tensione
poetica a ricondurla verso una percezione integrata della personalità
(como Dante spiega nel canto XXIV del Purgatorio, quando
definisce la propria poetica) vediamo letterariamente rappresentati i
valori della autonomia del soggetto e del primato etico del desiderio,
che di tale autonomia è fondamento (vid. Pinto 2002).
Si osservi come questa domanda ponga una questione
antropologica nella quale riconosciamo agevolmente un tratto della
nostra cultura e della nostra mentalità, e cioè la dialettica espressiva
fra la esperienza interiore e la sua manifestazione verbale esterna. È
appunto circa tale dialettica che Francesca è invitata a pronunciarsi.
Nella dicotomia, che il desiderio apre, tra una dimensione latente
della soggettività ed una dimensione manifesta, e nella tensione
poetica a ricondurla verso una percezione integrata della personalità
(como Dante spiega nel canto XXIV del Purgatorio, quando
definisce la propria poetica) vediamo letterariamente rappresentati i
valori della autonomia del soggetto e del primato etico del desiderio,
che di tale autonomia è fondamento (vid. Pinto 2002).
La risposta di Francesca, che evoca la lettura di un romanzo che
narra gli amori di Lancillotto e della regina Ginevra, situa tale
esperienza di lettura esattamente nel punto in cui la parola del cuore
(l’agostiniano ‘verbum cordis’) dovrebbe trasformarsi in parola
La risposta di Francesca, che evoca la lettura di un romanzo che
narra gli amori di Lancillotto e della regina Ginevra, situa tale
esperienza di lettura esattamente nel punto in cui la parola del cuore
(l’agostiniano ‘verbum cordis’) dovrebbe trasformarsi in parola
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Raffaele PINTO
Dante (Inf. V) e Buster Keaton...
Raffaele PINTO
Dante (Inf. V) e Buster Keaton...
della tensione d’amore, coltivata dalla poesia proprio in quanto
motore della espressione7. Così infatti lo intende Dante nella Vita
Nuova quando dichiara che il fine ultimo del suo amore per Beatrice
sono le parole scritte in lode di lei («quelle parole che lodano la
donna mia», cap. XVIII). La domanda posta a Francesca sottintende
che la loro colpa non consiste nell’essersi desiderati, essendo il
desiderio prerogativa dei cuori gentili, ma nell’aver frainteso la
finalità e le modalità espressive del desiderio. Non il desiderio ha
condannato i due amanti, ma gli obiettivi per i quali esso è stato
coltivato, e le forme con le quali esso è stato manifestato. Se fosse
rimasto occulto, o espresso in modo diverso, non ci sarebbe stato
alcun peccato. E quindi diviene essenziale, per intendere in cosa
consista la sua colpa, che Francesca narri, per il poeta che la
interroga e per il lettore della Commedia, la situazione in cui i due
amanti vennero a conoscenza l’uno del desiderio dell’altro, che riveli
cioè in che modo poté affiorare ed esprimersi ciò che sarebbe dovuto
restare sepolto nella intimità del cuore.
della tensione d’amore, coltivata dalla poesia proprio in quanto
motore della espressione7. Così infatti lo intende Dante nella Vita
Nuova quando dichiara che il fine ultimo del suo amore per Beatrice
sono le parole scritte in lode di lei («quelle parole che lodano la
donna mia», cap. XVIII). La domanda posta a Francesca sottintende
che la loro colpa non consiste nell’essersi desiderati, essendo il
desiderio prerogativa dei cuori gentili, ma nell’aver frainteso la
finalità e le modalità espressive del desiderio. Non il desiderio ha
condannato i due amanti, ma gli obiettivi per i quali esso è stato
coltivato, e le forme con le quali esso è stato manifestato. Se fosse
rimasto occulto, o espresso in modo diverso, non ci sarebbe stato
alcun peccato. E quindi diviene essenziale, per intendere in cosa
consista la sua colpa, che Francesca narri, per il poeta che la
interroga e per il lettore della Commedia, la situazione in cui i due
amanti vennero a conoscenza l’uno del desiderio dell’altro, che riveli
cioè in che modo poté affiorare ed esprimersi ciò che sarebbe dovuto
restare sepolto nella intimità del cuore.
Si osservi come questa domanda ponga una questione
antropologica nella quale riconosciamo agevolmente un tratto della
nostra cultura e della nostra mentalità, e cioè la dialettica espressiva
fra la esperienza interiore e la sua manifestazione verbale esterna. È
appunto circa tale dialettica che Francesca è invitata a pronunciarsi.
Nella dicotomia, che il desiderio apre, tra una dimensione latente
della soggettività ed una dimensione manifesta, e nella tensione
poetica a ricondurla verso una percezione integrata della personalità
(como Dante spiega nel canto XXIV del Purgatorio, quando
definisce la propria poetica) vediamo letterariamente rappresentati i
valori della autonomia del soggetto e del primato etico del desiderio,
che di tale autonomia è fondamento (vid. Pinto 2002).
Si osservi come questa domanda ponga una questione
antropologica nella quale riconosciamo agevolmente un tratto della
nostra cultura e della nostra mentalità, e cioè la dialettica espressiva
fra la esperienza interiore e la sua manifestazione verbale esterna. È
appunto circa tale dialettica che Francesca è invitata a pronunciarsi.
Nella dicotomia, che il desiderio apre, tra una dimensione latente
della soggettività ed una dimensione manifesta, e nella tensione
poetica a ricondurla verso una percezione integrata della personalità
(como Dante spiega nel canto XXIV del Purgatorio, quando
definisce la propria poetica) vediamo letterariamente rappresentati i
valori della autonomia del soggetto e del primato etico del desiderio,
che di tale autonomia è fondamento (vid. Pinto 2002).
La risposta di Francesca, che evoca la lettura di un romanzo che
narra gli amori di Lancillotto e della regina Ginevra, situa tale
esperienza di lettura esattamente nel punto in cui la parola del cuore
(l’agostiniano ‘verbum cordis’) dovrebbe trasformarsi in parola
La risposta di Francesca, che evoca la lettura di un romanzo che
narra gli amori di Lancillotto e della regina Ginevra, situa tale
esperienza di lettura esattamente nel punto in cui la parola del cuore
(l’agostiniano ‘verbum cordis’) dovrebbe trasformarsi in parola
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Tenzone 8
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Tenzone 8
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pronunciata (il ‘verbum oris’), occupando il luogo espressivo in cui
la personalità si ricompone sintonizzando l’interno con l’esterno.
Appunto in questa funzione vicaria, di mediare o sostituire
l’espressione verbale dell’esperienza interiore, e quindi di orientare
nel mondo la tensione di desiderio del soggetto, noi cogliamo il
senso autentico del romanzesco moderno, grazie al quale quella
esperienza originaria dell’io scoperta dai lirici acquista la sua più
ampia e popolare irradiazione sociale nella mentalità e nei
comportamenti dei lettori di romanzi8. Dante, certo, coglie del
romanzesco moderno non solo l’originalità storica, ma anche il
perverso potenziale di degradazione materialistica, la amputazione
che la personalità subisce quando la sessualità è vissuta come fine in
se stessa, e come energia al servizio del potenziamento spirituale
dell’io. Nella identificazione mimetica con i personaggi che agiscono
sulla scena letteraria il desiderio del lettore, invece di sublimarsi
poeticamente nella parola che lo spiritualizza e redime (le «parole
che lodano la donna mia»), si degrada romanzescamente nella
consumazione sessuale dell’oggetto («la bocca mi baciò tutto
tremante»). Bisogna però capire bene che il poeta rifiuta non la
funzione mediatrice svolta dalla letteratura, che la poesia (almeno la
sua) esercita secondo un nobilissimo programma di redenzione
culturale dell’umanità, ma la sua degradazione romanzesca, cioè
l’uso perverso (diciamo pure: acritico) che il romanzo fa di tale
mediazione, orientando verso il basso e non verso l’alto, verso la
materia e non verso lo spirito, il desiderio del lettore.
pronunciata (il ‘verbum oris’), occupando il luogo espressivo in cui
la personalità si ricompone sintonizzando l’interno con l’esterno.
Appunto in questa funzione vicaria, di mediare o sostituire
l’espressione verbale dell’esperienza interiore, e quindi di orientare
nel mondo la tensione di desiderio del soggetto, noi cogliamo il
senso autentico del romanzesco moderno, grazie al quale quella
esperienza originaria dell’io scoperta dai lirici acquista la sua più
ampia e popolare irradiazione sociale nella mentalità e nei
comportamenti dei lettori di romanzi8. Dante, certo, coglie del
romanzesco moderno non solo l’originalità storica, ma anche il
perverso potenziale di degradazione materialistica, la amputazione
che la personalità subisce quando la sessualità è vissuta come fine in
se stessa, e come energia al servizio del potenziamento spirituale
dell’io. Nella identificazione mimetica con i personaggi che agiscono
sulla scena letteraria il desiderio del lettore, invece di sublimarsi
poeticamente nella parola che lo spiritualizza e redime (le «parole
che lodano la donna mia»), si degrada romanzescamente nella
consumazione sessuale dell’oggetto («la bocca mi baciò tutto
tremante»). Bisogna però capire bene che il poeta rifiuta non la
funzione mediatrice svolta dalla letteratura, che la poesia (almeno la
sua) esercita secondo un nobilissimo programma di redenzione
culturale dell’umanità, ma la sua degradazione romanzesca, cioè
l’uso perverso (diciamo pure: acritico) che il romanzo fa di tale
mediazione, orientando verso il basso e non verso l’alto, verso la
materia e non verso lo spirito, il desiderio del lettore.
Denunciando il genere romanzesco come responsabile del
peccato di lussuria commesso dai due amanti cortesi, Dante apre la
grande riflessione della letteratura sulla funzione esemplare della
fictio (secondo De Vulgari II IV 2, la poesia «nichil aliud est quam
fictio rethorica musicaque poita»), e sul compito ad essa assegnato,
ed impensabile prima, di elaborazione di modelli culturalmente
prestigiosi e socialmente operativi di comportamento e mentalità.
Ciò che sorprende e scandalizza è la sua nuova prerogativa di
autorizzare valori collettivamente condivisi, compito e prerogativa
Denunciando il genere romanzesco come responsabile del
peccato di lussuria commesso dai due amanti cortesi, Dante apre la
grande riflessione della letteratura sulla funzione esemplare della
fictio (secondo De Vulgari II IV 2, la poesia «nichil aliud est quam
fictio rethorica musicaque poita»), e sul compito ad essa assegnato,
ed impensabile prima, di elaborazione di modelli culturalmente
prestigiosi e socialmente operativi di comportamento e mentalità.
Ciò che sorprende e scandalizza è la sua nuova prerogativa di
autorizzare valori collettivamente condivisi, compito e prerogativa
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Tenzone 8
2007
Tenzone 8
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pronunciata (il ‘verbum oris’), occupando il luogo espressivo in cui
la personalità si ricompone sintonizzando l’interno con l’esterno.
Appunto in questa funzione vicaria, di mediare o sostituire
l’espressione verbale dell’esperienza interiore, e quindi di orientare
nel mondo la tensione di desiderio del soggetto, noi cogliamo il
senso autentico del romanzesco moderno, grazie al quale quella
esperienza originaria dell’io scoperta dai lirici acquista la sua più
ampia e popolare irradiazione sociale nella mentalità e nei
comportamenti dei lettori di romanzi8. Dante, certo, coglie del
romanzesco moderno non solo l’originalità storica, ma anche il
perverso potenziale di degradazione materialistica, la amputazione
che la personalità subisce quando la sessualità è vissuta come fine in
se stessa, e come energia al servizio del potenziamento spirituale
dell’io. Nella identificazione mimetica con i personaggi che agiscono
sulla scena letteraria il desiderio del lettore, invece di sublimarsi
poeticamente nella parola che lo spiritualizza e redime (le «parole
che lodano la donna mia»), si degrada romanzescamente nella
consumazione sessuale dell’oggetto («la bocca mi baciò tutto
tremante»). Bisogna però capire bene che il poeta rifiuta non la
funzione mediatrice svolta dalla letteratura, che la poesia (almeno la
sua) esercita secondo un nobilissimo programma di redenzione
culturale dell’umanità, ma la sua degradazione romanzesca, cioè
l’uso perverso (diciamo pure: acritico) che il romanzo fa di tale
mediazione, orientando verso il basso e non verso l’alto, verso la
materia e non verso lo spirito, il desiderio del lettore.
pronunciata (il ‘verbum oris’), occupando il luogo espressivo in cui
la personalità si ricompone sintonizzando l’interno con l’esterno.
Appunto in questa funzione vicaria, di mediare o sostituire
l’espressione verbale dell’esperienza interiore, e quindi di orientare
nel mondo la tensione di desiderio del soggetto, noi cogliamo il
senso autentico del romanzesco moderno, grazie al quale quella
esperienza originaria dell’io scoperta dai lirici acquista la sua più
ampia e popolare irradiazione sociale nella mentalità e nei
comportamenti dei lettori di romanzi8. Dante, certo, coglie del
romanzesco moderno non solo l’originalità storica, ma anche il
perverso potenziale di degradazione materialistica, la amputazione
che la personalità subisce quando la sessualità è vissuta come fine in
se stessa, e come energia al servizio del potenziamento spirituale
dell’io. Nella identificazione mimetica con i personaggi che agiscono
sulla scena letteraria il desiderio del lettore, invece di sublimarsi
poeticamente nella parola che lo spiritualizza e redime (le «parole
che lodano la donna mia»), si degrada romanzescamente nella
consumazione sessuale dell’oggetto («la bocca mi baciò tutto
tremante»). Bisogna però capire bene che il poeta rifiuta non la
funzione mediatrice svolta dalla letteratura, che la poesia (almeno la
sua) esercita secondo un nobilissimo programma di redenzione
culturale dell’umanità, ma la sua degradazione romanzesca, cioè
l’uso perverso (diciamo pure: acritico) che il romanzo fa di tale
mediazione, orientando verso il basso e non verso l’alto, verso la
materia e non verso lo spirito, il desiderio del lettore.
Denunciando il genere romanzesco come responsabile del
peccato di lussuria commesso dai due amanti cortesi, Dante apre la
grande riflessione della letteratura sulla funzione esemplare della
fictio (secondo De Vulgari II IV 2, la poesia «nichil aliud est quam
fictio rethorica musicaque poita»), e sul compito ad essa assegnato,
ed impensabile prima, di elaborazione di modelli culturalmente
prestigiosi e socialmente operativi di comportamento e mentalità.
Ciò che sorprende e scandalizza è la sua nuova prerogativa di
autorizzare valori collettivamente condivisi, compito e prerogativa
Denunciando il genere romanzesco come responsabile del
peccato di lussuria commesso dai due amanti cortesi, Dante apre la
grande riflessione della letteratura sulla funzione esemplare della
fictio (secondo De Vulgari II IV 2, la poesia «nichil aliud est quam
fictio rethorica musicaque poita»), e sul compito ad essa assegnato,
ed impensabile prima, di elaborazione di modelli culturalmente
prestigiosi e socialmente operativi di comportamento e mentalità.
Ciò che sorprende e scandalizza è la sua nuova prerogativa di
autorizzare valori collettivamente condivisi, compito e prerogativa
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Raffaele PINTO
Dante (Inf. V) e Buster Keaton...
Raffaele PINTO
Dante (Inf. V) e Buster Keaton...
che anteriormente erano affidati al mito e alla religione, e che poi
avrebbero ereditato dalla letteratura il cinema e la televisione, le
forme novecentesche di produzione di fictio. Il realismo dantesco
deve essere inteso nel quadro di tale sviluppo storico, e quindi in un
senso densamente pragmatico, indeducibile dalla teoria antica (cioè
aristotelica) sul realismo dell’arte. Non si tratta di rispecchiare il
mondo, proponendo verosimili interpretazioni di esso che, in quanto
verosimili, siano anche credibili, ma di ricostruirlo fittiziamente in
modo così persuasivo da suggerire ed autorizzare comportamenti e
valori, mediando così i desideri del lettore, che mette a fuoco le
proprie mete vitali attraverso la identificazione con personaggi
presentati come degni di ammirazione e quindi come oggetto di
imitazione. Si tratta, semmai, di parodiare le agiografie, come fa
appunto Dante nella Vita Nuova, rovesciandone però i contenuti
(senz’altro perversi, in un’ottica cristiana) e le finalità (non edificanti
ma corruttrici).
che anteriormente erano affidati al mito e alla religione, e che poi
avrebbero ereditato dalla letteratura il cinema e la televisione, le
forme novecentesche di produzione di fictio. Il realismo dantesco
deve essere inteso nel quadro di tale sviluppo storico, e quindi in un
senso densamente pragmatico, indeducibile dalla teoria antica (cioè
aristotelica) sul realismo dell’arte. Non si tratta di rispecchiare il
mondo, proponendo verosimili interpretazioni di esso che, in quanto
verosimili, siano anche credibili, ma di ricostruirlo fittiziamente in
modo così persuasivo da suggerire ed autorizzare comportamenti e
valori, mediando così i desideri del lettore, che mette a fuoco le
proprie mete vitali attraverso la identificazione con personaggi
presentati come degni di ammirazione e quindi come oggetto di
imitazione. Si tratta, semmai, di parodiare le agiografie, come fa
appunto Dante nella Vita Nuova, rovesciandone però i contenuti
(senz’altro perversi, in un’ottica cristiana) e le finalità (non edificanti
ma corruttrici).
L’idea del libro o dell’autore che sono galeotti (cioè modelli di
devianza persuasivamente proposti al desiderio mimetico dei lettori)
viene per altro ripresa alla lettera da altri due classici della letteratura
protomoderna, il Decameron, di Boccaccio, il cui titolo
esplicitamente rinvia al V canto dell’Inferno, giacché il libro è
«cognominato Principe galeotto» (e quindi rivendica positivamente
quella cancellazione della trascendenza che Dante denuncia come
negativa nel romanzo), ed il Tirant lo Blanc, romanzo catalano di
Joanot Martorell (1490), del quale così scrive Cervantes:
L’idea del libro o dell’autore che sono galeotti (cioè modelli di
devianza persuasivamente proposti al desiderio mimetico dei lettori)
viene per altro ripresa alla lettera da altri due classici della letteratura
protomoderna, il Decameron, di Boccaccio, il cui titolo
esplicitamente rinvia al V canto dell’Inferno, giacché il libro è
«cognominato Principe galeotto» (e quindi rivendica positivamente
quella cancellazione della trascendenza che Dante denuncia come
negativa nel romanzo), ed il Tirant lo Blanc, romanzo catalano di
Joanot Martorell (1490), del quale così scrive Cervantes:
Ad onore della verità mi convien dire, signor compare, che questo
supera ogni altro libro del mondo in quanto allo stile. Qui poi i
cavalieri mangiano, dormono, muoiono sopra il loro letto; fanno il
loro testamento prima di morire, e vi si riscontrano tante e tante altre
cose delle quali non si fa neppur menzione in altri simili libri.
Contuttociò colui che lo scrisse (perché senza necessità scrisse tante
scempiaggini) meriterebbe la galera a vita9.
Ad onore della verità mi convien dire, signor compare, che questo
supera ogni altro libro del mondo in quanto allo stile. Qui poi i
cavalieri mangiano, dormono, muoiono sopra il loro letto; fanno il
loro testamento prima di morire, e vi si riscontrano tante e tante altre
cose delle quali non si fa neppur menzione in altri simili libri.
Contuttociò colui che lo scrisse (perché senza necessità scrisse tante
scempiaggini) meriterebbe la galera a vita9.
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Dante (Inf. V) e Buster Keaton...
Raffaele PINTO
Dante (Inf. V) e Buster Keaton...
che anteriormente erano affidati al mito e alla religione, e che poi
avrebbero ereditato dalla letteratura il cinema e la televisione, le
forme novecentesche di produzione di fictio. Il realismo dantesco
deve essere inteso nel quadro di tale sviluppo storico, e quindi in un
senso densamente pragmatico, indeducibile dalla teoria antica (cioè
aristotelica) sul realismo dell’arte. Non si tratta di rispecchiare il
mondo, proponendo verosimili interpretazioni di esso che, in quanto
verosimili, siano anche credibili, ma di ricostruirlo fittiziamente in
modo così persuasivo da suggerire ed autorizzare comportamenti e
valori, mediando così i desideri del lettore, che mette a fuoco le
proprie mete vitali attraverso la identificazione con personaggi
presentati come degni di ammirazione e quindi come oggetto di
imitazione. Si tratta, semmai, di parodiare le agiografie, come fa
appunto Dante nella Vita Nuova, rovesciandone però i contenuti
(senz’altro perversi, in un’ottica cristiana) e le finalità (non edificanti
ma corruttrici).
che anteriormente erano affidati al mito e alla religione, e che poi
avrebbero ereditato dalla letteratura il cinema e la televisione, le
forme novecentesche di produzione di fictio. Il realismo dantesco
deve essere inteso nel quadro di tale sviluppo storico, e quindi in un
senso densamente pragmatico, indeducibile dalla teoria antica (cioè
aristotelica) sul realismo dell’arte. Non si tratta di rispecchiare il
mondo, proponendo verosimili interpretazioni di esso che, in quanto
verosimili, siano anche credibili, ma di ricostruirlo fittiziamente in
modo così persuasivo da suggerire ed autorizzare comportamenti e
valori, mediando così i desideri del lettore, che mette a fuoco le
proprie mete vitali attraverso la identificazione con personaggi
presentati come degni di ammirazione e quindi come oggetto di
imitazione. Si tratta, semmai, di parodiare le agiografie, come fa
appunto Dante nella Vita Nuova, rovesciandone però i contenuti
(senz’altro perversi, in un’ottica cristiana) e le finalità (non edificanti
ma corruttrici).
L’idea del libro o dell’autore che sono galeotti (cioè modelli di
devianza persuasivamente proposti al desiderio mimetico dei lettori)
viene per altro ripresa alla lettera da altri due classici della letteratura
protomoderna, il Decameron, di Boccaccio, il cui titolo
esplicitamente rinvia al V canto dell’Inferno, giacché il libro è
«cognominato Principe galeotto» (e quindi rivendica positivamente
quella cancellazione della trascendenza che Dante denuncia come
negativa nel romanzo), ed il Tirant lo Blanc, romanzo catalano di
Joanot Martorell (1490), del quale così scrive Cervantes:
L’idea del libro o dell’autore che sono galeotti (cioè modelli di
devianza persuasivamente proposti al desiderio mimetico dei lettori)
viene per altro ripresa alla lettera da altri due classici della letteratura
protomoderna, il Decameron, di Boccaccio, il cui titolo
esplicitamente rinvia al V canto dell’Inferno, giacché il libro è
«cognominato Principe galeotto» (e quindi rivendica positivamente
quella cancellazione della trascendenza che Dante denuncia come
negativa nel romanzo), ed il Tirant lo Blanc, romanzo catalano di
Joanot Martorell (1490), del quale così scrive Cervantes:
Ad onore della verità mi convien dire, signor compare, che questo
supera ogni altro libro del mondo in quanto allo stile. Qui poi i
cavalieri mangiano, dormono, muoiono sopra il loro letto; fanno il
loro testamento prima di morire, e vi si riscontrano tante e tante altre
cose delle quali non si fa neppur menzione in altri simili libri.
Contuttociò colui che lo scrisse (perché senza necessità scrisse tante
scempiaggini) meriterebbe la galera a vita9.
Ad onore della verità mi convien dire, signor compare, che questo
supera ogni altro libro del mondo in quanto allo stile. Qui poi i
cavalieri mangiano, dormono, muoiono sopra il loro letto; fanno il
loro testamento prima di morire, e vi si riscontrano tante e tante altre
cose delle quali non si fa neppur menzione in altri simili libri.
Contuttociò colui che lo scrisse (perché senza necessità scrisse tante
scempiaggini) meriterebbe la galera a vita9.
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Tenzone 8
2007
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Ciò che importa, qui, è l’atteggiamento di Cervantes nei confronti
dell’episodio di Francesca, al quale allude condannando “a galeras”
Martorell per il suo realismo10. Riprendendo la citazione di
Boccaccio (galeras = galeotto), l’autore del Quijote rivela non solo
che gli è familiare il testo dantesco, ma anche che per lui
quell’episodio costituisce un archetipo moderno di costruzione
romanzesca, nel quadro di una concezione del ‘romanzesco’ che
identifica il realismo, cioè la veste quotidiana nella quale sono
rappresentati i personaggi cavallereschi, con la funzione
perversamente modellizzante della letteratura. Nell’ottica di
Cervantes tale veste quotidiana incrementa il potere persuasivo di
quei personaggi fittizi, e quindi rende più efficace l’effetto deviante
che essi producono su lettori creduli come don Chisciotte. Che nella
fase iniziale del romanzesco moderno la capacità della letteratura di
influire sui comportamenti sia avvertita come perversa, quando non è
esplicito il suo carattere moralizzante, e che quindi ogni romanzo sia
nel fondo giudicato un galeotto, non deve sorprendere; al contrario,
la percezione che di tale fenomeno ebbero gli scrittori riflette il
carattere inaudito, e quindi radicalmente moderno, della cultura
letteraria di cui il romanzo è espressione, e che i personaggi di Paolo
e Francesca per primi testimoniano11.
Ciò che importa, qui, è l’atteggiamento di Cervantes nei confronti
dell’episodio di Francesca, al quale allude condannando “a galeras”
Martorell per il suo realismo10. Riprendendo la citazione di
Boccaccio (galeras = galeotto), l’autore del Quijote rivela non solo
che gli è familiare il testo dantesco, ma anche che per lui
quell’episodio costituisce un archetipo moderno di costruzione
romanzesca, nel quadro di una concezione del ‘romanzesco’ che
identifica il realismo, cioè la veste quotidiana nella quale sono
rappresentati i personaggi cavallereschi, con la funzione
perversamente modellizzante della letteratura. Nell’ottica di
Cervantes tale veste quotidiana incrementa il potere persuasivo di
quei personaggi fittizi, e quindi rende più efficace l’effetto deviante
che essi producono su lettori creduli come don Chisciotte. Che nella
fase iniziale del romanzesco moderno la capacità della letteratura di
influire sui comportamenti sia avvertita come perversa, quando non è
esplicito il suo carattere moralizzante, e che quindi ogni romanzo sia
nel fondo giudicato un galeotto, non deve sorprendere; al contrario,
la percezione che di tale fenomeno ebbero gli scrittori riflette il
carattere inaudito, e quindi radicalmente moderno, della cultura
letteraria di cui il romanzo è espressione, e che i personaggi di Paolo
e Francesca per primi testimoniano11.
Comprendiamo così come Francesca sia la capostipite di una
lunga serie di personaggi paradigmatici della modernità, i quali
ripropongono, ad ogni svolta estetica della evoluzione culturale di
Occidente, la stessa questione relativa alla validità esemplare della
fictio letteraria. Nel momento stesso di accusare (v. 137) il romanzo
ed il suo autore di agire come ruffiani, giacché, parlando per gli
amanti, mettono allo scoperto ciò che avrebbe dovuto restare occulto,
Francesca rivela l’autentico contenuto della sua colpa. Tale colpa
non è altro che la legge generale della modernità, la quale consiste
appunto nella sostituzione della fictio poetica alla verità mitica e
religiosa, in quanto fonti di modelli etici. La imitatio Cristi cede
dunque il suo posto d’onore al culto laico della letteratura, la quale, a
partire dalla Commedia, decreta la sterilità modellizzante della
Comprendiamo così come Francesca sia la capostipite di una
lunga serie di personaggi paradigmatici della modernità, i quali
ripropongono, ad ogni svolta estetica della evoluzione culturale di
Occidente, la stessa questione relativa alla validità esemplare della
fictio letteraria. Nel momento stesso di accusare (v. 137) il romanzo
ed il suo autore di agire come ruffiani, giacché, parlando per gli
amanti, mettono allo scoperto ciò che avrebbe dovuto restare occulto,
Francesca rivela l’autentico contenuto della sua colpa. Tale colpa
non è altro che la legge generale della modernità, la quale consiste
appunto nella sostituzione della fictio poetica alla verità mitica e
religiosa, in quanto fonti di modelli etici. La imitatio Cristi cede
dunque il suo posto d’onore al culto laico della letteratura, la quale, a
partire dalla Commedia, decreta la sterilità modellizzante della
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Ciò che importa, qui, è l’atteggiamento di Cervantes nei confronti
dell’episodio di Francesca, al quale allude condannando “a galeras”
Martorell per il suo realismo10. Riprendendo la citazione di
Boccaccio (galeras = galeotto), l’autore del Quijote rivela non solo
che gli è familiare il testo dantesco, ma anche che per lui
quell’episodio costituisce un archetipo moderno di costruzione
romanzesca, nel quadro di una concezione del ‘romanzesco’ che
identifica il realismo, cioè la veste quotidiana nella quale sono
rappresentati i personaggi cavallereschi, con la funzione
perversamente modellizzante della letteratura. Nell’ottica di
Cervantes tale veste quotidiana incrementa il potere persuasivo di
quei personaggi fittizi, e quindi rende più efficace l’effetto deviante
che essi producono su lettori creduli come don Chisciotte. Che nella
fase iniziale del romanzesco moderno la capacità della letteratura di
influire sui comportamenti sia avvertita come perversa, quando non è
esplicito il suo carattere moralizzante, e che quindi ogni romanzo sia
nel fondo giudicato un galeotto, non deve sorprendere; al contrario,
la percezione che di tale fenomeno ebbero gli scrittori riflette il
carattere inaudito, e quindi radicalmente moderno, della cultura
letteraria di cui il romanzo è espressione, e che i personaggi di Paolo
e Francesca per primi testimoniano11.
Ciò che importa, qui, è l’atteggiamento di Cervantes nei confronti
dell’episodio di Francesca, al quale allude condannando “a galeras”
Martorell per il suo realismo10. Riprendendo la citazione di
Boccaccio (galeras = galeotto), l’autore del Quijote rivela non solo
che gli è familiare il testo dantesco, ma anche che per lui
quell’episodio costituisce un archetipo moderno di costruzione
romanzesca, nel quadro di una concezione del ‘romanzesco’ che
identifica il realismo, cioè la veste quotidiana nella quale sono
rappresentati i personaggi cavallereschi, con la funzione
perversamente modellizzante della letteratura. Nell’ottica di
Cervantes tale veste quotidiana incrementa il potere persuasivo di
quei personaggi fittizi, e quindi rende più efficace l’effetto deviante
che essi producono su lettori creduli come don Chisciotte. Che nella
fase iniziale del romanzesco moderno la capacità della letteratura di
influire sui comportamenti sia avvertita come perversa, quando non è
esplicito il suo carattere moralizzante, e che quindi ogni romanzo sia
nel fondo giudicato un galeotto, non deve sorprendere; al contrario,
la percezione che di tale fenomeno ebbero gli scrittori riflette il
carattere inaudito, e quindi radicalmente moderno, della cultura
letteraria di cui il romanzo è espressione, e che i personaggi di Paolo
e Francesca per primi testimoniano11.
Comprendiamo così come Francesca sia la capostipite di una
lunga serie di personaggi paradigmatici della modernità, i quali
ripropongono, ad ogni svolta estetica della evoluzione culturale di
Occidente, la stessa questione relativa alla validità esemplare della
fictio letteraria. Nel momento stesso di accusare (v. 137) il romanzo
ed il suo autore di agire come ruffiani, giacché, parlando per gli
amanti, mettono allo scoperto ciò che avrebbe dovuto restare occulto,
Francesca rivela l’autentico contenuto della sua colpa. Tale colpa
non è altro che la legge generale della modernità, la quale consiste
appunto nella sostituzione della fictio poetica alla verità mitica e
religiosa, in quanto fonti di modelli etici. La imitatio Cristi cede
dunque il suo posto d’onore al culto laico della letteratura, la quale, a
partire dalla Commedia, decreta la sterilità modellizzante della
Comprendiamo così come Francesca sia la capostipite di una
lunga serie di personaggi paradigmatici della modernità, i quali
ripropongono, ad ogni svolta estetica della evoluzione culturale di
Occidente, la stessa questione relativa alla validità esemplare della
fictio letteraria. Nel momento stesso di accusare (v. 137) il romanzo
ed il suo autore di agire come ruffiani, giacché, parlando per gli
amanti, mettono allo scoperto ciò che avrebbe dovuto restare occulto,
Francesca rivela l’autentico contenuto della sua colpa. Tale colpa
non è altro che la legge generale della modernità, la quale consiste
appunto nella sostituzione della fictio poetica alla verità mitica e
religiosa, in quanto fonti di modelli etici. La imitatio Cristi cede
dunque il suo posto d’onore al culto laico della letteratura, la quale, a
partire dalla Commedia, decreta la sterilità modellizzante della
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Raffaele PINTO
Dante (Inf. V) e Buster Keaton...
Raffaele PINTO
Dante (Inf. V) e Buster Keaton...
religione. E lo stesso vale, ovviamente, per i miti della classicità,
giacché la passione di Francesca è indeducibile non solo da quella di
Gesù, ma anche dalla passione di Didone (della quale sarebbe
assurdo immaginare che si innamori di Enea per somigliare ad una
eroina di finzione12).
religione. E lo stesso vale, ovviamente, per i miti della classicità,
giacché la passione di Francesca è indeducibile non solo da quella di
Gesù, ma anche dalla passione di Didone (della quale sarebbe
assurdo immaginare che si innamori di Enea per somigliare ad una
eroina di finzione12).
Come si è osservato, la proposta teorica di Girard prevede anche,
all’interno della struttura triangolare del desiderio, una funzione
storica di avvicinamento del mediatore al soggetto, che coincide con
il processo di secolarizzazione della cultura europea, e che può
agevolmente essere riconosciuta nella usurpazione, da parte di divi e
famosi, della funzione esemplare anteriormente esercitata da
personaggi letterari e romanzeschi, e prima ancora, ad una distanza
ancora maggiore, da santi ed eroi13. È all’interno di questo processo
che va analizzato il contenuto estetico del cinema, la cui tecnologia è
al servizio di un progetto di civiltà in cui il mediatore del desiderio
viene potentemente avvicinato allo spettatore, che può identificarsi
idealmente con il modello fittizio in una misura sconosciuta ad ogni
forma estetica anteriore. Il che produce l’appannamento della linea di
confine fra realtà e finzione, così caratteristico della estetica
novecentesca. La grande letteratura del secolo scorso ha messo in
luce, normalmente, gli effetti di angoscioso estraniamento di tale
confusione, che sembra sottrarre all’io le sue tradizionali coordinate
esistenzali. Il cinema, invece, che di tali processi può essere
considerato il responsabile (in quanto dispositivo estetico) ne
illumina gli aspetti positivi, che consistono in una maggiore capacità
di controllo sui meccanismi di identificazione dell’io. Il fenomeno,
concomitante al radicale avvicinamento del modello fittizio, viene
illustrato da W. Benjamin nel saggio più volte citato, e consiste
nell’atteggiamento critico che il cinema suscita nel pubblico, per
quanto profano esso sia di tecnica cinematografica14. È appunto in
tale spontaneo e disideologizzato atteggiamento critico che si
manifesta il controllo che lo spettatore acquisisce, grazie al cinema,
sugli oggetti del proprio desiderio e quindi sulla costruzione della
propria identità individuale. In questo modo il cinema esegue, su un
Come si è osservato, la proposta teorica di Girard prevede anche,
all’interno della struttura triangolare del desiderio, una funzione
storica di avvicinamento del mediatore al soggetto, che coincide con
il processo di secolarizzazione della cultura europea, e che può
agevolmente essere riconosciuta nella usurpazione, da parte di divi e
famosi, della funzione esemplare anteriormente esercitata da
personaggi letterari e romanzeschi, e prima ancora, ad una distanza
ancora maggiore, da santi ed eroi13. È all’interno di questo processo
che va analizzato il contenuto estetico del cinema, la cui tecnologia è
al servizio di un progetto di civiltà in cui il mediatore del desiderio
viene potentemente avvicinato allo spettatore, che può identificarsi
idealmente con il modello fittizio in una misura sconosciuta ad ogni
forma estetica anteriore. Il che produce l’appannamento della linea di
confine fra realtà e finzione, così caratteristico della estetica
novecentesca. La grande letteratura del secolo scorso ha messo in
luce, normalmente, gli effetti di angoscioso estraniamento di tale
confusione, che sembra sottrarre all’io le sue tradizionali coordinate
esistenzali. Il cinema, invece, che di tali processi può essere
considerato il responsabile (in quanto dispositivo estetico) ne
illumina gli aspetti positivi, che consistono in una maggiore capacità
di controllo sui meccanismi di identificazione dell’io. Il fenomeno,
concomitante al radicale avvicinamento del modello fittizio, viene
illustrato da W. Benjamin nel saggio più volte citato, e consiste
nell’atteggiamento critico che il cinema suscita nel pubblico, per
quanto profano esso sia di tecnica cinematografica14. È appunto in
tale spontaneo e disideologizzato atteggiamento critico che si
manifesta il controllo che lo spettatore acquisisce, grazie al cinema,
sugli oggetti del proprio desiderio e quindi sulla costruzione della
propria identità individuale. In questo modo il cinema esegue, su un
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Raffaele PINTO
Dante (Inf. V) e Buster Keaton...
Raffaele PINTO
Dante (Inf. V) e Buster Keaton...
religione. E lo stesso vale, ovviamente, per i miti della classicità,
giacché la passione di Francesca è indeducibile non solo da quella di
Gesù, ma anche dalla passione di Didone (della quale sarebbe
assurdo immaginare che si innamori di Enea per somigliare ad una
eroina di finzione12).
religione. E lo stesso vale, ovviamente, per i miti della classicità,
giacché la passione di Francesca è indeducibile non solo da quella di
Gesù, ma anche dalla passione di Didone (della quale sarebbe
assurdo immaginare che si innamori di Enea per somigliare ad una
eroina di finzione12).
Come si è osservato, la proposta teorica di Girard prevede anche,
all’interno della struttura triangolare del desiderio, una funzione
storica di avvicinamento del mediatore al soggetto, che coincide con
il processo di secolarizzazione della cultura europea, e che può
agevolmente essere riconosciuta nella usurpazione, da parte di divi e
famosi, della funzione esemplare anteriormente esercitata da
personaggi letterari e romanzeschi, e prima ancora, ad una distanza
ancora maggiore, da santi ed eroi13. È all’interno di questo processo
che va analizzato il contenuto estetico del cinema, la cui tecnologia è
al servizio di un progetto di civiltà in cui il mediatore del desiderio
viene potentemente avvicinato allo spettatore, che può identificarsi
idealmente con il modello fittizio in una misura sconosciuta ad ogni
forma estetica anteriore. Il che produce l’appannamento della linea di
confine fra realtà e finzione, così caratteristico della estetica
novecentesca. La grande letteratura del secolo scorso ha messo in
luce, normalmente, gli effetti di angoscioso estraniamento di tale
confusione, che sembra sottrarre all’io le sue tradizionali coordinate
esistenzali. Il cinema, invece, che di tali processi può essere
considerato il responsabile (in quanto dispositivo estetico) ne
illumina gli aspetti positivi, che consistono in una maggiore capacità
di controllo sui meccanismi di identificazione dell’io. Il fenomeno,
concomitante al radicale avvicinamento del modello fittizio, viene
illustrato da W. Benjamin nel saggio più volte citato, e consiste
nell’atteggiamento critico che il cinema suscita nel pubblico, per
quanto profano esso sia di tecnica cinematografica14. È appunto in
tale spontaneo e disideologizzato atteggiamento critico che si
manifesta il controllo che lo spettatore acquisisce, grazie al cinema,
sugli oggetti del proprio desiderio e quindi sulla costruzione della
propria identità individuale. In questo modo il cinema esegue, su un
Come si è osservato, la proposta teorica di Girard prevede anche,
all’interno della struttura triangolare del desiderio, una funzione
storica di avvicinamento del mediatore al soggetto, che coincide con
il processo di secolarizzazione della cultura europea, e che può
agevolmente essere riconosciuta nella usurpazione, da parte di divi e
famosi, della funzione esemplare anteriormente esercitata da
personaggi letterari e romanzeschi, e prima ancora, ad una distanza
ancora maggiore, da santi ed eroi13. È all’interno di questo processo
che va analizzato il contenuto estetico del cinema, la cui tecnologia è
al servizio di un progetto di civiltà in cui il mediatore del desiderio
viene potentemente avvicinato allo spettatore, che può identificarsi
idealmente con il modello fittizio in una misura sconosciuta ad ogni
forma estetica anteriore. Il che produce l’appannamento della linea di
confine fra realtà e finzione, così caratteristico della estetica
novecentesca. La grande letteratura del secolo scorso ha messo in
luce, normalmente, gli effetti di angoscioso estraniamento di tale
confusione, che sembra sottrarre all’io le sue tradizionali coordinate
esistenzali. Il cinema, invece, che di tali processi può essere
considerato il responsabile (in quanto dispositivo estetico) ne
illumina gli aspetti positivi, che consistono in una maggiore capacità
di controllo sui meccanismi di identificazione dell’io. Il fenomeno,
concomitante al radicale avvicinamento del modello fittizio, viene
illustrato da W. Benjamin nel saggio più volte citato, e consiste
nell’atteggiamento critico che il cinema suscita nel pubblico, per
quanto profano esso sia di tecnica cinematografica14. È appunto in
tale spontaneo e disideologizzato atteggiamento critico che si
manifesta il controllo che lo spettatore acquisisce, grazie al cinema,
sugli oggetti del proprio desiderio e quindi sulla costruzione della
propria identità individuale. In questo modo il cinema esegue, su un
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piano di maggiore ampiezza e profondità, il progetto di civiltà
veicolato dal romanzo moderno, offrendo il divo in pasto alla
famelica prassi desiderante dello spettatore, che nel cinema (o nel
suo surrogato televisivo) cerca e trova i modelli ai quali ispirare, e
coi quali legittimare, la propria condotta di vita. Anzi, la pervasività
della tecnologia della immagine esercita un tale monopolio sulla
percezione estetica da neutralizzare qualunque forma di
legittimazione, etica e politica, che non sia quella della fictio
audiovisiva da essa prodotta.
piano di maggiore ampiezza e profondità, il progetto di civiltà
veicolato dal romanzo moderno, offrendo il divo in pasto alla
famelica prassi desiderante dello spettatore, che nel cinema (o nel
suo surrogato televisivo) cerca e trova i modelli ai quali ispirare, e
coi quali legittimare, la propria condotta di vita. Anzi, la pervasività
della tecnologia della immagine esercita un tale monopolio sulla
percezione estetica da neutralizzare qualunque forma di
legittimazione, etica e politica, che non sia quella della fictio
audiovisiva da essa prodotta.
Tutto ciò suggerisce che fra letteratura e cinema esista un
rapporto di svolgimento storico (all’interno di uno stesso paradigma
estetico), oltre che un rapporto di rispecchiamenti ed influenze
tematiche (fra linguaggi estetici diversi). Potenziando, attraverso la
tecnologia, la percezione audiovisiva del reale, il cinema incrementa
il potere d’attrazione intramondana che la letteratura modernamente
esercita sui valori della trascendenza, secolarizzandoli
completamente e, forse, irreversibilmente. E all’interno della
espressione filmica, è poi quella di registro comico che spinge
ulteriormente in avanti tali processi di decostruzione del mito,
presentando il reale come prolungamento della immagine e
addirittura come sua copia degradata15. E ciò vale non solo per gli
inizi dell’arte cinematografica, come vediamo in Keaton16, ma anche
per i suoi sviluppi, come vediamo nell’opera di Woody Allen, la cui
sceneggiatura in Provaci ancora Sam (Play it again, Sam, 1972) è
evidentemente ispirata dal film dal quale siamo partiti. In Allen, anzi,
la percezione del ruolo esemplare della finzione filmica è esplicita,
ed il registro comico serve appunto a denunciarla nel suo radicalismo
estetico ed (anti)ideologico.
Tutto ciò suggerisce che fra letteratura e cinema esista un
rapporto di svolgimento storico (all’interno di uno stesso paradigma
estetico), oltre che un rapporto di rispecchiamenti ed influenze
tematiche (fra linguaggi estetici diversi). Potenziando, attraverso la
tecnologia, la percezione audiovisiva del reale, il cinema incrementa
il potere d’attrazione intramondana che la letteratura modernamente
esercita sui valori della trascendenza, secolarizzandoli
completamente e, forse, irreversibilmente. E all’interno della
espressione filmica, è poi quella di registro comico che spinge
ulteriormente in avanti tali processi di decostruzione del mito,
presentando il reale come prolungamento della immagine e
addirittura come sua copia degradata15. E ciò vale non solo per gli
inizi dell’arte cinematografica, come vediamo in Keaton16, ma anche
per i suoi sviluppi, come vediamo nell’opera di Woody Allen, la cui
sceneggiatura in Provaci ancora Sam (Play it again, Sam, 1972) è
evidentemente ispirata dal film dal quale siamo partiti. In Allen, anzi,
la percezione del ruolo esemplare della finzione filmica è esplicita,
ed il registro comico serve appunto a denunciarla nel suo radicalismo
estetico ed (anti)ideologico.
Nel cinema di Keaton la logica mimetica del desiderio celebra il
suo trionfo sfondando letteralmente lo schermo ed invadendo lo
spazio pseudosacro dell’eroe, che ora scende dal piedistallo letterario
e diviene complice o addirittura controfigura del soggetto-spettatore.
Tra la finzione filmica e la realtà spettatoriale viene abolita ogni
rigida separazione, e i due spazi divengono transitabili in entrambe le
Nel cinema di Keaton la logica mimetica del desiderio celebra il
suo trionfo sfondando letteralmente lo schermo ed invadendo lo
spazio pseudosacro dell’eroe, che ora scende dal piedistallo letterario
e diviene complice o addirittura controfigura del soggetto-spettatore.
Tra la finzione filmica e la realtà spettatoriale viene abolita ogni
rigida separazione, e i due spazi divengono transitabili in entrambe le
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piano di maggiore ampiezza e profondità, il progetto di civiltà
veicolato dal romanzo moderno, offrendo il divo in pasto alla
famelica prassi desiderante dello spettatore, che nel cinema (o nel
suo surrogato televisivo) cerca e trova i modelli ai quali ispirare, e
coi quali legittimare, la propria condotta di vita. Anzi, la pervasività
della tecnologia della immagine esercita un tale monopolio sulla
percezione estetica da neutralizzare qualunque forma di
legittimazione, etica e politica, che non sia quella della fictio
audiovisiva da essa prodotta.
piano di maggiore ampiezza e profondità, il progetto di civiltà
veicolato dal romanzo moderno, offrendo il divo in pasto alla
famelica prassi desiderante dello spettatore, che nel cinema (o nel
suo surrogato televisivo) cerca e trova i modelli ai quali ispirare, e
coi quali legittimare, la propria condotta di vita. Anzi, la pervasività
della tecnologia della immagine esercita un tale monopolio sulla
percezione estetica da neutralizzare qualunque forma di
legittimazione, etica e politica, che non sia quella della fictio
audiovisiva da essa prodotta.
Tutto ciò suggerisce che fra letteratura e cinema esista un
rapporto di svolgimento storico (all’interno di uno stesso paradigma
estetico), oltre che un rapporto di rispecchiamenti ed influenze
tematiche (fra linguaggi estetici diversi). Potenziando, attraverso la
tecnologia, la percezione audiovisiva del reale, il cinema incrementa
il potere d’attrazione intramondana che la letteratura modernamente
esercita sui valori della trascendenza, secolarizzandoli
completamente e, forse, irreversibilmente. E all’interno della
espressione filmica, è poi quella di registro comico che spinge
ulteriormente in avanti tali processi di decostruzione del mito,
presentando il reale come prolungamento della immagine e
addirittura come sua copia degradata15. E ciò vale non solo per gli
inizi dell’arte cinematografica, come vediamo in Keaton16, ma anche
per i suoi sviluppi, come vediamo nell’opera di Woody Allen, la cui
sceneggiatura in Provaci ancora Sam (Play it again, Sam, 1972) è
evidentemente ispirata dal film dal quale siamo partiti. In Allen, anzi,
la percezione del ruolo esemplare della finzione filmica è esplicita,
ed il registro comico serve appunto a denunciarla nel suo radicalismo
estetico ed (anti)ideologico.
Tutto ciò suggerisce che fra letteratura e cinema esista un
rapporto di svolgimento storico (all’interno di uno stesso paradigma
estetico), oltre che un rapporto di rispecchiamenti ed influenze
tematiche (fra linguaggi estetici diversi). Potenziando, attraverso la
tecnologia, la percezione audiovisiva del reale, il cinema incrementa
il potere d’attrazione intramondana che la letteratura modernamente
esercita sui valori della trascendenza, secolarizzandoli
completamente e, forse, irreversibilmente. E all’interno della
espressione filmica, è poi quella di registro comico che spinge
ulteriormente in avanti tali processi di decostruzione del mito,
presentando il reale come prolungamento della immagine e
addirittura come sua copia degradata15. E ciò vale non solo per gli
inizi dell’arte cinematografica, come vediamo in Keaton16, ma anche
per i suoi sviluppi, come vediamo nell’opera di Woody Allen, la cui
sceneggiatura in Provaci ancora Sam (Play it again, Sam, 1972) è
evidentemente ispirata dal film dal quale siamo partiti. In Allen, anzi,
la percezione del ruolo esemplare della finzione filmica è esplicita,
ed il registro comico serve appunto a denunciarla nel suo radicalismo
estetico ed (anti)ideologico.
Nel cinema di Keaton la logica mimetica del desiderio celebra il
suo trionfo sfondando letteralmente lo schermo ed invadendo lo
spazio pseudosacro dell’eroe, che ora scende dal piedistallo letterario
e diviene complice o addirittura controfigura del soggetto-spettatore.
Tra la finzione filmica e la realtà spettatoriale viene abolita ogni
rigida separazione, e i due spazi divengono transitabili in entrambe le
Nel cinema di Keaton la logica mimetica del desiderio celebra il
suo trionfo sfondando letteralmente lo schermo ed invadendo lo
spazio pseudosacro dell’eroe, che ora scende dal piedistallo letterario
e diviene complice o addirittura controfigura del soggetto-spettatore.
Tra la finzione filmica e la realtà spettatoriale viene abolita ogni
rigida separazione, e i due spazi divengono transitabili in entrambe le
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Raffaele PINTO
Dante (Inf. V) e Buster Keaton...
Raffaele PINTO
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direzioni. Nel caso di S. H. J. l’attraversamento dello schermo è
letterale, come si è già osservato. Ma nel caso del Cameraman
(1928) l’immagine filmicamente sdoppiata del protagonista, nelle
scene finali del film, convince la ragazza che egli, e non il fatuo
rivale-antagonista, merita il premio del suo amore. Come a dire che
solo attraverso la mediazione filmica, che trasforma il corpo in
immagine, il soggetto può aspirare ad entrare nello scambio erotico,
divenendo a sua volta oggetto di desiderio, e quindi vedendo
premiate le sue aspettative di realizzazione nel mondo. Ma si tratta in
effetti dello stesso procedimento di attraversamento dello schermo,
giacché il risultato è, in entrambi i casi, la totale e quindi comica
abolizione di ogni distanza e di ogni soglia separativa fra la sacralità
del modello immaginario e l’esperienza del soggetto desiderante.
Woody Allen sviluppa tali pionieristiche intuizioni di Keaton in La
rosa purpurea del Cairo (The purple rose of Cairo, 1985), facendo sì
che i due protagonisti attraversino la soglia separativa fra realtà e
finzione, l’uno uscendo dallo schermo e l’altra entrandoci. È appunto
tale attraversamento ciò che definisco come «mediazione comica del
desiderio», giacché con esso la modernità porta a termine quel
progetto di identificazione totale e senza residui del soggetto con il
suo mediatore, che viene finalmente destituito di ogni parvenza di
distanza ed autorità.
direzioni. Nel caso di S. H. J. l’attraversamento dello schermo è
letterale, come si è già osservato. Ma nel caso del Cameraman
(1928) l’immagine filmicamente sdoppiata del protagonista, nelle
scene finali del film, convince la ragazza che egli, e non il fatuo
rivale-antagonista, merita il premio del suo amore. Come a dire che
solo attraverso la mediazione filmica, che trasforma il corpo in
immagine, il soggetto può aspirare ad entrare nello scambio erotico,
divenendo a sua volta oggetto di desiderio, e quindi vedendo
premiate le sue aspettative di realizzazione nel mondo. Ma si tratta in
effetti dello stesso procedimento di attraversamento dello schermo,
giacché il risultato è, in entrambi i casi, la totale e quindi comica
abolizione di ogni distanza e di ogni soglia separativa fra la sacralità
del modello immaginario e l’esperienza del soggetto desiderante.
Woody Allen sviluppa tali pionieristiche intuizioni di Keaton in La
rosa purpurea del Cairo (The purple rose of Cairo, 1985), facendo sì
che i due protagonisti attraversino la soglia separativa fra realtà e
finzione, l’uno uscendo dallo schermo e l’altra entrandoci. È appunto
tale attraversamento ciò che definisco come «mediazione comica del
desiderio», giacché con esso la modernità porta a termine quel
progetto di identificazione totale e senza residui del soggetto con il
suo mediatore, che viene finalmente destituito di ogni parvenza di
distanza ed autorità.
Mi preme ora osservare che tale identificazione può, da una parte,
solo essere filmica, per il realismo connaturato all’effetto
cinematografico: al cinema noi vediamo le cose, non le
immaginiamo, come nella lettura17; e che, dall’altra, essa può solo
essere comica e quindi prerazionale, poiché la profanazione dello
spazio trascendente cui ogni immagine in quanto tale rinvia18 implica
un desiderio dionisiacamente libero che, se razionalizzato fino in
fondo, cioè riconosciuto come pura pulsionalità, entrerebbe
immediatamente in contraddizione con l’ufficialità ideologica,
attraverso la quale il potere cerca di conservare una qualche
separazione e quindi una apparenza di trascendenza. La funzione
decostruttiva del riso è intrinsecamente ostile alle ideologie, e lo è
Mi preme ora osservare che tale identificazione può, da una parte,
solo essere filmica, per il realismo connaturato all’effetto
cinematografico: al cinema noi vediamo le cose, non le
immaginiamo, come nella lettura17; e che, dall’altra, essa può solo
essere comica e quindi prerazionale, poiché la profanazione dello
spazio trascendente cui ogni immagine in quanto tale rinvia18 implica
un desiderio dionisiacamente libero che, se razionalizzato fino in
fondo, cioè riconosciuto come pura pulsionalità, entrerebbe
immediatamente in contraddizione con l’ufficialità ideologica,
attraverso la quale il potere cerca di conservare una qualche
separazione e quindi una apparenza di trascendenza. La funzione
decostruttiva del riso è intrinsecamente ostile alle ideologie, e lo è
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direzioni. Nel caso di S. H. J. l’attraversamento dello schermo è
letterale, come si è già osservato. Ma nel caso del Cameraman
(1928) l’immagine filmicamente sdoppiata del protagonista, nelle
scene finali del film, convince la ragazza che egli, e non il fatuo
rivale-antagonista, merita il premio del suo amore. Come a dire che
solo attraverso la mediazione filmica, che trasforma il corpo in
immagine, il soggetto può aspirare ad entrare nello scambio erotico,
divenendo a sua volta oggetto di desiderio, e quindi vedendo
premiate le sue aspettative di realizzazione nel mondo. Ma si tratta in
effetti dello stesso procedimento di attraversamento dello schermo,
giacché il risultato è, in entrambi i casi, la totale e quindi comica
abolizione di ogni distanza e di ogni soglia separativa fra la sacralità
del modello immaginario e l’esperienza del soggetto desiderante.
Woody Allen sviluppa tali pionieristiche intuizioni di Keaton in La
rosa purpurea del Cairo (The purple rose of Cairo, 1985), facendo sì
che i due protagonisti attraversino la soglia separativa fra realtà e
finzione, l’uno uscendo dallo schermo e l’altra entrandoci. È appunto
tale attraversamento ciò che definisco come «mediazione comica del
desiderio», giacché con esso la modernità porta a termine quel
progetto di identificazione totale e senza residui del soggetto con il
suo mediatore, che viene finalmente destituito di ogni parvenza di
distanza ed autorità.
direzioni. Nel caso di S. H. J. l’attraversamento dello schermo è
letterale, come si è già osservato. Ma nel caso del Cameraman
(1928) l’immagine filmicamente sdoppiata del protagonista, nelle
scene finali del film, convince la ragazza che egli, e non il fatuo
rivale-antagonista, merita il premio del suo amore. Come a dire che
solo attraverso la mediazione filmica, che trasforma il corpo in
immagine, il soggetto può aspirare ad entrare nello scambio erotico,
divenendo a sua volta oggetto di desiderio, e quindi vedendo
premiate le sue aspettative di realizzazione nel mondo. Ma si tratta in
effetti dello stesso procedimento di attraversamento dello schermo,
giacché il risultato è, in entrambi i casi, la totale e quindi comica
abolizione di ogni distanza e di ogni soglia separativa fra la sacralità
del modello immaginario e l’esperienza del soggetto desiderante.
Woody Allen sviluppa tali pionieristiche intuizioni di Keaton in La
rosa purpurea del Cairo (The purple rose of Cairo, 1985), facendo sì
che i due protagonisti attraversino la soglia separativa fra realtà e
finzione, l’uno uscendo dallo schermo e l’altra entrandoci. È appunto
tale attraversamento ciò che definisco come «mediazione comica del
desiderio», giacché con esso la modernità porta a termine quel
progetto di identificazione totale e senza residui del soggetto con il
suo mediatore, che viene finalmente destituito di ogni parvenza di
distanza ed autorità.
Mi preme ora osservare che tale identificazione può, da una parte,
solo essere filmica, per il realismo connaturato all’effetto
cinematografico: al cinema noi vediamo le cose, non le
immaginiamo, come nella lettura17; e che, dall’altra, essa può solo
essere comica e quindi prerazionale, poiché la profanazione dello
spazio trascendente cui ogni immagine in quanto tale rinvia18 implica
un desiderio dionisiacamente libero che, se razionalizzato fino in
fondo, cioè riconosciuto come pura pulsionalità, entrerebbe
immediatamente in contraddizione con l’ufficialità ideologica,
attraverso la quale il potere cerca di conservare una qualche
separazione e quindi una apparenza di trascendenza. La funzione
decostruttiva del riso è intrinsecamente ostile alle ideologie, e lo è
Mi preme ora osservare che tale identificazione può, da una parte,
solo essere filmica, per il realismo connaturato all’effetto
cinematografico: al cinema noi vediamo le cose, non le
immaginiamo, come nella lettura17; e che, dall’altra, essa può solo
essere comica e quindi prerazionale, poiché la profanazione dello
spazio trascendente cui ogni immagine in quanto tale rinvia18 implica
un desiderio dionisiacamente libero che, se razionalizzato fino in
fondo, cioè riconosciuto come pura pulsionalità, entrerebbe
immediatamente in contraddizione con l’ufficialità ideologica,
attraverso la quale il potere cerca di conservare una qualche
separazione e quindi una apparenza di trascendenza. La funzione
decostruttiva del riso è intrinsecamente ostile alle ideologie, e lo è
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tanto di più quanto maggiore è l’uso che delle ideologie fa il potere
per legittimarsi. Il comico cinematografico è quindi il più ‘galeotto’
dei registri espressivi, poiché l’avvicinamento del modello e
l’attraversamento della soglia separativa fra realtà e finzione si
producono al di sotto del livello cosciente e volontario dello
spettatore. E tuttavia si tratta di un avvicinamento ed un
attraversamento socialmente e culturalmente necessari perché il
soggetto possa, sulle rovine di modelli esemplari desautorati dalla
tecnologia, liberamente costruirsi come persona. Paradossalmente,
sono i ridicoli personaggi di Buster Keaton, Frank Capra e Woody
Allen quelli che rivelano meglio di qualunque altro personaggio
cinematografico (epico, tragico o melodrammatico) l’utopia
fondamentale della modernità, cioè quella di un individuo
eroicamente padrone del proprio destino19.
tanto di più quanto maggiore è l’uso che delle ideologie fa il potere
per legittimarsi. Il comico cinematografico è quindi il più ‘galeotto’
dei registri espressivi, poiché l’avvicinamento del modello e
l’attraversamento della soglia separativa fra realtà e finzione si
producono al di sotto del livello cosciente e volontario dello
spettatore. E tuttavia si tratta di un avvicinamento ed un
attraversamento socialmente e culturalmente necessari perché il
soggetto possa, sulle rovine di modelli esemplari desautorati dalla
tecnologia, liberamente costruirsi come persona. Paradossalmente,
sono i ridicoli personaggi di Buster Keaton, Frank Capra e Woody
Allen quelli che rivelano meglio di qualunque altro personaggio
cinematografico (epico, tragico o melodrammatico) l’utopia
fondamentale della modernità, cioè quella di un individuo
eroicamente padrone del proprio destino19.
Tale mediazione comica, infine, ci indica la direzione del
superamento postmoderno della estetica della modernità,
superamento che è chiaramente orientato verso la integrale
virtualizzazione dell’io che le nuove tecnologie promuovono,
identificando completamente realtà e finzione, ossia facendo della
fictio il terreno in cui l’io costruisce se stesso e si proietta nel mondo
secondo un progetto vitale elaborato in piena autonomia e che
coinvolge non solo l’identità personale (attraverso la costruzione di
ruoli nei nuovi spazi di socializzazione della Rete) ma perfino la
materialità biologica del corpo (attraverso la genetica e la chirurgia
estetica). Gli esiti spesso aberranti di tale virtualizzazione dell’io, che
non è adeguatamente supportata da un sistema educativo che orienti
il cittadino nell’esercizio di tali nuove potenzialità e responsabilità,
non devono offuscare l’oggettivo progresso che esse significano sul
piano della autonomia personale, progresso che la cultura politica (in
particolare quella italiana) è ben lungi dall’aver assimilato, sul piano
dell’analisi e della progettualità. In questa prospettiva, il concetto di
‘finzione’ (tecnologicamente intesa) e quello di ‘libertà’
(politicamente concepita come integrale democratizzazione della vita
sociale) si confondono l’uno nell’altro, essendo l’una condizione
Tale mediazione comica, infine, ci indica la direzione del
superamento postmoderno della estetica della modernità,
superamento che è chiaramente orientato verso la integrale
virtualizzazione dell’io che le nuove tecnologie promuovono,
identificando completamente realtà e finzione, ossia facendo della
fictio il terreno in cui l’io costruisce se stesso e si proietta nel mondo
secondo un progetto vitale elaborato in piena autonomia e che
coinvolge non solo l’identità personale (attraverso la costruzione di
ruoli nei nuovi spazi di socializzazione della Rete) ma perfino la
materialità biologica del corpo (attraverso la genetica e la chirurgia
estetica). Gli esiti spesso aberranti di tale virtualizzazione dell’io, che
non è adeguatamente supportata da un sistema educativo che orienti
il cittadino nell’esercizio di tali nuove potenzialità e responsabilità,
non devono offuscare l’oggettivo progresso che esse significano sul
piano della autonomia personale, progresso che la cultura politica (in
particolare quella italiana) è ben lungi dall’aver assimilato, sul piano
dell’analisi e della progettualità. In questa prospettiva, il concetto di
‘finzione’ (tecnologicamente intesa) e quello di ‘libertà’
(politicamente concepita come integrale democratizzazione della vita
sociale) si confondono l’uno nell’altro, essendo l’una condizione
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tanto di più quanto maggiore è l’uso che delle ideologie fa il potere
per legittimarsi. Il comico cinematografico è quindi il più ‘galeotto’
dei registri espressivi, poiché l’avvicinamento del modello e
l’attraversamento della soglia separativa fra realtà e finzione si
producono al di sotto del livello cosciente e volontario dello
spettatore. E tuttavia si tratta di un avvicinamento ed un
attraversamento socialmente e culturalmente necessari perché il
soggetto possa, sulle rovine di modelli esemplari desautorati dalla
tecnologia, liberamente costruirsi come persona. Paradossalmente,
sono i ridicoli personaggi di Buster Keaton, Frank Capra e Woody
Allen quelli che rivelano meglio di qualunque altro personaggio
cinematografico (epico, tragico o melodrammatico) l’utopia
fondamentale della modernità, cioè quella di un individuo
eroicamente padrone del proprio destino19.
tanto di più quanto maggiore è l’uso che delle ideologie fa il potere
per legittimarsi. Il comico cinematografico è quindi il più ‘galeotto’
dei registri espressivi, poiché l’avvicinamento del modello e
l’attraversamento della soglia separativa fra realtà e finzione si
producono al di sotto del livello cosciente e volontario dello
spettatore. E tuttavia si tratta di un avvicinamento ed un
attraversamento socialmente e culturalmente necessari perché il
soggetto possa, sulle rovine di modelli esemplari desautorati dalla
tecnologia, liberamente costruirsi come persona. Paradossalmente,
sono i ridicoli personaggi di Buster Keaton, Frank Capra e Woody
Allen quelli che rivelano meglio di qualunque altro personaggio
cinematografico (epico, tragico o melodrammatico) l’utopia
fondamentale della modernità, cioè quella di un individuo
eroicamente padrone del proprio destino19.
Tale mediazione comica, infine, ci indica la direzione del
superamento postmoderno della estetica della modernità,
superamento che è chiaramente orientato verso la integrale
virtualizzazione dell’io che le nuove tecnologie promuovono,
identificando completamente realtà e finzione, ossia facendo della
fictio il terreno in cui l’io costruisce se stesso e si proietta nel mondo
secondo un progetto vitale elaborato in piena autonomia e che
coinvolge non solo l’identità personale (attraverso la costruzione di
ruoli nei nuovi spazi di socializzazione della Rete) ma perfino la
materialità biologica del corpo (attraverso la genetica e la chirurgia
estetica). Gli esiti spesso aberranti di tale virtualizzazione dell’io, che
non è adeguatamente supportata da un sistema educativo che orienti
il cittadino nell’esercizio di tali nuove potenzialità e responsabilità,
non devono offuscare l’oggettivo progresso che esse significano sul
piano della autonomia personale, progresso che la cultura politica (in
particolare quella italiana) è ben lungi dall’aver assimilato, sul piano
dell’analisi e della progettualità. In questa prospettiva, il concetto di
‘finzione’ (tecnologicamente intesa) e quello di ‘libertà’
(politicamente concepita come integrale democratizzazione della vita
sociale) si confondono l’uno nell’altro, essendo l’una condizione
Tale mediazione comica, infine, ci indica la direzione del
superamento postmoderno della estetica della modernità,
superamento che è chiaramente orientato verso la integrale
virtualizzazione dell’io che le nuove tecnologie promuovono,
identificando completamente realtà e finzione, ossia facendo della
fictio il terreno in cui l’io costruisce se stesso e si proietta nel mondo
secondo un progetto vitale elaborato in piena autonomia e che
coinvolge non solo l’identità personale (attraverso la costruzione di
ruoli nei nuovi spazi di socializzazione della Rete) ma perfino la
materialità biologica del corpo (attraverso la genetica e la chirurgia
estetica). Gli esiti spesso aberranti di tale virtualizzazione dell’io, che
non è adeguatamente supportata da un sistema educativo che orienti
il cittadino nell’esercizio di tali nuove potenzialità e responsabilità,
non devono offuscare l’oggettivo progresso che esse significano sul
piano della autonomia personale, progresso che la cultura politica (in
particolare quella italiana) è ben lungi dall’aver assimilato, sul piano
dell’analisi e della progettualità. In questa prospettiva, il concetto di
‘finzione’ (tecnologicamente intesa) e quello di ‘libertà’
(politicamente concepita come integrale democratizzazione della vita
sociale) si confondono l’uno nell’altro, essendo l’una condizione
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Dante (Inf. V) e Buster Keaton...
Raffaele PINTO
Dante (Inf. V) e Buster Keaton...
dell’altra20. D’altra parte, proprio la mediazione comica, che
attraverso il cinema celebra il suo trionfo, si presenta come nucleo
utopico della modernità, irriducibile progetto di emancipazione
estetica che subordina alla felicità dell’individuo (di tutti gli
individui) ogni ideologia, e rivela infine che il punto di partenza del
processo storico che umanizza la trascendenza colmandone la
distanza, è rappresentato dalla dantesca Commedia, opera fondativa
della fictio moderna, ed il cui titolo allude, in almeno uno dei suoi
significati, alla abolizione di ogni soglia separativa nei confronti
della trascendenza, cioè alla poetica decostruzione del divino e del
principio d’autorità ad esso collegato21.
dell’altra20. D’altra parte, proprio la mediazione comica, che
attraverso il cinema celebra il suo trionfo, si presenta come nucleo
utopico della modernità, irriducibile progetto di emancipazione
estetica che subordina alla felicità dell’individuo (di tutti gli
individui) ogni ideologia, e rivela infine che il punto di partenza del
processo storico che umanizza la trascendenza colmandone la
distanza, è rappresentato dalla dantesca Commedia, opera fondativa
della fictio moderna, ed il cui titolo allude, in almeno uno dei suoi
significati, alla abolizione di ogni soglia separativa nei confronti
della trascendenza, cioè alla poetica decostruzione del divino e del
principio d’autorità ad esso collegato21.
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Raffaele PINTO
Dante (Inf. V) e Buster Keaton...
Raffaele PINTO
Dante (Inf. V) e Buster Keaton...
dell’altra20. D’altra parte, proprio la mediazione comica, che
attraverso il cinema celebra il suo trionfo, si presenta come nucleo
utopico della modernità, irriducibile progetto di emancipazione
estetica che subordina alla felicità dell’individuo (di tutti gli
individui) ogni ideologia, e rivela infine che il punto di partenza del
processo storico che umanizza la trascendenza colmandone la
distanza, è rappresentato dalla dantesca Commedia, opera fondativa
della fictio moderna, ed il cui titolo allude, in almeno uno dei suoi
significati, alla abolizione di ogni soglia separativa nei confronti
della trascendenza, cioè alla poetica decostruzione del divino e del
principio d’autorità ad esso collegato21.
dell’altra20. D’altra parte, proprio la mediazione comica, che
attraverso il cinema celebra il suo trionfo, si presenta come nucleo
utopico della modernità, irriducibile progetto di emancipazione
estetica che subordina alla felicità dell’individuo (di tutti gli
individui) ogni ideologia, e rivela infine che il punto di partenza del
processo storico che umanizza la trascendenza colmandone la
distanza, è rappresentato dalla dantesca Commedia, opera fondativa
della fictio moderna, ed il cui titolo allude, in almeno uno dei suoi
significati, alla abolizione di ogni soglia separativa nei confronti
della trascendenza, cioè alla poetica decostruzione del divino e del
principio d’autorità ad esso collegato21.
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Tenzone 8
2007
Tenzone 8
2007
NOTE
NOTE
1
Con la breve («about ten minutes») pellicola di William W. Ranous, The
Two Brothers / Francesca da Rimini.
1
2
Non escludo la possibilità che l’allusione alla Commedia sia indiretta, cioè
mediata da una delle versioni cinematografiche della vicenda di Francesca.
Si tratterebbe, allora, non della ricezione del poeta ma della sua
irradiazione. Ai fini delle argomentazioni che svolgo in questo lavoro la
differenza è irrilevante.
2
3
L’acutissimo sguardo critico di Keaton tematizza, in queste sequenze
oniriche, la perdita di peso, cioè la conversione in immagine, del corpo
dell’attore cinematografico, svolgendo comicamente una riflessione che
Pirandello aveva condotto nel romanzo del 1915 Si gira (in seguito
ribattezzato I quaderni di Serafino Gubbio operatore). Le riflessioni di
Pirandello furono riprese nel saggio su L’opera d’arte nella epoca della sua
riproducibilità tecnica da Walter Benjamin (che le leggeva in Léon PierreQuint, Signification du Cinéma, L’art cinèmatographique, II, Paris 1927,
pp.14-15). Riporto la pagina e la citazione, che mettono in luce la natura
artificiale e frammentaria della immagine filmica, intesa come il prodotto di
una amputazione del corpo: «Al film importa non tanto che l’interprete
presenti al pubblico un’altra persona, quanto che egli presenti se stesso di
fronte all’apparecchiatura. Uno dei primi che abbia avvertito questa
trasformazione dell’interprete in seguito a un tipo di prestazione fondata sul
testo è stato Pirandello. Il fatto che le osservazioni su questo argomento,
contenute nel romanzo Si gira..., si limitino a rilevare l’aspetto negativo
della cosa, non ne riduce molto l’importanza. Meno ancora il fatto di
riferirsi soltanto al cinema muto. Perché per questo riguardo, il sonoro non
ha recato nessuna modificazione sostanziale. Decisivo rimane che si recita
per una apparecchiatura –o, nel caso del film sonoro, per due. ‘Qua, - scrive
Pirandello degli attori cinematografici - si sentono come in esilio. In esilio
non soltanto dal palcoscenico, ma quasi anche da se stessi. Perché la loro
azione, l’azione viva del loro corpo vivo, là sulla tela dei cinematografi, non
c’è più: c’è la loro immagine soltanto, colta in un momento, in un gesto, in
una espressione che guizza e scompare. Avvertono confusamente, con un
senso smanioso, indefinibile di vuoto, anzi di votamento, che il loro corpo è
3
L’acutissimo sguardo critico di Keaton tematizza, in queste sequenze
oniriche, la perdita di peso, cioè la conversione in immagine, del corpo
dell’attore cinematografico, svolgendo comicamente una riflessione che
Pirandello aveva condotto nel romanzo del 1915 Si gira (in seguito
ribattezzato I quaderni di Serafino Gubbio operatore). Le riflessioni di
Pirandello furono riprese nel saggio su L’opera d’arte nella epoca della sua
riproducibilità tecnica da Walter Benjamin (che le leggeva in Léon PierreQuint, Signification du Cinéma, L’art cinèmatographique, II, Paris 1927,
pp.14-15). Riporto la pagina e la citazione, che mettono in luce la natura
artificiale e frammentaria della immagine filmica, intesa come il prodotto di
una amputazione del corpo: «Al film importa non tanto che l’interprete
presenti al pubblico un’altra persona, quanto che egli presenti se stesso di
fronte all’apparecchiatura. Uno dei primi che abbia avvertito questa
trasformazione dell’interprete in seguito a un tipo di prestazione fondata sul
testo è stato Pirandello. Il fatto che le osservazioni su questo argomento,
contenute nel romanzo Si gira..., si limitino a rilevare l’aspetto negativo
della cosa, non ne riduce molto l’importanza. Meno ancora il fatto di
riferirsi soltanto al cinema muto. Perché per questo riguardo, il sonoro non
ha recato nessuna modificazione sostanziale. Decisivo rimane che si recita
per una apparecchiatura –o, nel caso del film sonoro, per due. ‘Qua, - scrive
Pirandello degli attori cinematografici - si sentono come in esilio. In esilio
non soltanto dal palcoscenico, ma quasi anche da se stessi. Perché la loro
azione, l’azione viva del loro corpo vivo, là sulla tela dei cinematografi, non
c’è più: c’è la loro immagine soltanto, colta in un momento, in un gesto, in
una espressione che guizza e scompare. Avvertono confusamente, con un
senso smanioso, indefinibile di vuoto, anzi di votamento, che il loro corpo è
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Con la breve («about ten minutes») pellicola di William W. Ranous, The
Two Brothers / Francesca da Rimini.
Non escludo la possibilità che l’allusione alla Commedia sia indiretta, cioè
mediata da una delle versioni cinematografiche della vicenda di Francesca.
Si tratterebbe, allora, non della ricezione del poeta ma della sua
irradiazione. Ai fini delle argomentazioni che svolgo in questo lavoro la
differenza è irrilevante.
Tenzone 8
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NOTE
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Con la breve («about ten minutes») pellicola di William W. Ranous, The
Two Brothers / Francesca da Rimini.
1
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Non escludo la possibilità che l’allusione alla Commedia sia indiretta, cioè
mediata da una delle versioni cinematografiche della vicenda di Francesca.
Si tratterebbe, allora, non della ricezione del poeta ma della sua
irradiazione. Ai fini delle argomentazioni che svolgo in questo lavoro la
differenza è irrilevante.
2
3
L’acutissimo sguardo critico di Keaton tematizza, in queste sequenze
oniriche, la perdita di peso, cioè la conversione in immagine, del corpo
dell’attore cinematografico, svolgendo comicamente una riflessione che
Pirandello aveva condotto nel romanzo del 1915 Si gira (in seguito
ribattezzato I quaderni di Serafino Gubbio operatore). Le riflessioni di
Pirandello furono riprese nel saggio su L’opera d’arte nella epoca della sua
riproducibilità tecnica da Walter Benjamin (che le leggeva in Léon PierreQuint, Signification du Cinéma, L’art cinèmatographique, II, Paris 1927,
pp.14-15). Riporto la pagina e la citazione, che mettono in luce la natura
artificiale e frammentaria della immagine filmica, intesa come il prodotto di
una amputazione del corpo: «Al film importa non tanto che l’interprete
presenti al pubblico un’altra persona, quanto che egli presenti se stesso di
fronte all’apparecchiatura. Uno dei primi che abbia avvertito questa
trasformazione dell’interprete in seguito a un tipo di prestazione fondata sul
testo è stato Pirandello. Il fatto che le osservazioni su questo argomento,
contenute nel romanzo Si gira..., si limitino a rilevare l’aspetto negativo
della cosa, non ne riduce molto l’importanza. Meno ancora il fatto di
riferirsi soltanto al cinema muto. Perché per questo riguardo, il sonoro non
ha recato nessuna modificazione sostanziale. Decisivo rimane che si recita
per una apparecchiatura –o, nel caso del film sonoro, per due. ‘Qua, - scrive
Pirandello degli attori cinematografici - si sentono come in esilio. In esilio
non soltanto dal palcoscenico, ma quasi anche da se stessi. Perché la loro
azione, l’azione viva del loro corpo vivo, là sulla tela dei cinematografi, non
c’è più: c’è la loro immagine soltanto, colta in un momento, in un gesto, in
una espressione che guizza e scompare. Avvertono confusamente, con un
senso smanioso, indefinibile di vuoto, anzi di votamento, che il loro corpo è
3
L’acutissimo sguardo critico di Keaton tematizza, in queste sequenze
oniriche, la perdita di peso, cioè la conversione in immagine, del corpo
dell’attore cinematografico, svolgendo comicamente una riflessione che
Pirandello aveva condotto nel romanzo del 1915 Si gira (in seguito
ribattezzato I quaderni di Serafino Gubbio operatore). Le riflessioni di
Pirandello furono riprese nel saggio su L’opera d’arte nella epoca della sua
riproducibilità tecnica da Walter Benjamin (che le leggeva in Léon PierreQuint, Signification du Cinéma, L’art cinèmatographique, II, Paris 1927,
pp.14-15). Riporto la pagina e la citazione, che mettono in luce la natura
artificiale e frammentaria della immagine filmica, intesa come il prodotto di
una amputazione del corpo: «Al film importa non tanto che l’interprete
presenti al pubblico un’altra persona, quanto che egli presenti se stesso di
fronte all’apparecchiatura. Uno dei primi che abbia avvertito questa
trasformazione dell’interprete in seguito a un tipo di prestazione fondata sul
testo è stato Pirandello. Il fatto che le osservazioni su questo argomento,
contenute nel romanzo Si gira..., si limitino a rilevare l’aspetto negativo
della cosa, non ne riduce molto l’importanza. Meno ancora il fatto di
riferirsi soltanto al cinema muto. Perché per questo riguardo, il sonoro non
ha recato nessuna modificazione sostanziale. Decisivo rimane che si recita
per una apparecchiatura –o, nel caso del film sonoro, per due. ‘Qua, - scrive
Pirandello degli attori cinematografici - si sentono come in esilio. In esilio
non soltanto dal palcoscenico, ma quasi anche da se stessi. Perché la loro
azione, l’azione viva del loro corpo vivo, là sulla tela dei cinematografi, non
c’è più: c’è la loro immagine soltanto, colta in un momento, in un gesto, in
una espressione che guizza e scompare. Avvertono confusamente, con un
senso smanioso, indefinibile di vuoto, anzi di votamento, che il loro corpo è
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Con la breve («about ten minutes») pellicola di William W. Ranous, The
Two Brothers / Francesca da Rimini.
Non escludo la possibilità che l’allusione alla Commedia sia indiretta, cioè
mediata da una delle versioni cinematografiche della vicenda di Francesca.
Si tratterebbe, allora, non della ricezione del poeta ma della sua
irradiazione. Ai fini delle argomentazioni che svolgo in questo lavoro la
differenza è irrilevante.
Raffaele PINTO
Dante (Inf. V) e Buster Keaton...
Raffaele PINTO
Dante (Inf. V) e Buster Keaton...
quasi sottratto, soppresso, privato della sua realtà, del suo respiro, della sua
voce, del rumore ch’esso produce muovendosi, per diventare soltanto
un’immagine muta, che tremola per un momento sullo schermo e scompare
in silenzio, d’un tratto, come un’ombra inconsistente, giuoco d’illusione su
uno squallido pezzo di tela ... pensa la macchinetta alla rappresentazione
innanzi al pubblico, con le loro ombre; ed essi debbono contentarsi di
rappresentare innanzi a lei’ ... Il senso di disagio dell’interprete di fronte
all’apparecchiatura, così come viene descritto da Pirandello, è in sé della
stessa specie del senso di disagio dell’uomo di fronte alla sua immagine
nello specchio. Ora, l’immagine speculare può essere staccata da lui, è
diventata trasportabile» (Benjamin 1971: 32-34).
quasi sottratto, soppresso, privato della sua realtà, del suo respiro, della sua
voce, del rumore ch’esso produce muovendosi, per diventare soltanto
un’immagine muta, che tremola per un momento sullo schermo e scompare
in silenzio, d’un tratto, come un’ombra inconsistente, giuoco d’illusione su
uno squallido pezzo di tela ... pensa la macchinetta alla rappresentazione
innanzi al pubblico, con le loro ombre; ed essi debbono contentarsi di
rappresentare innanzi a lei’ ... Il senso di disagio dell’interprete di fronte
all’apparecchiatura, così come viene descritto da Pirandello, è in sé della
stessa specie del senso di disagio dell’uomo di fronte alla sua immagine
nello specchio. Ora, l’immagine speculare può essere staccata da lui, è
diventata trasportabile» (Benjamin 1971: 32-34).
4
Sul tema della fisicità del corpo di Dante nel paesaggio dell’al di là, rinvio
al mio Pinto 2005.
4
Sul tema della fisicità del corpo di Dante nel paesaggio dell’al di là, rinvio
al mio Pinto 2005.
5
Un esempio di tale illusione, che illumina a contrario il modello
triangolare di Girard, è questo passaggio del racconto di Balzac Massimilla
Doni, nel quale vediamo ben rappresentato, credo, il desiderio che
romanticamente rifugge da ogni mediazione romanzesca: «Distesa su un
divano, verso le undici del mattino, di ritorno da una passeggiata, e davanti
a un tavolino dove si scorgevano i resti di un'elegante colazione, la duchessa
Cataneo lasciava all'amante pieno dominio su quella mussola, e senza dirgli
«fermo!» ad ogni istante. Accanto a lei, su una bergère, Emilio teneva fra le
sue una mano della duchessa, e la guardava, nel più completo abbandono.
Non chiedete se si amassero; si amavano troppo. Non leggevano il libro,
come Paolo e Francesca; al contrario, Emilio non osava nemmeno dire
“Leggiamo!”». Si osservi, nel brano, la contrapposizione dell’atteggiamento
dei due amanti a quello di Paolo e Francesca nell’episodio dantesco, che
viene così implicitamente indicato como esempio di desiderio non autentico
ma mediato.
5
6
Come nel Poema Enea e S. Paolo (Inf. II), detentori di una verità storica ai
quali Dante contrappone la propria esperienza poeticamente fittizia.
6
Come nel Poema Enea e S. Paolo (Inf. II), detentori di una verità storica ai
quali Dante contrappone la propria esperienza poeticamente fittizia.
7
7
Un esempio di tale illusione, che illumina a contrario il modello
triangolare di Girard, è questo passaggio del racconto di Balzac Massimilla
Doni, nel quale vediamo ben rappresentato, credo, il desiderio che
romanticamente rifugge da ogni mediazione romanzesca: «Distesa su un
divano, verso le undici del mattino, di ritorno da una passeggiata, e davanti
a un tavolino dove si scorgevano i resti di un'elegante colazione, la duchessa
Cataneo lasciava all'amante pieno dominio su quella mussola, e senza dirgli
«fermo!» ad ogni istante. Accanto a lei, su una bergère, Emilio teneva fra le
sue una mano della duchessa, e la guardava, nel più completo abbandono.
Non chiedete se si amassero; si amavano troppo. Non leggevano il libro,
come Paolo e Francesca; al contrario, Emilio non osava nemmeno dire
“Leggiamo!”». Si osservi, nel brano, la contrapposizione dell’atteggiamento
dei due amanti a quello di Paolo e Francesca nell’episodio dantesco, che
viene così implicitamente indicato como esempio di desiderio non autentico
ma mediato.
La tradizione lirica italiana sposta, fin dalle sue origini, la dialettica del
desiderio dall’ambito sessuale a quello espressivo, cioè dal corpo dell’amata
alla parola che verbalizza la passione. Ho ricostruito questo motivo lirico
nella poesia di Giacomo da Lentini in Pinto 2000.
La tradizione lirica italiana sposta, fin dalle sue origini, la dialettica del
desiderio dall’ambito sessuale a quello espressivo, cioè dal corpo dell’amata
alla parola che verbalizza la passione. Ho ricostruito questo motivo lirico
nella poesia di Giacomo da Lentini in Pinto 2000.
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quasi sottratto, soppresso, privato della sua realtà, del suo respiro, della sua
voce, del rumore ch’esso produce muovendosi, per diventare soltanto
un’immagine muta, che tremola per un momento sullo schermo e scompare
in silenzio, d’un tratto, come un’ombra inconsistente, giuoco d’illusione su
uno squallido pezzo di tela ... pensa la macchinetta alla rappresentazione
innanzi al pubblico, con le loro ombre; ed essi debbono contentarsi di
rappresentare innanzi a lei’ ... Il senso di disagio dell’interprete di fronte
all’apparecchiatura, così come viene descritto da Pirandello, è in sé della
stessa specie del senso di disagio dell’uomo di fronte alla sua immagine
nello specchio. Ora, l’immagine speculare può essere staccata da lui, è
diventata trasportabile» (Benjamin 1971: 32-34).
quasi sottratto, soppresso, privato della sua realtà, del suo respiro, della sua
voce, del rumore ch’esso produce muovendosi, per diventare soltanto
un’immagine muta, che tremola per un momento sullo schermo e scompare
in silenzio, d’un tratto, come un’ombra inconsistente, giuoco d’illusione su
uno squallido pezzo di tela ... pensa la macchinetta alla rappresentazione
innanzi al pubblico, con le loro ombre; ed essi debbono contentarsi di
rappresentare innanzi a lei’ ... Il senso di disagio dell’interprete di fronte
all’apparecchiatura, così come viene descritto da Pirandello, è in sé della
stessa specie del senso di disagio dell’uomo di fronte alla sua immagine
nello specchio. Ora, l’immagine speculare può essere staccata da lui, è
diventata trasportabile» (Benjamin 1971: 32-34).
4
Sul tema della fisicità del corpo di Dante nel paesaggio dell’al di là, rinvio
al mio Pinto 2005.
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Sul tema della fisicità del corpo di Dante nel paesaggio dell’al di là, rinvio
al mio Pinto 2005.
5
Un esempio di tale illusione, che illumina a contrario il modello
triangolare di Girard, è questo passaggio del racconto di Balzac Massimilla
Doni, nel quale vediamo ben rappresentato, credo, il desiderio che
romanticamente rifugge da ogni mediazione romanzesca: «Distesa su un
divano, verso le undici del mattino, di ritorno da una passeggiata, e davanti
a un tavolino dove si scorgevano i resti di un'elegante colazione, la duchessa
Cataneo lasciava all'amante pieno dominio su quella mussola, e senza dirgli
«fermo!» ad ogni istante. Accanto a lei, su una bergère, Emilio teneva fra le
sue una mano della duchessa, e la guardava, nel più completo abbandono.
Non chiedete se si amassero; si amavano troppo. Non leggevano il libro,
come Paolo e Francesca; al contrario, Emilio non osava nemmeno dire
“Leggiamo!”». Si osservi, nel brano, la contrapposizione dell’atteggiamento
dei due amanti a quello di Paolo e Francesca nell’episodio dantesco, che
viene così implicitamente indicato como esempio di desiderio non autentico
ma mediato.
5
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Come nel Poema Enea e S. Paolo (Inf. II), detentori di una verità storica ai
quali Dante contrappone la propria esperienza poeticamente fittizia.
6
Come nel Poema Enea e S. Paolo (Inf. II), detentori di una verità storica ai
quali Dante contrappone la propria esperienza poeticamente fittizia.
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Un esempio di tale illusione, che illumina a contrario il modello
triangolare di Girard, è questo passaggio del racconto di Balzac Massimilla
Doni, nel quale vediamo ben rappresentato, credo, il desiderio che
romanticamente rifugge da ogni mediazione romanzesca: «Distesa su un
divano, verso le undici del mattino, di ritorno da una passeggiata, e davanti
a un tavolino dove si scorgevano i resti di un'elegante colazione, la duchessa
Cataneo lasciava all'amante pieno dominio su quella mussola, e senza dirgli
«fermo!» ad ogni istante. Accanto a lei, su una bergère, Emilio teneva fra le
sue una mano della duchessa, e la guardava, nel più completo abbandono.
Non chiedete se si amassero; si amavano troppo. Non leggevano il libro,
come Paolo e Francesca; al contrario, Emilio non osava nemmeno dire
“Leggiamo!”». Si osservi, nel brano, la contrapposizione dell’atteggiamento
dei due amanti a quello di Paolo e Francesca nell’episodio dantesco, che
viene così implicitamente indicato como esempio di desiderio non autentico
ma mediato.
La tradizione lirica italiana sposta, fin dalle sue origini, la dialettica del
desiderio dall’ambito sessuale a quello espressivo, cioè dal corpo dell’amata
alla parola che verbalizza la passione. Ho ricostruito questo motivo lirico
nella poesia di Giacomo da Lentini in Pinto 2000.
La tradizione lirica italiana sposta, fin dalle sue origini, la dialettica del
desiderio dall’ambito sessuale a quello espressivo, cioè dal corpo dell’amata
alla parola che verbalizza la passione. Ho ricostruito questo motivo lirico
nella poesia di Giacomo da Lentini in Pinto 2000.
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Nei triangoli romanzeschi Lancillotto – Ginevra – Artù e Tristano – Isotta
– Marco viene tradotto il triangolo lirico trobador – midons – gilos (cioè il
marito). Rivelatore dell’astratto modello di desiderio triangolare che
soggiace tanto alla lirica quanto al romanzo e infine al cinema è il fatto che
la prima versione cinematografica italiana della storia di Paolo e Francesca
(Francesca di Rimini, 1910), interpretata da Francesca Bertini, introduca
nella sceneggiatura un elemento tristaniano: Gianciotto manda Paolo a
chiedere la mano della sua promessa sposa, ed il ritorno dei futuri cognati
avviene per mare. È appunto sulla nave che i due “apprendono ad amarsi”, e
durante la lettura di un romanzo si baciano.
Nei triangoli romanzeschi Lancillotto – Ginevra – Artù e Tristano – Isotta
– Marco viene tradotto il triangolo lirico trobador – midons – gilos (cioè il
marito). Rivelatore dell’astratto modello di desiderio triangolare che
soggiace tanto alla lirica quanto al romanzo e infine al cinema è il fatto che
la prima versione cinematografica italiana della storia di Paolo e Francesca
(Francesca di Rimini, 1910), interpretata da Francesca Bertini, introduca
nella sceneggiatura un elemento tristaniano: Gianciotto manda Paolo a
chiedere la mano della sua promessa sposa, ed il ritorno dei futuri cognati
avviene per mare. È appunto sulla nave che i due “apprendono ad amarsi”, e
durante la lettura di un romanzo si baciano.
9
«Aquí comen los caballeros, y duermen y mueren en sus camas, y hacen
testamento antes de su muerte, con estas cosas de que todos los demás libros
deste género carecen. Con todo eso, os digo que merecía el que le compuso,
pues hizo tantas necedades de industria, que le echaran a galeras por todos
los días de su vida» (I 6). Cito da Miguel de Cervantes, Don Quijote de la
Mancha, Edición del Instituto Cervantes 1605-2005, dirigida por Francisco
Rico, Círculo de Lectores, Barcelona, 2004, I p. 91 e II p. 709.
9
«Aquí comen los caballeros, y duermen y mueren en sus camas, y hacen
testamento antes de su muerte, con estas cosas de que todos los demás libros
deste género carecen. Con todo eso, os digo que merecía el que le compuso,
pues hizo tantas necedades de industria, que le echaran a galeras por todos
los días de su vida» (I 6). Cito da Miguel de Cervantes, Don Quijote de la
Mancha, Edición del Instituto Cervantes 1605-2005, dirigida por Francisco
Rico, Círculo de Lectores, Barcelona, 2004, I p. 91 e II p. 709.
10
Cervantes ha letto nel galeotto di Inf. V una metafora della condizione
infernale riservata ai dannati. Nel capitolo XXII della prima parte del
Quijote, il protagonista del romanzo incontra appunto un gruppo di galeotti,
e l’episodio è parodia dell’Inferno di Dante: «Los galeotes son las almas de
los pecadores del infierno, don Quijote, en sus preguntas a ellos, es Dante»
(Avery 1974-75: 10). La condanna a galeras di Martorell è quindi analoga
alla condanna pronunciata da Francesca contro il realismo perverso dei
romanzi di cavalleria.
10
11
La diffidenza dell’alta cultura nei confronti del romanzo (ignorato fin da
Aristotele) è una costante della storia letteraria. La sua ufficializzazione in
quanto genere si produce, com’è noto, in Inghilterra nel 700, ma al prezzo
della rinuncia alla sua storica denominazione (romance) in favore di un
termine (novel) meno compromesso sul piano della finzione. Si osservi che
la condanna è normalmente motivata dal carattere fittizio delle sue
invenzioni. Si veda, per esempio, Petrarca, Triumphus Cupidinis, 66:
«sogno d’infermi e fola di romanzi»; Boccaccio, Elegia di Madonna
Fiammetta, 8,7: «li franceschi romanzi, alli quali se fede alcuna si puote
attribuire»; o un testo quattrocentesco latino citato da E. R Curtius: «ex
11
La diffidenza dell’alta cultura nei confronti del romanzo (ignorato fin da
Aristotele) è una costante della storia letteraria. La sua ufficializzazione in
quanto genere si produce, com’è noto, in Inghilterra nel 700, ma al prezzo
della rinuncia alla sua storica denominazione (romance) in favore di un
termine (novel) meno compromesso sul piano della finzione. Si osservi che
la condanna è normalmente motivata dal carattere fittizio delle sue
invenzioni. Si veda, per esempio, Petrarca, Triumphus Cupidinis, 66:
«sogno d’infermi e fola di romanzi»; Boccaccio, Elegia di Madonna
Fiammetta, 8,7: «li franceschi romanzi, alli quali se fede alcuna si puote
attribuire»; o un testo quattrocentesco latino citato da E. R Curtius: «ex
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Cervantes ha letto nel galeotto di Inf. V una metafora della condizione
infernale riservata ai dannati. Nel capitolo XXII della prima parte del
Quijote, il protagonista del romanzo incontra appunto un gruppo di galeotti,
e l’episodio è parodia dell’Inferno di Dante: «Los galeotes son las almas de
los pecadores del infierno, don Quijote, en sus preguntas a ellos, es Dante»
(Avery 1974-75: 10). La condanna a galeras di Martorell è quindi analoga
alla condanna pronunciata da Francesca contro il realismo perverso dei
romanzi di cavalleria.
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Nei triangoli romanzeschi Lancillotto – Ginevra – Artù e Tristano – Isotta
– Marco viene tradotto il triangolo lirico trobador – midons – gilos (cioè il
marito). Rivelatore dell’astratto modello di desiderio triangolare che
soggiace tanto alla lirica quanto al romanzo e infine al cinema è il fatto che
la prima versione cinematografica italiana della storia di Paolo e Francesca
(Francesca di Rimini, 1910), interpretata da Francesca Bertini, introduca
nella sceneggiatura un elemento tristaniano: Gianciotto manda Paolo a
chiedere la mano della sua promessa sposa, ed il ritorno dei futuri cognati
avviene per mare. È appunto sulla nave che i due “apprendono ad amarsi”, e
durante la lettura di un romanzo si baciano.
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Nei triangoli romanzeschi Lancillotto – Ginevra – Artù e Tristano – Isotta
– Marco viene tradotto il triangolo lirico trobador – midons – gilos (cioè il
marito). Rivelatore dell’astratto modello di desiderio triangolare che
soggiace tanto alla lirica quanto al romanzo e infine al cinema è il fatto che
la prima versione cinematografica italiana della storia di Paolo e Francesca
(Francesca di Rimini, 1910), interpretata da Francesca Bertini, introduca
nella sceneggiatura un elemento tristaniano: Gianciotto manda Paolo a
chiedere la mano della sua promessa sposa, ed il ritorno dei futuri cognati
avviene per mare. È appunto sulla nave che i due “apprendono ad amarsi”, e
durante la lettura di un romanzo si baciano.
9
«Aquí comen los caballeros, y duermen y mueren en sus camas, y hacen
testamento antes de su muerte, con estas cosas de que todos los demás libros
deste género carecen. Con todo eso, os digo que merecía el que le compuso,
pues hizo tantas necedades de industria, que le echaran a galeras por todos
los días de su vida» (I 6). Cito da Miguel de Cervantes, Don Quijote de la
Mancha, Edición del Instituto Cervantes 1605-2005, dirigida por Francisco
Rico, Círculo de Lectores, Barcelona, 2004, I p. 91 e II p. 709.
9
«Aquí comen los caballeros, y duermen y mueren en sus camas, y hacen
testamento antes de su muerte, con estas cosas de que todos los demás libros
deste género carecen. Con todo eso, os digo que merecía el que le compuso,
pues hizo tantas necedades de industria, que le echaran a galeras por todos
los días de su vida» (I 6). Cito da Miguel de Cervantes, Don Quijote de la
Mancha, Edición del Instituto Cervantes 1605-2005, dirigida por Francisco
Rico, Círculo de Lectores, Barcelona, 2004, I p. 91 e II p. 709.
10
Cervantes ha letto nel galeotto di Inf. V una metafora della condizione
infernale riservata ai dannati. Nel capitolo XXII della prima parte del
Quijote, il protagonista del romanzo incontra appunto un gruppo di galeotti,
e l’episodio è parodia dell’Inferno di Dante: «Los galeotes son las almas de
los pecadores del infierno, don Quijote, en sus preguntas a ellos, es Dante»
(Avery 1974-75: 10). La condanna a galeras di Martorell è quindi analoga
alla condanna pronunciata da Francesca contro il realismo perverso dei
romanzi di cavalleria.
10
11
La diffidenza dell’alta cultura nei confronti del romanzo (ignorato fin da
Aristotele) è una costante della storia letteraria. La sua ufficializzazione in
quanto genere si produce, com’è noto, in Inghilterra nel 700, ma al prezzo
della rinuncia alla sua storica denominazione (romance) in favore di un
termine (novel) meno compromesso sul piano della finzione. Si osservi che
la condanna è normalmente motivata dal carattere fittizio delle sue
invenzioni. Si veda, per esempio, Petrarca, Triumphus Cupidinis, 66:
«sogno d’infermi e fola di romanzi»; Boccaccio, Elegia di Madonna
Fiammetta, 8,7: «li franceschi romanzi, alli quali se fede alcuna si puote
attribuire»; o un testo quattrocentesco latino citato da E. R Curtius: «ex
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La diffidenza dell’alta cultura nei confronti del romanzo (ignorato fin da
Aristotele) è una costante della storia letteraria. La sua ufficializzazione in
quanto genere si produce, com’è noto, in Inghilterra nel 700, ma al prezzo
della rinuncia alla sua storica denominazione (romance) in favore di un
termine (novel) meno compromesso sul piano della finzione. Si osservi che
la condanna è normalmente motivata dal carattere fittizio delle sue
invenzioni. Si veda, per esempio, Petrarca, Triumphus Cupidinis, 66:
«sogno d’infermi e fola di romanzi»; Boccaccio, Elegia di Madonna
Fiammetta, 8,7: «li franceschi romanzi, alli quali se fede alcuna si puote
attribuire»; o un testo quattrocentesco latino citato da E. R Curtius: «ex
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Cervantes ha letto nel galeotto di Inf. V una metafora della condizione
infernale riservata ai dannati. Nel capitolo XXII della prima parte del
Quijote, il protagonista del romanzo incontra appunto un gruppo di galeotti,
e l’episodio è parodia dell’Inferno di Dante: «Los galeotes son las almas de
los pecadores del infierno, don Quijote, en sus preguntas a ellos, es Dante»
(Avery 1974-75: 10). La condanna a galeras di Martorell è quindi analoga
alla condanna pronunciata da Francesca contro il realismo perverso dei
romanzi di cavalleria.
Raffaele PINTO
Dante (Inf. V) e Buster Keaton...
Raffaele PINTO
Dante (Inf. V) e Buster Keaton...
lectione quorundam romanticorum, id est librorum compositorum in gallico
sermone poeticorum de gestis militaribus, quorum maxima pars fabulosa
est» (I, 2-5).
lectione quorundam romanticorum, id est librorum compositorum in gallico
sermone poeticorum de gestis militaribus, quorum maxima pars fabulosa
est» (I, 2-5).
12
Didone, nel verbalizzare alla sorella Anna (per spiegare a se stessa) la
passione che Enea ha suscitato, riflette il paradigma antico che concepisce il
desiderio come culto dell’identico, proietta cioè nell’eroe troiano il
sentimento già provato per il marito Sicheo (IV, 20-23: «Anna, fatebor
enim, miseri post fata Sychaei / Coniugis et sparsos fraterna caede penates /
Solus hic inflexit sensus animumque labantem / Impulit. Adgnosco veteris
vestigia flammae» [Anna, te lo confesso, dopo la morte del misero sposo / e
la strage fraterna, che la casa m’insanguina, / egli solo ha scosso i miei
sensi, m’ha fatto tremare / il cuore. Oh, della fiamma antica i segni
conosco!]. Traducendo letteralmente l’ultimo verso in Purg. XXX 48
(conosco i segni dell’antica fiamma), in riferimento alle emozioni suscitate
in lui da Beatrice nel Paradiso terrestre, Dante riduce ad unità ciò che in
Virgilio apparentemente si sdoppia nei due oggetti del desiderio di Didone,
e che in realtà riflette una tensione di desiderio sempre uguale a se stessa,
che non implica alcuna alterità che scinda il soggetto desiderante fra l’io e il
suo modello. L’alterità del desiderio di Dante per Beatrice si manifesta, sul
piano della mediazione mimetica, attraverso la destinazione celeste
dell’amata, che segna il personaggio fin dalla sua prima apparizione
romanzesca (in Vita Nuova II 1: «la gloriosa donna de la mia mente»), e che
viene comunque esplicitata in Donne che avete 29: «Madonna è disiata in
sommo cielo». L’altro con cui il poeta entra in concorrenza, desiderando
Beatrice, e che quindi viene attratto nel campo d’esperienza dell’io, è la
trascendente comunità dei beati: «Lo cielo, che non have altro difetto / che
d’aver lei, al suo segnor la chiede, / e ciascun santo ne grida merzede» (1921).
12
Didone, nel verbalizzare alla sorella Anna (per spiegare a se stessa) la
passione che Enea ha suscitato, riflette il paradigma antico che concepisce il
desiderio come culto dell’identico, proietta cioè nell’eroe troiano il
sentimento già provato per il marito Sicheo (IV, 20-23: «Anna, fatebor
enim, miseri post fata Sychaei / Coniugis et sparsos fraterna caede penates /
Solus hic inflexit sensus animumque labantem / Impulit. Adgnosco veteris
vestigia flammae» [Anna, te lo confesso, dopo la morte del misero sposo / e
la strage fraterna, che la casa m’insanguina, / egli solo ha scosso i miei
sensi, m’ha fatto tremare / il cuore. Oh, della fiamma antica i segni
conosco!]. Traducendo letteralmente l’ultimo verso in Purg. XXX 48
(conosco i segni dell’antica fiamma), in riferimento alle emozioni suscitate
in lui da Beatrice nel Paradiso terrestre, Dante riduce ad unità ciò che in
Virgilio apparentemente si sdoppia nei due oggetti del desiderio di Didone,
e che in realtà riflette una tensione di desiderio sempre uguale a se stessa,
che non implica alcuna alterità che scinda il soggetto desiderante fra l’io e il
suo modello. L’alterità del desiderio di Dante per Beatrice si manifesta, sul
piano della mediazione mimetica, attraverso la destinazione celeste
dell’amata, che segna il personaggio fin dalla sua prima apparizione
romanzesca (in Vita Nuova II 1: «la gloriosa donna de la mia mente»), e che
viene comunque esplicitata in Donne che avete 29: «Madonna è disiata in
sommo cielo». L’altro con cui il poeta entra in concorrenza, desiderando
Beatrice, e che quindi viene attratto nel campo d’esperienza dell’io, è la
trascendente comunità dei beati: «Lo cielo, che non have altro difetto / che
d’aver lei, al suo segnor la chiede, / e ciascun santo ne grida merzede» (1921).
13
Cfr. Benjamin (1971: 34-35): «Il cinema risponde al declino dell’aura
costruendo artificiosamente la personality fuori dagli studi: il culto del divo,
promosso dal capitale cinematografico, cerca di conservare quella magia
della personalità che da tempo è ridotta alla magia fasulla propria del suo
carattere di merce».
13
14
14
«La riproducibilità tecnica dell’opera d’arte modifica il rapporto delle
masse con l’arte. Da un rapporto estremamente retrivo, per esempio nei
Cfr. Benjamin (1971: 34-35): «Il cinema risponde al declino dell’aura
costruendo artificiosamente la personality fuori dagli studi: il culto del divo,
promosso dal capitale cinematografico, cerca di conservare quella magia
della personalità che da tempo è ridotta alla magia fasulla propria del suo
carattere di merce».
«La riproducibilità tecnica dell’opera d’arte modifica il rapporto delle
masse con l’arte. Da un rapporto estremamente retrivo, per esempio nei
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Raffaele PINTO
Dante (Inf. V) e Buster Keaton...
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Raffaele PINTO
Dante (Inf. V) e Buster Keaton...
lectione quorundam romanticorum, id est librorum compositorum in gallico
sermone poeticorum de gestis militaribus, quorum maxima pars fabulosa
est» (I, 2-5).
lectione quorundam romanticorum, id est librorum compositorum in gallico
sermone poeticorum de gestis militaribus, quorum maxima pars fabulosa
est» (I, 2-5).
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Didone, nel verbalizzare alla sorella Anna (per spiegare a se stessa) la
passione che Enea ha suscitato, riflette il paradigma antico che concepisce il
desiderio come culto dell’identico, proietta cioè nell’eroe troiano il
sentimento già provato per il marito Sicheo (IV, 20-23: «Anna, fatebor
enim, miseri post fata Sychaei / Coniugis et sparsos fraterna caede penates /
Solus hic inflexit sensus animumque labantem / Impulit. Adgnosco veteris
vestigia flammae» [Anna, te lo confesso, dopo la morte del misero sposo / e
la strage fraterna, che la casa m’insanguina, / egli solo ha scosso i miei
sensi, m’ha fatto tremare / il cuore. Oh, della fiamma antica i segni
conosco!]. Traducendo letteralmente l’ultimo verso in Purg. XXX 48
(conosco i segni dell’antica fiamma), in riferimento alle emozioni suscitate
in lui da Beatrice nel Paradiso terrestre, Dante riduce ad unità ciò che in
Virgilio apparentemente si sdoppia nei due oggetti del desiderio di Didone,
e che in realtà riflette una tensione di desiderio sempre uguale a se stessa,
che non implica alcuna alterità che scinda il soggetto desiderante fra l’io e il
suo modello. L’alterità del desiderio di Dante per Beatrice si manifesta, sul
piano della mediazione mimetica, attraverso la destinazione celeste
dell’amata, che segna il personaggio fin dalla sua prima apparizione
romanzesca (in Vita Nuova II 1: «la gloriosa donna de la mia mente»), e che
viene comunque esplicitata in Donne che avete 29: «Madonna è disiata in
sommo cielo». L’altro con cui il poeta entra in concorrenza, desiderando
Beatrice, e che quindi viene attratto nel campo d’esperienza dell’io, è la
trascendente comunità dei beati: «Lo cielo, che non have altro difetto / che
d’aver lei, al suo segnor la chiede, / e ciascun santo ne grida merzede» (1921).
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Didone, nel verbalizzare alla sorella Anna (per spiegare a se stessa) la
passione che Enea ha suscitato, riflette il paradigma antico che concepisce il
desiderio come culto dell’identico, proietta cioè nell’eroe troiano il
sentimento già provato per il marito Sicheo (IV, 20-23: «Anna, fatebor
enim, miseri post fata Sychaei / Coniugis et sparsos fraterna caede penates /
Solus hic inflexit sensus animumque labantem / Impulit. Adgnosco veteris
vestigia flammae» [Anna, te lo confesso, dopo la morte del misero sposo / e
la strage fraterna, che la casa m’insanguina, / egli solo ha scosso i miei
sensi, m’ha fatto tremare / il cuore. Oh, della fiamma antica i segni
conosco!]. Traducendo letteralmente l’ultimo verso in Purg. XXX 48
(conosco i segni dell’antica fiamma), in riferimento alle emozioni suscitate
in lui da Beatrice nel Paradiso terrestre, Dante riduce ad unità ciò che in
Virgilio apparentemente si sdoppia nei due oggetti del desiderio di Didone,
e che in realtà riflette una tensione di desiderio sempre uguale a se stessa,
che non implica alcuna alterità che scinda il soggetto desiderante fra l’io e il
suo modello. L’alterità del desiderio di Dante per Beatrice si manifesta, sul
piano della mediazione mimetica, attraverso la destinazione celeste
dell’amata, che segna il personaggio fin dalla sua prima apparizione
romanzesca (in Vita Nuova II 1: «la gloriosa donna de la mia mente»), e che
viene comunque esplicitata in Donne che avete 29: «Madonna è disiata in
sommo cielo». L’altro con cui il poeta entra in concorrenza, desiderando
Beatrice, e che quindi viene attratto nel campo d’esperienza dell’io, è la
trascendente comunità dei beati: «Lo cielo, che non have altro difetto / che
d’aver lei, al suo segnor la chiede, / e ciascun santo ne grida merzede» (1921).
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Cfr. Benjamin (1971: 34-35): «Il cinema risponde al declino dell’aura
costruendo artificiosamente la personality fuori dagli studi: il culto del divo,
promosso dal capitale cinematografico, cerca di conservare quella magia
della personalità che da tempo è ridotta alla magia fasulla propria del suo
carattere di merce».
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«La riproducibilità tecnica dell’opera d’arte modifica il rapporto delle
masse con l’arte. Da un rapporto estremamente retrivo, per esempio nei
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Cfr. Benjamin (1971: 34-35): «Il cinema risponde al declino dell’aura
costruendo artificiosamente la personality fuori dagli studi: il culto del divo,
promosso dal capitale cinematografico, cerca di conservare quella magia
della personalità che da tempo è ridotta alla magia fasulla propria del suo
carattere di merce».
«La riproducibilità tecnica dell’opera d’arte modifica il rapporto delle
masse con l’arte. Da un rapporto estremamente retrivo, per esempio nei
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Tenzone 8
2007
Tenzone 8
2007
confronti di un Picasso, si rovescia in un rapporto estremamente
progressivo, per esempio nei confronti di un Chaplin. Ove l’atteggiamento
progressivo è contrassegnato dal fatto che il gusto del vedere e del rivivere
si connette in lui immediatamente con l’atteggiamento del giudice
competente [die Lust am Schauen und am Erleben in ihm eine unmittelbare
und innige Verbindung mit der Haltung des fachmännischen Beurteilers
eingeht]. Questa connessione è un importante indizio sociale. Infatti, quanto
più il significato sociale di un’arte diminuisce, tanto più il contegno critico e
quello della mera fruizione da parte del pubblico divergono. Il
convenzionale viene goduto senza alcuna critica, ciò che è veramente nuovo
viene criticato con ripugnanza. Al cinema l’atteggiamento critico e quello
del piacere del pubblico coincidono» (Benjamin 1971: 38-39). Si osservi, in
particolare, la disideologizzazione del giudizio estetico che il cinema
produce, secondo Benjamin, dal momento che «il gusto del vedere e del
rivivere si connette» nello spettatore «immediatamente con l’atteggiamento
del giudice competente».
confronti di un Picasso, si rovescia in un rapporto estremamente
progressivo, per esempio nei confronti di un Chaplin. Ove l’atteggiamento
progressivo è contrassegnato dal fatto che il gusto del vedere e del rivivere
si connette in lui immediatamente con l’atteggiamento del giudice
competente [die Lust am Schauen und am Erleben in ihm eine unmittelbare
und innige Verbindung mit der Haltung des fachmännischen Beurteilers
eingeht]. Questa connessione è un importante indizio sociale. Infatti, quanto
più il significato sociale di un’arte diminuisce, tanto più il contegno critico e
quello della mera fruizione da parte del pubblico divergono. Il
convenzionale viene goduto senza alcuna critica, ciò che è veramente nuovo
viene criticato con ripugnanza. Al cinema l’atteggiamento critico e quello
del piacere del pubblico coincidono» (Benjamin 1971: 38-39). Si osservi, in
particolare, la disideologizzazione del giudizio estetico che il cinema
produce, secondo Benjamin, dal momento che «il gusto del vedere e del
rivivere si connette» nello spettatore «immediatamente con l’atteggiamento
del giudice competente».
15
Lucidissima è, al riguardo, la diagnosi di Cesare Segre sullo statuto
novecentesco della finzione letteraria, e sulla dialettica radicalmente nuova
che nel secolo del cinema si instaura fra realtà ed invenzione. Sebbene
centrata sul letterario, l’analisi di Segre individua con esattezza la
abolizione della soglia separativa fra realtà e finzione (che la tecnologia
dell’immagine produce riverberandola sul discorso letterario): «Sino al
Novecento, si può dire che gli scrittori partono da concezioni empiriche ma
abbastanza stabili di realtà, rivolgendosi, per trovarne gli elementi
antinomici, alle sfere del religioso, del mitico, del magico, della leggenda.
Col Novecento si verifica un capovolgimento: la sicurezza della realtà entra
in crisi, mentre si disseccano le fonti dell’assurdo ‘istituzionale’ (religione,
mito, etc.). La dialettica realtà / irrealtà viene dunque impiantata ex novo, e
solo sul terreno della incrinata e sfuggente realtà. È per questo che nella
narrativa contemporanea non è stabilita una zona precisa di pertinenza
dell’irreale e del meraviglioso: divenute sfuggenti le proprietà del reale, è
anche compromessa l’identificazione del suo opposto. Il meraviglioso
(sempre in senso negativo: l’assurdo, l’incubo) si annida nella quotidianità,
la rende ancor più impervia, nemica, incomprensibile. Se il meraviglioso
tradizionale metteva in forse le leggi fisiche del nostro mondo, il
meraviglioso moderno smentisce gli schemi d’interpretazione che l’uomo
15
Lucidissima è, al riguardo, la diagnosi di Cesare Segre sullo statuto
novecentesco della finzione letteraria, e sulla dialettica radicalmente nuova
che nel secolo del cinema si instaura fra realtà ed invenzione. Sebbene
centrata sul letterario, l’analisi di Segre individua con esattezza la
abolizione della soglia separativa fra realtà e finzione (che la tecnologia
dell’immagine produce riverberandola sul discorso letterario): «Sino al
Novecento, si può dire che gli scrittori partono da concezioni empiriche ma
abbastanza stabili di realtà, rivolgendosi, per trovarne gli elementi
antinomici, alle sfere del religioso, del mitico, del magico, della leggenda.
Col Novecento si verifica un capovolgimento: la sicurezza della realtà entra
in crisi, mentre si disseccano le fonti dell’assurdo ‘istituzionale’ (religione,
mito, etc.). La dialettica realtà / irrealtà viene dunque impiantata ex novo, e
solo sul terreno della incrinata e sfuggente realtà. È per questo che nella
narrativa contemporanea non è stabilita una zona precisa di pertinenza
dell’irreale e del meraviglioso: divenute sfuggenti le proprietà del reale, è
anche compromessa l’identificazione del suo opposto. Il meraviglioso
(sempre in senso negativo: l’assurdo, l’incubo) si annida nella quotidianità,
la rende ancor più impervia, nemica, incomprensibile. Se il meraviglioso
tradizionale metteva in forse le leggi fisiche del nostro mondo, il
meraviglioso moderno smentisce gli schemi d’interpretazione che l’uomo
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2007
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confronti di un Picasso, si rovescia in un rapporto estremamente
progressivo, per esempio nei confronti di un Chaplin. Ove l’atteggiamento
progressivo è contrassegnato dal fatto che il gusto del vedere e del rivivere
si connette in lui immediatamente con l’atteggiamento del giudice
competente [die Lust am Schauen und am Erleben in ihm eine unmittelbare
und innige Verbindung mit der Haltung des fachmännischen Beurteilers
eingeht]. Questa connessione è un importante indizio sociale. Infatti, quanto
più il significato sociale di un’arte diminuisce, tanto più il contegno critico e
quello della mera fruizione da parte del pubblico divergono. Il
convenzionale viene goduto senza alcuna critica, ciò che è veramente nuovo
viene criticato con ripugnanza. Al cinema l’atteggiamento critico e quello
del piacere del pubblico coincidono» (Benjamin 1971: 38-39). Si osservi, in
particolare, la disideologizzazione del giudizio estetico che il cinema
produce, secondo Benjamin, dal momento che «il gusto del vedere e del
rivivere si connette» nello spettatore «immediatamente con l’atteggiamento
del giudice competente».
confronti di un Picasso, si rovescia in un rapporto estremamente
progressivo, per esempio nei confronti di un Chaplin. Ove l’atteggiamento
progressivo è contrassegnato dal fatto che il gusto del vedere e del rivivere
si connette in lui immediatamente con l’atteggiamento del giudice
competente [die Lust am Schauen und am Erleben in ihm eine unmittelbare
und innige Verbindung mit der Haltung des fachmännischen Beurteilers
eingeht]. Questa connessione è un importante indizio sociale. Infatti, quanto
più il significato sociale di un’arte diminuisce, tanto più il contegno critico e
quello della mera fruizione da parte del pubblico divergono. Il
convenzionale viene goduto senza alcuna critica, ciò che è veramente nuovo
viene criticato con ripugnanza. Al cinema l’atteggiamento critico e quello
del piacere del pubblico coincidono» (Benjamin 1971: 38-39). Si osservi, in
particolare, la disideologizzazione del giudizio estetico che il cinema
produce, secondo Benjamin, dal momento che «il gusto del vedere e del
rivivere si connette» nello spettatore «immediatamente con l’atteggiamento
del giudice competente».
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Lucidissima è, al riguardo, la diagnosi di Cesare Segre sullo statuto
novecentesco della finzione letteraria, e sulla dialettica radicalmente nuova
che nel secolo del cinema si instaura fra realtà ed invenzione. Sebbene
centrata sul letterario, l’analisi di Segre individua con esattezza la
abolizione della soglia separativa fra realtà e finzione (che la tecnologia
dell’immagine produce riverberandola sul discorso letterario): «Sino al
Novecento, si può dire che gli scrittori partono da concezioni empiriche ma
abbastanza stabili di realtà, rivolgendosi, per trovarne gli elementi
antinomici, alle sfere del religioso, del mitico, del magico, della leggenda.
Col Novecento si verifica un capovolgimento: la sicurezza della realtà entra
in crisi, mentre si disseccano le fonti dell’assurdo ‘istituzionale’ (religione,
mito, etc.). La dialettica realtà / irrealtà viene dunque impiantata ex novo, e
solo sul terreno della incrinata e sfuggente realtà. È per questo che nella
narrativa contemporanea non è stabilita una zona precisa di pertinenza
dell’irreale e del meraviglioso: divenute sfuggenti le proprietà del reale, è
anche compromessa l’identificazione del suo opposto. Il meraviglioso
(sempre in senso negativo: l’assurdo, l’incubo) si annida nella quotidianità,
la rende ancor più impervia, nemica, incomprensibile. Se il meraviglioso
tradizionale metteva in forse le leggi fisiche del nostro mondo, il
meraviglioso moderno smentisce gli schemi d’interpretazione che l’uomo
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Lucidissima è, al riguardo, la diagnosi di Cesare Segre sullo statuto
novecentesco della finzione letteraria, e sulla dialettica radicalmente nuova
che nel secolo del cinema si instaura fra realtà ed invenzione. Sebbene
centrata sul letterario, l’analisi di Segre individua con esattezza la
abolizione della soglia separativa fra realtà e finzione (che la tecnologia
dell’immagine produce riverberandola sul discorso letterario): «Sino al
Novecento, si può dire che gli scrittori partono da concezioni empiriche ma
abbastanza stabili di realtà, rivolgendosi, per trovarne gli elementi
antinomici, alle sfere del religioso, del mitico, del magico, della leggenda.
Col Novecento si verifica un capovolgimento: la sicurezza della realtà entra
in crisi, mentre si disseccano le fonti dell’assurdo ‘istituzionale’ (religione,
mito, etc.). La dialettica realtà / irrealtà viene dunque impiantata ex novo, e
solo sul terreno della incrinata e sfuggente realtà. È per questo che nella
narrativa contemporanea non è stabilita una zona precisa di pertinenza
dell’irreale e del meraviglioso: divenute sfuggenti le proprietà del reale, è
anche compromessa l’identificazione del suo opposto. Il meraviglioso
(sempre in senso negativo: l’assurdo, l’incubo) si annida nella quotidianità,
la rende ancor più impervia, nemica, incomprensibile. Se il meraviglioso
tradizionale metteva in forse le leggi fisiche del nostro mondo, il
meraviglioso moderno smentisce gli schemi d’interpretazione che l’uomo
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Raffaele PINTO
Dante (Inf. V) e Buster Keaton...
Raffaele PINTO
Dante (Inf. V) e Buster Keaton...
nella sua lunga parabola ha messo a punto per la propria esistenza. Il nuovo
meraviglioso è una mimesi stralunata dall’orrore delle scoperte» (Segre
1979: 215-216).
nella sua lunga parabola ha messo a punto per la propria esistenza. Il nuovo
meraviglioso è una mimesi stralunata dall’orrore delle scoperte» (Segre
1979: 215-216).
16
Accanto a Keaton è Frank Capra che fin dalle prime esperienze registiche
(al servizio di Harry Langdon, per il quale diresse e/o sceneggiò tre films:
The Strong Man, 1926; Tramp, Tramp, Tramp, 1926; Long Pants, 1927)
mette al centro della sua ricerca il moderno statuto della finzione e la
mediazione da essa svolta nei confronti del desiderio del soggetto-lettorespettatore. In Long pants è appunto la lettura di romanzi che stravolge la
mente del protagonista lanciandolo in una avventurosa e comica peripezia la
cui finalità è la conquista della donna di cui si è innamorato.
16
Accanto a Keaton è Frank Capra che fin dalle prime esperienze registiche
(al servizio di Harry Langdon, per il quale diresse e/o sceneggiò tre films:
The Strong Man, 1926; Tramp, Tramp, Tramp, 1926; Long Pants, 1927)
mette al centro della sua ricerca il moderno statuto della finzione e la
mediazione da essa svolta nei confronti del desiderio del soggetto-lettorespettatore. In Long pants è appunto la lettura di romanzi che stravolge la
mente del protagonista lanciandolo in una avventurosa e comica peripezia la
cui finalità è la conquista della donna di cui si è innamorato.
17
«Non è concepibile ‘vedere e sentire’ la realtà nel suo succedere se non
da un solo angolo visuale: e questo angolo visuale è sempre quello di un
soggetto che vede e sente. Questo soggetto è un soggetto in carne ed ossa,
perché anche se noi, in un film di finzione scegliamo un punto di vista
ideale, e quindi in qualche modo astratto e non naturalistico, ecco che esso
diviene realistico, e, al limite, naturalistico, nel momento in cui piazziamo
in quel punto di vista una macchina da presa e un magnetofono: esso
risulterà come qualcosa di visto e udito da un soggetto in carne ed ossa (cioè
con occhi e orecchie)» (Pasolini 1977: 237-241).
17
18
18
La trascendenza delle immagini è iscritta nella cultura umana come il suo
più originario fondamento (Si legga Esodo, 20, 3-6, che commenta il primo
comandamento, «Non avrai altro Dio all'infuori di me»: «Non ti farai idolo
né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla
terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a
loro e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso,
che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta
generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra il suo favore fino a
mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandi».
Avvertiamo in questa minaccia una allusione all'antico potere magico delle
immagini (potere di legare le forze avverse della natura attraverso il
controllo iconico di esse). Tale potere perdura, però, nelle moderne strategie
immaginative del desiderio, le quali, enormemente potenziate dalla
tecnologia, producono l’appropriazione dell’immagine da parte del soggetto
«Non è concepibile ‘vedere e sentire’ la realtà nel suo succedere se non
da un solo angolo visuale: e questo angolo visuale è sempre quello di un
soggetto che vede e sente. Questo soggetto è un soggetto in carne ed ossa,
perché anche se noi, in un film di finzione scegliamo un punto di vista
ideale, e quindi in qualche modo astratto e non naturalistico, ecco che esso
diviene realistico, e, al limite, naturalistico, nel momento in cui piazziamo
in quel punto di vista una macchina da presa e un magnetofono: esso
risulterà come qualcosa di visto e udito da un soggetto in carne ed ossa (cioè
con occhi e orecchie)» (Pasolini 1977: 237-241).
La trascendenza delle immagini è iscritta nella cultura umana come il suo
più originario fondamento (Si legga Esodo, 20, 3-6, che commenta il primo
comandamento, «Non avrai altro Dio all'infuori di me»: «Non ti farai idolo
né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla
terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a
loro e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso,
che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta
generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra il suo favore fino a
mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandi».
Avvertiamo in questa minaccia una allusione all'antico potere magico delle
immagini (potere di legare le forze avverse della natura attraverso il
controllo iconico di esse). Tale potere perdura, però, nelle moderne strategie
immaginative del desiderio, le quali, enormemente potenziate dalla
tecnologia, producono l’appropriazione dell’immagine da parte del soggetto
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Raffaele PINTO
Dante (Inf. V) e Buster Keaton...
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Raffaele PINTO
Dante (Inf. V) e Buster Keaton...
nella sua lunga parabola ha messo a punto per la propria esistenza. Il nuovo
meraviglioso è una mimesi stralunata dall’orrore delle scoperte» (Segre
1979: 215-216).
nella sua lunga parabola ha messo a punto per la propria esistenza. Il nuovo
meraviglioso è una mimesi stralunata dall’orrore delle scoperte» (Segre
1979: 215-216).
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Accanto a Keaton è Frank Capra che fin dalle prime esperienze registiche
(al servizio di Harry Langdon, per il quale diresse e/o sceneggiò tre films:
The Strong Man, 1926; Tramp, Tramp, Tramp, 1926; Long Pants, 1927)
mette al centro della sua ricerca il moderno statuto della finzione e la
mediazione da essa svolta nei confronti del desiderio del soggetto-lettorespettatore. In Long pants è appunto la lettura di romanzi che stravolge la
mente del protagonista lanciandolo in una avventurosa e comica peripezia la
cui finalità è la conquista della donna di cui si è innamorato.
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Accanto a Keaton è Frank Capra che fin dalle prime esperienze registiche
(al servizio di Harry Langdon, per il quale diresse e/o sceneggiò tre films:
The Strong Man, 1926; Tramp, Tramp, Tramp, 1926; Long Pants, 1927)
mette al centro della sua ricerca il moderno statuto della finzione e la
mediazione da essa svolta nei confronti del desiderio del soggetto-lettorespettatore. In Long pants è appunto la lettura di romanzi che stravolge la
mente del protagonista lanciandolo in una avventurosa e comica peripezia la
cui finalità è la conquista della donna di cui si è innamorato.
17
«Non è concepibile ‘vedere e sentire’ la realtà nel suo succedere se non
da un solo angolo visuale: e questo angolo visuale è sempre quello di un
soggetto che vede e sente. Questo soggetto è un soggetto in carne ed ossa,
perché anche se noi, in un film di finzione scegliamo un punto di vista
ideale, e quindi in qualche modo astratto e non naturalistico, ecco che esso
diviene realistico, e, al limite, naturalistico, nel momento in cui piazziamo
in quel punto di vista una macchina da presa e un magnetofono: esso
risulterà come qualcosa di visto e udito da un soggetto in carne ed ossa (cioè
con occhi e orecchie)» (Pasolini 1977: 237-241).
17
18
18
La trascendenza delle immagini è iscritta nella cultura umana come il suo
più originario fondamento (Si legga Esodo, 20, 3-6, che commenta il primo
comandamento, «Non avrai altro Dio all'infuori di me»: «Non ti farai idolo
né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla
terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a
loro e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso,
che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta
generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra il suo favore fino a
mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandi».
Avvertiamo in questa minaccia una allusione all'antico potere magico delle
immagini (potere di legare le forze avverse della natura attraverso il
controllo iconico di esse). Tale potere perdura, però, nelle moderne strategie
immaginative del desiderio, le quali, enormemente potenziate dalla
tecnologia, producono l’appropriazione dell’immagine da parte del soggetto
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«Non è concepibile ‘vedere e sentire’ la realtà nel suo succedere se non
da un solo angolo visuale: e questo angolo visuale è sempre quello di un
soggetto che vede e sente. Questo soggetto è un soggetto in carne ed ossa,
perché anche se noi, in un film di finzione scegliamo un punto di vista
ideale, e quindi in qualche modo astratto e non naturalistico, ecco che esso
diviene realistico, e, al limite, naturalistico, nel momento in cui piazziamo
in quel punto di vista una macchina da presa e un magnetofono: esso
risulterà come qualcosa di visto e udito da un soggetto in carne ed ossa (cioè
con occhi e orecchie)» (Pasolini 1977: 237-241).
La trascendenza delle immagini è iscritta nella cultura umana come il suo
più originario fondamento (Si legga Esodo, 20, 3-6, che commenta il primo
comandamento, «Non avrai altro Dio all'infuori di me»: «Non ti farai idolo
né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla
terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a
loro e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso,
che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta
generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra il suo favore fino a
mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandi».
Avvertiamo in questa minaccia una allusione all'antico potere magico delle
immagini (potere di legare le forze avverse della natura attraverso il
controllo iconico di esse). Tale potere perdura, però, nelle moderne strategie
immaginative del desiderio, le quali, enormemente potenziate dalla
tecnologia, producono l’appropriazione dell’immagine da parte del soggetto
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e quindi l’esorcizzazione della trascendenza che si annida nella alterità di
qualunque immagine.
e quindi l’esorcizzazione della trascendenza che si annida nella alterità di
qualunque immagine.
19
Due magistrali esempi italiani di attraversamento dello schermo e di
mediazione comica del desiderio, entrambi interpretati dall’attore Alberto
Sordi, sono Lo sceicco Bianco (1952), di Federico Fellini, in cui la ingenua
protagonista vive una tragicomica storia d’amore con l’eroe di un
fotoromanzo, e Un americano a Roma (1954) di Steno, in cui il protagonista
si identifica con i personaggi dei film americani, interpretandoli davvero
nella Roma proletaria in cui vive. Si compari la scena iniziale di Un
americano a Roma (primo piano di Sordi al cinema che guarda un film),
con la scena iniziale di Provaci ancora Sam e quella finale di La rosa
purpurea del Cairo.
19
Due magistrali esempi italiani di attraversamento dello schermo e di
mediazione comica del desiderio, entrambi interpretati dall’attore Alberto
Sordi, sono Lo sceicco Bianco (1952), di Federico Fellini, in cui la ingenua
protagonista vive una tragicomica storia d’amore con l’eroe di un
fotoromanzo, e Un americano a Roma (1954) di Steno, in cui il protagonista
si identifica con i personaggi dei film americani, interpretandoli davvero
nella Roma proletaria in cui vive. Si compari la scena iniziale di Un
americano a Roma (primo piano di Sordi al cinema che guarda un film),
con la scena iniziale di Provaci ancora Sam e quella finale di La rosa
purpurea del Cairo.
20
Suggestiva, perché coglie il nuovo e generalizzato carattere di simulacro
che il reale assume in ogni suo aspetto nell’ambito di una economia
modulare puramente riproduttiva, ed anche perché mette in luce il nuovo
rapporto interattivo del soggetto con il significato del mondo, l’analisi di
Jean Baudrillard resta però al di qua di quella di Walter Benjamin (dalla
quale tuttavia parte) perché lo studioso non avverte la potenziale
emancipazione che la rivoluzione tecnologica mette al servizio del soggetto
individuale, che per la prima volta nella storia dell’umanità ha la possibilità
di costruirsi (perfino biologicamente) come autonoma realtà di senso. Si
veda in particolare Baudrillard (1979: 61-90). Segnalo tuttavia un passaggio
dell’opera nel quale il «simbolismo forte» dei «segni sicuri» (perché
perfettamente equilibrati fra un reale originario ed una finzione ad esso
subordinata) viene correttamente denunciato como caratteristico della
civiltà antica: «Se ci sorprendiamo ancora a sognare -oggi soprattutto- di un
mondo di segni sicuri, d’un ‘ordine simbolico’ forte, non facciamoci
illusioni: quest’ordine è esistito, e fu quello d’una gerarchia feroce, perché
la trasparenza e la crudeltà dei segni vanno di pari passo. Nelle società di
caste, feudali o arcaiche, società crudeli, i segni sono in numero limitato, di
diffusione ristretta, ciascuno ha il suo pieno valore d’interdizione, ciascuno
è una obbligazione reciproca fra caste, clan o persone: non sono quindi
arbitrari. L’arbitrario del segno comincia quando, invece di legare due
persone con una reciprocità inviolabile, esso si mette, significando, a
rinviare a un universo disincantato del significato, denominatore comune
20
Suggestiva, perché coglie il nuovo e generalizzato carattere di simulacro
che il reale assume in ogni suo aspetto nell’ambito di una economia
modulare puramente riproduttiva, ed anche perché mette in luce il nuovo
rapporto interattivo del soggetto con il significato del mondo, l’analisi di
Jean Baudrillard resta però al di qua di quella di Walter Benjamin (dalla
quale tuttavia parte) perché lo studioso non avverte la potenziale
emancipazione che la rivoluzione tecnologica mette al servizio del soggetto
individuale, che per la prima volta nella storia dell’umanità ha la possibilità
di costruirsi (perfino biologicamente) come autonoma realtà di senso. Si
veda in particolare Baudrillard (1979: 61-90). Segnalo tuttavia un passaggio
dell’opera nel quale il «simbolismo forte» dei «segni sicuri» (perché
perfettamente equilibrati fra un reale originario ed una finzione ad esso
subordinata) viene correttamente denunciato como caratteristico della
civiltà antica: «Se ci sorprendiamo ancora a sognare -oggi soprattutto- di un
mondo di segni sicuri, d’un ‘ordine simbolico’ forte, non facciamoci
illusioni: quest’ordine è esistito, e fu quello d’una gerarchia feroce, perché
la trasparenza e la crudeltà dei segni vanno di pari passo. Nelle società di
caste, feudali o arcaiche, società crudeli, i segni sono in numero limitato, di
diffusione ristretta, ciascuno ha il suo pieno valore d’interdizione, ciascuno
è una obbligazione reciproca fra caste, clan o persone: non sono quindi
arbitrari. L’arbitrario del segno comincia quando, invece di legare due
persone con una reciprocità inviolabile, esso si mette, significando, a
rinviare a un universo disincantato del significato, denominatore comune
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e quindi l’esorcizzazione della trascendenza che si annida nella alterità di
qualunque immagine.
e quindi l’esorcizzazione della trascendenza che si annida nella alterità di
qualunque immagine.
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Due magistrali esempi italiani di attraversamento dello schermo e di
mediazione comica del desiderio, entrambi interpretati dall’attore Alberto
Sordi, sono Lo sceicco Bianco (1952), di Federico Fellini, in cui la ingenua
protagonista vive una tragicomica storia d’amore con l’eroe di un
fotoromanzo, e Un americano a Roma (1954) di Steno, in cui il protagonista
si identifica con i personaggi dei film americani, interpretandoli davvero
nella Roma proletaria in cui vive. Si compari la scena iniziale di Un
americano a Roma (primo piano di Sordi al cinema che guarda un film),
con la scena iniziale di Provaci ancora Sam e quella finale di La rosa
purpurea del Cairo.
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Due magistrali esempi italiani di attraversamento dello schermo e di
mediazione comica del desiderio, entrambi interpretati dall’attore Alberto
Sordi, sono Lo sceicco Bianco (1952), di Federico Fellini, in cui la ingenua
protagonista vive una tragicomica storia d’amore con l’eroe di un
fotoromanzo, e Un americano a Roma (1954) di Steno, in cui il protagonista
si identifica con i personaggi dei film americani, interpretandoli davvero
nella Roma proletaria in cui vive. Si compari la scena iniziale di Un
americano a Roma (primo piano di Sordi al cinema che guarda un film),
con la scena iniziale di Provaci ancora Sam e quella finale di La rosa
purpurea del Cairo.
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Suggestiva, perché coglie il nuovo e generalizzato carattere di simulacro
che il reale assume in ogni suo aspetto nell’ambito di una economia
modulare puramente riproduttiva, ed anche perché mette in luce il nuovo
rapporto interattivo del soggetto con il significato del mondo, l’analisi di
Jean Baudrillard resta però al di qua di quella di Walter Benjamin (dalla
quale tuttavia parte) perché lo studioso non avverte la potenziale
emancipazione che la rivoluzione tecnologica mette al servizio del soggetto
individuale, che per la prima volta nella storia dell’umanità ha la possibilità
di costruirsi (perfino biologicamente) come autonoma realtà di senso. Si
veda in particolare Baudrillard (1979: 61-90). Segnalo tuttavia un passaggio
dell’opera nel quale il «simbolismo forte» dei «segni sicuri» (perché
perfettamente equilibrati fra un reale originario ed una finzione ad esso
subordinata) viene correttamente denunciato como caratteristico della
civiltà antica: «Se ci sorprendiamo ancora a sognare -oggi soprattutto- di un
mondo di segni sicuri, d’un ‘ordine simbolico’ forte, non facciamoci
illusioni: quest’ordine è esistito, e fu quello d’una gerarchia feroce, perché
la trasparenza e la crudeltà dei segni vanno di pari passo. Nelle società di
caste, feudali o arcaiche, società crudeli, i segni sono in numero limitato, di
diffusione ristretta, ciascuno ha il suo pieno valore d’interdizione, ciascuno
è una obbligazione reciproca fra caste, clan o persone: non sono quindi
arbitrari. L’arbitrario del segno comincia quando, invece di legare due
persone con una reciprocità inviolabile, esso si mette, significando, a
rinviare a un universo disincantato del significato, denominatore comune
20
Suggestiva, perché coglie il nuovo e generalizzato carattere di simulacro
che il reale assume in ogni suo aspetto nell’ambito di una economia
modulare puramente riproduttiva, ed anche perché mette in luce il nuovo
rapporto interattivo del soggetto con il significato del mondo, l’analisi di
Jean Baudrillard resta però al di qua di quella di Walter Benjamin (dalla
quale tuttavia parte) perché lo studioso non avverte la potenziale
emancipazione che la rivoluzione tecnologica mette al servizio del soggetto
individuale, che per la prima volta nella storia dell’umanità ha la possibilità
di costruirsi (perfino biologicamente) come autonoma realtà di senso. Si
veda in particolare Baudrillard (1979: 61-90). Segnalo tuttavia un passaggio
dell’opera nel quale il «simbolismo forte» dei «segni sicuri» (perché
perfettamente equilibrati fra un reale originario ed una finzione ad esso
subordinata) viene correttamente denunciato como caratteristico della
civiltà antica: «Se ci sorprendiamo ancora a sognare -oggi soprattutto- di un
mondo di segni sicuri, d’un ‘ordine simbolico’ forte, non facciamoci
illusioni: quest’ordine è esistito, e fu quello d’una gerarchia feroce, perché
la trasparenza e la crudeltà dei segni vanno di pari passo. Nelle società di
caste, feudali o arcaiche, società crudeli, i segni sono in numero limitato, di
diffusione ristretta, ciascuno ha il suo pieno valore d’interdizione, ciascuno
è una obbligazione reciproca fra caste, clan o persone: non sono quindi
arbitrari. L’arbitrario del segno comincia quando, invece di legare due
persone con una reciprocità inviolabile, esso si mette, significando, a
rinviare a un universo disincantato del significato, denominatore comune
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Raffaele PINTO
Dante (Inf. V) e Buster Keaton...
Raffaele PINTO
Dante (Inf. V) e Buster Keaton...
del mondo reale, nei confronti del quale nessuno ha più obblighi»
(Baudrillard 1979: 61-62).
del mondo reale, nei confronti del quale nessuno ha più obblighi»
(Baudrillard 1979: 61-62).
21
21
Mi pare che la critica dantesca non abbia ancora sufficientemente messo a
fuoco il fatto che il titolo del Poema appare per la prima volta in un contesto
che tematizza la responsabilità della poesia nella enunciazione di contenuti
che, pur veri, hanno tutta l’apparenza della menzogna (Inf. XVI 124-128:
«Sempre a quel ver c'ha faccia di menzogna / de' l'uom chiuder le labbra fin
ch'el puote, / però che sanza colpa fa vergogna; / ma qui tacer nol posso; e per
le note / di questa comedía, lettor, ti giuro, / s'elle non sien di lunga grazia vote,
/ ch'i' vidi ... »; segue la rappresentazione del mostruoso Gerione, «sozza
imagine di froda»). Il poetico appare qui come allegoria degradata, come
alterità di senso che fa appello ai più perversi procedimenti della seduzione
sensoriale per catturare l’assenso intellettuale del lettore nei confronti di un
vero del tutto occulto. Commedia significa quindi, fra l’altro, anche discorso
nel quale verità e menzogna sono inestricabilmente confuse, poiché il
contenuto di realtà, pur presente, filtra attraverso molteplici e magari ignobili
rivestimenti fittizi. Il giuramento sulle «note / di questa comedia», blasfemo
nel suo sostituire un testo poetico a quello biblico come fonte di legittimazione
(pseudo)religiosa, rivela poi, in modo che non si potrebbe desiderare più
esplicito, la funzione profanatrice che la Commedia ha, nelle intenzioni del suo
autore, nei confronti del principio di verità rappresentato dalla autorità
religiosa.
Mi pare che la critica dantesca non abbia ancora sufficientemente messo a
fuoco il fatto che il titolo del Poema appare per la prima volta in un contesto
che tematizza la responsabilità della poesia nella enunciazione di contenuti
che, pur veri, hanno tutta l’apparenza della menzogna (Inf. XVI 124-128:
«Sempre a quel ver c'ha faccia di menzogna / de' l'uom chiuder le labbra fin
ch'el puote, / però che sanza colpa fa vergogna; / ma qui tacer nol posso; e per
le note / di questa comedía, lettor, ti giuro, / s'elle non sien di lunga grazia vote,
/ ch'i' vidi ... »; segue la rappresentazione del mostruoso Gerione, «sozza
imagine di froda»). Il poetico appare qui come allegoria degradata, come
alterità di senso che fa appello ai più perversi procedimenti della seduzione
sensoriale per catturare l’assenso intellettuale del lettore nei confronti di un
vero del tutto occulto. Commedia significa quindi, fra l’altro, anche discorso
nel quale verità e menzogna sono inestricabilmente confuse, poiché il
contenuto di realtà, pur presente, filtra attraverso molteplici e magari ignobili
rivestimenti fittizi. Il giuramento sulle «note / di questa comedia», blasfemo
nel suo sostituire un testo poetico a quello biblico come fonte di legittimazione
(pseudo)religiosa, rivela poi, in modo che non si potrebbe desiderare più
esplicito, la funzione profanatrice che la Commedia ha, nelle intenzioni del suo
autore, nei confronti del principio di verità rappresentato dalla autorità
religiosa.
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Raffaele PINTO
Dante (Inf. V) e Buster Keaton...
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Raffaele PINTO
Dante (Inf. V) e Buster Keaton...
del mondo reale, nei confronti del quale nessuno ha più obblighi»
(Baudrillard 1979: 61-62).
del mondo reale, nei confronti del quale nessuno ha più obblighi»
(Baudrillard 1979: 61-62).
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Mi pare che la critica dantesca non abbia ancora sufficientemente messo a
fuoco il fatto che il titolo del Poema appare per la prima volta in un contesto
che tematizza la responsabilità della poesia nella enunciazione di contenuti
che, pur veri, hanno tutta l’apparenza della menzogna (Inf. XVI 124-128:
«Sempre a quel ver c'ha faccia di menzogna / de' l'uom chiuder le labbra fin
ch'el puote, / però che sanza colpa fa vergogna; / ma qui tacer nol posso; e per
le note / di questa comedía, lettor, ti giuro, / s'elle non sien di lunga grazia vote,
/ ch'i' vidi ... »; segue la rappresentazione del mostruoso Gerione, «sozza
imagine di froda»). Il poetico appare qui come allegoria degradata, come
alterità di senso che fa appello ai più perversi procedimenti della seduzione
sensoriale per catturare l’assenso intellettuale del lettore nei confronti di un
vero del tutto occulto. Commedia significa quindi, fra l’altro, anche discorso
nel quale verità e menzogna sono inestricabilmente confuse, poiché il
contenuto di realtà, pur presente, filtra attraverso molteplici e magari ignobili
rivestimenti fittizi. Il giuramento sulle «note / di questa comedia», blasfemo
nel suo sostituire un testo poetico a quello biblico come fonte di legittimazione
(pseudo)religiosa, rivela poi, in modo che non si potrebbe desiderare più
esplicito, la funzione profanatrice che la Commedia ha, nelle intenzioni del suo
autore, nei confronti del principio di verità rappresentato dalla autorità
religiosa.
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Mi pare che la critica dantesca non abbia ancora sufficientemente messo a
fuoco il fatto che il titolo del Poema appare per la prima volta in un contesto
che tematizza la responsabilità della poesia nella enunciazione di contenuti
che, pur veri, hanno tutta l’apparenza della menzogna (Inf. XVI 124-128:
«Sempre a quel ver c'ha faccia di menzogna / de' l'uom chiuder le labbra fin
ch'el puote, / però che sanza colpa fa vergogna; / ma qui tacer nol posso; e per
le note / di questa comedía, lettor, ti giuro, / s'elle non sien di lunga grazia vote,
/ ch'i' vidi ... »; segue la rappresentazione del mostruoso Gerione, «sozza
imagine di froda»). Il poetico appare qui come allegoria degradata, come
alterità di senso che fa appello ai più perversi procedimenti della seduzione
sensoriale per catturare l’assenso intellettuale del lettore nei confronti di un
vero del tutto occulto. Commedia significa quindi, fra l’altro, anche discorso
nel quale verità e menzogna sono inestricabilmente confuse, poiché il
contenuto di realtà, pur presente, filtra attraverso molteplici e magari ignobili
rivestimenti fittizi. Il giuramento sulle «note / di questa comedia», blasfemo
nel suo sostituire un testo poetico a quello biblico come fonte di legittimazione
(pseudo)religiosa, rivela poi, in modo che non si potrebbe desiderare più
esplicito, la funzione profanatrice che la Commedia ha, nelle intenzioni del suo
autore, nei confronti del principio di verità rappresentato dalla autorità
religiosa.
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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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Anales cervantinos, 13-14, pps. 3-36.
BAUDRILLARD, J. (1979): Lo scambio simbolico e la morte, Milano,
Feltrinelli.
BENJAMIN, W. (1971): L’opera d’arte nell’epoca della sua
riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi.
GIRARD, R. (1965): Menzogna romantica e verità romanzesca. Le
mediazioni del desiderio nella letteratura e nella vita,
Milano, Bompiani.
GIRARD, R. (1978): «The mimetic desire of Paolo and Francesca», in
ID: To double business bound, Baltimore and London, The
Johns Hopkins U.P., pp. 1-8.
IANNUCCI, A. A. (2004): «Francesca da Rimini: the movie», in
Dante, I, pp. 67-79.
IANNUCCI, A. A. (1997): «Forbidden Love: Metaphor and History
(Inferno V)», in Dante: Contemporary Perspectives (a cura
di A.A. Iannucci), Toronto, Univ. Toronto Press, pp. 94-112.
PASOLINI, P. P. (1977): Osservazioni sul piano sequenza [1967] in
ID.: Empirismo eretico, Milano, Garzanti.
PINTO, R. (2000): «La parola del cuore», in AA. VV.: La poesia di
Giacomo da Lentini. Scienza e filosofia nel XIII secolo in
Sicilia e nel Mediterraneo, Palermo, Centro di Studi
filologici e linguistici, pp. 168-191.
PINTO, R. (2002): «Gentucca e il paradigma poetico del ‘dolce stil
novo’», in Tenzone. Revista de la Asociación Complutense
de Dantología 3, pp. 191-216.
PINTO, R. (2005): «Fingo ergo sum. Elementi di teoria poetica della
modernità. Lettura del canto XXVI del ‘Purgatorio’», in
Tenzone. Revista de la Asociación Complutense de
Dantología 5, pp. 171-211.
SEGRE, C. (1979): voce «Finzione», Enciclopedia, Torino, Einaudi,
vol. 6, pp. 208-222.
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Anales cervantinos, 13-14, pps. 3-36.
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Feltrinelli.
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riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi.
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Dante, I, pp. 67-79.
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(Inferno V)», in Dante: Contemporary Perspectives (a cura
di A.A. Iannucci), Toronto, Univ. Toronto Press, pp. 94-112.
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ID.: Empirismo eretico, Milano, Garzanti.
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Giacomo da Lentini. Scienza e filosofia nel XIII secolo in
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novo’», in Tenzone. Revista de la Asociación Complutense
de Dantología 3, pp. 191-216.
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modernità. Lettura del canto XXVI del ‘Purgatorio’», in
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vol. 6, pp. 208-222.
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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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