LECTURA DANTIS dedicata a Mons. Giovanni
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LECTURA DANTIS dedicata a Mons. Giovanni
LECTURA DANTIS dedicata a Mons. Giovanni Mesini “il prete di Dante” Divina Commedia. Inferno letto e commentato da Padre ALBERTO CASALBONI dei Frati Minori Cappuccini di Ravenna Canto V 15 ottobre 2007 I peccatori incontinenti, i lussuriosi, Paolo e Francesca da Rimini. Minòs è il giudice. Non più solo categorie, folle indistinte, personaggi mitici come Caronte, ma d’ora in poi persone reali, caratteri concreti; è l’inferno degli uomini, ognuno di noi vi può rispecchiare il proprio peccato, la propria condotta. E dunque ci inoltriamo sempre più nella colpa e nel dolore degli uomini: ma chi è giudice della gravità della colpa e della conseguente pena? “Stavvi Minos orribilmente, e ringhia: essamina le colpe nell’intrata; giudica e manda secondo ch’avvinghia”; l’anima nuda si presenta a questo ringhioso giudice e aspetta la sentenza: la nudità è espressione di trasparente confessione, non servono parole, e allora tanti giri di coda, tale sarà il cerchio infernale di destinazione, una volta per sempre; un giudizio veloce, dal momento che di anime “Sempre dinanzi a lui ne stanno molte”. Minosse era il re di Creta, dotato di alto senso della giustizia e compilatore delle prime leggi scritte, marito di Pasifae, quella che si innamorò del toro, e per poter soddisfare l’insana voglia fece costruire in legno una giovenca; da questa unione nacque il Minotauro, rinchiuso poi nel famoso labirinto. Pasifae, come emblema di lussuria, la ritroveremo nel Purgatorio. Nella concezione etica e filosofica di Dante la lussuria, fra i vizi capitali, è il meno grave; questi peccatori entrano nella grande categoria degli incontinenti, di coloro cioè che sono incapaci di contenere entro i limiti del giusto e dell’onesto le passioni e gli istinti naturali, che di per sé, ossia se controllati, sarebbero sani e legittimi. Dante rende l’idea della passione, descrivendo questo luogo “d’ogne luce muto, che mugghia come fa mar per tempesta”, immagine che rende il concetto più avanti espresso quando definisce i peccator carnali come coloro “che la ragion sommettono al talento”, dove per talento intendiamo istinto, talmente forte e continuato da non permettere loro né tempo né reale volontà di pentimento. Anche Minosse, come Caronte, è sorpreso dalla presenza di Dante e grida, e minaccia “O tu che vieni al doloroso ospizio... guarda com’entri e di cui tu ti fide;/ non t’inganni l’ampiezza de l’intrare”; ma ecco il rassicurante mantra di Virgilio: “Non impedir lo suo fatale andare:/ vuolsi così colà dove si puote/ ciò che si vuole, e più non dimandare”. Scendono poi verso le dolenti note, e trovano questi peccatori spinti da una “bufera infernal, che mai non resta,/ mena li spirti con la sua rapina; voltando e percotendo li molesta... quel fiato li spiriti mali/ di qua, di là, di sù li mena; nulla speranza li conforta mai, non che di posa, ma di minor pena”; per rendere più visibile l’evento, Dante si aiuta con delle immagini: “E come li stornei ne portan l’ali nel freddo tempo...”, e ancora, “E come i gru van cantando lor lai...”. È la passione senza freno. E sono tanti, come stormi di gru e di storni, ombre trasportate da quella tempesta: “Maestro, chi son quelle genti che l’aura nera sì gastiga? Ai loro occhi si presenta un numero sterminato di ombre di personaggi, Virgilio riconosce particolarmente quelli antichi, anche a noi assai noti, e li correda di un brevissimo cenno del loro peccato, la regina Semiramide “che libito fé lecito in sua legge”, con legge rese lecito l’illecito piacere; seguono Didone, Cleopatra, Elena, Achille e Paride; c’è anche Tristano e più di mille/ ombre. Ma l’attenzione di Dante però si appunta su “quei due che ‘nsieme vanno,/ e paion sì al vento esser leggieri”, e desidererebbe parlar con loro; e Virgilio non solo acconsente, ma consiglia il modo e il tempo: “quando saranno più presso a noi; e tu allor li prega/ per quello amor che i mena, ed ei verranno”. “O anime affannate/ venite a noi parlar, s’altri non niega”, così Dante con “affettüoso grido”; e quelle accorrono al richiamo “Quali colombe dal disìo chiamate... vegnon per l’aere maligno”. Consideriamo un istante l’evento: per un momento le due colombe sospendono la corsa, la pena, e Dio non lo nega, ci troviamo insomma in presenza di una deroga alle eterne ed immutabili leggi infernali, un primo esempio di infrazione a sottolineare l’eccezionalità di questa presenza permessa da Dio. Ci sorprende poi quell’affettuoso richiamo di Dante; ben rilevato da Francesca che sottolinea “poi ch’hai pietà del nostro mal perverso, e cortesemente prosegue: “O animal grazïoso e benigno/ che visitando vai per l’aere perso/ noi... se fosse amico il re dell’universo, noi pregheremmo lui de la tua pace”, e, aggiunge, a guisa del Po che trova pace nel mare con i suoi affluenti, per notare il luogo di origine e di morte. E che dire della similitudine? “Quali colombe dal disìo chiamate/ con l’ali alzate e ferme al dolce nido...”. Insomma, come spiegare un legame così pieno di affetto, una corrispondenza, un dialogo amico, con anime dannate? Senza lasciarci andare alle interpretazioni, a cercare troppe risposte; è certo però che questa impossibilità di pregare Dio, di averlo amico, altro non è che un’ulteriore prova della tragica condizione del dannato che ha perduto “il ben de l’ intelletto”. Notiamo ancora come quanto precede sia appropriata cornice alla conclusione della storia di Paolo e Francesca, che attinge il momento lirico in quell’inno all’amore: Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende... Amor, ch’a nullo amato amar perdona... Amor condusse noi ad una morte: l’amore, il cuor gentile, l’irresistibile impulso alla corrispondenza al senso/sentimento; soprattutto l’abilità costruttiva del discorso, la sapienza creativa! Vediamo: Amore prese costui de la bella persona che mi fu tolta: è Paolo che ama. Amor mi prese del costui piacer sì forte: è Francesca che ama. Amor condusse noi ad una morte: entrambi innamorati, entrambi soccombono al destino di morte. uno gioco splendido della reciprocità di amore e morte; sillogismo perfetto dell’amore! E fu morte violenta; come, non sappiamo, se non che “’l modo ancor m’offende” e “Caina attende chi a vita ci spense”. Caina rimanda a Caino che uccide il fratello Abele, ora giù nel profondo inferno. Parole scultoree che trapassano il cuore di Dante: “Oh lasso,/ quanti dolci pensier, quanto disìo/ menò costoro al doloroso passo!” Così Dante più che a commentare, a condensare la sua esperienza d’amore. Vuole però saperne di più, “Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri, / a che e come concedette amore/ che conosceste i dubbiosi disiri?”. Francesca risponde con un flash intriso di lacrime, è il ricordo dell’istante più intenso, dell’attimo dell’estasi d’amore nel suo acme, proprio perché inatteso, improvviso, dirompente: dalla innocente lettura del bacio di Lancillotto a Ginevra, al cedimento all’irrazionale impulso: “Quando leggemmo il disïato riso/ esser baciato da cotanto amante,/ questi, che mai non fia da me diviso,/ la bocca mi basiò tutto tremante. Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse”. Potenza del libro! “Quel giorno più non vi leggemmo avante”. Troppo per Dante: “... di pietade/ io venni men così com’io morisse”. “E caddi come corpo morto cade”, non però morto fra i morti! Per noi: poiché l’eternità è privazione di un prima e di un poi, eternamente Paolo bacerà Francesca “questi/ mai da me non fia diviso”, così i pittori li raffigurano; ma non a reciproca soddisfazione, bensì ad eterna condanna: mentre che l’uno spirto questo disse,/ l’altro piangëa: ecco il significato di quello che poteva sembrare un banale assioma “Nessun maggior dolore/ che ricordarsi del tempo felice/ ne la miseria”.