L`anteprima di Mrs Webster di Caroline Blackwood

Transcript

L`anteprima di Mrs Webster di Caroline Blackwood
1
Mi mandarono a stare con lei due anni dopo la fine del conflitto, ma a casa sua sembrava di essere ancora in tempo di
guerra. Le imposte e le tende erano spesso chiuse anche durante il giorno, come se cercasse di mantenere una sorta di
scrupoloso oscuramento. Credo che fosse più spaventata
dal sole di quanto lo fosse mai stata dai raid dei tedeschi.
Possedeva dei cupi e costosi tappeti persiani e pareva fosse
terrorizzata dal fatto che alcuni subdoli raggi di sole selvaggi potessero infiltrarsi e farli sbiadire.
La casa della bisnonna Webster trasmetteva la stessa
sensazione fredda e umidiccia che si ha in molte chiese.
Mangiavamo su dei vassoi davanti al camino, ma il gelo
di quei pasti era ancora più pungente perché per motivi
economici la legna era pronta, ma mai accesa. In un periodo di austerità post-bellica la bisnonna Webster riusciva a rendere i pasti ancora più austeri e razionati di chiunque altro. Doveva avere a che fare con il fatto che il cibo
venisse sempre servito con la sua argenteria di inestimabile valore, lucidata ogni giorno nel seminterrato da una
cameriera storpia che la bisnonna Webster chiamava per
cognome, Richards.
I minuscoli pezzetti di margarina, quando venivano portati da Richards, erano sistemati su enormi piatti per burro
d’argento intarsiati ed erano così sminuiti dalla loro costosa presentazione da sembrare quasi inesistenti. La saccarina,
7
servita sempre al posto dello zucchero, veniva mortificata e
svalutata allo stesso modo dalla scodella di immenso valore
che la conteneva; avveniva lo stesso per le esigue miniporzioni di spaghetti in scatola gommosi e sconditi, che sembravano soltanto punteggiare l’enorme superficie luccicante
dei piatti da banchetto sui quali venivano serviti. Non sembrava tanto del cibo, quanto uno sfortunato incidente che
rovinava la bellezza della sua argenteria, una piccola escrescenza biancastra che Richards avrebbe dovuto pulire.
Prima che venissi mandata ad abitare da lei, non avevo
quasi mai visto la bisnonna Webster. Non ho mai saputo
la vera ragione per la quale una persona come lei avesse
acconsentito a prendermi con sé quando mia madre glielo
chiese. Forse la sua nozione idiosincratica di dovere familiare non le consentiva di rifiutare alla pronipote di soggiornare sotto il suo tetto, una volta assicuratasi che fosse
chiaro che la sua presenza non dovesse in alcun modo interferire con il flusso implacabile e quieto del suo stile di vita scelto così minuziosamente.
La mattina che arrivai a casa sua, goffa e timida come
una scolaretta, trascinando la mia valigia, era seduta nell’oscurità del salotto. Mi salutò a malapena. Disse che confidava nel fatto che avessi fatto buon viaggio in treno e che
Richards mi avrebbe mostrato la mia camera.
«Il pranzo sarà servito all’una e trenta» disse. Quella
frase così normale fu pronunciata come una minaccia di
morte. «Spero che tu capisca quanto ci tenga alla puntualità».
La bisnonna Webster mi disse che avrebbe preferito che
rimanessi al piano di sopra in camera mia fino a quando
non fosse stato servito il pranzo, ma che non avrebbe avuto niente da ridire se fossi scesa per sedermi con lei in salotto, fintanto che fossi stata in grado di intrattenermi da
sola.
All’epoca avevo quattordici anni. Ero stata da poco sot8
toposta a un piccolo intervento chirurgico a Londra. Quando ero uscita dall’ospedale soffrivo di una forte anemia e i
dottori avevano detto a mia madre che mi sarei rimessa molto prima se avessi potuto beneficiare dell’aria di mare. Avevano chiesto alla bisnonna Webster di prendermi con sé soltanto perché viveva a cinque minuti dal mare.
In principio fui molto contenta di sentire che venivo
considerata un’invalida e che mi avrebbero mandata a stare
con lei per due mesi. Quando lo dissi a mia zia Lavinia, mi
rispose «Incrocerò le dita per te, tesoro», e non avevo idea
di che cosa intendesse. In quel periodo ero convinta che
nella vita non esistesse nulla di peggio dell’essere nel mio
collegio, ma dal primo momento in cui camminai lungo
quell’orribile portico in vetro colorato, zeppo di piante in
vaso che dovevano essere bagnate da Roberts mattina e sera e culminante con un’enorme porta d’ingresso nera e minacciosa, cominciai a rivedere la mia opinione.
«Comprendi che è stata tua madre a chiedermi di prenderti a stare con me» disse la bisnonna Webster al primo
difficile e scarso pranzo che consumammo insieme. «Tua
madre dice che sei stata malata. Secondo la mia esperienza
è sempre meglio fare in modo che i giovani imparino a vincere le loro malattie e proseguano i loro studi, ma sembra
che ultimamente nessuno sia d’accordo con me…».
La bisnonna Webster fece un sospiro rumoroso e guardò
irritata verso il focolare spento. Poi aggiunse: «Se tuo padre non avesse dato la vita durante il servizio per una causa in cui credeva fermamente… Devo dire che avrei potuto decidere di non acconsentire alle richieste che mi ha fatto tua madre, ma visto che sei qui… sei qui. Spero soltanto
che qualcuno ti abbia insegnato come passare il tempo».
Richards poté servirci due piatti disgustosi prima che la
bisnonna Webster decidesse di parlarmi nuovamente.
«Che cos’è quell’indumento che indossi?» chiese.
«È il blazer della mia scuola».
9
«Blazer?» ripeté. «Blazer?». La sua bocca minuscola era
deformata dal disgusto e riuscì a far sembrare la parola una
sorta di imprecazione rozza e ignobile. «Per fortuna non conosco questi termini moderni. Quello che so è che qualsiasi cosa tu stia indossando ti sta piccola. Guardati le maniche, ti prego».
Abbassai lo sguardo sulle maniche della mia giacca scolastica e vidi che c’era una porzione di polso abbastanza
grande in vista tra la mia mano e la manica.
«Non biasimo te» aggiunse la bisnonna Webster. «Biasimo tua madre. Gli abiti risultano subito stretti a una ragazza che sta crescendo. So che tua madre è una vedova di
guerra, tuttavia devo dire che trovo abbastanza imperdonabile che ti abbia mandata a stare da me vestita così. Non
vi è nulla di più sgradevole della vista di una giovane donna che mette in mostra una quantità così ripugnante di
braccio. Non mi dilungherò nuovamente su questo argomento».
La bisnonna Webster diceva sempre la verità. Non parlò
mai più né delle mie maniche, né delle mie braccia.
All’inizio della mia permanenza nella sua casa, la vedevo
come poco più di una vecchia deprimente e formale, troppo anziana perché fosse possibile giudicarla secondo gli
standard umani. Era identica a tutte le parenti sgangherate,
vestite a lutto e con un piede nella fossa che a volte apparivano nelle case delle mie compagne di classe. A quel punto, il risultato di tutto ciò che sapevo di quella donna e dell’impatto che ebbe su di me fu che stavo già contando i minuti che dovevano ancora trascorrere prima che potessi
fuggire da sotto il suo tetto.
Sebbene tecnicamente la bisnonna Webster potesse
fornirmi dell’aria di mare, poiché la sua casa era a Hove,
un quartiere di Brighton, sembrava che nemmeno un soffio di quell’aria fosse in grado di penetrare all’interno di
quella casa stantia dalle finestre sigillate e ricoperte da pe10
santi tende vittoriane. Mentre vivevo in quella grande e
fredda villa, spesso mi sembrava di essere ad anni luce di
distanza dal mondo che agognavo e lei aborriva: il mondo delle spiagge affollate di Brighton, dove i bambini scavavano dei fossati per i castelli di sabbia con torri elaborate che erano state modellate con secchi di metallo smaltati, dove erano sdraiati quelli che la bisnonna Webster
definiva con un brivido “i vacanzieri”, impegnati a esporre i loro corpi bianchissimi della città a un sole debole e
freddo, cercando di abbronzarsi, o a mangiare zucchero filato e mele caramellate mentre camminavano lungo il molo, dove si trovavano le gallerie commerciali, i teatri dei
burattini, le bande dell’Esercito della Salvezza e le cartoline di donne grasse in costume da bagno.
Non riuscii ad andare alla spiaggia di Brighton nemmeno una volta nei due mesi che trascorsi con la bisnonna
Webster. Sarei potuta andare facilmente senza di lei, ma mi
lasciava intendere che in quanto sua ospite avevo il dovere di non abbandonarla mai, come se fossi stata la sua dama
di compagnia a pagamento. Il fatto che ci potessero essere
delle differenze tra noi, non soltanto nell’età ma anche nei
gusti, non la turbava. Quando organizzava le nostre giornate, lo faceva in modo che entrambe facessimo quello che
le andava, insieme.
Poco dopo il mio arrivo, quando ebbi l’occasione di conoscere i suoi modi sedentari e totalmente immutabili, compresi che sarebbe stato un fallimento su tutta la linea cercare
di convincerla a scendere alla spiaggia di Brighton. Penso
che da anni non circolasse per le strade di Brighton – vedeva la città come una disgustosa fogna di modernità, volgarità
e vizi, l’antitesi per eccellenza della seria e benestante raffinatezza di Hove. L’idea di indurre quell’anziana donna arcigna e ostinatamente infelice a scendere fino alla spiaggia
ventosa di Brighton, dove le sarebbe potuto venire un attacco cardiaco soltanto per l’orrore e lo shock di dover sca11
valcare i corpi stipati e mezzi nudi dei “vacanzieri”, era ovviamente inconcepibile.
La spiaggia di Brighton per me era destinata a rimanere un paradiso gioviale e allettante, sufficientemente vicino da tentarmi eppure del tutto irraggiungibile. Non
smettevo mai di pensarci quando mi obbligava a fare le cose più stupide e fastidiose in quei giorni di una noia e lunghezza memorabili, quando mi portava a fare un giro in
macchina con lei al pomeriggio.
La bisnonna Webster sapeva che avevo bisogno dell’aria di mare, e la cosa le faceva molto comodo perché sembrava che anche a lei facesse bene. Alle quattro di ogni pomeriggio una Rolls Royce noleggiata da un concessionario
di Hove compariva davanti alla porta con un autista servizievole in uniforme che ci avrebbe poi condotte, come se
fossimo due membri della famiglia reale, ad andatura ridotta, fino al deprimente lungomare nebbioso di Hove.
Avanti e indietro, avanti e indietro, ci scarrozzava per un’ora esatta mentre uno dei due finestrini della Rolls Royce era
abbassato a sufficienza per lasciar entrare un leggero accenno di aria salmastra che odorava di alghe.
C’era qualcosa di terribile e indelebile in quelle inutili e
monotone gite pomeridiane nell’enorme automobile nera
ammortizzata e ondeggiante, con un elegante cavalluccio
marino d’argento sul cofano. Nell’auto mi sentivo come se
fossi troppo vicina alla bisnonna Webster. Sigillate dietro alla lastra di vetro che ci divideva dall’autista, mi sembrava
di poter realmente sentire l’odore agro della sua età, l’odore
dell’acredine dei suoi dispiaceri passati, presenti e futuri.
Non credo di aver mai incontrato, dopo di allora, un essere umano che sorridesse così raramente e che trovasse così poche cose nella vita a divertirla. La bisnonna Webster era
orgogliosa della sua mancanza di umorismo, come se la vedesse come una virtù dell’aristocrazia scozzese. Come se l’umorismo potesse essere usato a mo’ di difesa contro le sfer12
zate del dolore, del fallimento, della disperazione e della
perdita, riducendo tutte queste cose a delle assurdità, la bisnonna Webster si rifiutava di usare tale scudo, vedendolo
come un espediente adatto soltanto ai “vacanzieri”.
«La vita non è uno scherzo» mi disse una volta. «La vita non può essere presa come uno scherzo da una persona raziocinante».
Stando con lei poteva quasi persuaderti che vi era qualcosa di vile e ignobile in ogni tentativo di schivare le emozioni, in ogni rinuncia al vivere tutti gli scossoni che ti riserva la vita, a testa alta. Poteva convincerti che vi era un
coraggio quasi sovraumano nel modo in cui non temeva
di ammettere che l’unica cosa che in quel momento sperava dalla vita era una continua consapevolezza, spiacevole come ben sapeva dovesse essere. Tutto quello che voleva da ogni nuovo giorno nascente era la consapevolezza
della sua sprezzante esistenza, che contro ogni probabilità
era riuscita a sopravvivere nel vuoto solitario e senza amore che si era creata.
«Non ho nulla per cui vivere» mormorava. Ero sempre
stupita dal modo in cui lo diceva, quel tono tronfio e vanaglorioso. Mi era impossibile capire come potesse essere così orgogliosa per il fatto che riuscisse a continuare a vivere
nella sua sgradevole, enorme e gelida villa a Hove senza la
minima motivazione intellettuale o emotiva, come un pezzo
di vecchio muschio marrone che misteriosamente riesce a
resistere senza acqua, aggrappandosi soltanto alla fredda e
dura superficie di una pietra.
A volte, mentre viaggiavamo insieme sulla Rolls Royce,
mi sembrava di soffocare soltanto per esserle così vicina.
Sebbene con la sua parsimonia fosse contenta di lasciare
che la sua casa fosse gelida come una camera mortuaria,
aveva un terrore perverso per gli spifferi, così quel minuscolo spiraglio di aria al quale permetteva di entrare nell’auto non era mai sufficiente. Mi sentivo come se mi aves13
se isolata dal mondo per sempre. Entrambe eravamo dei
personaggi nella teca di un museo, separate da tutte le cose viventi dai finestrini chiusi e dal vetro separatore della
Rolls Royce. All’interno dell’auto non si respirava nulla se
non il suo stoico avvilimento silenzioso.
«Che tempo deludente» diceva infine la bisnonna Webster all’autista, dopo essere stata portata a spasso per un’ora in totale silenzio, rigida, con la sua solita espressione addolorata sul viso oblungo e lugubre, con le ginocchia strette in un plaid scozzese.
«Molto deludente, signora Webster. Questa mattina faceva bello, ma ora temo si stia coprendo».
«Beh, credo che per oggi sia sufficiente. Per favore, ci
riconduca a casa».
Dopo lo splendore del lungomare, la sua casa appariva
più buia che mai quando tornavamo dai nostri giri pomeridiani. Sembrava un grande santuario tetro e oscuro devotamente eretto per commemorare qualcosa di ancora più
tetro e oscuro. Era come se ogni oggetto in essa contenuto
fosse stato scelto soltanto perché era pesante, costoso e funereo. Sembrava che la bisnonna Webster odiasse i colori.
Quasi ogni cosa che possedeva era nera o marrone scuro.
«Ora puoi leggere» diceva indicando una sedia, mentre
entravamo nel suo salotto ghiacciato e male illuminato. «La
cena non sarà servita fino alle sette». E il resto della serata
si stagliava davanti ai miei occhi cupo come i suoi mobili,
come un tunnel nero come la pece e senza fine.
Alla bisnonna Webster piaceva sempre vedermi leggere mentre sedevamo ora dopo ora a fare niente nel salotto.
«Sono felice di vedere che una giovane legge ancora
con piacere dei buoni libri» diceva. «Oggigiorno sembra
che nessuno voglia più leggere qualcosa che valga veramente la pena».
Sebbene le piacesse l’idea che la gente leggesse dei buoni libri, lei non ne aveva. I libri in casa sua parlavano tutti
14
di pesca e nautica. A volte mi chiedevo se li tenesse sugli
scaffali come ricordo perché magari erano piaciuti al suo defunto marito. Mi chiedevo anche se non li avesse scelti lei
perché stavano bene con tutti gli altri oggetti in casa – avevano tutti rilegature di pregio, erano tetri e marroni.
Una volta alla settimana, mentre tornavamo dalla nostra
gita sul lungomare, mi permetteva di fermarmi nella biblioteca di Hove. Notai che non aveva il minimo interesse nel
guardare i titoli dei libri che avevo scelto. Mentre sedevo
con lei in salotto a leggere dei romanzi storici di amori febbrili, dava per scontato che le mie letture dovessero essere
“buone”. Mi vedeva come una sua discendente e, sebbene
non mi piacesse per niente l’idea di essere imparentata con
qualcuno di così anziano, arido e sgradevole, era convinta
che il gusto per le “cose belle” mi fosse stato trasmesso da
lei come una legge di natura, attraverso il sangue.
Quando la bisnonna Webster utilizzava la parola “oggigiorno”, separava ed enfatizzava ogni sillaba riuscendo a
farla risuonare come un veleno letale responsabile della distruzione di tutto ciò che un tempo lei trovava decente
nell’universo.
«Og-gi-gior-no nessuno apprezza più dei bei quadri»
mormorava. Lei stessa possedeva soltanto qualche anonimo e smorto ritratto dei suoi antenati defunti. Uno o due
uomini vanagloriosi dal volto fiero con la parrucca e qualche signora dall’espressione nostalgica ci osservavano dai
muri. Sembrava che avesse scelto deliberatamente di non
pulire mai nessuno di quei quadri, e il tempo aveva scurito
la pittura fino a renderli perfetti per la sua persona. I ritratti si stagliavano a fatica contro i pannelli scuri di quercia: i loro colori si erano trasformati in un marrone opaco
quasi omogeneo.
Spesso mi capitava di rimanere ore nella stessa stanza
con la bisnonna Webster e lei non mi rivolgeva nemmeno
una parola. Si limitava a sedere rigida in una delle più or15
rende e scomode sedie di legno in stile vittoriano che avessi mai visto. Era una sedia che non sembrava essere stata
progettata per essere utilizzata da una persona. Era come
se fosse stata originariamente concepita come decorazione
in qualche maestoso salone di un nobile.
Eppure ora dopo ora la bisnonna Webster rimaneva seduta su quella sedia mentre fissava in silenzio davanti a sé
con occhi afflitti e cerchiati da borse gialle. Poi, talvolta,
dopo che veniva servito il pasto, attendeva che la figura caracollante di Richards uscisse zoppicante dalla stanza e
all’improvviso cominciava a fare delle osservazioni cupe
e distaccate senza attendersi alcuna risposta. Credevo che
se non mi fossi trovata lì con lei, avrebbe fatto le stesse osservazioni ad alta voce a se stessa.
«Og-gi-gior-no» diceva all’improvviso «la gente è viziata. Nessuno vuole più fare la domestica. È tutta colpa
della guerra. È stata quest’ultima guerra schifosa a dare a
tutti quanti il piacere di lavorare nell’industria bellica».
Prendeva un po’ di saccarina dalla zuccheriera in argento e la versava con attenzione nella sua tazzina in porcellana, mescolandola piano fino a quando non si dissolveva. Non prendeva mai più di una misera zolletta. Spesso
mi diceva che non riusciva a tollerare gli sprechi.
«Saprei con esattezza che cosa rispondere, se og-gi-giorno mi chiedessero se mi piacerebbe essere la loro domestica!».
Faceva una pausa densa di drammaticità, come un’attrice che si aspetta che il pubblico applauda la sua battuta.
La sua bocca ritorta e insoddisfatta si atteggiava a una
smorfia, l’unico movimento che sembrava in grado di fare e che ricordava vagamente un sorriso.
«Poveri stupidi! So con esattezza che cosa risponderei!
Se mai dovessi essere la loro domestica, sarei soltanto la
migliore delle domestiche!».
La fissavo senza espressione, cercando di immaginare il
16
suo lungo viso malinconico incorniciato dalla stessa cuffietta fuori moda da cameriera che faceva indossare a Richards. Cercavo di immaginare il suo vecchio e nobile corpo statico scuotersi e abbandonare la sedia dall’alto schienale per mettersi a lucidare, strofinare e passare lo straccio
con frenesia.
Forse avrebbe potuto farlo, non si può mai dire. Parlava con una convinzione tale che non si poteva essere certi che non nascondesse più forza di quanto decidesse di dimostrare, che quelle affermazioni così sorprendenti non
potessero poi essere vere.
I domestici la affascinavano per noia e pessimismo.
Quando cominciava a fare qualcuna delle sue esternazioni
scialbe e deprimenti, spesso faceva riferimento ai domestici.
«In tutta la mia vita mi sono sempre rifiutata di tenere
degli alcolici in casa. Quando ci sono i domestici non ne
vale la pena. Perché correre un rischio simile? Perché tentarli?».
Parlava sempre come se avesse avuto così tanti domestici. Quando di sera ci sedevamo in salotto a bere i nostri
bicchieri di acqua, poteva far sembrare che stessimo mettendo scaltramente nel sacco non soltanto la zoppa Richards, ma un numeroso personale assetato e ladro.
Richards era al servizio della bisnonna Webster da più
di quarant’anni e la sua presenza, piuttosto che mitigarla,
aumentava la desolazione della casa. A un certo punto della sua vita doveva aver subito un terribile incidente all’occhio, perché era sempre coperto da una grande pezza nera.
Richards doveva essere appena più giovane della bisnonna Webster, ma tutti gli anni trascorsi a lavorare per
lei l’avevano fatta invecchiare così male che quando erano
insieme Richards faceva apparire la mia bisnonna come
un’agile ragazzina.
Mentre la bisnonna Webster era orgogliosa della sua
impeccabile postura rigida e si vantava che durante la sua
17
infanzia i suoi genitori le avevano fatto trascorrere diverse ore al giorno con una tavola rigida fissata alla schiena,
Richards era piegata in due, e il suo viso coperto dalla pezza nera, con dei peli grigi che le spuntavano sul mento,
scrutava sghembo il mondo al di sotto della gobba delle
spalle deformate dall’artrite.
Mi faceva sempre paura vedere Richards, claudicante
e ingobbita, trascinarsi su e giù dalle enormi rampe di scale buie e ripide della bisnonna Webster, portando le borse dell’acqua calda, le spazzole, le scope, gli stracci, i secchi pesanti e i vassoi del tè.
Richards cucinava tutti i pasti nel seminterrato, che non
riuscii mai a convincermi a visitare e osavo appena immaginare. E in qualche modo Richards riusciva a trascinare
faticosamente fino al salotto il nostro cibo su un pesante
vassoio di servizio liberty in mogano, sbuffando e ansimando con il viso in fiamme.
Quando finalmente era riuscita a servirci il pasto, la bisnonna Webster la ringraziava sempre e nella sua voce c’era qualcosa di impavido, come se per lei lo sforzo di parlare fosse stato addirittura un’impresa ardua e coraggiosa. Rimaneva seduta lì con una terribile espressione sul
viso di tale spossatezza e malessere da riuscire a mettere
in ombra Richards, facendo apparire l’impresa della donna alle prese con il vassoio di servizio e le tremende scale
del seminterrato nemmeno così ammirevole se ci si ricordava che dal mattino la bisnonna Webster sedeva in coraggioso e stoico silenzio, sopportando senza lamentarsi la
lancinante sofferenza provocata dalla sua sedia con lo
schienale rigido.
Mi chiedevo come riuscisse a sopportare quella sedia
senza urlare. Era ovvio che la facesse soffrire. Bastava vedere la sua espressione torva, eppure risoluta, quando vi
sedeva. Il suo corpo magro e lungo sembrava teso e affaticato in modo così innaturale che si aveva l’impressione
18
che da un momento all’altro si sarebbe potuto rompere
in due, spezzato dallo sforzo nel tentativo di rimanere così rigido, fermo e ritto.
Era come una dura prova di resistenza il modo in cui
quell’anziana donna rimaneva per così tante ore al giorno
su quella sedia spaventosa. A parte le nostre gite in auto,
era raro che la abbandonasse. La sua unica tregua consisteva in pochi minuti prima di pranzo, quando si alzava
per fare una breve camminata salutare. Passeggiava accanto a me, in silenzio, molto composta e con la schiena
dritta, sul viso la solita espressione di sopportazione dolorosa, mentre ci dirigevamo troppo lentamente fino al
lampione che si trovava alla fine della sua strada senza
uscita, silenziosa e verde.
A volte la esaminavo come se fosse una sorta di oggetto imbalsamato mentre sedeva sulla sua sedia e fissava con
sguardo avvilito il rivestimento in legno marrone come se
si fosse quasi dimenticata della mia presenza. Mi chiedevo se fosse l’età avanzata la ragione della strana pigmentazione della sua pelle, e se essa potesse spiegare anche il
motivo per cui le sue guance giallastre erano striate da
strane macchie marroni. Mi chiedevo perché si sistemasse i capelli facendo in modo che due ciuffi grigi le ricadessero sulla fronte come due corni riccioluti, così che il
suo viso, dalla magrezza esagerata, allungato e con il labbro superiore singolarmente oblungo, spesso mi ricordava
un vecchio e malinconico ariete.
«Sono molto fortunata. Godo ancora di ottima salute»
diceva. Eppure non riuscivo a vedere in alcun modo come potesse essere invidiata. A che cosa le serviva un’ottima salute se l’unica maniera che aveva per goderne era trascorrere i suoi giorni seduta da sola in un’enorme e orrenda villa di Hove, sopportando stoicamente l’inutile
scomodità di una sedia dallo schienale rigido?
«Sono molto fortunata» diceva. «Sono ancora in pos19
sesso di tutte le mie facoltà». E mi chiedevo a che cosa le
servissero tutte le sue facoltà così ben preservate, visto che
le usava così poco e aveva scelto di passare gli ultimi giorni della sua vita in uno stato di totale inattività, tanto che
tutto ciò per cui poteva essere orgogliosa era la pazienza
con la quale sopportava la sua inconsolabile insoddisfazione e il tedio.
«Non sono mai stata contenta di vivere in Inghilterra»
commentò un giorno. «Non credo che chi sia nato in Scozia
possa avere un singolo momento di gioia in Inghilterra».
Mi chiesi perché mai non fosse tornata a vivere in Scozia. Sebbene amasse la frugalità e la parsimonia, era una
donna molto benestante. Mi era praticamente impossibile
comprendere che cosa la tenesse tra le nobili e sonnolente
strade di Hove, perché tirasse avanti come se fosse in esilio in una terra che aveva sempre odiato.
Non vedevo nulla che la potesse tenere in quell’immutabile quartiere, se non la sua passione per le inutili sofferenze e la sua inclinazione all’apatia. Suo marito era morto
da anni. «Non viene più nessuno della mia famiglia a trovarmi quaggiù». Sembrava che non si fosse fatta nemmeno
un amico del posto in tutti gli anni trascorsi in quella villa. Avevo l’impressione che anche i suoi coetanei avrebbero avuto difficoltà a fare amicizia con la bisnonna Webster. Non era per nulla amichevole.
Avevo notato che c’era una donna anziana sempre vestita di nero alla quale la bisnonna Webster faceva un cenno con il capo quando andavamo a messa la domenica nella chiesa di Hove. Quella donna però non faceva mai lo
sforzo di invitarla a bere un tè, e per tutto il tempo in cui
rimasi là non vidi mai la bisnonna Webster ricevere una
lettera. Il suo telefono non squillò nemmeno una volta.
Ogni tanto cercavo di farla trasferire con l’immaginazione in Scozia. Le sarebbe realmente piaciuta di più?
Proprio lei che era così orgogliosa di esistere senza che le
20
piacesse nulla? Riuscivo soltanto a pensare che se fosse
rimasta seduta da sola in cima a un dirupo roccioso nella
torre gelida di un qualche castello scozzese di granito, allo stesso modo in cui sceglieva di sedere tutto il giorno
cupa e immobile, come se fosse perennemente di guardia
in attesa dell’arrivo di qualche cosa che temeva, per lo meno sarebbe potuta apparire più plausibile. Se invece di rimanere seduta nella provinciale Hove a fissare con fierezza il rivestimento marrone della villa, si fosse trovata a trascorrere le giornate a guardare attraverso una feritoia
verso le distese grigie di un orrido paesaggio nebbioso,
non avrebbe acquisito più dignità, motivazione e funzionalità? In una situazione simile si sarebbe potuto pensare
che stesse montando la guardia con determinazione alla
sua proprietà, cercando di intercettare l’arrivo di un clan
nemico. Mi era semplice immaginare Richards che zoppicava su dalle segrete del castello per portare alla bisnonna Webster piatti di porridge bollente, mentre questa sedeva nella sua torre a osservare una veglia silenziosa e senza posa. Ogni volta che visualizzavo Richards arrancare
lungo le scale tortuose intagliate in una pietra grezza e gelida, la vedevo sempre libera dalla sua uniforme da governante e con indosso un berretto scozzese con il pompon,
una borsa di pelliccia e un kilt.
Fu quando mi trovai nella villa di Hove della mia bisnonna che cominciai a essere curiosa riguardo mia nonna.
In tutte le settimane che trascorsi con lei, la bisnonna
Webster non fece un solo commento che potesse lasciar
intendere che aveva avuto una figlia. Era una donna che
non era semplice immaginare nel dare alla luce un bambino, tutta la sua personalità e la sua aura sapevano di sterilità.
Notai che la bisnonna Webster non aveva fotografie di
sua figlia in casa. In effetti non aveva fotografie di niente
e nessuno. Era come se nessuna persona o nessun luogo
21
del passato l’avessero compiaciuta a sufficienza da farle
desiderare di conservare un’immagine che potesse ricordarle la loro esistenza.
Durante la mia permanenza a Hove cominciai a fare degli incubi in cui pensavo che la mia nonna Dunmartin, innominata e perduta, si trovasse nella mia stanza. Arrivava
sempre con le terribili sembianze di uno spettro, simile a
una strega, imprecando, borbottando e ghignando. Era
spaventosa, cattiva; le sue intenzioni erano crudeli. Ogni
volta che la sognavo mi svegliavo in preda ai tremiti.
Quando la sera sedevo con la bisnonna Webster, desideravo chiederle dove si trovasse mia nonna. Sapevo che
era ancora viva. La bisnonna Webster doveva sapere dove viveva sua figlia in quel momento; doveva sapere che
cosa le era successo.
Se la bisnonna Webster ne avesse almeno parlato, mia
nonna sarebbe potuta divenire meno irreale e terrorizzante ai miei occhi. Il rifiuto intenzionale di quell’anziana
donna malinconica di pronunciare anche solo il nome di
mia nonna aumentava soltanto la distorsione spaventosa
dell’immagine che mi ero fatta di lei. Se nemmeno il suo
nome poteva essere menzionato in quella casa simile a una
chiesa, la bisnonna Webster doveva considerare la stessa
esistenza della figlia una crudele oscenità.
Quando la nonna Dunmartin veniva a trovarmi mettendosi accanto al mio letto di Hove, appariva come un
orribile spettro composto da frammenti di dicerie e brandelli di conversazione che avevo sentito da bambina e che
avevo cercato di dimenticare poiché mi spaventavano.
«Alla fine dovettero portare via la povera creatura, fu una
tragedia…».
Avevo visto mia nonna una sola volta, ma ero così piccola che non me lo ricordavo. Non mi fu più permesso di
incontrarla dopo il battesimo di mio fratello, un evento del
quale non ricordo nulla se non il gusto del marzapane sul22
l’enorme torta a più piani decorata con una cicogna. Durante la mia permanenza nella casa buia della donna che
l’aveva messa al mondo, continuavo a pensare alla storia
che mi aveva raccontato la mia cugina maggiore Kathleen
riguardo al comportamento di mia nonna il giorno del battesimo. Mia nonna Dunmartin aveva viaggiato fino a Ulster
per venire alla cerimonia e aggredire il bambino. Mio fratello era sdraiato in una vecchia carrozzina e indossava una
cuffia e l’abitino bianco di pizzo del battesimo. All’improvviso mia nonna divenne molto irrequieta e senza
preavviso si precipitò verso la carrozzina e afferrò il bambino. L’espressione sul suo viso era malvagia, i tratti deformati e stranamente irosi. Un po’ rideva, un po’ piangeva
mentre lo sollevava in alto sopra la sua testa, così che le lunghe balze del vestitino bianco penzolavano tristemente come dei panni stesi. Deve averlo spaventato a tenerlo in quel
modo, infatti il viso del bambino divenne blu e cominciò
a gridare così forte che la tata e la bambinaia, insieme a
molte altre tate e bambinaie che erano venute con gli ospiti per il battesimo, si precipitarono verso mia nonna in un
branco di grembiuli inamidati e la circondarono lottando e
combattendo per toglierle il bambino dalle mani.
«Il suo è sangue maligno!» cominciò a gridare mia nonna. «Non vedete che lo sto facendo per lui? Non capite
che per questa povera creatura sarebbe meglio se gli spappolassi il cervello su una pietra?».
Mia nonna infine era stata sopraffatta dalla forza bruta e
dal peso di tutte quelle risolute bambinaie professioniste. Il
piccolo era in salvo, erano riuscite a strapparlo dalle mani
di mia nonna, mentre i suoi parenti stretti e gli amici ospiti erano rimasti impietriti, incapaci di fare la minima mossa,
tutti paralizzati dallo stupore e dall’orrore della situazione
e dal rifiuto di credere che un fatto del genere non potesse essere altro se non una terribile allucinazione.
Dopo, mi disse Kathleen, sembrava quasi che non fos23
se successo nulla. Il neonato era salvo. Venne celebrato il
battesimo come era stato programmato nella cappella di
famiglia. Mio fratello venne battezzato con dell’acqua speciale che era stata presa dal fiume Giordano. Non vi fu
nulla di strano nella cerimonia, tranne il fatto che mia nonna non vi partecipò. Durante la celebrazione venne chiusa in camera sua con gli scuri accostati.
Il giorno successivo nessuno la vide. Si alzò prima che
chiunque altro si svegliasse nella casa del ricevimento. Il
maggiordomo disse che Sir Robert e Lady Dunmartin avevano deciso di tornare in Inghilterra con la prima nave.
«Che cosa le accadde dopo?» chiesi. Mia cugina Kathleen non lo sapeva. Dopo la disastrosa visita a Ulster non
aveva mai più visto mia nonna. Infatti si era premurata di
evitarla. Tutto quello che aveva sentito erano pettegolezzi di
famiglia che dicevano che la povera donna peggiorava sempre di più. Non aveva idea di dove avessero mandato mia
nonna alla fine.
«Non ho mai pensato che tua nonna fosse del tutto normale, nemmeno quando era giovane» mi disse mia cugina
Kathleen. «Non mi sono mai veramente stupita nel sentire che l’avevano mandata in un ospedale psichiatrico. Anche quando tuo nonno la sposò, sebbene fosse bella e incantevole, come un elfo diciamo, non mi è mai piaciuto che
fosse così stravagante. A ripensarci ora, credo che ci sia
sempre stato qualcosa che non andava in lei, sebbene lo si
fosse accettato all’epoca; era così esuberante e graziosa e
se lo voleva poteva essere molto affascinante. Con il senno di poi c’era qualcosa di inquietante in una giovane donna appena sposata che insisteva nel dire che doveva camminare da sola per i boschi freddi e umidi di Dunmartin a
mezzanotte perché aveva imparato il segreto per comunicare con gli alberi».
«C’era anche la bisnonna Webster quando sua figlia
impazzì al battesimo?» chiesi.
24
«Certo che c’era» rispose Kathleen. «Naturalmente la
tua bisnonna venne fino a Ulster per un’occasione del genere – una donna come lei vive soltanto per fare la cosa
appropriata. Fu naturale che partecipasse al battesimo del
suo primo pronipote maschio».
«Che cosa fece quando mia nonna prese il bambino?».
«Niente, per quello che so quella donna non ha mai fatto nulla nella vita. Rimase immobile a guardare quella scena terribile senza avere alcuna reazione visibile. Riesco ancora a vederla con il suo cappello nero a turbante, tutta
agghindata con speciali pellicce e scarpe nere, come se si
fosse vestita per andare a un funerale, piuttosto che a un
battesimo. Sembrava si trovasse lì controvoglia e aveva uno
sguardo di disapprovazione, ma dopotutto non era una novità. Per quello che la conosco è sempre stata così. Poi non
ha mai menzionato il comportamento di sua figlia, non ha
mai accennato a porgere delle scuse».
«Ma che cosa credi che provasse in fondo?» chiesi. All’epoca non avevo visto molte volte la bisnonna Webster,
tuttavia i suoi sentimenti mi interessavano. Per me era poco più di una bizzarra anziana vestita di nero che di tanto
in tanto compariva alle riunioni familiari e ci faceva sentire come se stesse correndo un grosso rischio, con la sua
spina dorsale così rigida, quando le circostanze la obbligavano a piegarsi in avanti per baciare i suoi pronipoti.
Riusciva sempre a dimostrare in qualche modo quanto
trovasse disgustosi quei baci, concentrandosi soltanto nel
mantenere la sua fredda bocca corrugata contro le nostre
fronti per un fugace secondo. Poi si raddrizzava immediatamente, assumendo un’espressione appena più martoriata ed esausta del solito e rimettendo subito a posto il
suo cappello nero e la pelliccia.
«Che cosa provava in realtà?». Kathleen ripeté la domanda. «Che cosa stupida da chiedermi! Quando hai un
vecchio pezzo burbero di granito scozzese come la tua bi25
snonna, come puoi sapere che cosa provi in realtà una
donna come quella?».
Isolata con la bisnonna Webster nel salone scoprii che
non potevo mai indovinare che cosa stesse pensando mentre sedeva in silenzio sulla sua sedia. Non era per nulla
rimbambita. Poteva vantarsi in tutta onestà che il suo cervello in quel momento era attivo come lo era sempre stato.
A che cosa pensava tutto il giorno quel cervello così attivo? A che cosa pensava di notte, visto che diceva di dormire a malapena? Quando sedeva accigliata, i suoi pensieri la riportavano a dei momenti particolarmente sgradevoli del suo passato che la assorbivano a tal punto da
dimenticarsi momentaneamente il terribile tedio della sua
vita presente? Il suo cervello cercava di escogitare degli
astuti stratagemmi che la potessero aiutare a evitare le poco promettenti possibilità del suo futuro?
A volte mi chiedevo se pensasse mai a sua figlia, mentre
rimaneva seduta guardando accigliata la saccarina che mescolava nel suo caffè. Mi sembrava che fosse del tutto disinteressata al destino delle persone, tranne se stessa, che il
suo ego fosse concentrato soltanto sulla sua pugnace lotta
per la sopravvivenza. Nel caso sua figlia esistesse ancora per
lei, avevo il sospetto che lo facesse soltanto nelle vesti di una
minaccia allo stile di vita al quale la bisnonna Webster si
aggrappava con così tanta tenacia. Mia nonna era di certo
considerata un argomento ripugnante, e soltanto come tale le era permesso di attraversare la coscienza della sua anziana madre. La bisnonna Webster aveva organizzato la sua
intera esistenza in modo da dover affrontare raramente degli argomenti per lei indesiderabili. Non ho mai osato, nemmeno una volta, sollevare il tema di mia nonna. In quanto
ospite della bisnonna, mi scoprii ben presto dominata dalla pura determinazione dei suoi desideri. Rimanevo alla larga dagli argomenti che potevano infastidirla, temendo, proprio come faceva lei, che i temi sgradevoli potessero real26
mente danneggiarla. Non ne aveva mai parlato direttamente, ma ogni volta che ero insieme a lei, riusciva a trasmettermi un avvertimento muto che diceva che se qualcuno
avesse espresso qualcosa di scorretto o indelicato, sarebbe
stato un grosso pericolo per il suo cuore.
Sembrava che vivesse per il suo cuore. Il suo cuore era
tutto ciò di cui le importava. Aveva prodotto tre generazioni di discendenti e viveva sapendo che nessuno di loro
aveva la minima importanza per lei, non più dell’importanza che hanno le foglie che cadono ogni anno dai suoi
rami per una vecchia quercia.
Il suo cuore era tutto quello che contava. Lo custodiva
perennemente come uno spilorcio, contando ogni passo
che faceva, risparmiandosi qualsiasi esercizio fisico nello
stesso modo in cui razionava il cibo. Per il suo cuore era
pronta a soffrire. Se era annoiata in modo atroce dalle ore
che si forzava a rimanere inattiva sulla sua sedia, era ricompensata dall’idea di risparmio che ne ricavava, conservando l’energia per il suo cuore come si conserva del carburante.
Anche se odiava vivere a Hove, ciò era di poca importanza per una persona il cui interesse principale era coccolare l’organo invisibile che si trova dietro le ossa del suo
minuscolo petto piatto. C’era poco rumore a Hove, infatti era un luogo molto tranquillo. Hove aveva dell’ottima
aria di mare. Hove andava bene come qualsiasi altro posto
per qualcuno che chiedeva di poter badare al benessere
del suo cuore come se fosse stato incaricato di una qualche
missione sacra.
Non appena arrivai a stare dalla bisnonna Webster, mi
disse che da mesi l’unico essere umano con cui parlava era
Richards. Sapevo che una volta lasciata la sua casa sarebbe tornata alla deprimente compagnia solitaria di Richards,
accorgendosi a malapena che ero stata lì e che me ne ero
andata.
27
Se la bisnonna Webster era stata sola in passato e sarebbe stata allo stesso modo sola in futuro, non avevo
dubbi che sarebbe riuscita a sopportarlo con valore. Si sarebbe detta che era stata abile a evitare tutte le pressioni
che le sarebbero state imposte da una compagnia umana,
pressioni che le sarebbero risultate soltanto odiose a causa
delle tensioni che avrebbero potuto esercitare sul suo cuore vecchio ed egotistico.
A volte, mentre sedevo alla deprimente presenza della
bisnonna Webster, pensavo a mia nonna, e le stranezze di
quella donna sconosciuta e senza volto cominciavano a divenire più comprensibili. Se si era condannati a nascere e
crescere sotto gli auspici legnosi dell’affetto della bisnonna Webster, era abbastanza semplice sviluppare una predilezione per la conversazione con gli alberi.
«Sono una combattente» mi disse la bisnonna Webster.
«Non ho alcun rispetto per le persone che non si lanciano in una lotta nella vita».
In un certo senso era vero, era una combattente, ma non
la potevo rispettare per quello. Tutto ciò che l’aveva tenuta
così a lungo su questa Terra sembrava essere la sua disumana immobilità. Spesso sembrava cercare di usare la sua
sedia rigida come nascondiglio, come se sperasse che la
Morte potesse entrare nel salone e andarsene, ingannata
dalla sua tattica, pensando di averla già presa, dal momento che mostrava meno segni di vita della sua sedia di legno.
«Sei molto silenziosa per essere una persona giovane»
commentò un giorno all’improvviso.
A dire il vero avevo rinunciato molto tempo prima a
tentare di parlarle. Non avevamo nulla in comune. Preferiva trascorrere la maggior parte delle giornate in silenzio. Quando di tanto in tanto decideva di pronunciare
qualche breve frase, rispondevo a malapena.
Annuii educatamente.
«La gente dirà che sei troppo silenziosa, che sei troppo
28
schiva» continuò. «Ma spero che non ti persuadano mai a
perdere queste qualità. Sono sempre stata molto silenziosa da ragazza. Non sono mai stata quel genere di persona
che trova un motivo per chiacchierare molto. Sono contenta che tu sappia come stare sulle tue. Hai preso da me».
Solo di tanto in tanto i suoi brevi soliloqui tristi riuscivano realmente a scuotermi. Credo che non avesse idea
di come mi facesse raggelare quando cercava di rassicurarmi sul fatto che era certa che sarei diventata esattamente come lei.
«Ho deciso che ti lascerò il mio letto» mi disse un giorno. «Volevo lasciarlo a tuo padre, ma ora che il poveretto
è stato ucciso sul campo, ho deciso che la cosa giusta sia lasciarlo a te».
«Grazie» dissi. «Molte grazie». Non sapevo che cosa
avrei dovuto dire in una situazione del genere. «È davvero gentile da parte vostra» ripetei. «Ancora molte grazie».
«Come sai è un letto a baldacchino» disse. «E ti devo
avvisare che uno degli ananas ornamentali in cima a una
delle aste è precario e tende a cadere se il letto viene scosso. Mi preoccupa che quando sarò morta gli uomini dei
traslochi possano averne poca cura nel trasportarlo nel
magazzino. Quindi vorrei che tu fossi presente quando
verranno sistemati tutti i miei averi. Voglio che tu capisca
che non esiste più alcuna azienda di traslochi affidabile.
Og-gi-gior-no, mandano chiunque. Tutto quello che ricevi
sono un paio di giovani rozzi senza alcuna istruzione, senza alcuna idea di come si debbano trattare delle superbe
proprietà. Perciò voglio che ci sia una persona responsabile che supervisioni i traslocatori quando verranno a
prendere le cose da casa mia».
Sedevo annuendo.
«Se potessi stare molto attenta e badare che non riescano in qualche modo ad allentare l’ananas e a perderlo… Te lo chiedo per il tuo bene, oltre che per il mio, per29
ché ti avverto che se viene smarrito quell’ananas, il letto
perderà gran parte del suo valore. Scoprirai che queste cose intagliate a mano sono impossibili da rimpiazzare».
Annuii nuovamente, con i denti stretti, determinata a
non prometterle ad alta voce che sarei venuta fino a Hove dopo la sua morte per supervisionare personalmente il
trasloco del suo mobilio.
Mentre sedevo in silenzio, stando sulle mie, nello stesso
modo che lei ammirava così tanto, nella mia mente già pianificavo la vendita del suo letto. Con o senza l’ananas, ero
come ossessionata dal desiderio di poterne disporre. Di
certo ci dovevano essere delle sale di vendita all’asta a Hove. La sola prospettiva di possedere, per non parlare del
dormirci, il suo enorme letto a baldacchino – con quelle
tetre tende porpora che si potevano tirare fino a trasformare il letto in un’unica tenda quadrata stantia isolata dalla luce e dall’aria – mi atterriva.
Per me il suo spaventoso letto avrebbe odorato per
sempre della sua decadenza, della sua vecchiaia e della sua
solitudine. Era un letto che sarebbe parso per sempre infestato dalle tremende notti insonni che sapevo che la donna vi aveva trascorso.
«Sono contenta di aver parlato di questa cosa con te»
disse. «Ci pensavo da tanto tempo».
Annuii di nuovo. Stavo pensando di essere fortunata visto che sembrava non avesse deciso di lasciarmi la sua sedia.
Sarebbe stata Richards a ereditare la sedia. Doveva esserci una sorta di desiderio di superiorità nella scelta di
lasciare alla fine l’oggetto dallo schienale alto a quella storpia, come se dalla tomba volesse ammonire e ricordare a
Richards, così ingobbita, che una postura impeccabile era
il simbolo delle buone maniere, che era una virtù che valeva la pena di coltivare a tutti i costi se in età avanzata si
fosse raccolta la nobiltà dei suoi frutti.
Ma sarebbero passati quindici anni prima che ereditassi
30
il suo sgradito letto e che Richards ricevesse la sua sedia inutile. Non l’avrei mai immaginato quando la bisnonna Webster venne alla stazione di Brighton per salutarmi quando finalmente finirono i miei due mesi di esposizione all’aria di
mare. Non l’avevo mai trovata così spaventosamente devastata e fragile come quando la vidi lì in piedi, esposta alla luce pungente della stazione. Per la prima volta compresi perché le piaceva tenere le tende tirate.
“Di certo non vivrà ancora a lungo” pensai, e per un
istante mi dispiacque per lei. Sembrava possedere delle
emozioni, in piedi sulla piattaforma con i suoi abiti da vedova e la schiena dritta come lo schienale della sedia sulla quale si allenava di continuo. Accanto a lei passavano
ingobbite delle persone più giovani, trascinando le loro
valigie e urtandola. Le osservava con il suo solito cipiglio
di disapprovazione spietato e angosciato, ma nel trambusto confuso della stazione né la sua disapprovazione né la
superiorità della sua postura impeccabile sembravano intimidire qualcuno. Al di fuori di casa sua, le sue forze sembravano trasformarsi in debolezze e si intravedeva soltanto la futilità della sua ostinata determinazione a mantenere
un atteggiamento da donna del vecchio mondo, quando
non ve ne era una reale utilità.
«Mi manca tuo padre» disse.
Trovai strano che lo menzionasse soltanto all’ultimo momento. Mi chiesi perché non ne avesse mai parlato prima.
«Era così gentile con me» disse. «Prima di essere ucciso era proprio molto gentile con me. Ogni volta che aveva una licenza dall’esercito, non si scordava mai di me.
Durante la guerra i treni erano proprio indecenti, ma riusciva sempre a venire a Hove durante l’oscuramento soltanto per vedere una vecchia sciocca. Arrivava con la divisa color kaki. Mi turbava vederlo come un soldato, ho
sempre pensato che non facesse per lui. Poi, quando mi
dissero che gli avevano sparato, rimasi sconvolta. Mi sem31
brava uno spreco. Era ancora un bambino. Che cervello
che aveva. Era stato così bravo a Oxford. Mi dispiacque
sentire che l’avevamo perso».
«Addio» dissi.
Il treno stava fischiando. Per un attimo sentii una fitta
di panico nel doverla lasciare. Dopo otto settimane mi ero
abituata a vivere nel suo mondo statico e incontestato di
anziana, tanto che mi spaventava l’idea di dover tornare
a una vita in cui mi sarebbe stato chiesto molto di più del
semplice “stare sulle mie”.
«Addio» disse. «Spero che tu ti sia ricordata di dare la
mancia a Richards. Le mance significano molto per la servitù».
32