IL CANE GIALLO DELLA MONGOLIA

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IL CANE GIALLO DELLA MONGOLIA
IL CANE GIALLO DELLA MONGOLIA
Sito: http://www.gelberhund-derfilm.de/cane/nansal.html ----- http://www.bimfilm.com/ilcanegiallodellamongolia/
Anno: 2005
Titolo originale: DIE HOHLE DES GELBEN HUNDES
Altri titoli: DER MONGOLISCHE HUND - LA GROTTA DEL CANE GIALLO
Data di uscita: 21/4/2006
Durata: 93
Origine: GERMANIA
Genere: AVVENTURA
Produzione: SCHESCH FILMPRODUKTION
Distribuzione: BIM (2006)
Regia: Byambasuren Davaa
Attori:
BATCHULUUN URJINDORJ
PADRE
BUYANDULAM DARAMDADI
MADRE
BABBAYAR BATCHULUUN
FIGLIO
NANSAL BATCHULUUN
FIGLIA MAGGIORE
NANSALMAA BATCHULUUN
FIGLIA MINORE
Sceneggiatura: BYAMBASUREN DAVAA
Fotografia: DANIEL SCHONAUER
Musiche: BORTE
Montaggio: SARAH CLARA WEBER
Trama:
Uno spaccato della vita di una famiglia nomade che vive in una remota regione della Mongolia. Il film trae spunto da un
episodio che ha come protagonista Nansal, un bambina che trova un cucciolo di cane cui dà il nome di Zocher e che la sua
famiglia inizialmente rifiuta. Quando il piccolo cane salva la vita del fratello minore di Nansal, il padre e la madre della
bambina accettano di buon cuore il valoroso cagnolino.
Critica:
Un uomo e una bimba, le cui silhouette alla luce del tramonto si stagliano fra terra e cielo, eseguono il triste rituale di dare
sepoltura a un cane. «Papa, perché gli metti la coda sotto la testa?» chiede la piccola. «Così rinasce uomo con la treccia e non
cane con la coda,. «Rinasce?» «Tutti muoiono, ma in realtà non muore nessuno» spiega il padre. Inizia così Il cane giallo della
Mongolia di Byambasuren Davan, la trentacinquenne regista che nel 2004 aveva incantato le platee internazionali con La
storia del cammello che piange; ed è un incipit che dà subito conto di una concezione della vita impregnata di spiritualità
buddista.
Invece che nel meridionale deserto del Gobi, il nuovo fIlm è ambientato nel nordovest dello sconfinato paese incuneato fra la
Russia e la Cina. Ovvero nella zona da cui proviene la famiglia materna della cineasta, nata nella capitale Ulan Bator ma
allevata da una nonna che le ha trasmesso l'amore per la cultura d'origine.
Se il titolo si riferisce a una leggenda, il film si ispira a un racconto di Ganthuya Langhva, dove si narra di un cucciolo di cane
adottato da una bambina e abbandonato per volere del di lei padre, ma... L'esile spunto serve da viatico per introdurre lo
spettatore nella quotidianità di una vera famigliola di pastori nomadi - i genitori, due sorelline e un fratellino - che trascorrono
l'estate accampati con il gregge in un paesaggio montano di remota bellezza. Pur studiando in città, la figlia maggiore Nansa
di anni sette, a quei ritmi arcaici si intona completamente a suo agio. Cavalca, è già in grado di portare le capre al pascolo da
sola e suo legame con il cagnolino trovatello Macchia è significativo di un armonico rapporto con la natura di cui il delizioso
film ci fa sentire nostalgici. Abile a mantenersi in equilibrio fra documentario e fiction, sul modello del grande Flaherty, la
Davan è attenta a non cadere nel lezioso mentre salva la memoria di un piccolo mondo antico insidiato (o addirittura
condannato?) dagli stravolgimenti climatici e dalla modernità. (Alessandra Levantesi, La Stampa - 28/04/2006)
Si può fare un documentario su una favola? Il cane giallo della Mongolia è qualcosa di molto simile: un film in cui tutto,
ambienti, personaggi, gesti, animali, è autentico, ma il momento della verità coincide con qualcosa che è dell'ordine del mito.
Una favola, appunto. La favola che la piccola Nansa sente raccontare alla vecchia nomade presso cui trova rifugio quando si
perde negli sterminati paesaggi mongoli. Anche questa situazione del resto ricorre nelle fiabe di tutto il mondo: il bambino o
l'adulto che si smarrisce, e smarrendosi accede a un sapere superiore. Il tutto però è narrato con tanta semplicità che è lo
spettatore (occidentale) a rischiare di smarrirsi. Perché il secondo film della co-regista della Storia del cammello che piange
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sembra un innocente documentario su una famiglia di nomadi. Invece è più sottile e complesso. In superficie registra la loro
vita quotidiana, il lento declino di una certa cultura materiale e spirituale minacciata dalla modernità, il coesistere di tende e
tv, nuovi equilibri e antichi riti (vedi la sepoltura iniziale del cane). Ma poi in quella scena la fiaba tutto vacilla e si confonde,
vecchio e giovane, arcaico e contemporaneo, magico e quotidiano. Una vertigine, inquinata in parte dal solito doppiaggio
assurdo, che è il cuore segreto di questo film fin troppo timido e "scritto". (Fabio Ferzetti, Il Messaggero - 03/05/2006)
Ancora la Mongolia. Per iniziativa di quella regista mongola con studi in Germania, Byambasuren Davaa, che ci aveva già
tanto convinti (e commossi) con la sua opera prima La storia del cammello che piange. Questa volta non siamo nel deserto dei
Gobi, ma in una zona verde, tutta pascoli, dove sosta per l'estate una popolazione composta prevalentemente da nomadi. Per
restituircene abitudini, miti e costumi, la regista ci ha messo di fronte a una vera famiglia mongola, papà, mamma, tre figli
piccoli, che si prepara a levare le tende perché, con l'avvicinarsi dell'inverno, si sposteranno verso plaghe più pianeggianti. Per
un verso, così, ci dice di quella loro vita, con lo stesso approccio documentario cui aveva fatto ricorso nell'altro film, per un
altro verso fa loro «recitare» come dal vero un episodio che, di sfondo, ha una favola lì a tutti nota, quella di un cane che salva
un bambino. Uno dei tre figli, così, scopre, nascosto in una grotta, un cagnolino, gli si affeziona e lo porta nella tenda dove
vive con i suoi. Il padre, però, non lo accoglie con lo stesso affetto perché, spiega, la zona è piena di cani randagi portati
spesso a vivere e addirittura ad accoppiarsi con i lupi, con il risultato di richiamarli con la loro presenza là dove trovassero
rifugio concorrendo, sia pure involontariamente, alle tanti stragi di pecore che quei nomadi debbono spesso affrontare. Al
momento perciò in cui la tenda verrà smontata e la famiglia comincerà il suo consueto spostamento, il cane verrà
abbandonato, con vero dolore della bambina che lo ha protetto. Ma, durante il viaggio, il figlio più piccino rimarrà indietro e il
padre, disperato, tornerà a cercarlo. Lo troverà già preso di mira da avvoltoi voracissimi tenuti solo a bada dai latrati del cane
da cui si erano separati. Così quando il padre, trionfante, raggiungerà la famiglia con il bambino in braccio, lo seguirà
scodinzolando il cane, accolto adesso come un salvatore... Fra il documento e la favola non ci sono transizioni. Tutto è lì,
vero, riprodotto dal vero e anche quando la finzione filtra nella cronaca, ha i suoi stessi modi, la sua stessa qualità: narrativa e
stilistica. In cifre in cui il rapporto con la natura e lo scandire lento ma fermo di tutti gli atti di quella vita nomade, sospesa fra
tradizioni antiche e un'attualità solo accennata, sanno sempre approdare alla poesia. Con immagini in cui i panorami splendidi
sanno felicemente alternarsi in visioni di interni, proposte con realismo asciutto, dove tutto è spontaneo. Un'impresa felice, di
una regista che sa «vedere». E far vedere. (Gian Luigi Rondi, Il Tempo - 04/05/2006)
Per ore la piccola Nansal (Batchuluun Nansal) ha cercato il suo Macchia. Rincorrendo chissà quali pensieri meravigliosi, il
cucciolo s'è perduto nella steppa in mezzo a cui sta la iurta dei Batchuluun. Sul suo cavallo, lei ne ha corso il verde senza fine
dell'erba. Poi, coraggiosa. è salita fin sull'orlo d'un precipizio. temendo che Macchia vi sia caduto. Alla fine lo ha ritrovato,
addormentato e salvo. Intanto, il buio è sceso sull'altipiano. Nansal ha perso di vista la cima della montagna, per quanto quella
stessa mattina sua madre Daramdadi (Buyandulam Daramdadi) le abbia raccomandato di non farlo mai, per non smarrire la
via. Ora però, insieme con il suo cane. è al sicuro nella iurta d'una vecchia signora che, amorosa e sapiente, le racconta il
cuore stesso della vita: un cuore cui è dedicato fin dalle prime immagini Il cane giallo della Mongolia (Die Höhle des gelben
Hundes, Mongolia e Gennania, 2005, 93').
La donna prende dunque un grosso ago e lo tiene a punta in su. Poi, con l'altra mano afferra un pugno di riso e glielo lascia
cadere pian piano sopra. Quante probabilità ci sono che un chicco resti infilzato e fermo sulla sua punta? Nessuna. risponde
attenta e svelta Nansal. Ebbene, continua l'altra, difficilissimo è anche che lo scorrere della vita "prenda corpo" in un essere
umano. E questo suggerisce quanto valgano ogni singolo uomo e ogni singola donna, affidati come sono al fluire improbabile
del caso.
Ben dentro questo fluire. Byambasuren Davaa racconta il suo secondo film, dopo La storia del cammello che ride (2003).
Come la loro iurta sta in mezzo alla steppa, così Nansal e i suoi stanno in mezzo alla vita. Ci stanno con la leggerezza dei loro
gesti quotidiani. La semplicità delle immagini, delle parole, dei desideri di Il cane giallo della Mongolia ètutt'altro che
superficialità. I Batchuluun — oltre a Nansal e alla madre, anche il padre (Urjindori), la piccola Nansalmaa e il fratellino di
pochi mesi Bahbayar —, i Batchuluun, dunque, non sono quel che resta d'un mondo idilliaco, d'un mondo appunto naturale e
fuori della Storia. Sono invece testimoni e portatori d'una cultura grande e antica, e proprio d'una Storia grande e antica.
Nel loro mondo, la vita è intera. Ossia, non ci sono fratture e crudeli gerarchie di valore fra gli esseri che "scorrono" nel
tempo, come i chicchi di riso fra le dita della vecchia signora che accoglie Nansal nella stia iurta. Gli uomini e le donne sono
certo casi improbabili di questo scorrere, e dunque meritano attenzione e rispetto, come tutto ciò che è raro e irripetibile. Ma
lo merita anche un cane, e non solo perché in un passato lontano può essere stato un essere umano, o perché lo sarà magari in
un altrettanto lontano futuro. In lui, già per quello che è, c'è tutta la vita, nella sua splendente interezza.
È questo splendore che Byambasuren coglie nella trasparenza dei colori in cui vive la steppa. Ed è questo splendore che,
soprattutto, vediamo negli occhi di Nansal. aperti e curiosi. La madre le racconta che i bambini pare ricordino ancora qualcosa
delle loro esistenze precedenti. E questo le fa nascere continue domande interiori. Forse, pensa, è la sua storia di prima che la
sorella più piccola tenta di raccontare. con le sue parole incerte. E forse qualcosa di simile vale anche per il suo Macchia,
trovato in una grotta, un po' cane e — così teme il padre — un po' lupo.
In ogni caso, se lo stringe addosso, quel cucciolo che le somiglia tanto, al pari di lei teneramente vivo. E lo accudisce, lo
accarezza, lo protegge. come le mani della vecchia signora faranno poi con lei. Byambasuren inquadra da vicino quelle mani
premurose. Le mostra nella fèlicità solerte e gentile del prendersi cura: tanto accorte quanto a loro è consentito dalla sapienza
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degli anni, e tanto affettuose quanto a loro è suggerito dallo stupore della vita che, improbabile e meravigliosa, in Nansal torna
e si rinnova.
Presi dal mestiere quotidiano di campare, Urjindori e Daramdadi — il padre e la madre — non sempre avvertono la grandezza
e la gioia dei fluire dell'esistenza. Per la seconda un mestolo può valere di più delle domande di Nansal. Per il primo conta il
timore che i lupi arrivino in cerca di Macchia, e che il suo gregge sia in pericolo. Per quanto splendente e intera, la vita degli
uomini e delle dorme deve rendere conto alla durezza della necessità,. nei compito di stare al mondo. Ma poi basterà loro la
paura di perdere un figlio, per ritrovare il gusto d'essere in mezzo alla vita. Urjindori si stringerà addosso il piccolo Babbayar,
e affonderà il proprio viso in lui, aspirandone il profumo. A quel punto starà anche lui nel cuore del mondo, tenero e aperto
quanto la sua Nansal. (Roberto Escobar, Il Sole-24 Ore - 22/05/2006)
Lontano lontano, oltre i monti e le infinite pianure, qualcuno ancora resiste. Il cane giallo della Mongolia, di Byambasuren
Davaa, ci mostra un gruppo di alieni del XXI secolo, papà, mamma e bambini, vecchi e giovani ultimi testimoni dell'infanzia
del mondo.
Il vento che soffia perennemente, una tenda-abitazione isolata, una famiglia di nomadi con i suoi animali. E questo l'universo
dei film, ristrettissimo e insieme misteriosamente infinito. Accadono poche cose, perché i giorni si susseguono sempre uguali:
il pascolo, la mungitura, la preparazione del cibo. Eppure, ogni giorno, c'è qualcosa di nuovo. Come l'arrivo della figlia più
grande, tornata dalla città dove frequenta la scuola. È ancora una bambina, rivedere i genitori e i fratellini è una festa, anche se
le è richiesto di lavorare, almeno per sbrigare le faccende di casa.
Minimi avvenimenti, in questo regno fatato, assumono rilevanze per noi impensabili. Quando il tempo è cattivo ci si può
perdere, visto che non ci sono strade e ognuna delle mille colline sembra uguale alle altre. E quando in una piccola grotta la
ragazzina trova un cane sperduto, cui dà subito il nome di Macchia, ecco che tutto sembra cambiare. Un nuovo amico, un
nuovo compagno di giochi, una ragione in più per essere felici. Ma papà non vuole: quel cane può aver frequentato i lupi, che
tengono sotto tiro il gregge, e dunque rappresenta una potenziale minaccia. Tempo un giorno e, quando tornerà da un giro in
città, l'animale dovrà sparire.
Piccolo cinema, emozioni profonde. È bello trepidare con la giovanissima protagonista, sperare con lei che gli avvoltoi della
vita se ne stiano per una volta lontani. L'estate sta per finire, è il momento di togliere la tenda e di spostarsi altrove. Ce la farà
il cagnolino ad entrare a far parte della famiglia? (Luigi Paini, Il Sole-24 Ore - 22/05/2006)
Dalla regista di La storia del cammello che piange una statica parabola zen
Una favola della tradizione mongola racconta che il padre di una bellissima ragazza che si ammalò improvvisamente, venne
consigliato da un saggio di uccidere il cane giallo, custode del gregge, perché lo riteneva causa della malattia, In realtà la
ragazza si era innamorata di un giovane, e, una volta allontanata la bestia (che poi scomparve nel nulla) potè amarlo. Saggio
d'esame della regista mongola Byambasuren Davaa alla Scuola di cinema di Monaco, il film esce sulla scia del passaparola
generato dal suo La storia del cammello che piange, girato con Luigi Falorni, rocambolescamente nominato all'Oscar come
miglior documentario nel 2005. Come per il precedente, elemento peculiare sta nella testimonianza di un contesto esotico e
primitivo e che quindi si presta a farsi metafora di una condizione dello spirito. Una famiglia di pastori nomadi vive giornate
scandite dai ritmi del lavoro. L'imprevisto - il cagnolino cui la figlia maggiore, Nansa, di sette anni, si affeziona al punto da
pregare il padre di tenerlo - è l'unica variazione in un racconto contemplativo, da documentario socioetnografico. Non per
tutti: né a livello produttivo (lo ha girato una troupe tedesca letteralmente accampata in un remoto villaggio poco distante dalla
tenda dei protagonisti) né spettatoriale: una sentenza distillata («tutti muoiono, ma in realtà non muore nessuno»), insistenza
pittorica sulla bellezza di volti e paesaggi della steppa, esilità narrativa ben oltre i limiti dell'essenziale. (Raffaella
Giancristofaro Film Tv - 04/05/2006)
"Con intenti quasi documentari, negli stupendi ed infiniti paesaggi mongoli visti in 'Urga' di Michalkov, la regista del
'Cammello che piange', Byambasuren Davaa racconta la vita quotidiana di una famigliola nomade col bestiame e il lupo che
minaccia nottetempo. (...) Alla fine - l'unica sequenza davvero bella - il gruppo fa letteralmente le tende e muta domicilio,
caricando la casa poeticamente sui carri mentre un camioncino viene ad avvertire che votare è un diritto ed è come un inserto
fantascientifico. Tutto molto a tesi, buonista, ghiottonerie per antropologi alla Lévi Strauss." (Maurizio Porro, 'Corriere della
Sera', 28 aprile 2006)
Un titolo che profuma di esotismo e lascia presagire paesaggi, volti, storie insoliti. Eppure, il secondo film della regista de La
storia del cammello che piange soddisfa solo in parte le attese.
Il cane giallo della Mongolia racconta una storia sullo sfondo di un quadro descrittivo di intento documentaristico. La storia è
quella della piccola Nansa, che di ritorno dalle vacanze scolastiche si imbatte in un cane randagio e decide di tenerlo,
nonostante la contrarietà del padre. La descrizione riguarda la vita quotidiana della famiglia della bambina, pastori nomadi che
vivono dell’allevamento del bestiame, continuamente minacciato dai lupi. La casa della famiglia Batchuluun è sperduta nella
steppa mongola, un rifugio in mezzo alla prateria che si estende a perdita d’occhio, circondata dalle montagne.
I documentari si servono spesso della modalità narrativa per mettere in scena il reale senza penalizzare il coinvolgimento
emotivo dello spettatore, ma qui la storia raccontata appare fragile e poco attraente. In realtà, se il film tiene desta l’attenzione
è per la bellezza irresistibile dei piccoli protagonisti: per la testardaggine e il volto imbronciato della piccola Nansa, per il
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sorriso della sorellina minore o per la semplicità dei giochi nei quali si perdono, lontani da qualunque contatto umano
extrafamiliare. Se il film evitasse il pretesto narrativo ci si sentirebbe forse più liberi di lasciarsi trasportare nel mondo dei
protagonisti, invece non solo viene creata un’attesa rispetto alla sorte del cucciolo randagio, ma l’approccio documentaristico
si vena spesso di un intento didascalico che appesantisce l’opera.
La descrizione della quiete delle occupazioni domestiche è punteggiata da momenti di riflessione in cui Nansa si interroga sul
mistero della reincarnazione. Gli adulti le regalano perle di saggezza, ma l’effetto non è tanto quello di un frammento poetico
bensì di una lezione di vita degna di un film a tesi. Nel finale, però, quando la storia della piccola Nansa e del suo cane è
giunta al termine, il film ci offre una lunga sequenza che riscatta le incertezze precedenti: la famiglia si prepara a partire e
smonta, pezzo dopo pezzo, la tenda che le ha offerto riparo per tutta la stagione. Mobili, tappeti, suppellettili vengono caricati
sui carri e, in un’immagine di grande forza poetica, la famiglia Batchuluun si avvia lentamente attraverso la steppa.
(www.fice.it)
Tra etica e antropologia, una docu-fiction per riflettere su tradizione e modernità. Ma la regia difetta di stile
Lassù, sulle montagne della Mongolia, il tempo sembra essersi fermato a secoli fa, all’esistenza semplice dei pastori nomadi,
in accordo coi cicli della natura, e con fedeltà alle tradizioni orali e religiose (buddiste). Solo la motocicletta, che papà
Batchuluun usa per raggiungere la città, rivela il tempo presente. E’ estate. I suoi tre bambini partecipano al lavoro quotidiano
col gregge, assieme alla mamma. Questa vera famiglia nomade è stata scelta da Byambasuren Davaa (una regista mongola
cresciuta nelle scuole di cinema tedesche) per girare Il cane giallo della Mongolia. E’ una "docu-fiction" che intreccia realtà e
leggenda, documento etno-antropologico e racconto etico, antiche credenze (reincarnazione, rituali contadini) e attuali
problemi della Mongolia (il passaggio dal nomadismo all’urbanizzazione). La sequenza insieme verista e simbolica, che
esprime lo "smantellamento" della cultura nomade da parte della modernità, è quella della famigliola che smonta la tendaabitazione per trasferirsi altrove. L’elemento esterno che però penetra nel nucleo familiare è un cagnolino, trovato in una
grotta dalla bimba più grande, Nansal (6 anni). “Macchia” diventa suo compagno di giochi. Ma il padre non vuole che resti,
teme che attiri i lupi a straziare le pecore. Nonostante il divieto, la bambina lo tiene di nascosto. La presenza dell’animale si
ricollega alla “favola del cane giallo” che l’anziana della steppa racconta alla piccola. Mito ed esperienza reale quasi si
confondono nella sensibilità infantile. Ma se il cane della leggenda scompare per “reincarnarsi” in un neonato, “Macchia”
salva infine il fratellino di Nansal dagli avvoltoi, guadagnandosi l’accoglienza del capofamiglia. Dal punto di vista
cinematografico, se da una parte la spontaneità dei protagonisti non ha bisogno di artifici (e le facce dei bambini si fanno
contemplare con stupore), il ritmo e lo stile dell’autrice, documentarista per vocazione, appaiono un po’ statici e poco
coinvolgenti. Dato che non si tratta di una puntata di “Quark”, forse la regia poteva inventare qualcosa di più.
(www.cinematografo.it)
Note:
-GERMAN FILM AWARDS 2006
Won Film Award in Gold Outstanding Children or Youth Film (Bester Kinder- und Jugendfilm): Stefan Schesch
-MUNICH FILM FESTIVAL 2005
Won Promotional Award German Film Direction: Byambasuren Davaa
-SAN SEBASTIÁN INTERNATIONAL FILM FESTIVAL 2005
Won SIGNIS Award - Special Mention: Byambasuren Davaa
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