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RASSEGNA STAMPA
venerdì 23 ottobre 2015
L’ARCI SUI MEDIA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
SOCIETA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
CULTURA E SPETTACOLO
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Mente Locale del 22/10/15
Mediterranea 17 young artists Biennale
Ilaria Bochicchio
Da Giovedi 22 Ottobre 2015
A Domenica 22 Novembre 2015
Evento internazionale multidisciplinare, curato da Andrea Bruciati, promosso da Comune
di Milano e Bjcem, in collaborazione con Arci: 300 creativi under 35, provenienti da tutta
l’area del Mediterraneo, s’incontrano per presentare i loro lavori, realizzati rispettando il
tema di questa edizione della Biennale delMediterraneo: No Food’s Land.
I progetti abbracciano una moltitudine di forme di espressione, come le arti visive e le arti
applicate (architettura, industrial design, web design, moda, creazione digitale), la
narrazione, lo spettacolo (teatro, danza, performance metropolitane), la musica, il cinema
e la gastronomia.
Orari: dal 22 al 25 ottobre (ore 11.00-24.00, con festa inaugurale con la presenza degli
artisti + esibizioni, performance, concerti e workshop); dal 26 ottobre al 22 novembre (da
lunedì a venerdì ore 15.00-19.30, sabato e domenica 11.00-19.30). Ingresso gratuito.
http://www.mentelocale.it/agenda-eventi/milano/81182-mediterranea-17-young-artistsbiennale.htm
Da CBLive.it del 22/10/15
A Milano al via la Biennale dei Giovani Artisti
dell’Europa e del Mediterraneo. Alla Fabbrica
del Vapore presenti le molisane Monica
Gualtieri e Azzurra De Gregorio
È stata inaugurata oggi, giovedì 22 settembre 2015, ‘Mediterranea 17’, la Biennale dei
Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo, della quale il Comune di Campobasso è
socio da diciannove anni. Alla Fabbrica del Vapore di Milano sono presenti le artiste
molisane, Azzurra De Gregorio e Monica Gualtieri, che hanno partecipato, e sono state
selezionate, al bando indetto dall’assessorato alle Politiche Giovanili dell’ente comunale
del capoluogo di regione. Il tema dell’evento è ‘No food’s land’, riprendendo quello
dell’Esposizione Universale.
Per le due molisane l’opportunità di una esperienza di rilievo internazionale, momento di
crescita professionale e di allargamento dei propri orizzonti in un contesto altamente
qualificato. Il Comune di Campobasso, pur essendo socio della Biennale, è tornato a
indire, con l’avvento dell’amministrazione Battista, il bando per la kermesse a distanza di
dieci anni dall’ultima partecipazione.
Azzurra De Gregorio e Monica Gualtieri sono arrivate a Milano direttamente da Genova,
dove cento dei trecento artisti selezionati per ‘Mediterranea 17’, evento fuori salone di
Expo, hanno avuto l’opportunità di vivere un’altra grande esperienza nell’ambito della
sezione offdella Biennale dei Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo. In Liguria per
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tre giorni si sono succeduti eventi e workshop all’interno dei quali le due molisane sono
state tra le protagoniste.
La conferenza stampa di presentazione dell'evento: da sinistra, l'assessore comunale di
Milano, Del Corno, il presidente dell'Arci, Chiavacci, il presidente della Biennale Bei e il
direttore artisitico Bruciati
I trecento artisti sono arrivati alla Fabbrica del Vapore in concomitanza della conferenza
stampa di presentazione dell’evento, alla quale ha preso parte, per il Comune di Milano,
l’assessore alla Cultura, Filippo Del Corno. Al tavolo presenti il presidente della Biennale,
Dora Bei, il direttore artistico Andrea Bruciati e il presidente dell’Arci Nazionale, Francesca
Chiavacci.
“Non posso che salutare – ha affermato l’assessore Del Corno – tutti i Paesi e tutte le
amministrazioni comunali che sono presenti nella nostra terra. Il Comune di Milano è lieto
di accogliere artisti e rappresentanti degli enti soci della Biennale alla Fabbrica del Vapore,
un luogo che abbiamo recuperato e valorizzato, per trasformarlo in un contenitore dove chi
parla di cultura può confrontarsi in una piazza reale e non virtuale, come spesso oggi
accade. Questo evento prende il testimone di Expo, che sta volgendo al termine, e non
possiamo che esprimerci positivamente per l’esperimento di ‘Expo in Città’, un laboratorio
di idee, appuntamenti e approfondimento scientifico. È un format che ha riscosso un
grande successo e, sicuramente, sarà da ripetere”.
“Il Comune di Milano – ha affermato l’assessore alla Cultura e alle Politiche Giovanili del
Comune di Campobasso, Emma de Capoa –ha rilanciato un luogo, quello della vecchia
centrale dell’Enel, in uno spazio dove la creatività e lo scambio di idee sono all’ordine del
giorno. Come amministrazione comunale del capoluogo molisano, anche noi dobbiamo
pensare a uno spazio da far diventare la culla della cultura e di appuntamenti di rilievo
locale, nazionale e, perché no, anche internazionale. La cultura – come è stato più volte
ribadito nella conferenza stampa di Milano – è un utile strumento per difendere la
democrazia e aprirsi al dialogo, rinunciando all’uso delle armi. Anche il Molise deve
impegnarsi per infondere questo importante concetto. I miei complimenti vanno alle due
molisane, Azzurra e Monica, che in questo mese potranno allacciare contatti importanti
per il proseguo della propria carriera professionale e artistica”.
La campobassana Monica Gualtieri, ventottenne architetto, ha partecipato nella sezione
‘arti applicate’ con il progetto ‘Vert en verre’, che mostra il potenziale delle fattorie urbane
come nuova strategia di riabilitazione funzionale. L’area di intervento è Freyssinet Halle,
un mercato coperto per la spedizione delle merci di Parigi. Partendo dai problemi della
struttura, è nato un progetto nel pieno rispetto di ciò che c’era in precedenza. Lo scopo è
ridare al vecchio stabilimento industriale una nuova funzione di produzione agricola,
immaginando questo ‘organismo’ architettonico come un ecosistema. Il progetto è
organizzato su due livelli, quello della produzione e quello del consumo del cibo.
L’obiettivo è di offrire ortaggi coltivati in loco e di rendere consapevoli le persone di quelle
tecniche produttive che potrebbero contribuire a soddisfare la crescente domanda
alimentare.
“Monica Gualtieri – ha spiegato il direttore artistico Andrea Bruciati ai presenti – evidenza
come non si possa più costruire senza il rispetto della biodinamica e del luogo su cui si
interviene, come quello naturale, che diventa parte integrante del contesto architettonico.
Lei, così, ha proposto una sua valida idea di modello urbanistico”.
La termolese Azzurra De Gregorio, trentenne, ha partecipato, invece, con la performance
‘The sick food’, in italiano ‘Il cibo malato’,interpretata dall’attore campobassano Giulio
Maroncelli. Si assiste al progressivo disfacimento fisico e morale di una donna che,
abituata a percepire, il suo stesso corpo come fosse un perfetto congegno elettronico da
programmare e modificare a suo piacimento, si ammala della paura di ammalarsi. La
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barriera che interpone tra se stessa e il mondo esterno si sgretola di fronte all’evidenza
della caducità e della finitezza della propria esistenza e tutte le pratiche di disinfezione
che, quotidianamente, infligge al suo corpo scatenano una serie di conseguenze
inaspettate.
http://cblive.it/30506-a-milano-al-via-la-biennale-dei-giovani-artisti-delleuropa-e-delmediterraneo-alla-fabbrica-del-vapore-presenti-le-molisane-monica-gualtieri-e-azzurra-degregorio
Da Radio Colonia del 20/10/15
Italmondo: 30.000 chilometri di impegno civile
di Luciana Mella
Ogni anno un pulmino attraversa l'Italia e l'Europa per parlare di criminalità organizzata e
di cultura della legalità. Quest'anno i carovanieri hanno fatto tappa anche in Germania.
Andare incontro alle persone, coinvolgerle e renderle partecipi parlando con loro di mafia e
antimafia, di situazioni di degrado e di riscatto sociale, di iniziative concrete di rinascita e di
solidarietà come la gestione dei beni confiscati alla criminalità organizzata. Dal 1994, su
iniziativa dell'Arci Sicilia, a cui hanno aderito negli anni Arci nazionale, Libera, Avviso
Pubblico, Cgil, Cisl e Uil, la Carovana macina migliaia di chilometri dal Sud al Nord della
Penisola e del vecchio Continente per interagire con giovani e meno giovani: una sorta di
laboratorio itinerante che, con la sua presenza fisica in piazze, scuole, centri di
aggregazione, cerca di contribuire „dal basso“ alla lotta contro la corruzione e i poteri
mafiosi. La Carovana, che lo scorso anno è stata insignita del “Premio Falcone”, uno dei
principali riconoscimenti europei all’impegno civile, ha scelto come tema per il 2015 "Le
periferie al centro", decidendo di entrare ed essere presente nei quartieri degradati delle
città in cui si ritrovano aree di illegalità ma anche realtà positive che in questi contesti
fanno quotidianamente resistenza. E, per la prima volta nella sua storia, la carovana è
arrivata anche in Germania. Con il sostegno delle associazioni 'Mafia? Nein Danke!,
Italienverein e Italia Altrove ha toccato Berlino, Dortmund, Düsseldorf e Francoforte.
Intervista al coordinatore della Carovana antimafie Alessandro Cobianchi
Link audio http://www.funkhauseuropa.de/sendungen/radio_colonia/italmondo/anti-mafia100.html
Da MTV.it del 23/10/15
Musica Viva e il futuro della musica live in
italia il 23 e 24 ottobre a Milano per la MTV
Music Week
Due giorni di convegno a Palazzo Reale
In occasione degli MTV EMA 2015 e nell'ambito di ExpoinCittà e MTV Music Week, il 23 e
24 ottobre Palazzo Reale si tiene il convegno MUSICA VIVA. Verso un patto per la musica
live nelle città del futuro riservato a operatori nel settore della produzione e della
promozione della musica live in Italia.
L'incontro nasce dalla volonta di mettere a confronto le buone pratiche sviluppate a livello
locale, nazionale e internazionale volte alla valorizzazione e alla semplificazione normativa
del comparto musicale e per far convergere le diverse istanze di rinnovamento che si
stanno attivando nel paese nel settore della musica live.
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Il convegno, promosso da Comune di Milano ed ExpoinCittà in collaborazione con la
Società Italiana degli Autori ed Editori e MTV, coinvolge soggetti sia pubblici che privati,
rappresentanti delle istituzioni, degli enti locali, di associazioni di imprese e di categoria, e
tanti altri rappresentanti della filiera della musica live. Ha già confermato la sua presenza
per la giornata di apertura il Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo Dario
Franceschini.
In particolare sabato 24 alle ore 12, in Sala Otto Colonne a Palazzo Reale, si svolgerà la
conferenza stampa di restituzione dei lavori del convegno, alla quale interverranno gli
assessori Filippo Del Corno (Cultura) e Franco D'Alfonso (Turismo), Luca De Gennaro
(MTV), Lele Sacchi (Elita - DJ, promoter, produttore).
Aderiscono al convegno numerosi soggetti sia pubblici che privati tra i quali rappresentanti
del Governo, del Parlamento, di enti locali, di associazioni di impresa e di categoria, e tanti
altri rappresentanti della filiera della musica live: ANCI, Comune di Bologna, ASL,
Sindacati, Tavolo Legalità e Sicurezza per lo spettacolo, Assomusica, Alleanza
Cooperative Italiane, Federculture, Asal, Agis, Arci e Santeria, Elita, Keepon, Musicraft e
molti altri.
Maggiori informazioni sul sito: www.comune.milano.it/musicaviva #musicaviva e
#pattoperlamusica
Per scoprire ivnece tutti gli altri eventi della MTV Music Week, vai su
www.mtv.it/musicweek #MTVMusicWeek
http://news.mtv.it/mtv-ema-music-week/musica-viva-futuro-musica-live-in-italia-23-24ottobre-milano-per-mtv-music-week/
Da Repubblica.it (Roma) del 22/10/15
"L' albergo delle piante" al Corviale: come
restituire vita allo spazio urbano
Chiunque, da venerdì pomeriggio, potrà portare un vaso con una pianta
alla piazza del mercato, per fare del luogo un giardino pubblico
di SALVATORE LUCENTE
Creare il primo vivaio pubblico e comune di Roma. Recuperare uno spazio urbano
controverso come la piazza del mercato di Corviale. Farlo dal basso, con la partecipazione
degli abitanti del quartiere ed affidarlo alle cure degli ospiti degli utenti del Centro Diurno
Mazzacurati, quelli del Cism Asl Roma D, quelli del Centro di aggregazione giovanile
Luogo comune di Arci solidarietà, oltre che di ogni persona che vorrà prendere parte al
progetto. Una serie di elementi che insieme vanno a creare "L'albergo delle piante". L'idea
è semplice e avrà inizio venerdì pomeriggio, dopo due anni di gestazione, quando gli
abitanti del quartiere, chiamati a raccolta dall'artista di origini lucane Mimmo Rubino ed
Angelo Sabatiello, porteranno le proprie piante per disporle sugli spalti abbandonati che
circondano la piazza. Una pianta un vaso, per fare del luogo un giardino pubblico e
restituirlo alla quotidianità dei residenti. La chiamata è aperta a tutti.
"L'unica regola è che le piante siano in un vaso, in modo da poter essere disposte da <> il
centro dell'anfiteatro", è il messaggio dell'ideatore Mimmo Rubino, conosciuto negli
ambienti artistici underground come Rub Kandy, ma soprattutto "il progetto si svolge senza
bando e senza budget, l'opera è aperta e chiunque può partecipare, un seme alle
condizioni giuste si sviluppa e noi ci auguriamo che sia così per questo giardino".
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L'obiettivo è di fare degli spazi inutilizzati della piazza un luogo verde, in cui gli ospiti del
centro di salute mentale e del centro diurno possano trascorrere piacevolmente il tempo,
come tutti i residenti, potendo leggere, ascoltare musica, giocare, senza però stravolgere
la conformazione del luogo.
Siamo nell'epoca dove parole come recupero o trasformazione degli spazi urbani sono
ormai un mantra, ma spesso viene trascurata la componente principale di questo tipo di
progetti,
ossia il coinvolgimento delle persone che ne dovrebbero beneficiare. Per questo motivo la
raccolta delle piante che costituiranno "l'albergo" è già iniziata da alcuni giorni e vengono
costantemente distribuiti volantini nei palazzi della zona per informare più persone
possibili. Venerdì, dalle quattro, si darà il là ad un progetto che andrà avanti fino a quando
ci sarà la partecipazione del quartiere.
http://roma.repubblica.it/cronaca/2015/10/22/news/_l_albergo_delle_piante_come_restituir
e_vita_allo_spazio_urbano-125676932/
Da La Nazione (Prato) del 22/10/15
Parte la settima edizione del Festival “Young
Station”
Spettacoli, cortometraggi, foto che indagheranno sul tema dell' identità
delle periferie. La serata inaugurale propone uno spettacolo realizzato
con un gruppo di giovani rifugiati
Gli organizzatori del Festival Young Station Gli organizzatori del
Festival Young Station
Prato, 22 ottobre 2015 - Conto alla rovescia per l'avvio della settima edizione del Festival
“Young Station”, in programma da venerdì 23 a domenica 25 ottobre nello spazio culturale
della Gualchiera (via del Carbonizzo 9-11 a Montemurlo), a cura dell' aps Guachiera con il
patrocinio del Comune di Montemurlo. Un' edizione “speciale” che ha proposto ai vari
artisti, che si “sfideranno” nelle diverse classi di concorso, di approfondire e riflettere sul
tema della periferia. “Periferia”, infatti, è stata la definizione molto spesso affiancata a
“Montemurlo”, “moneta” dalle due facce (l'area collinare e la zona industriale), città dalle
varie anime e dalle molteplici identità. Una periferia che, però, come nel caso di
Montemurlo, è anche l'occasione per ripensare il futuro, per sperimentare e per accogliere.
L'edizione numero sette del Festival, venerdì 23 ottobre alle 21, si apre con lo spettacolo
"Spaiati", evento teatrale con i giovani migranti - richiedenti asilo del “Progetto Sprar e
Cas” e con gli studenti della scuola media “Salvemini- La Pira” dell' Istituto comprensivo
Montemurlo, con la collaborazione di Arci Prato e Cooperativa Pane e Rose Onlus.
Quindici giovani migranti, dai 19 ai 32 anni, provenienti dai Paesi dell'Africa sub-sahariana,
con alle spalle storie di sofferenza, paura, fame, violenza, emarginazione, portano sul
palcoscenico i loro vissuti, le loro emozioni, le loro storie di migrazione.
Il programma va avanti sabato 24 ottobre sempre alle ore 21 con la "Finale di
Cortometraggio", una serata, a cura del Cineclub Saraceno, durante la quale si potranno
vedere i corti finalisti, con la premiazione del “film” vincitore. Ultimo giorno di festival,
domenica 25 ottobre con la "Finale Performances Teatrali", a cura di Aps Gualchiera,
Teatrificio Esse, Compagnia Arra e TerzoPiano Teatro. Al termine della serata si svolgerà
la premiazione del vincitore delle sezioni “Performances Teatrali”, “Fumetto” e “Fotografia”.
Durante tutte le giornate del Festival saranno esposte le foto finaliste del concorso di
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fotografia a cura dell’associazione “Zoom Zoom” e le opere in concorso per la sezione
fumetto.
Il pubblico in sala avrà un ruolo attivo e potrà scegliere l'artista e la performance preferita.
La giuria di esperti., invece, sarà composta dall'assessore Forastiero, da Patrizia Coletta,
direttore di Fondazione Toscana Spettacolo, Massimo Talone, direttore artistico del teatro
Moderno di Agliana e dal critico teatrale, Matteo Brighenti. L'ingresso alle serate è libero e
gratuito. Gli spettatori avranno a disposizione anche un punto ristoro curato da “I'Barrino”
di Villa Giamari.
http://www.lanazione.it/prato/parte-la-settima-edizione-del-festival-young-station1.1414798
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
Da InsideArt.eu del 22/10/15
Ultimora
Inaugura Mediterranea 17, la Biennale
dedicata ai giovani artisti
Inaugura alle 18:00 Mediterranea 17 Biennale giovani artisti, un progetto nato nel 1985 dal
network internazionale Bjcem. Un progetto possibile grazie a istituzioni e organizzazioni
indipendenti che supportano i giovani artisti nel loro processo di apprendimento e li
incoraggiano a produrre e mostrare i loro lavori. La sede della Biennale è la Fabbrica del
Vapore, in via Procaccini 4, i cui spazi ospiteranno fino al 25 ottobre le opere di oltre 300
artisti internazionali, abbracciando le discipline di arti visive, cinema, scrittura,
performance, musica, design, moda e cucina. Il concept della rassegna quest’anno è No
food’s land, ideato da Andrea Bruciati, che si inserisce all’interno del discorso critico
iniziato da Expo 2015 e che si riflette anche nell’allestimento di Mediterranea, dando al
visitatore la sensazione di trovarsi all’interno di un organismo. «Mi piaceva creare
un’analogia – ha spiegato Bruciati – fra processo digestivo e percorso creativo».
http://insideart.eu/2015/10/22/inaugura-mediterranea-17-la-biennale-dedicata-ai-giovaniartisti/
Da La PrimaPagina.it del 22/10/15
Milano, Mediterranea 17 Young Artists
Biennale, 300 artisti espongono alla Fabbrica
del Vapore
Fino al 22 novembre 2015, la Fabbrica del Vapore (via Procaccini 4), ospita
MEDITERRANEA 17 YOUNG ARTISTS BIENNALE, evento internazionale
multidisciplinare, curato da Andrea Bruciati, promosso da Comune di Milano e Bjcem, in
collaborazione con Arci e con il Patrocinio della Fondazione Cariplo. La mostra fa parte di
Expo in città, il palinsesto di iniziative che accompagna la vita culturale di Milano durante il
semestre dell’Esposizione Universale.
In uno dei luoghi più rappresentativi della creatività milanese contemporanea, 300 creativi
under 35, provenienti da tutta l’area del Mediterraneo, s’incontrano per presentare i loro
lavori, realizzati rispettando il tema di questa edizione della Biennale del Mediterraneo: No
Food’s Land.
I protagonisti di questo evento giungono alla Fabbrica del Vapore dopo aver superato la
selezione di una commissione di ciascun paese membro della rete Bjcem, che comprende
organizzazioni della società civile, autorità locali e nazionali di Bosnia ed Erzegovina,
Croazia, Cipro, Egitto, Francia, Grecia, Italia, Libano, Malta, Montenegro, Palestina,
Portogallo, Repubblica di San Marino, Serbia, Slovenia, Spagna, Turchia e Austria,
Kosovo, Israele e Regno Unito come membri esterni.
I progetti abbracciano una moltitudine di forme di espressione, come le arti visive e le arti
applicate (Architettura, Industrial Design, Web Design, Moda, Creazione digitale), la
narrazione, lo spettacolo (Teatro, Danza, Performance Metropolitane), la musica, il cinema
e la gastronomia.
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“Ospitando questa edizione della Biennale dei giovani artisti la Fabbrica del vapore
conferma la propria vocazione di luogo aperto all’espressione della creatività, artistica,
soprattutto giovanile, e lo fa con un tema in forte connessione con il tema di Expo 2015 –
ha dichiarato l’assessore alla Cultura Filippo Del Corno –. Un’iniziativa che rientra
pienamente nello spirito di ExpoinCittà, il palinsesto che ha messo Milano sotto i riflettori
come modello di capacità innovativa per la capacità di far coesistere diversi linguaggi
artistici, stimolando la vocazione internazionale del pensiero creativo”.
La curatela dà vita al percorso espositivo organizzando il materiale pervenuto dall’intero
network di Bjcem, mettendo in evidenza quei lavori che ha ritenuto più rappresentativi e
ponendo l’accento sul carattere interdisciplinare di una piattaforma unica a livello europeo.
“La sfida – afferma Andrea Bruciati – è quella di creare un ambiente vivo, costruendo un
percorso ricco di suggestioni e aperto ad una interculturalità che connota Bjcem sin dai
suoi esordi”.
Il concept di Mediterranea XVII, No Food’s Land ruota attorno al passo Questo mostro che
ci divora i sensi, tratto dall’Amleto di Shakespeare. “Mi piaceva creare un’analogia –
ricorda Andrea Bruciati – fra processo digestivo e percorso creativo secondo il celebre
passo del Bardo che per me diventa una sorta di metafora del processo conoscitivo
dell’artista e la trasformazione incessante e quasi pantagruelica che questi attua della
realtà”.
La pratica artistica può essere accostata all’assimilazione, ovvero all’assorbimento
corporeo del cibo quando si trasforma in nutrimento. Infatti, anche l’artista passa dall’idea
astratta alla sua realizzazione concreta e reale, effettuando un cambiamento di grado,
energetico, vitale.
Lo stesso allestimento, pensato in collaborazione con lo Studio Rotella di Milano, segue
un percorso sinusoidale, quasi ci si trovasse all’interno di un organismo che tutto divora e
trasforma, nel quale, i vari elementi dissonanti possano combinare fluidamente come una
sorta di puzzle.
Numerose sono le iniziative collaterali di Mediterranea 17. Fino al 25 ottobre, dalle 11 a
mezzanotte, workshop, reading, showcooking, performance artistiche, musicali e teatrali,
animeranno la Fabbrica del Vapore. Il programma è consultabile sul sito
http://mediterraneabiennial.org.
Mediterranea 17 sarà idealmente introdotta, fino al 25 ottobre, da OFF – Out of Fabbrica,
un progetto curato da Marco Trulli, promosso da Arci, con il sostegno del Comune di
Milano e il patrocinio di Fondazione Cariplo che presenta eventi, workshop e residenze,
capaci di produrre interazioni tra i giovani artisti provenienti dal Mediterraneo e il tessuto
socio-culturale milanese. Programma suhttp://mediterraneabiennial.org.
All’interno della Biennale saranno inoltre presentati i risultati di cinque progetti speciali.
Il primo è A Natural Oasis Summer School, Provoc’Arte 1991 working hypotesis for an
archive, dedicated to Roberto Daolio, progetto transnazionale sulle arti visive, promosso
dalla Repubblica di San Marino, iniziato lo scorso anno nel Castello di Montegiardino del
piccolo Stato. Curato da Alessandro Castiglioni e Simone Frangi, in collaborazione con
Viafarini e Little Constellation, ha avuto come obiettivo quello di creare un percorso di
viaggio, studio, formazione e ricerca per 15 giovani artisti selezionati provenienti da: Cipro,
Islanda, Lussemburgo, Malta, San Marino, Italia, Grecia, Gran Bretagna, che dopo San
Marino, Milano e Gibilterra – UK si conclude con una esposizione e un workshop a
Viafarini DOCVA all’interno della Fabbrica del Vapore.
Il secondo, Motel Trogir. Alice Doesn’t Live Here Anymore, dedicato alla riflessione
artistica sull’omonimo edificio modernista, costruito nel 1965 e progettato da uno degli
architetti più importanti della Jugoslavia socialista – Ivan Vitic. I risultati del progetto, ideato
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dalle curatrici Natasa Bodrozic e Ivana Mestrov, verranno presentati a Milano, dagli artisti
provenienti da Croazia, Slovenia, Serbia e Regno Unito.
Il terzo, Ecosimi 2015, curato da Ylbert Durishti, organizzato e promosso dal Comune di
Città di Cassano D’Adda, è un progetto di arte pubblica giunto alla quarta edizione, in cui
lo spazio aperto è abitato in modo creativo: un’esperienza di arte contemporanea che
vuole collegarsi, attraverso la sua natura pubblica e ambientale, ai processi e alle
trasformazioni che riguardano il territorio, l’ambiente e la condizione attuale, per attivare
una riflessione sulle dinamiche ecologiche e sostenibili.
Il quarto, Sulcislab, curato da Olga Bachschmidt, promosso dall’assessorato alla cultura
del Comune di Cagliari, è pensato per promuovere la creatività dei giovani designer della
Sardegna in collaborazione con le risorse dell’artigianato artistico e tradizionale del
territorio del Sulcis. Un’iniziativa.
Il quinto, La Ville Ouverte, curato da Marco Trulli, è un programma euromediterraneo di
azioni di arte pubblica promosso da Arci, all’interno del network di BJCEM. Attraverso
workshop, residenze e mostre, La Ville Ouverte indaga il ruolo dell’arte e degli artisti nello
spazio e nell’immaginario pubblico.
Infine, nel corso dell’inaugurazione di Mediterranea 17 Young Artists Biennale, giovedì 22
ottobre alle ore 18, si annunceranno gli artisti vincitori dei Res Artis Awards 2015, che
consiste in due residenze artistiche al KulttuuriKauppila Art Centre in Finlandia e a Villa
Ruffieux, in Svizzera. Res Artis è un’associazione internazionale che raccoglie più di 500
tra centri culturali, organizzazioni, singoli artisti e curatori in più di 70 paesi.
Nata nel 1985, la Biennale si svolge ogni due anni in una città diversa del Mediterraneo e
nelle sue sedici precedenti edizioni ha coinvolto nel complesso più di 10.000 giovani artisti
e oltre 70.000 visitatori.
La Bjcem è una rete internazionale, il cui Segretariato ha sede a Torino presso il Cortile
del Maglio, con più di 70 membri e partner provenienti da Europa, Medio Oriente e Africa
che, con il loro sostegno, rendono possibile l’evento stesso
http://www.laprimapagina.it/2015/10/23/milano-mediterranea-17-young-artists-biennale300-artisti-espongono-alla-fabbrica-del-vapore/
Da AnsaMed del 22/10/15
Arte: la Tunisia di Pelagica in mostra a Milano
Riflessioni tra desiderio di colonialismo e
turismo nel Med
(ANSAmed) - MILANO, 22 OTT - Inaugura il 23 ottobre allo Spazio Pelagica di via
Termopili a Milano una mostra davvero originale dedicata alla Tunisia, un progetto che è il
risultato di un anno di ricerca che Pelagica ha intrapreso partendo dalle riflessioni sullo
studio di un volume del 1912 intitolato ''La Tunisia'' utilizzandolo come espediente per uno
scambio di vedute sul rapporto tra colonialismo e turismo. ''La Tunisia'' è una monografia
politico-militare redatta dal Comando del Corpo di Stato Maggiore italiano e pubblicata nel
febbraio 1912, una pubblicazione definibile come un ambiguo resoconto geografico,
politico ed etnografico sulla Tunisia del tempo. In parte vademecum per colonialisti, in
parte manuale scolastico, pensato forse anche come guida per turisti, ''La Tunisia''
pubblicazione è parte di una folta schiera di edizioni sull'Africa orientale tutte ricollegabili
all'entusiasmo imperialistico e coloniale italiano della prima metà del Novecento. In realtà il
sogno coloniale italiano sulla Tunisia svanisce già nel 1881 con quello che la stampa del
tempo definì lo schiaffo di Tunisi. Gli italiani formavano al tempo la più grande comunità
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europea in Tunisia ma proprio in quell'anno vennero espulsi a seguito di un'azione di forza
della Repubblica Francese che occupò il paese e più che di vero colonialismo riferendoci
ai sentimenti italiani di quel periodo si dovrebbe parlare di desiderio coloniale per lo stato
italiano. Laura Lecce e Fabrizio Vatieri, curatori di Pelagica, in collaborazione con Marco
Trulli di La Ville Ouverte, hanno invitato a contribuire a questa ricerca gli artisti Giuseppe
de Mattia, Giuseppe Fanizza, Tothi Folisi, Rachele Maistrello, NastyNasty (Emiliano
Biondelli e Valentina Venturi ), Anna Positano e Angela Zurlo. Fabrizio Vatieri ha utilizzato
le pagine della rivista della Società Italiana d'Africa per riprodurre un cartoccio tipico del
cibo di strada napoletano (il cuoppo) e ha creato una singolare confezione per datteri; ha
poi trascritto alcuni paragrafi del testo con una arabic keyboard online, ottenendo così un
testo nuovo, privo di significato recitato da una voce automatica di Google. Giuseppe
Fanizza ha lavorato sul caso linguistico del termine Crumiro presente nel libro stesso.
Molti altri hanno assunto il libro come espediente per una riflessione più allargata e
immaginifica. Giuseppe de Mattia per esempio ha fatto realizzare una penna stilografica
ispirandosi al modello Etiopia (prodotta dall'azienda italiana Aurora) spacciata nel 1936
come penna degli ufficiali fascisti in missione in Abissinia. In realtà la penna non è mai
realmente appartenuta a tale vicenda storica.
Palmà, la penna di De Mattia, è ovviamente una versione dedicata alla colonia tunisina. La
mostra é ospitata nell'ambito del del circuito OFF di Mediterranea 17 Young Artists
Biennale. (ANSAmed)
Da Avvenire del 23/10/15, pag. 6
Renzi ci mette la faccia: «Meno sale per
l'azzardo»
Antonio Maria Mira
Non più 22mila ma "solo" 15mila centri scommesse. Una riduzione, dunque. Lo annuncia il
premier Renzi che sceglie di metterci la faccia sulla questione dell’azzardo in Legge di
stabilità. Non c’è ancora il testo ufficiale, ma quanto assicurato dal presidente del
Consiglio conferma le voci che Avvenire aveva riportato ieri.
Ma restano ancora forti dubbi, perché, come afferma lo stesso premier, rimane la
sanatoria dei Ctd illegali e (ma questo Renzi non lo ha rivelato) si aumenterebbero altre
forme di azzardo, come i "giochi on line", un settore in crescita e ad alto rischio. Scelte
probabilmente obbligate per garantire il miliardo di entrate che era stato annunciato la
scorsa settimana al termine del Consiglio dei ministri.
Dopo giorni di critiche ma anche di incertezza sui numeri, Renzi, dunque, scende in
campo con la sua e-news. «Con il nostro governo saranno ridotti a quindicimila i punti
gioco. E segnatamente i bar con le macchinette verranno ridotti: da seimila potranno
essere al massimo mille. La verità, dunque, è semplice: noi stiamo riducendo i punti gioco
in Italia e combattendo così l’azzardo. Chi dice il contrario mente». Con chi ce l’abbia lo
chiarisce subito. «Da qualche giorno i deputati cinque stelle accusano il Governo di
favorire la ludopatia. Cioè di agevolare il gioco d’azzardo e la slot-mania. Al punto che,
questa è la tesi dell’accusa, il Governo avrebbe intenzione di mettere a gara ventiduemila
licenze per i giochi. Non entro nel merito della battaglia antiludopatia che insieme ad altri
stiamo facendo da molto tempo. Mi limito alla realtà. Ventiduemila sono, più o meno, i
punti gioco aperti oggi (non tutti regolari, al momento)». E poi l’annuncio della riduzione a
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15mila. «La verità – conclude – è semplice: noi stiamo riducendo i punti gioco in Italia e
combattendo così l’azzardo. Chi dice il contrario mente. E non è che se lo dice il Blog
dell’Elevato (in arte Beppe Grillo) diventa vero. La realtà è più forte delle balle a cinque
stelle». Che replicano a muso duro. «Sul gioco d’azzardo Renzi continua a barare e
giocare alle tre carte», denunciano i parlamentari "grillini" di Camera e Senato.
Al netto delle polemiche politiche, cerchiamo di capire. Il 15 ottobre nella conferenza
stampa di presentazione della Legge di stabilità, Renzi annuncia l’aumento della
tassazione per slot e Vlt, e nuove gare per 22mila centri scommesse: 15mila sale e 7mila
corner. In tutto per incassare poco più di un miliardo di euro. Ora spiega che saranno solo
15mila. Settemila in meno, la stessa cifra che il presidente degli imprenditori dell’azzardo,
Massimo Passamonti, aveva indicato una settimana fa come invece i centri che il governo
voleva aumentare. Un numero che ritorna. Renzi, infatti, annuncia anche che saranno
ridotti i bar con macchinette, da 6mila a mille. Non si tratta di quelli con le slot (sono infatti
quasi 95mila) ma dei corner, luoghi cioé non dedicati solo al gioco. Ma non erano 7mila?
Ne mancano mille all’appello. Così come non si capisce se nei 15mila siano compresi i
5mila Ctd illegali che beneficieranno della sanatoria, come indirettamente conferma Renzi
con quel «non tutti regolari, al momento».
Se resta, dunque, l’incertezza sui tagli, potrebbe invece arrivare un aumento di un altra
forma di azzardo. Secondo l’ultima bozza circolata ieri, si bandirebbe una gara per 120
concessioni per la commercializzazione dei giochi on line. Attualmente sono 80 e
scadranno nei prossimi mesi. Con la nuova gara, dunque, sarebbero aumentate del 50%.
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ESTERI
del 23/10/15, pag. 15
L’intervista «La Libia peggio della Somalia
Pronti a sparare agli scafisti»
Il capo della missione navale Ue: bisogna entrare nelle acque territoriali
Francesco Battistini
«Ho visto una mia foto in prima pagina su un giornale libico: ecco l’ammiraglio che arresta
gli scafisti. La notizia comincia a girare. Ora che possiamo abbordarli e arrestarli, loro sono
in difficoltà. Devono dire addio alle barche di legno, le più pregiate: 380 mila euro ogni
carico, contro i 67mila d’un gommone. Gliene abbiamo già prese 20. L’incubo degli scafisti
è di perderle per sempre: in Libia, non le costruiscono». Lo spauracchio dei mercanti di
schiavi è un torinese di 52 anni, l’ammiraglio Enrico Credendino: ha già combattuto i pirati
in Somalia e dal bunker di Centocelle comanda l’Operazione Sophia della missione navale
Ue. 2mila uomini di 22 Paesi, 12 milioni d’euro, un mandato di superpoliziotto del
Mediterraneo: «Finora, avevamo fatto soprattutto intelligence. Ora siamo passati
all’enforcement in acque internazionali: una ventina di scafisti sono finiti in galera».
Chi sono i boss del mare?
«Tunisini, libici… Non c’è una cupola. Anzi, a volte si rubano fra loro i migranti. Lavorano
stile agenzie di viaggi, organizzano le rotte su Facebook. Riciclano soldi all’estero come i
pirati somali, che li lavano a Londra, a New York, in Svezia. Spesso controllano gli stessi
territori delle milizie e delle municipalità».
Anche dell’Isis?
«I soldi arrivano anche allo Stato islamico. Ma i migranti partono al 95% dalla Tripolitania,
mentre l’Isis sta a Sirte. Gli scafisti sono businessman».
La sua è una missione Ue anomala: comando e un terzo di italiani. Non è che poi
incolpano noi, se non funziona?
«Dipende da come si vende il nostro sforzo. A maggio, da Bruxelles mi dicevano: ci
vorranno 6-8 mesi solo per partire. Ho fatto tutto in un mese. Il mandato è d’un anno, ma
questa missione è molto più complicata della Somalia. Qui c’è una migrazione biblica,
penso proseguiremo: abbiamo già salvato 4mila vite…».
Ma perché pattugliate solo fino a Creta? Il grosso si muove dalla Turchia…
«La rotta balcanica s’è aperta perché l’Egitto controlla meglio le frontiere e perché ci siamo
noi: in settembre, per la prima volta, c’è stato un calo del 2% nei flussi dal Sud. La
migrazione da Est è terrestre e una missione come la nostra non serve: il tratto di mare è
solo di due miglia, in acque greche e turche».
Il buco nero resta la Libia.
«E’ la Somalia del Mediterraneo. Stallo totale. Parlerò coi libici quando sarà chiaro chi
governa: noi dobbiamo lavorare in Tripolitania, il governo riconosciuto è a Tobruk, ma non
voglio dare l’idea di favorire l’uno o l’altro. Quando un governo potrà invitarci nelle sue
acque, e l’Onu lo consentirà, allora saremo più efficaci: gli scafisti non potranno neanche
mettere le barche in mare. Ci sono molte diffidenze. Ho incontrato l’ambasciatore russo
all’Onu e mi ha detto: ammiraglio, lei non deve entrare in Libia. Ho risposto: il comando
dell’operazione resterà sempre in mare, ma se non ci vado, non taglieremo mai i rami
logistici e i flussi finanziari».
Si dice: bombardare i barconi. E’ praticabile?
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«Tutto è praticabile. Ma questa non è una missione di guerra. Chi parla di bombardamenti
dall’alto, dice sciocchezze. Nel porto di Zuara, da dove parte il 30% delle barche, ce ne
sono 200 tutte uguali: sia di scafisti, sia di pescatori. Noi vogliamo che tornino tutte, e
soltanto, a pescare. L’ho spiegato ai russi, ai ciadiani, ai nigeriani. Hanno paura d’una
missione europea mascherata che ripeta in Libia gli attacchi aerei del 2011: “Non ci sarà
Apocalypse Now”. Questo li ha rassicurati . C’è una volontà di fermare il traffico: a Zuara,
è nata una milizia di 150 persone che combatte gli scafisti».
Siete pronti a sparare?
«Certo. La missione può richiedere l’uso della forza, ma solo se i migranti non rischiano. A
febbraio ci hanno sparato addosso, non abbiamo reagito perché trasportavamo persone
appena soccorse».
Avete a bordo anche i marò. E se si ripete un incidente come in India?
«Intanto bisogna vedere che cos’è successo, in India… I marò ispezionano e possono
intervenire: abbiamo regole d’ingaggio molto robuste. Ma queste barche non hanno
bandiera: sono criminali puri, da prendere e consegnare al magistrato italiano. Se a bordo
c’è una bandiera, come accade con gli egiziani, prima parliamo con le autorità del Cairo».
Quanto durerà?
«Finché dureranno carestie e guerre, terrorismo e analfabetismo. Il mio mestiere è dare la
caccia agli scafisti: io curo i sintomi, non le cause».
del 23/10/15, pag. 7
Hillary Clinton sulla Libia: «È stato giusto
l’intervento americano»
Stati uniti. La candidata alla presidenza non sconfessa la sua attività, e
quella della Cia, a Bengasi
Luca Celada
Hillary Clinton ha passato la giornata di ieri sotto i riflettori della commissione parlamentare
che indaga sull’attacco dell’ 11 settembre 2012 alla base diplomatica americana di
Bengasi. La vicenda che costò la vita all’ambasciatore Usa Christopher Stevens, al suo
assistente Sean Smith e a due contractor impiegati dalla Cia, Tyrone Woods e Glen
Doherty, è stata già oggetto di sette inchieste.
È perfino la terza volta che l’ex segretario di stato viene indagata a riguardo, ma è la prima
volta da quando è candidata per la Casa bianca. Per Clinton l’udienza davanti ad un
plotone di parlamentari ostili ha offerto l’opportunità di mostrarsi in atteggiamento pacato e
composto e rispondere imperturbabile anche agli attacchi più diretti degli inquirenti; in altre
parole, di apparire «presidenziale» in diretta Tv, ancora più di quanto fatto nel recente
dibattito di candidati democratici. Il presidente della commissione, il repubblicano Trey
Gowdy ha ricordato ieri i punti chiave della tesi «di accusa» secondo la quale un
segretario di stato incompetente avrebbe inviato un diplomatico in una regione ad alto
rischio senza adeguate precauzioni, ignorato le sue ripetute richieste di rafforzare la
sicurezza e, consumata la tragedia, addossato la responsabilità dell’accaduto a
subordinati e pubblicamente attribuito i fatti ad una rivolta imprevedibile scatenata dal
video satira su Maometto che in quei giorni aveva provocato sommosse popolari in varie
capitali nord africane.
Secondo i repubblicani la Clinton d’accordo con Obama avrebbe pubblicamente sostenuto
questa tesi poiché la «verità» di un attacco terrorista avrebbe vanificato la narrazione della
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dottrina Clinton-Obama sulla Libia come success story di democrazia esportata in un
momento alquanto inopportuno: due mesi prima delle elezioni presidenziali del 2012.
Gowdy che ieri ha esordito con l’inevitabile omaggio agli «eroi americani» che a Bengasi
hanno dato la vita ha affermato in apertura di udienza che il loro sacrificio esige giustizia e
una verità che la Clinton e i democratici sono tuttora reticenti nel rivelare, sottolineando
come un importante risultato dell’attuale inchiesta sia stata la scoperta delle famose email
più o meno riservate custodite sul computer di casa della Clinton.
La deposizione di ieri ha avuto uno svolgimento prevedibile, con le solite interrogazioni dei
repubblicani ammantati di sacra quanto insincera, indignazione a cui Hillary Clinton ha
ribattuto secondo il copione apparentemente ben ripassato dallo staff della sua campagna.
Ma se sugli scanni repubblicani abbondava l’ipocrisia, in definitiva era forse sulla
coscienza di Hillary che pesava la colpa più grave, quella dell’intervento libico per cui i
repubblicani con disinvolta malafede ora la criticano.
E molta della sua difesa verteva sull’affermazione dell’interventismo americano. Quello «a
fianco e su richiesta degli alleati arabi ed europei» contro il «sanguinario dittatore
Gheddafi» in una Libia poi presto abbandonata a se stessa. E in generale alla politica di
ingerenza e «nation building», specificamente nello scacchiere medio orientale a difesa
dei soliti interessi nazionali.
La sua difesa è stata la difesa della politica di «presenza diplomatica» americana di cui «il
mio amico» Stevens, l’ambasciatore ucciso, era fervente fautore. Stevens era stato a
Bengasi dal marzo al novembre del 2011 come inviato presso le forze ribelli allora
impegnate nella rivolta contro Gheddafi, prima di venire nominato di li a qualche mese,
ambasciatore a Tripoli dalla Clinton.
Le sue iniziative erano «diplomazia di ventura, come quella del diciannovesimo secolo» ha
affermato a più riprese ieri Hillary. Il suo ritorno a Bengasi era una missione di
avanscoperta per sondare e stabilire rapporti con «forze moderate» e favorire il «ruolo
cruciale Usa nelle prime elezioni democratiche di quel paese». Un esercizio di «nation
building» gestito da un avamposto della Cia, insomma, che malgrado gli esiti disastrosi —
per le vittime di quel giorno e per l’intera Libia – Hillary Clinton non ha accennato a
sconfessare.
Del 23/10/2015, pag. 12
La passione a rischio dei cooperanti
Cesare Tavella è stato ucciso a fine settembre in Bangladesh in un attacco rivendicato
dall’Isis. Giovanni Lo Porto, prigioniero di Al Qaeda, è morto sotto il fuoco amico di un raid
Usa insieme a un suo collega americano.
Le statistiche sugli attacchi subiti degli operatori umanitari vengono raccolte dall’Aid
Worker Security Database, che registra gli incidenti come somma dei vari tipi di attacchi
(rapimenti, ferimenti e uccisioni). Secondo dati aggiornati a settembre 2015, il Paese con
maggior numero di incidenti ai danni di operatori umanitari dal 1997 a oggi è stato
l’Afghanistan (454 casi), seguito da Sudan (236), Somalia (216) Pakistan (94), Siria (92) e
Sud Sudan (87). C’è da notare che la Siria non registrava un solo caso prima del 2011
(prima dell’inizio della guerra civile) mentre l’Iraq risulta leggermente meno pericoloso,
avendo avuto 57 incidenti. Finora l’anno peggiore è stato il 2013, con un totale di 474
vittime di attacchi, di cui 155 mortali. Nel 2015 gli uccisi sono finora stati 54. Difficile fare
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stime su quanti siano realmente i cooperanti italiani: il ministero degli Esteri ha un suo
elenco, che comprende oltre cento associazioni e ong che ricevono finanziamenti da
Roma sulla base di singoli progetti. In molti casi, inoltre i nostri connazionali lavorano
come cooperanti per realtà non italiane, come nei casi di Tavella e Lo Porto.
“La figura del cooperante è molto cambiata rispetto agli anni ’80 e ’90. Non c’era la
formazione universitaria e si arrivava a questo settore quasi per caso, magari dopo aver
fatto tutt’altro lavoro e solo perché ci si trovava in Africa”, osserva Claudio, 35 anni,
funzionario europeo con alle spalle esperienze umanitarie in India e Africa centrale.
“Mediamente le ong italiane non pagano bene, tanto che molti, a inizio carriera, sono
costretti partire a proprie spese”. E poi, quando si arriva sul campo, un giovane che ha
sognato di passare finalmente all’azione si trova di fronte a una realtà ben diversa: “Molti
compiti operativi di una ong vengono affidati allo staff locale, a lui toccano piuttosto compiti
di coordinamento. Cioè un lavoro davanti al computer del suo ufficio”. Impegno umanitario
significa sempre essere dalla parte della ragione? È cauto Egidio Dansero, docente di
Cooperazione allo Sviluppo dell’Università di Torino. “Le ambiguità ci possono essere, ma
rimangono casi singoli. Quello del non governativo è un mondo vasto ed eterogeneo, che
spazia da professionisti con qualifiche specialistiche fino ai classici volontari non pagati”.
Dansero ricorda ad esempio come sugli statunitensi peace corps (associazione di
volontari che opera nei Paesi in via di sviluppo), pesano da tempo le accuse di essere
strumenti dell’intelligence Usa. “Gli operatori umanitari, soprattutto se inesperti, possono
finire vittima di un gioco più grande di loro”, conclude il professore riferendosi al caso di
Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, rapite e poi liberate in Siria lo scorso anno dietro il
pagamento di un riscatto.
Del 23/10/2015, pag. 23
Le famiglie italiane della jihad in fuga nel
nome del Califfato
Non c’è solo “Fatima”, la giovane donna che ha fatto convertire i
genitori Una decina di coppie ha lasciato il Paese con i figli per andare
in Siria
PAOLO BERIZZI
LA STORIA
PARTONO per il Paradiso Nero le famiglie della jihad. Si mettono in auto la notte, i bagagli
di un pezzo di vita (italiana) appena disfatta, e raggiungono le terre promesse
dell’autoproclamato Stato islamico. Lo «Stato perfetto», per dirla con l’iperbole su Skype di
“Fatima”, alias Maria Giulia Sergio. Genitori e figli. Un genitore coi figli. Coppie di sposi e
fidanzati. Coppie miste. Sono i primi passi di una nuova migrazione silenziosa attirata dal
marketing dei capi del Califfato: radicalismo islamico e welfare dei servizi alla persona.
Un’offerta rivolta ora non più soltanto al singolo, ma allargata – è il salto di qualità – ai
nuclei familiari. Nuclei composti prevalentemente da immigrati di seconda generazione
(soprattutto nordafricani e balcanici), cresciuti in Italia ma pronti a partire, mogli e figli al
seguito, verso Siria e Iraq. Negli ultimi mesi all’esca della più recente strategia di
reclutamento utilizzata dai colonnelli di Al Baghdadi – un alto funzionario di Polizia la
chiama così, «promozione modello discount da Stato sociale virtuale» - hanno già
abboccato una decina di famiglie, residenti, o comunque con base, in Italia. Il meccanismo
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di riproduzione di questi casi è finito sotto la lente degli investigatori dell’Antiterrorismo e
della nostra Intelligence. Ecco alcune storie oggetto di indagini.
K.M ha 30 anni, marocchino, disoccupato. Sua moglie, B.A., è italiana: due anni in più.
Hanno tre figli piccoli, 6, 4 e 2 anni. Il più grande va a scuola, la seconda all’asilo. Fino a
metà marzo la famiglia vive in un bilocale a piano terra in una frazione di Lecco. Lui sbarca
il lunario. Raccontano che l’anno scorso ogni tanto lo si vedeva alla preghiera del venerdì
nel “capannone di Chiuso” (dal nome della frazione): un centro di preghiera sulla strada
Lecco- Bergamo. Il Centro culturale Assalam, l’associazione culturale islamica radicata da
anni a Lecco, 500 soci, l’ha acquistato da un privato. Si ritrova qui adesso la maggior parte
dei quasi 2mila musulmani della provincia. Tra i fedeli – ma questa è la faccia buona
dell’Islam, quella che rifiuta ogni forma di fanatismo - ci sono anche italiani convertiti. B.A.
è una di loro. Di più: sposa un uomo che decide di unirsi all’Is portando con sé moglie e
prole. Gli 007 dell’Antiterrorismo K.M. lo tenevano d’occhio da un po’. A metà marzo il tran
tran lecchese si interrompe. La famiglia mista parte in auto. Rotta terrestre: Balcani,
Turchia. Destinazione finale, Siria. Un lungo “viaggio della speranza”, capolinea i territori
controllati dall’Is. Dove vive oggi la famiglia di K.M.? Forse Raqqa, forse Al Bokamal, nella
provincia di Deyr az Zor. Mondi segreti a 3390 km da Lecco.
«Il Corano invita al rispetto delle culture, non alla violenza». Parola di Hatem Sobh, imam
del centro Assalam. L’ultima grande occasione in cui islamici e cattolici hanno pregato
insieme nel “capannone di Chiuso” è stata la cerimonia di addio alle tre bambine uccise
dalla madre, Edlira Dobrushi, lo scorso 9 marzo nello stesso paese della moschea. Pochi
giorni dopo K.M. e famiglia partono per diventare cittadini dell’Is.
Dal Lario alla Svizzera passando per l’Abruzzo. Dai pugni ai kalashnikov. L’ultimo post sul
profilo fb di Stefano Costantini, pugile professionista da 544 like - è del 18 settembre 2013.
C’è la foto di un diploma della Federazione svizzera di boxe. Quattro mesi prima un utente
gli ha scritto “Bravo Stefano! Però usa più colpi dritti”. Risposta: “Ok, farò!”. E’ stato di
parola, Stefano: sceso dal ring, si è inabissato. Dalla bandiera italoelvetica a quella nera
del Califfato. Con moglie e figlio. Riavvolgiamo il nastro: il nome di Costantini, 19 anni,
nato a San Gallo da immigrati abruzzesi, passaporto italiano, compare all’inizio dell’anno
nella lista dei foreign fighter italiani (oggi sono 87) presentata dal ministro Alfano. Ma
adesso si sa di più. Da atleta single, sotto il segno dell’Is, Costantini mette su famiglia.
Dall’Italia si trasferisce in Siria. A convincerlo a fare il «grande passo» – stando agli
investigatori – sarebbe stata la moglie, 25enne tedesca di origine turca. La donna, dopo
avere partorito, avrebbe insistito con il boxeur facendo pesare lo stesso folle ragionamento
propagandato via Skype a genitori e sorella da Maria Giulia Sergio, terrorista in Siria
insieme al marito Aldo Kobuzi. «Nello Stato islamico non schiavizziamo le donne, le
onoriamo». Settembre 2014. Costantini si imbarca con l’auto al porto di Ancona: poi
Grecia, poi Turchia – dove a attenderlo c’è la moglie. E infine Siria. «Usa il tuo sorriso per
cambiare il mondo, non lasciare che sia il mondo a cambiare il tuo sorriso». Così scriveva
il pugile su Fb il 23 giugno 2013. La guerra santa formato famiglia doveva ancora
cominciare. Gli analisti la chiamano “rivincita sull’Occidente”. Che cos’è? «Nella mente di
queste famiglie – ragiona una fonte del Viminale – l’Is non è un’entità statuale astratta, ma
il luogo ideale dove trovare riparo dalle “contraddizioni” vissute per potersi mantenere in
Italia. La proposta dell’Is, con il suo welfare smerciato, diventa un richiamo irresistibile». Si
ritorna a Lecco. Valbona ha 30 anni, albanese, casalinga. Nel 2013 si converte alla jihad e
rompe con il marito. A dicembre 2014 parte per la Siria portando con sé il figlio di 7 anni
(ha anche due femmine, 11 e 12 anni). Afrim, anche lui albanese, fa denuncia ai
carabinieri: dice di avere inseguito moglie e figlio per cercare di fermarli. Ma un posto di
blocco dell’Is glielo avrebbe impedito. Dov’è oggi Valbona? «In Siria la aspettavano», sono
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convinti gli investigatori. «Voleva combattere. Forse ci è riuscita, magari si è risposata con
un terrorista…». Una nuova vita nel Paradiso Nero.
Del 23/10/2015, pag. 13
Cresce l’ossessione del nemico e il “fuoco
amico” uccide per errore
Psicosi - Tre casi in pochi giorni: ragazzi colpiti perché scambiati per
attentatori
di Cosimo Caridi
In alcune zone d’Israele e nelle colonie dei Territori occupati, la diffusione delle armi
automatiche è paragonabile a quella delle auto. Si vive l’atmosfera della frontiera
americana quando un uomo con la pistola poteva diventare sceriffo, giudice e boia.
Dall’inizio degli attacchi con i coltelli, gli israeliani sono stati incoraggiati a girare armati.
Netanyahu ha più volte ringraziato chi, civile o militare, aveva “neutralizzato” gli attentatori.
Ma lasciare ai singoli l’arbitrio di identificare un terrorista ha già provocato diverse vittime
innocenti.
Mercoledì notte lo studente di una yeshiva, scuola rabbinica, è stato ucciso da un soldato.
Il giovane, originario del Daghestan, aveva terminato il servizio militare in Israele e
lavorava come guardia di sicurezza in un asilo nido. Il 28enne era a bordo di un bus, nella
zona occidentale di Gerusalemme, sul quale sono saliti due soldati armati. Un breve
scambio di battute e poi gli spari. Secondo la ricostruzione della polizia, lo studente
avrebbe chiesto ai militari di identificarsi, i soldati gli avrebbero rivolto la stessa domanda.
Alcuni testimoni riferiscono che avrebbe risposto “sono dell’Isis”, mentre altri dicono
avrebbe chiesto retoricamente: “che cosa sono? L’Isis?”. I soldati lo avrebbero ucciso
perché pensavano fosse un terrorista. Sempre secondo la polizia, anche la guardia
considerava i militari possibili attentatori. Il giovane, si è poi scoperto, non era armato. Non
è il primo caso in cui viene ucciso un civile perché scambiato per un attentatore. Domenica
sera Heftom Zarhum, 29 anni, originario dell’Eritrea, assiste all’attacco di un palestinese,
alla stazione degli autobus a Beersheva, e tenta di scappare. Una guardia giurata gli
spara, pensava fosse un complice. Il rifugiato politico finisce a terra sanguinante, la folla
infierisce. La caccia al terrorista ha fatto un altro ferito innocente la settimana scorsa. Uri
Rezken, ebreo israeliano, è stato accoltellato alle spalle da un altro ebreo, convinto che
Rezken fosse possibile attentatore palestinese.
La paura causata dalle aggressioni con i coltelli, cavalcata da politici e commentatori, è
diventata ben presto nevrosi. Chiunque sia scuro di pelle, o abbia un accento marcato,
diventa un possibile terrorista, in uno Stato fatto di profughi e che trasformò le differenze
culturali della popolazione in forza innovativa. Netanyahu cerca di creare coesione
definendo un nemico: i palestinesi, l’Iran, l’Isis. Nelle roccaforti del Likud e di Focolare
Ebraico, che fa parte della coalizione di governo, gli elettori non parlano di palestinesi, ma
di arabi, benché quasi metà degli ebrei israeliani sono mizrahi, cioè provenienti dal mondo
arabo. La strategia palestinese non sembra più illuminata. Ieri Adnan Ghaith, uno dei
portavoce di Fatah, ha dichiarato: “Nessuno può controllore cosa sta accadendo e la
situazione non potrà che peggiorare”. Poche ore prima aveva parlato anche Khaled
Mashaal, leader di Hamas “i palestinesi si stanno ribellando per ottenere la libertà. Non
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aspettatevi che si fermino, che abbandonino la resistenza”. Nonostante ciò il segretario di
Stato Usa Kerry, si è detto “moderatamente ottimista”. Speriamo sappia qualcosa che noi
non vediamo.
del 23/10/15, pag. 7
Hashem Azzeh, una vita resistente
Territori occupati. E' morto il medico palestinese, sostenitore della non
violenza, che per 20 anni ha raccontato Hebron e della sua famiglia
circondata da coloni e soldati israeliani. Due giorni fa ha avuto un
malore, a causa dei posti di blocco è stato costretto ad andare a piedi
all'ospedale ma a Bab Zawiyeh ha trovato ad attenderlo una nuvola di
gas lacrimogeno..
Michele Giorgio
GERUSALEMME
Chiunque volesse capire cosa significa vivere a Hebron sotto occupazione, circondato da
posti di blocco militari e da coloni israeliani decisamente poco amichevoli, doveva andare
a casa del dottor Hashem Azzeh nel quartiere di Tel Rumeida. Per comprendere quella
realtà doveva ascoltare i racconti di vita quotidiana di questo medico palestinese colto e
dai modi gentili, contrario alla violenza, divenuto nel corso degli anni l’incarnazione nella
sua città del “sumud”, la resilienza palestinese nelle condizioni più dure. «Non me ne
vado, non riusciranno a cacciarmi da casa mia», ripeteva. La sua stessa esistenza è stata
un atto di resistenza. Hashem Azzeh, 54 anni, se n’è andato due giorni fa, è morto mentre
cercava di raggiungere l’ospedale tra lo sgomento della famiglia e degli amici, palestinesi
e stranieri.
Mercoledì Azzeh aveva accusato forti dolori al petto. Ha capito subito che doveva correre
all’ospedale più vicino. La sua famiglia ha chiamato un’ambulanza che non è stata in
grado di raggiungere l’abitazione a causa dei posti di blocco dell’esercito, ancora più rigidi
dopo l’inizio della nuova Intifada. Il medico non ha avuto scelta. Si è incamminato verso
Bab Zawiyeh, che divide il settore H1 palestinese dal settore H2 controllato dai militari
israeliani. Lì ha trovato i soldati che sparavano lacrimogeni verso i giovani che lanciavano
sassi, in protesta per l’uccisione di due ragazzi palestinesi avvenuta la sera prima.
«In quell’aria satura di gas lacrimogeni mio zio, già molto debole, ha avuto una crisi
respiratoria. È crollato perdendo conoscenza», raccontava ieri Sundus, la nipote.
Soccorso, il dottor Azzeh è giunto all’ospedale in condizioni disperate. I medici hanno
potuto fare ben poco per salvarlo. È difficile stabilire quanto i lacrimogeni abbiamo
contribuito alla morte del medico palestinese, con ogni probabilità colpito da un infarto.
Certo un contributo alla sua morte è venuto da quei posti di blocco che da oltre venti anni
circondano la sua abitazione, dai controlli asfissianti attuati a Hebron anche nei confronti
del personale sanitario palestinese. Se fosse stato portato subito in ambulanza
all’ospedale, Azzeh avrebbe avuto qualche possibilità in più di salvarsi.
Ieri in tanti lo hanno accompagnato nell’ultimo viaggio. Gente in lacrime, volti segnati dal
dolore, palestinesi e stranieri. Tutti uniti nel ricordare la sua ferma decisione di non
abbandondare la sua abitazione, anche se ogni giorno solo per andare a comprare il latte
alla bottega accanto casa, la sua famiglia era (e sarà ancora) costretta a passare per
metal detector e controlli. Ogni volta, ad ogni passaggio. Un trattamento al quale non
devono sottoporsi i “vicini”, i coloni che vorrebbero vedere questa famiglia palestinese
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lasciare Tel Rumeida. «Gli avevano offerto soldi per andare via – ricorda Jawad, un
giovane attivista di Hebron –Hashem però aveva sempre rifiutato. Ripeteva che se tutti i
palestinesi partissero o accettassero di vendere casa ai coloni, sarebbe la fine per Hebron
e per il nostro popolo».
Azzeh organizzava “visite guidate” per giornalisti e attivisti, durante le quali con toni mai
accesi spiegava cosa avviene a Hebron e intorno alla sua abitazione. Con filmati
amatoriali ha raccontato gli abusi subiti dai figli e dalla moglie, da tutta la sua famiglia, ai
quali il medico ha sempre risposto con le parole, senza violenza, pronunciando la stessa
frase «Non me ne vado». E con quelle parole risponderanno in futuro la moglie e i quattro
figli, il maggiore ha 17 anni, il più piccolo appena cinque.
Ieri a Bet Shemesh un israeliano è stato ferito con una coltellata da un palestinese, poi
ammazzato dalla polizia. Poche ore prima un ebreo era stato ucciso da una guardia di
sicurezza, dopo aver cercato di prendere l’arma a un soldato, perchè scambiato per un
palestinese. Sono decine i giovani arrestati da polizia ed esercito nelle ultime 48 ore a
Gerusalemme Est e in Cisgiordania, oltre 800 dall’inizio di ottobre secondo fonti
palestinesi. «Questa crisi non sarebbe scoppiata se i palestinesi avessero avuto la
speranza di un proprio Stato – ha detto ieri al Consiglio di Sicurezza il vice segretario
generale dell’Onu, Jan Eliasson – Se i palestinesi non vivessero sotto un’occupazione
soffocante e umiliante che dura da quasi mezzo secolo».
del 23/10/15, pag. 6
Frequenze tv, Tsipras sfida gli oligarchi
Grecia. In parlamento la legge del governo sul settore televisivo,
segnato da caos, concetrazioni di proprietà e conflitti d’interesse
Teodoro Andreadis Synghellakis
Syriza ha voluto fare un comunicato ad hoc, per precisare che «il disegno di legge che è
stato presentato in parlamento, rappresenta il passo necessario per la regolamentazione
del settore radiotelevisivo», poiché, dopo venticinque anni, «arriveranno delle regole
trasparenti, capaci di garantire realmente il funzionamento delle tv e delle radio del
paese». Alexis Tsipras era stato chiaro, in campagna elettorale aveva promesso che
questa sarebbe stata una delle priorità del governo, ed ora non vuole smentirsi.
Nel nuovo provvedimento che dovrebbe essere votato entro domani dal parlamento di
Atene, vengono poste le basi per dei limiti reali riguardo al possesso di canali televisivi
privati. Per assicurarsi le licenze, i proprietari dovranno pagare delle cifre corrispondenti ai
prezzi di mercato, e non contributi simbolici come avvenuto sino ad ora.
Prima quanto dovuto alla Stato
Le emittenti televisive potrebbero essere, a quanto si apprende, da cinque a otto, e le
licenze verranno concesse dal Consiglio Nazionale Radiotelevisivo, tramite un concorso
internazionale.
Vi potrà partecipare solo chi ha versato quanto dovuto allo stato. Particolare non
trascurabile, dal momento che molti canali televisivi greci sono seriamente esposti, sia
verso le banche, che nei confronti del ministero dell’economia. «Il governo è pronto ad
applicare quanto promesso, a creare una realtà chiara e trasparente», ha dichiarato la
portavoce del governo, Olga Jerovassìli, la quale ha aggiunto che «il numero dei permessi
sarà certamente limitato, proporzionato a quella che è la realtà del mercato ellenico».
La garanzia di trasparenza, secondo il governo, verrà data dall’obbligo, per gli azionisti
che deterranno più dell’1% del capitale complessivo, di poter acquistare solo delle azioni
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nominali. Allo stesso tempo, la diffusione del segnale digitale, smetterà di essere un
vantaggio esclusivamente in mano ai privati, e la tv pubblica ERT acquisterà, in questo
settore di fondamentale importanza, piena autonomia.
Molto verrà definito in seguito dai ministri competenti, ma l’intenzione primaria del governo
è non permettere agli oligarchi del sistema mediatico, di continuare a creare un do ut des
non chiaro e difficilissimo da controllare, attraverso appalti pubblici, società di costruzioni,
il possesso di flotte e squadre di calcio. Lo scopo, cioè, è riuscire a scardinare un sistema
di potere che ha garantito favori reciproci, comodi silenzi e sostegni, a volte assai
inspiegabili. Prova ne è la decisione della quasi totalità del sistema dell’informazione, nel
luglio scorso, di schierarsi a favore del «sì» al referendum, contrastando duramente la
linea del governo Tsipras, che chiedeva di dire «no» ad una austerità sempre più
selvaggia.
I carrozzoni bancari e politici
«La radice di gran parte dei problemi si trova in carrozzoni non sostenibili, nei prestiti, in
un groviglio sotterraneo di interessi e di scambi col sistema bancario e politico», ha
dichiarato il ministro alla presidenza Nikos Pappàs, uno dei più stretti collaboratori di
Alexis Tsipras.
Il Quotidiano dei Redattori (Efimerida Syntakton) sottolinea che ci potranno finalmente
essere dei controlli reali sulla provenienza dei capitali investiti nel settore radiotelevisivo,
garantendo anche i diritti di chi lavora nella varie imprese del settore. In un momento in
cui, tra l’altro, tutte le grandi reti televisive del paese, stanno chiedendo coni insistenza ai
propri dipendenti di accettare nuovi tagli agli stipendi, che rispetto a cinque anni fa (per chi
è riuscito a mantenere il proprio posto di lavoro) sono stati decurtati di più del 30%.
È arrivato il presidente francese
Ieri, nel frattempo, è arrivato ad Atene per una visita di due giorni, il presidente francese
Francois Hollande. È stato accolto da Alexis Tsipras all’aeroporto Elefthèrios Venizèlos e
subito dopo ha incontrato il presidente della repubblica, Prokòpis Pavlòpoulos. Come è
noto, la Francia ha sostenuto attivamente Atene nel corso delle trattative con i creditori,
mandando in Grecia anche dei propri tecnici per aiutare il governo ellenico a formulare le
controproposte finali.
Nel nuovo incontro di oggi con Tsipras e nel corso del suo intervento al parlamento di
Atene, ci si attende che Hollande ribadisca il suo sostegno alla necessità di un
alleggerimento del debito pubblico greco, e che faccia anche dei riferimenti di sostanza
alla necessità di un’ Europa più democratica e solidale.
del 23/10/15, pag. 6
Il presidente portoghese ha deciso, governo a
Passos Coelho
Portogallo. L'incarico va al centrodestra pro austerity ma è un esecutivo
di minoranza. L'Europa può tirare un sospiro di sollievo in vista delle
elezioni spagnole. Sinistre sulle barricate: approveremo la sfiducia alla
prima occasione utile
Goffredo Adinolfi
LISBONA
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Finalmente, dopo giorni di attesa, ieri in tarda serata il presidente della repubblica
portoghese Annibal Cavaco Silva ha annunciato quella che, molto probabilmente, è stata
la decisione più difficile del suo doppio quinquennato. Non stupisce, date le incognite e la
delicatezza della decisione, ci siano voluti quasi venti giorni. Alla fine il nome è: Pedro
Passos Coelho.
Molte le ragioni alla base dei tentennamenti del presidente e, peraltro, molte sono state le
opzioni sul suo tavolo. Va anche specificato che, contrariamente a quanto succede in
Italia, in Portogallo il governo non ha bisogno della fiducia esplicita del parlamento per
entrare in funzione.
Dal 1976 a oggi vari sono stati i governi di minoranza, tra cui uno nominato dallo stesso
Cavaco Silva: quello del socialista José Socrates (2009–2011).
Come abbiamo visto le pressioni interne e internazionali sono state fortissime. Molti
membri del Partito Popolare Europeo, riunito in questi giorni a congresso a Madrid, hanno
accusato i socialisti di lavorare per costruire una alleanza di perdenti e di estremisti. Come
sempre si minaccia lo spettro della recessione, della crescita dei tassi di interesse e della
fuga degli investitori, ma in realtà si teme il contagio di quella che si annuncia essere una
nuova formula politica. Già, evidentemente lo spettro lusitano si aggira per tutto il
continente. Tra i più preoccupati c’è sicuramente il premier spagnolo Mariano Rajoy e
infatti i media spagnoli hanno seguito gli avvenimenti del loro vicino con grandissima
attenzione. Con le elezioni politiche alle porte è evidente come il vento esquerdista possa
facilmente spirare da ovest verso la Spagna. Intanto si riunirà questa mattina per la prima
volta il plenario della tredicesima legislatura. I numeri esatti su cui possono contare i partiti
sono questi: Coligação (l’alleanza di centro destra Partido Social Democrata Psd e Centro
Democrata e Social Partido Popular Cds-Pp) 107 deputati su 230 (-9 dalla maggioranza di
116), Partido Socialista (Ps) 86, Be 19 e Pcp 17 (+8).
L’accordo tra Partido Comunista Português (Pcp), Bloco de Esquerda (Be) e Ps è stato
sostanzialmente concluso. Anche se, al momento, i dettagli non sono ancora noti, si sa
che i tre hanno dovuto cedere molto sui rispettivi programmi.
L’unica cosa di cui si è certi è che il primo obiettivo è quello di controbilanciare politiche
che in questi anni hanno fortemente pregiudicato i ceti più deboli del paese.
Il fatto che la scelta sia ricaduta sul centro-destra non significa che tutte le trattative siano
state inutili, anzi.
I tre leader della sinistra, Catarina Martins, Jeronimo de Sousa e Antonio Costa hanno già
avvertito che sfiduceranno il nuovo esecutivo non appena possibile obbligando quindi il
capo dello stato a nominare un nuovo primo ministro.
Del 23/10/2015, pag. 24
Crisi, scandali e colpi bassi in Brasile è
assedio a Dilma e anche Lula la sfiducia
OMERO CIAI
DAL NOSTRO INVIATO
BRASILIA
IL PARLAMENTO del Brasile è uno dei luoghi più originali del mondo. Siccome può
entrarci chiunque, basta presentare un documento, i suoi corridoi sono spesso attraversati
da cortei interni di manifestanti che protestano. Ci sono gli indios dell’Amazzonia che
hanno qualche problema da risolvere; femministe contro una nuova legge antiaborto;
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operai licenziati; ambientalisti: un putiferio di contestatori in cerca di ascolto e soluzioni
come in una immensa agorà. Qui, l’opposizione al governo di Dilma Rousseff, cerca, da
settimane, i numeri per ottenere l’avvio della procedura di impeachment della presidenta
dopo gli scandali politici — Petrobras su tutti — e le grandi manifestazioni in tutte le
principali città del Paese che hanno chiesto una svolta in una situazione che diventa ogni
giorno di più ingovernabile.
L’assedio a Dilma è ormai un’agonia quotidiana in un contesto che sembra davvero quello
della tempesta perfetta: crisi economica, crisi politica (il governo non ha più maggioranza
parlamentare), e crisi istituzionale (almeno un quinto dei 500 deputati del Congresso sono
coinvolti nelle indagini di corruzione). L’altro ieri è stata presentata al presidente della
Camera, Alvaro Cunha, una nuova richiesta per la procedura di impeachment che dovrà
valutare nei prossimi giorni. Cunha è un leader degli evangelici, è diventato presidente
della Camera perché il suo partito, il centrista Pmdb, era alleato di Dilma. Ora è un suo
nemico. E nell’esecutivo si teme che possa fare qualsiasi cosa, anche per spostare
l’attenzione da una inchiesta che lo vede coinvolto e accusato di possedere fondi
provenienti dalla corruzione in almeno quattro conti segreti in una banca svizzera. Nel
parlamento brasiliano ci sono 28 partiti, molti piccoli e piccolissimi, che ballano da una
parte all’altra intorno ai tre maggiori (Pt, sinistra; Psdb, opposizione; Pmdb, centristi) e
quello che ieri sembrava improbabile, la messa in stato d’accusa di Dilma, domani
potrebbe diventare facilmente realtà.
I fronti della battaglia oggi sono almeno quattro. C’è il tribunale dei Conti che ha respinto il
bilancio delle spese del governo per il 2014. E sulla base del quale, per “irresponsabilità
istituzionale”, è stata presentata l’ultima richiesta di impeachment. C’è il tribunale
elettorale, che sta esaminando le denuncie sull’ultima campagna presidenziale (autunno
2014), nelle quali Dilma è accusata di uso di fondi illeciti. C’è il Parlamento. E c’è, infine, il
tribunale del Parana, dove prosegue “Lava Jato” (lava auto), la madre di tutte le inchieste
sulla corruzione politica. Gli scenari dell’accerchiamento alla presidenta sono due, ci
spiega Carlos Zarattini, vice capogruppo alla Camera del Pt. Se l’impeachment inizia in
Parlamento a cadere sarebbe solo lei e, particolare per nulla insignificante, a prenderne il
posto fino alla fine del mandato (2018) sarebbe il vice presidente Michel Temer,
esponente del Pmdb, stesso partito di Cunha, prima alleato e poi meno, del Pt di Lula. «E
sarebbe un golpe », ripete Dilma. Se invece l’impeachment inizia nel tribunale elettorale
cascano tutti e si va a nuove elezioni entro 90 giorni. Insomma una classica sceneggiatura
dove colpi bassi, ricatti, e prebende da basso impero in Parlamento la fanno da padroni. In
realtà l’altro problema sul palco del teatro politico è che l’opposizione è divisa sulla strada
da seguire per ottenere l’obiettivo della fine anticipata della presidenta. Aecio Neves, il
candidato dell’opposizione Psdb sconfitto da Dilma nell’ottobre scorso per una manciata di
voti, punta dritto alla messa in Stato d’accusa mentre il padre nobile dello suo stesso
partito, l’ex presidente Fernando Henrique Cardoso, invita alla calma, a evitare una rottura costituzionale e preferirebbe, forzando il tormento, le dimissioni di Dilma.
Isolata nella sua torre d’avorio presidenziale, l’elegante palazzo dell’Alvorada disegnato da
Niemeyer, Dilma Rousseff sa benissimo che, se anche riuscirà a sopravvivere alla
baraonda parlamentare, il suo destino lo deciderà l’economia. Dopo un fantastico
decennio di crescita il Brasile è entrato in una recessione che, per gli esperti, durerà
almeno due anni. La disoccupazione cresce e è previsto che entro febbraio 2016 superi la
soglia psicologica del 10%. Il real, la moneta brasiliana, si è già svalutato di oltre il 30% in
pochi mesi. Le maggiori agenzie internazionali di rating hanno derubricato il debito del
Brasile al limite dei bond spazzatura nonostante il governo continui a contenere il deficit
tagliando la spesa sociale. E qui scoppia l’ultima disgrazia di Dilma. Ormai è isolata
soprattutto nel Pt, il suo partito. «Tagli, tagli e ancora tagli. Non può continuare così
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Bisogna cambiare la politica economica, scegliere misure anticicliche, lo Stato deve
riprendere a investire », dice Carlos Zarattini. Lula, leader indiscusso della sinistra
brasiliana, ha chiesto la testa di Joaquim Levy, il ministro dell’economia liberista, scelto
anche con il suo appoggio da Dilma l’anno scorso per rimettere a posto i conti del bilancio
statale e calmare il nervosismo dei mercati. Ma lei, per ora, resiste. Convinta che solo
risanando si potrà poi ricominciare a crescere. Lula, invece, che non nasconde il suo
desiderio di ripresentarsi candidato alla presidenza non può rinunciare a quel che ha
costruito: i 30 milioni di brasiliani usciti dalla miseria, parte dei quali, senza i programmi
sociali dello Stato, rischiano di tornarci. Lo scontro è duro. E Lula, inseguito anche lui dai
giudici del “Lava Jato”, soprattutto per colpa di figli e cognate che avrebbero approfittato
della parentela per arricchirsi, viene ormai a Brasilia tutte le settimane per assediare,
perfino lui, la presidenta che scelse come erede. Cercò di convincerla già l’anno scorso a
non ripresentarsi per un secondo mandato, ora vuole commissariarla. Almeno sulla politica
economica. Intanto, stasera, estradato dall’Italia, torna per scontare la condanna a dodici
anni di carcere, Henrique Pizzolato, il banchiere del Mensaläo, il primo scandalo del partito
dei lavoratori, al potere dal 2002. E un altro caos è servito. Un’altra spina per Dilma.
L’opposizione festeggia convinta che ora Pizzolato parlerà ingrossando accuse, vere e
presunte. L’agonia continua.
del 23/10/15, pag. 1/8
Argentina
Domenica le presidenziali
Il lungo cammino del Kirchnerismo
Tommaso Nencioni
Que se vayan todos! Era il dicembre del 2001, e l’intera classe dirigente argentina
sprofondava nel grado zero della sua credibilità. Il Presidente De la Rúa aveva appena
scatenato una selvaggia repressione nel tentativo di porre un freno ai tumulti sociali che
scuotevano il Paese, giunto al culmine della stagione della grande espropriazione
neoliberista. Le ingenti privatizzazioni avviate da Menem negli anni Novanta sotto
l’ombrello del Washington consensus avevano già destrutturato l’apparato produttivo e
finanziario nazionale a vantaggio dei centri metropolitanidell’accumulazione, mentre lo
Stato perdeva la propria autonomia monetaria con l’ancoraggio fisso del peso al dollaro.
Nonostante un iniziale boom economico dovuto all’afflusso di capitali esteri, il Paese fu
travolto dal contagio delle crisi finanziarie che scossero la metà del decennio, dal Messico
all’Indonesia alla Russia. Il FMI concesse un prestito ponte al Paese, imponendo però una
severa cura austeritaria che condusse alla paralisi bancaria e ad una disoccupazione
esorbitante: l’Argentina costituì in breve il de te fabula narratur per l’Europa di oggi.
Que se vayan todos! Il movimento dei piqueteros bloccava le strade, e dalle assemblee di
quartiere e dalle fabbriche occupate e autogestite iniziava a prendere corpo l’alternativa
popolare. E così, uno dopo l’altro, caddero gli esponenti di punta del clan neoliberale che
aveva condotto il Paese alla catastrofe. Cadde De La Rúa (del quale si ricorderà una
sintomatica candidatura al selettivo club dell’“Ulivo Mondiale”, animato da D’Alema,
Clinton, Blair e dal capo della destra brasiliana, Cardoso); cadde dopo di lui il successore
ad interim Duhalde; e cadde, con le Presidenziali convocate per il marzo del 2003, il
vecchio Menem, che alla pratica delle relaciones carnales con gli Stati Uniti aveva dato il
primo input, per poi infeudare il Paese alle vestali dell’austerità. Ma non se ne andarono
tutti. Rimase in sella Néstor Kirchner, un avvocato sureño già impegnato nella difesa dei
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diritti civili, con alle spalle una lunga militanza nel peronismo oppositore alla dittatura,
vissuta in simbiosi con la moglie Cristina Fernández.
Il kirchnerismo, fin dalla prima elezione di Néstor, e poi con i mandati di Cristina, ha
significato innanzi tutto un’imponente opera di ri-definizione dello Stato-nazione, in piena
sintonia con quanto sperimentato in questo scorcio di millennio in altre realtà
latinoamericane. Rispondendo a differenti tradizioni politiche e retaggi culturali, il
neopopulismo ha saputo guidare con successo il contro-movimento dallo Stato prima
dittatoriale e poi aparente (Alvaro Garcia Linera) allo Stato post-neoliberale: la costruzione
dello Stato bolivariano in Venezuela, dello Stato Integral in Bolivia e dello Stato nacionalpopular in Argentina si è retta su di un processo convergente di riequilibrio tra il potere
della élite mercatista a quello dei movimenti popolari. Il kirchnerismo ha promosso la
riappropriazione da parte dello Stato della propria sovranità in materia monetaria,
energetica, assistenziale, educativa e infrastrutturale. Accentuato interventismo statale,
ingenti aumenti salariali e ristrutturazione del commercio estero lungo l’asse sud-sud
hanno costituito il volano dell’economia nazionale, accanto ad un rigido controllo sui
capitali. L’ultimo grande atto della Presidenza di Cristina è stato l’approvazione di una
legge che impone un consenso parlamentare dei 2/3 per poter avviare processi di
privatizzazione nei settori strategici. Nonostante le minacce provenienti dai fondi
speculativi “avvoltoio”, le politiche anticicliche messe in campo hanno permesso di saldare
il debito rinegoziato a seguito del default. Se è vero che l’assidua ricerca del partenariato
commerciale cinese ha eccessivamente legato le sorti del Paese al traino del gigante
asiatico, gli impulsi diretti all’allargamento del mercato interno sembrano aver fornito un
parziale correttivo al raffreddamento della domanda estera.
Al contempo è stata avviata una grande operazione culturale volta a ri-significare in termini
progressivi lo spazio patriottico e la cultura nazionale. Il movimento popolare si è potuto
riappropriare, nell’arena del senso comune, della parola patria, dopo che per oltre un
quarantennio le classi dirigenti tradizionali avevano agevolato il saccheggio da parte dei
centri metropolitani dell’accumulazione capitalistica in nome dell’esigenza della difesa
della nazione dalla minaccia rossa. Il lascito originale del peronismo è stato oggetto di
rivalutazione critica in senso nazional-popolare da parte degli intellettuali organici allo
spazio kirchnerista. La memoria storica dei martiri della dittatura e l’azione di Madres de
Plaza de Mayo hanno piena cittadinanza nell’Argentina di oggi, mentre i responsabili del
Plan Condor sono perseguiti con una solerzia che non ha pari in tutto il Cono sur.
La costruzione dello Stato nacional-popular è proceduta di pari passi con il protagonismo
argentino nei vari processi di integrazione regionale e sub-continentale. L’atto che forse
più di ogni altro ha innescato il rinascimento politico della Patria Grande fu il no al progetto
di integrazione continentale ALCA opposto a Bush Jr., nel corso del vertice di Mar del
Plata del 2005, da Chávez, Kirchner, Lula e Tabaré Vázquez. Da allora in poi, non senza
crisi e contraddizioni, la solidarietà latinoamericana ha ricevuto un impulso crescente
verso la creazione di un blocco compatto in grado di fronteggiare la sfida egemonica di
Washington, fino a creare le condizioni per la Canossa statunitense nei confronti della
Cuba socialista.
L’azione di governo del kirchnerismo ha interagito con un vasto fronte popolare nella
società, composto da movimenti sociali tradizionali e sorti nel fuoco della grande rivolta del
2001, dalla militancia degli anni Settanta rianimata dopo la notte della dittatura e
l’emarginazione dell’età neoliberale, dall’attivismo giovanile, oltre che da un dosato e non
sempre facile compromesso con il notabilato peronista locale. Quest’ultimo versante è
forse il fomite delle principali contraddizioni. Se da un lato l’aver raccolto l’intera eredità del
peronismo ha permesso al kirchnerismo di stabilizzare il proprio ruolo nazionale e di
contare su di una struttura organizzativa di riferimento per l’intero Fronte, dall’altro la
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filiazione diretta dal menemismo di gran parte del gruppo dirigente Justicialista lascia
cadere più di qualche ombra sul futuro del movimento. Il candidato scelte dalle primarie,
l’ex governatore della provincia di Buenos Aires Daniel Scioli, è stato spesso freddo nei
confronti delle più incisive mosse di governo di Cristina, ed è riconosciuto come il più
sensibile, tra gli esponenti del Frente para la Victoria, ai richiami all’ordine delle élites
tradizionali. A bilanciare la figura di Scioli è stato perciò scelto come suo vice Carlos
Zannini, espressione della militanza kirchnerista pura. Ma il futuro dell’Argentina nacionalpopular rimane legato soprattutto alla capacità di tenuta del blocco sociale evocato dal
kirchnerismo nell’ultima decade, e dalla non dismessa leadership di Cristina.
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INTERNI
del 23/10/15, pag. 2
Il debito del Piemonte, il gelo con il premier e
l’asse con il governatore toscano Rossi
Bliancio. Un buco catastrofico ereditato dalla giunta del leghista Cota,
che a sua volta incolpava il governo Bresso
Marco Vittone
I primi segni di debolezza dell’apparentemente monolitico centrosinistra renziano arrivano
dal Piemonte. Il governatore Sergio Chiamparino ha ieri dato le dimissioni dalla guida della
Conferenza delle Regioni, ufficialmente a causa della difficilissima situazione del bilancio
del Piemonte, che ha un disavanzo da 5,8 miliardi. Lo stesso Chiamparino ha spiegato in
una nota che «una Regione in queste condizioni non può stare in testa alle altre. Devo
dedicarmi di più al Piemonte».
Il buco di bilancio della Regione, in assenza di decreto del governo denominato «salva
Piemonte», genera un piano di rientro draconiano: ottocento milioni di rata a copertura del
debito per sette anni, a fronte di una disponibilità di risorse di appena quattrocento milioni.
Le origini del debito del Piemonte sono note: Chiamparino eredita buchi di bilancio
catastrofici generati dalla giunta del leghista Roberto Cota che, a sua volta, incolpava la
precedente legislatura guidata da Mercedes Bresso.
Inoltre, circa tre miliardi dei quasi sei che compongono l’attuale buco sono imputabili
all’interpretazione del decreto 35 che la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima. «Se
non avessimo questo problema — ha dichiarato l’assessore regionale al bilancio Aldo
Reschigna — il debito sarebbe di 1,3 miliardi di euro e la rata annuale di 230 milioni, che
comunque, nonostante le difficoltà, abbiamo previsto di restituire». Il Piemonte in questo
primo anno di amministrazione Chiamparino ha dovuto affrontare dure polemiche relative
alla riorganizzazione del settore sanitario, ovviamente non indolore.
E forse le dimissioni, poi congelate, dell’ex sindaco di Torino derivano proprio dal nuovo
imprinting privatistico che il governo vuole portare avanti sulla sanità. Le tensioni tra
regioni e governo sono molto forti perché le prime si troverebbero di fatto a dover
fronteggiare l’ennesimo taglio delle risorse. Da qui, lo strappo del presidente del Piemonte,
il cui malessere pare abbia una origine nel rapporto ormai gelido con il governo e, in
particolare, alla lacunosa interlocuzione con il presidente del consiglio Matteo Renzi.
Chiamparino e l’attuale segretario del Partito democratico hanno sempre avuto un buon
rapporto, ma la deriva mercatista in campo sanitario del premier sarebbe indigeribile.
Le Regioni potrebbero subire un salasso insostenibile: il Fondo sanitario nazionale
scenderebbe alla soglia di sopravvivenza di 111 miliardi (ne erano stati promessi oltre 113
solo in luglio).
Non solo, l’intera gestione da parte delle Regioni del settore sanitario è stata ieri attaccata
dal governo, nella persona del ministro della Salute Beatrice Lorenzin, dell’Ncd, secondo
cui «la sanità delegata alle Regioni è stata un errore fatale». Il governatore della Toscana
Enrico Rossi ha risposto che «se il governo ha lo stesso giudizio della Lorenzin è bene si
prenda il settore e lo gestisca».
L’asse apparentemente anti renziano che prende corpo tra Toscana e Piemonte trova
conferma in una successiva dichiarazione, sempre di Sergio Chiamparino: «Io sposo in
pieno queste parole, tra cinque anni faremo un confronto e vedremo se la sanità della
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Toscana, dell’Emilia-Romagna o del Veneto saranno gestite meglio con una gestione
centralizzata. Queste parole sono la cartina di tornasole del giudizio che si ha sulle regioni
e un chiarimento serve a questo punto anche sul ruolo che si pensa che le regioni
debbano avere»
Del 23/10/2015, pag. 2
Deficit, sanità e addizionali la rivolta delle
Regioni Chiamparino si dimette
Il governo non neutralizza la sentenza sui disavanzi Orlandi: “Le
agenzie fiscali rischiano di morire”
ROBERTO PETRINI
Scontro aperto tra Regioni e governo su disavanzi e sanità. Mentre, dopo nove giorni dal
varo, si attende per oggi in Parlamento il testo della Stabilità (ieri sera era previsto l’invio al
Quirinale): atterrerà in commissione Bilancio del Senato dove ieri è stato eletto il nuovo
presidente Giorgio Tonini (Pd). Il clima resta teso e sullo sfondo riemergono le polemiche
su tasse, contante, Bruxelles. A riscaldare la situazione ieri le dimissioni, irrevocabili, del
presidente della Conferenza delle Regioni Chiamparino. Il motivo scatenante è il mancato
decreto legge, promesso dall’esecutivo, volto a neutralizzare dal punto di vista contabile,
la sentenza della Corte costituzionale che ha classificato come debiti le anticipazioni di
liquidità (circa 60 miliardi negli ultimi anni) ottenuti dalle Regioni per far fronte al
pagamento dei crediti vantati dalle imprese verso la pubblica amministrazione. La
sentenza della Consulta ha provocato l’intervento della Corte dei conti che ha bocciato il
bilancio del Piemonte e ha disposto di esporre in bilancio una perdita di 5,8 miliardi. La
sentenza rischia di avere un effetto- domino e, quando la magistratura contabile
esaminerà i bilanci delle altre Regioni, è possibile che emerga un disavanzo complessivo
di quasi 20 miliardi. Di qui la richiesta pressante di un provvedimento, avanzata ieri dalla
Conferenza delle Regioni, che prevede una modalità di contabilizzazione diversa in grado
di scongiurare il rischio del mega-buco.
Il malessere delle Regioni tuttavia investe anche i tagli alla sanità. Il fondo sanitario
nazionale, come è noto è stato aumentato a 111 miliardi, di un solo miliardo, contro i 3
previsti. Il miliardo tuttavia rischia di coprire solo la metà delle necessità previste che
ammontano a 2 miliardi (850 per i nuovi Lea, 500 per i nuovi farmaci, 450 per i contratti e
200 per i vaccini). Di qui la preoccupazione «A questo punto lo Stato si riprenda la
gestione della sanità», ha detto Chiamparino. Per i tagli extra sanità la situazione sembra
meno critica: evitata la stangata da 1,8 miliardi prevista nelle prime anticipazioni,
mancherebbero all’appello 900 milioni che potrebbero essere compensati con le giacenze
del fondo per il riacquisto di bond da parte delle Regioni.
La polemica si riaccende tuttavia sul blocco delle addizionali Irpef comunali e regionali
annunciato da Renzi. «Norma impossibile, al massimo una moral suasion», ha replicato
Chiamparino. Ma Renzi ieri è tornato sullo stesso punto: «Nessun Comune e Regione
potrà alzare le tasse, per legge!». Dal blocco tuttavia, come ha spiegato il sottosegretario
all’Economia Zanetti, saranno escluse le Regioni in deficit sanitario obbligate all’aumento
delle addizionali o, in alternativa, dei ticket (8 Regioni potrebbero farlo).
Preoccupazione emerge anche dal fronte degli atenei. Il Cun (Consiglio universitario
nazionale) ha preso posizione sulla riduzione progressiva dei finanziamenti alla ricerca e
la riduzione del numero dei ricercatori che ha definito «allarmante ».
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Torna infine in scena la questione dei dirigenti dell’Agenzia delle entrate in attesa di
consorso, dopo l’azzeramento di 767 funzionari. «Dalla contrattazione è scomparso il
comparto agenzie fiscali che rischiano di morire. Un’esperienza sociologica che siano
rimaste in piedi, solo per la dignità delle persone che vi lavorano», ha denunciato Rossella
Orlandi, direttrice dell’organismo.
Del 23/10/2015, pag. 2
Retromarcia anche sulle slot machine
E il canone Rai si pagherà da giugno
VALENTINA CONTE
ALDO FONTANAROSA
Dopo la casa, i giochi. Le critiche alla manovra costringono il governo alla seconda
retromarcia in pochi giorni. «I punti gioco saranno ridotti a 15 mila» da 22 mila, ha
annunciato ieri Renzi. Reintrodotta anche la Tasi su ville, castelli e abitazioni signorili (se
figurano come prima abitazione). Ma con una sorpresa: avranno comunque uno sconto, in
media di mille euro. È intanto certo che il canone Rai da 100 euro si pagherà a metà anno,
forse in due rate da 50 euro, nelle bollette elettriche di giugno e agosto.
GIOCHI
In attesa del testo finale (bloccato anche per il tira e molla sui giochi), le bozze sin qui
circolate della legge di Stabilità contenevano la previsione di 22 mila nuovi corner per le
scommesse. O meglio: 17 mila rinnovi di concessioni in scadenza più 5 mila nuove
concessioni, «per far emergere dal nero questi punti gioco», spiega il sottosegretario
all’Economia Baretta. Ora il numero si riduce a 10 mila per i rinnovi più 5 mila emersioni,
15 mila in tutto come riferito da Renzi. In pratica chiudono 7 mila punti, o meglio 5 mila
perché «2 mila in realtà avevano la concessione, ma non erano operativi », chiarisce
ancora Baretta. Una retromarcia evidente, dovuta alle forti pressioni delle opposizioni
(minoranza Pd e M5S) e del mondo cattolico. «Bene Renzi, ma l’obiettivo dei 15 mila deve
essere raggiunto senza sanatorie», commenta Massimo Passamonti, presidente di
Sistema gioco Italia (Confindustria).
CASA
La prima clamorosa retromarcia di martedì sulle case di lusso («I castelli pagheranno»,
scriveva Renzi su Facebook), mostra però i primi scricchiolii. A parte che non si tratta solo
di castelli, ma di tutte le prime case di lusso accatastate come A1, A8 e A9 (circa 74 mila),
non più esentate da Imu, al contrario di quanto ripetuto all’infinito dallo stesso Renzi fino a
48 ore fa («Via Imu e Tasi per tutti»).
I punti per scommettere scendono ora a 15 mila Sconto di mille euro per i possessori di
case di lusso. Ma, si scopre ora, comunque graziate da uno sconto last minute che
neanche Berlusconi, a cui il premier dice di ispirarsi, aveva osato pensare nel 2008.
L’aliquota massima, secondo l’ultima bozza della manovra, si ferma difatti solo al 4 per
mille, contro l’attuale 6 per mille. Questo significa, in buona sostanza, uno sconticino
medio di 996 euro, calcola la Uil -Servizio politiche territoriali (si passa cioè da 2.788 euro
a 1.792 euro). Altra retromarcia infine anche per l’addizionale dello 0,8 per mille sulle
seconde case: i 460 Comuni che la mettevano se la tengono, gli altri non la possono
sommare all’Imu, per non alzare le tasse locali.
CANONE
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Intanto è certo che il canone non si pagherà da febbraio 2016. Il nuovo meccanismo, con
l’imposta tv inclusa nella bolletta elettrica, non sarà pronto prima di giugno 2016. Lo
rivelano fonti parlamentari. È possibile che pagheremo subito l’intero importo (100 euro)
già a giugno. Il governo però giudica impopolare questa soluzione. Le società elettriche
temono, a loro volta, che la super bolletta spinga alla morosità. Prende quota, allora, una
seconda ipotesi. Far pagare 50 euro con la bolletta elettrica di giugno e gli altri 50 ad
agosto. Tifa per questa scelta (due tranche da 50) anche l’Agenzia delle Entrate, perché la
considera più gestibile. L’ultima ipotesi - scomoda - è spalmare i 100 euro in tre rate da
33,33 euro da versare a giugno, agosto e ottobre.
Resterà in piedi l’esenzione per le persone di 75 anni o più che abbiano un reddito proprio
(coniuge escluso) di 6713,98 euro l’anno. Non si paga il canone per il possesso di tablet,
smartphone o pc (precisa il sottosegretario Giacomelli). Infine la Cassa Conguaglio del
Sistema elettrico gestirà il lungo viaggio del denaro dal cittadino alla società elettrica fino
all’Agenzia delle Entrate e alla Rai.
Del 23/10/2015, pag. 19
Nasce la Cosa Rossa e guarda a Prodi
A Bologna primo test
Le mosse dei fuoriusciti Pd alle amministrative Vendola attacca Renzi:
ha ucciso il centrosinistra
TOMMASO CIRIACO
GOFFREDO DE MARCHIS
Il punto di riferimento è l’Ulivo, perciò la nuova Cosa non dev’essere troppo “rossa”. Il
testimonial sognato è Romano Prodi ed è per questo che i fuoriusciti del Pd, insieme con
Nichi Vendola, stanno puntando soprattutto sulle comunali di Bologna dove si vota la
prossima primavera. Potrebbe essere candidata, in alternativa all’uomo del Pd Virginio
Merola, Amelia Frascaroli, vicina all’ex governatore della Puglia ma ancora più vicina al
Professore. Amica personale della moglie Flavia, allieva politica di Romano che per lei
nutre una stima profonda, cattolica di sinistra, dossettiana. Una figura ideale per
simboleggiare il corso della scissione democratica, con buone chance di dare fastidio al
sindaco uscente e rappresentare un’opzione diversa dal Pd ma non legata all’ala radicale.
Di questo discutono i parlamentari dem o ex come Carlo Galli, Monica Gregori, Alfredo
D’Attorre, Stefano Fassina, Corradino Mineo nelle riunioni che preparano il grande passo:
usare le prossime amministrative per costruire un progetto antirenziano in salsa
socialdemocratica. O meglio, ulivista, il centrosinistra delle origini, in opposizione al
presunto Partito della Nazione che starebbe maturando nel laboratorio di Largo del
Nazareno. Vendola per il momento non si sbilancia, ma lascia capire che ci sarà una
rottura nel voto delle città. «Il terreno programmatico è decisivo. Voglio capire che idea di
comune hai. Detto questo, Renzi ha ucciso il centrosinistra », spiega nel videoforum di
Repubblica.it. A Bologna, a Roma (con Sel però spaccata in due nella Capitale), a Torino
e probabilmente a Milano si consumerà lo strappo. Se non ci saranno le primarie, in una
città in cui l’uscente Giuliano Pisapia viene dal partito di Vendola, la sinistra cercherà un
nome da contrapporre al possibile candidato Giuseppe Sala. Per recuperare Pippo Civati
che procede da solo con il suo movimento Possibile, potrebbe essere proprio il deputato
monzese il candidato unico della formazione ulivista. Roma rappresenta un’altra prova di
tenuta del progetto. Un pezzo di Sinistra e libertà chiede di continuare l’alleanza col Pd. Il
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vicepresidente della Regione Lazio Massimiliano Smeriglio invita i compagni a cercare
un’intesa «città per città, in controtendenza rispetto alle dinamiche nazionale». Cioè,
un’intesa con il Pd. E due senatori, in questa fase di caos, sono dati in uscita da Sel
proprio per la linea oltranzista di Vendola. Sono Dario Stefàno e Luciano Uras. Ma
Fassina, come Nicola Fratoianni, spingono le candidature indipendenti, autonome, in
funzione anti- Renzi e anti-dem. Questa spaccatura pone però un problema grande come
Cagliari alla Cosa rossa. Se il Pd è indigeribile e invotabile, come faranno a chiedere il
sostegno per confermare Massimo Zedda a sindaco?
Il documento redatto dal professor Carlo Galli, che è stato distribuito tra i dissidenti del Pd
ed è arrivato anche a Gianni Cuperlo e Pier Luigi Bersani, prefigura la scissione ma non
scioglie tutti i dubbi. È un testo molto critico con il renzismo, «con il governo del primo
ministro nel quale il Parlamento è ridotto all’obbedienza». La produzione di documenti non
si ferma qui. Vendola annuncia per sabato la presentazione della «Carta dei Valori»,
manifesto del nuovo soggetto politico. Soggetto che sarà anticipato già a novembreda
gruppi parlamentari che si chiameranno “Sinistra”, a cui lavora Arturo Scotto. Dentro
confluiranno quelli di Sinistra e libertà, gli scissionisti del Pd, Claudio Fava, il prodiano
Franco Monaco. E al Senato verranno accolti gli ex grillini Francesco Campanella e
Fabrizio Bocchino.
Del 23/10/2015, pag. 42
LA COSTITUZIONE E LE TASSE SULLA CASA
NADIA URBINATI
A BRUXELLES si discute in questi giorni la scelta del governo italiano di tagliare le tasse
sulla prima casa. Il ministro Pier Carlo Padoan ha riconosciuto che «c’è una tassa oggetto
di dibattito» e di dissenso, non solo dentro il Pd. E l’esito di questo dibattito e di questo
dissenso è stata la dichiarazione di Matteo Renzi per cui viene abolita la tassa sulla prima
casa se la prima casa non è assimilabile a un castello o comunque non è di lusso. Come
sappiamo, la rimozione della tassa sulla prima casa ha sempre incontrato resistenze, non
solo nella sinistra del Pd, ma anche negli organismi internazionali (l’Fmi, l’Ocse, la
Commissione Ue), favorevoli sì a un taglio delle imposte, ma in primo luogo sul lavoro e
per incentivare i consumi. E in Italia, come già Mario Monti ebbe a dire quando introdusse
l’Imu, la tassa sulla casa è l’unica vera imposta patrimoniale: un tentativo di riequilibrare i
divari di ricchezza e un antidoto all’evasione, in quanto nella nostra società le proprietà
sono più rintracciabili dei redditi. Vi sono dunque ragioni di equità che hanno motivato la
discussione sulla scelta fiscale del governo. Ragioni che mettono in luce la differenza fra
proporzionalità (flat tax o imposte piatte) e progressività.
Il principio di progressività è prima di tutto costituzionale. Il secondo comma dell’articolo 53
stabilisce che “Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Vale la pena
menzionare le parole dell’on. Meuccio Ruini, presidente della Commissione che redasse
quell’articolo: «Lasciandosi guidare da un sano realismo, non si può negare che una
Costituzione la quale, come la nostra, si informa a princìpi di democrazia e di solidarietà
sociale, debba dare la preferenza al principio della progressività... Si può discutere sulla
misura e sui limiti della progressione; non sul principio».
A partire dal 1948, quando entrò in vigore la Costituzione, leader politici di ogni
schieramento, da Ezio Vanoni a Aldo Moro a Sandro Pertini a Enrico Berlinguer, hanno
difeso il concetto di perequazione tributaria. Che ai loro occhi era democratico e
costituzionale, situato prima di ogni schieramento ideologico. Ezio Vanoni, che fu tra i
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redattori della Costituzione, considerava essenziale che le leggi stimolassero nei cittadini
la consapevolezza del valore morale e sociale dell’obbligo tributario (un’idea che abbiamo
sentito ripetere da Tommaso Padoa-Schioppa, ministro nel secondo Governo Prodi).
Queste le parole da lui pronunciate in una seduta parlamentare del 1956: «Possiamo
risolvere gran parte dei problemi del nostro Paese e li risolveremo nella misura nella quale
sapremo chiedere ad ognuno la sua parte di sacrificio, proporzionata alla sua capacità di
sopportazione».
Affidandosi al principio di equità, i Costituenti misero nero su bianco la differenza tra
proporzionalità (flat tax) e progressività. Lo scontro tra “proporzionalità” e “progressività” è
diventata nel corso degli anni uno scontro sulla funzione pubblica nell’economia, e quindi
sull’impegno diretto del governo nel sistema di welfare. Circa dunque la proposta di
eliminazione della tassa sulla prima casa, la logica della proporzionalità avrebbe
significato che, appunto, chi possedeva una casa signorile avrebbe avuto tanto più da
guadagnare (e meno da sopportare) di chi possedeva una casa modesta o popolare o non
ne possedeva alcuna. La progressività è non questione ideologica dunque, bensì di equità
e di coerenza con la Costituzione.
Il primo comma dell’articolo 53 ci dice infine che alle ragioni di equità si affiancano ragioni
di giustizia, il nucleo della lotta all’evasione, una battaglia di buon governo: «Tutti sono
tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva ». Ha
detto il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, che mentre rivede la posizione
sull’abolizione della tassa sulla prima casa, non la rivedrà sul limite del contante, che
passerà da mille a tremila euro. E che questa decisione non lascerà una porta aperta
all’evasione, aggiungendo che pagare meno tasse dovrebbe essere l’obiettivo cui tendere,
stimolando comportamenti virtuosi. Sarebbe ragionevole pensare che se tutti pagassero le
tasse, tutti potrebbero pagare meno. Ma la logica ipotetica qui non aiuta molto; le decisioni
politiche devono partire da quel che c’è per poter incentivare comportamenti virtuosi e
scoraggiare quelli opposti. Nella direzione della lotta all’evasione è andata la scelta degli
ultimi governi, e anche di questo, se è vero che Padoan stesso, tempo fa, aveva sostenuto
che «la scelta di limitare la circolazione del contante e di procedere ad un progressivo
abbassamento della soglia, è motivata dall’esigenza di fare emergere le economie
sommerse per contrastare il riciclaggio dei capitali di provenienza illecita, l’evasione e
l’elusione fiscale ». Ciò di cui il nostro Paese ha bisogno è quindi tornare alla Costituzione,
la quale in un articolo solo ci ricorda che equità e legalità stanno insieme.
Del 23/10/2015, pag. 2
Vaticano, il complotto è a corte e Bergoglio
cambia quasi tutto
Ora che la notizia smentita e bugiarda sul pontefice malato s’è dissolta nel nulla, restano i
sospetti. Che sia un complotto o una manovra per delegittimare papa Francesco
insinuando un falso cancro benigno al cervello, non lo negano in Vaticano. E neppure
negano che episodi simili possano capitare ancora.
Per lo storico Alberto Melloni, scrittore e studioso del Concilio Vaticano II, gli ispiratori di
queste torbide operazioni risiedono in Vaticano, scalpicciano proprio attorno a Jorge Mario
Bergoglio: “La faccenda del Quotidiano Nazionale è molto buffa. Io non credo che ci sia un
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colpevole specifico da scovare, mi sembrano pure un po’ cialtroni. Il guaio è la corte di
Bergoglio: è cambiata poco. È la stessa corte di Ratzinger, abituata a compiere
nefandezze e delazioni”.
Allora ha un valore simbolico, nonché pratico, l’ultima riforma di papa Francesco che
modella e snellisce la corte, cioè la Curia. E non è svelata tramite un burocratico bollettino
ufficiale o una comunicazione di padre Federico Lombardi, ma l’ha illustrata Bergoglio
durante l’assemblea sinodale. Il pontefice argentino ha istituto una Congregazione, un
nuovo dicastero vaticano, per i laici, la vita e la famiglia. Ha accorpato i Pontifici Consigli
guidati dal cardinale Stranislaw Rylko e dal vescovo Vincenzo Paglia. Più attenzione ai tre
temi, meno grisaglie, più controllo, meno confusione. E va precisato che la proposta l’ha
elaborata la commissione dei cardinali, il cosiddetto C9 affidato al bergogliano Óscar
Rodríguez Maradiaga: una corte esterna, non interna al Vaticano.
Il Papa invita a non cedere a “un’ermeneutica cospirativa”, ma ha capito da tempo dov’è il
marcio e la memoria (e l’esperienza) di Joseph Ratzinger è una bussola che consulta
spesso. Avverte Melloni: “C’è un periodo fisiologico che un pontefice trascorre in serenità.
Ma dopo un paio di anni, i soliti gruppi di potere organizzano la protesta”. E un elenco non
sarà mai esaustivo.
Anche se Melloni concentra l’attenzione verso le mura leonine e le ombre che s’allungano
sul colonnato di San Pietro, diverse indiscrezioni di queste ore e alcune autorevoli fonti
riferiscono di un ruolo dell’Opus Dei nella vicenda di Qn. Quando c’è di mezzo un evento
oscuro che poi coinvolge il Vaticano, la sigla Opus Dei è ricorrente. E soprattutto se il
pontefice argentino è un gesuita circondato da gesuiti. Oltre a registrare le informazioni, in
questi momenti inquinati dai veleni, non conviene alimentare credenze o retroscena. Non
esistono dubbi, invece, sui rapporti sempre più complessi fra la Curia. E il confronto (lo
scontro), inevitabile, è vibrante sin dal giorno dell’insediamento di Jorge Mario Bergoglio.
Appena eletto dal Conclave, papa Francesco ha rimosso la struttura legata al cardinale
Tarcisio Bertone, l’ex Segretario di Stato. Ha consegnato il governo vaticano all’ex nunzio
apostolico Pietro Parolin, una figura di prestigio estranea alle logiche curiali e ha
degradato il bertoniano Mauro Piacenza, capo della Congregazioni per il Clero. Ma non ha
intaccato l’egemonia del conservatore Gerhard Müller, confermato all’ex Sant’Uffizio, capo
del dicastero per la dottrina della fede. Assieme a Müller, i più agguerriti critici del Sinodo
sono George Pell e Robert Sarah, protagonisti conosciuti in questi mesi, ma promossi in
Curia proprio da Francesco.
Pell è il prefetto per l’Economia, un dicastero che Bergoglio ha plasmato per mettere
ordine tra gli immobili e la finanza. Ma il pontefice ha presto limitato e contenuto
l’autonomia e l’esuberanza del cardinale australiano, che poi s’è scoperto coinvolto nella
lettera dei tredici porporati contestatori del metodo sinodale. Sarah è il prefetto per il Culto
divino, un fiero conservatore. Il Papa non fa repulisti, ma sul fronte “denaro” c’è già chi
pronostica un duro intervento di Bergoglio. Non è finita. Perché a giorni sarà annunciato il
successore del cardinale Carlo Caffarra al vertice della diocesi di Bologna.
Del 23/10/2015, pag. 5
Zagrebelsky e i governanti “inutilmente
spensierati”
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Senza progetti, tirano a campare. Per “durare sempre ancora un giorno
in più”
C’è il gioco che facevamo, bendati, da bambini. Ma c’è anche la metafora di Wittgenstein:
il nuovo libro di Gustavo Zagrebelsky s’intitola Moscacieca. E fa davvero pensare
all’insetto nella bottiglia di cui il filosofo austriaco parla nelle Ricerche filosofiche. La mosca
si dibatte, in cerca di una via d’uscita. Così noi: “Non siamo sicuri nemmeno di quali siano
le incognite con le quali dobbiamo fare i conti. Contrasti e conflitti scoppiano qua e là, per
ora perifericamente, ma sempre più numerosi; minacciano esplosioni sempre più grandi e
mirano al cuore del mondo che abbiamo costruito. Il pensiero vacilla. Il caos inghiotte la
comprensione e la volontà si smarrisce”.
Provando a guadagnare la salvezza (la via d’uscita attraverso il collo della bottiglia) il
panorama non è dei più rassicuranti: “Poteri economico-finanziari e tecnologici mossi da
inesausta, illimitata e cieca volontà di potenza che seminano tempeste; organizzazioni
criminali che controllano interi settori di attività illegali e accumulano ricchezze ingenti con
le quali avvelenano la vita economica e i rapporti politici; circolazione incontrollata di armi
micidiali che alimenta conflitti; violenza che dilaga anche in forme terroristiche”.
Quadro fosco, foschissimo: dunque l’autore potrebbe essere immaginato nel pantheon dei
gufi viste, per esempio, le sue posizioni sulla riforma del Senato (sul tema, indimenticabile
l’intervista al Corriere del premier Renzi, quando disse “Si può essere in disaccordo con
professoroni o presunti tali senza diventare anticostituzionali. Io ho giurato sulla
Costituzione, non su Rodotà o Zagrebelsky”). Invece il movente di questo libro è
rasserenante, perché è la ricerca di una strada per il domani, possiamo dire Contro la
dittatura del tempo presente, trappola pericolosa perché trasforma società e governi in
cicale dissipatrici. Il potere economico ha sopravanzato quello politico, ci si è alleato
subordinandolo: “Negli organi di governo, nelle posizioni-chiave, siedono ormai solo
uomini di fiducia dell’oligarchia finanziaria”.
Quello dei governi esecutori è anche un Tempo nichilista – come s’intitola un capitolo di
Moscacieca – dove il mezzo e lo scopo coincidono: “Se lo scopo del denaro è sempre
altro denaro, la ricerca della sua crescita e dell’accumulazione è una forza devastatrice:
nichilista e, al tempo stesso, devastatrice. Con i suoi templi (Wall Street o Piazza Affari),
dove gli adepti, perfino i capi di governo, si recano per ‘fidelizzarsi’ e ricevere la
consacrazione”. E poi “sacerdoti, sacramenti, parole d’ordine, catechesi, vittime sacrificali
e capri espiatori, fede ‘cattolica’ con i suoi custodi, propagandisti e missionari (i brokers),
le sue Inquisizioni (le agenzie di rating), promesse di vita futura indefinita, se non proprio
eterna. Anche se ateo e nichilista, può essere assimilato a una religione, con la sua
ortodossia di cui la moneta è il simbolo.
Ha le sue liturgie, celebrate in occasioni rituali, meeting, conferenze, forum cui partecipa
un pubblico selezionato di persone di sicura fede. Ha modelli di vita esclusiva, pervasivi
dell’immaginazione dei deboli, ha i suoi status e sex symbols, i suoi centri di ricerca,
scuole di formazione, università degli affari, accademie, think-tank, uffici di marketing
politico, culturale e commerciale, in cui vivono e prosperano gli ‘intellettuali’ e gli opinionisti
del nostro tempo, in realtà consulenti e propagandisti che, consapevoli o inconsapevoli,
partecipano alla formazione di una vera e propria ideologia”. Dunque ecco i nostri nuovi
Stati confessionali, dove dio è il denaro, i Paesi sono imprese (cfr “l’Azienda Italia”) e
dunque possono perfino fallire.
E una banca d’affari come JP Morgan (nel Report 2013) può permettersi di manifestare
tutta la propria insofferenza nei confronti delle costituzioni democratiche del dopoguerra,
“socialiste”, senza che nessuna voce critica si alzi. Del resto anche quando, un anno
prima, il presidente Mario Monti disse allo Spiegel che i governi avevano il dovere di
educare i propri parlamenti, nessuno (in Italia) proferì parola.
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Il rapporto presente-futuro si può leggere anche attraverso la nuova contrapposizione
“ottimisti versus pessimisti”. A cui il professore dedica l’epilogo del suo pamphlet. Con
quella che solo in apparenza è una battuta, Norberto Bobbio disse: “Non tutti gli ottimisti
sono sciocchi, ma certo tutti gli sciocchi sono ottimisti”. Dopo una breve analisi delle
categorie possibili (pessimisti, sciocchi e non; ottimisti, sciocchi e non) Zagrebelsky si
dedica ai politici: “Coloro che tanto affanno si danno per conquistare un ormai
evanescente potere, e in tanto affanno consumano le proprie forze. Sembra che
l’assurgere ai posti di governo sia per loro l’appagamento di un’ambizione che riempiono
di allegra spensieratezza e di retorica felicità fatta di niente”.
Ancora più disperante è il consenso incontrato da “questa leggera, fatua e insulsa
allegrezza, che fluttua per tentare di durare ancora sempre un giorno in più in attesa della
catastrofe, senza alcun serio, costante, coerente e maturo impegno per un’opera degna
della parola politica”. È una fotografia perfetta anche del nostro Paese, dove si è tanto
ottimisti quanto privi di motivi veri per essere tali (si veda per esempio un astensionismo
elettorale sempre più causato da “frustrazione”). L’ottimismo della nuova realpolitik non ha
ragione né ragioni; il tentativo di non dissipare troppi valori divenuti negoziabili può essere
la bussola per la mosca di Wittgenstein.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
Del 23/10/2015, pag. 29
“I beni confiscati restano ai boss” Ora indaga
l’Antimafia
Intestati a prestanome. Report della Dia: “Illegalità diffusa in tutta Italia”
FRANCESCO VIVIANO
Ci sono regioni dove tutti gli immobili sequestrati ai boss rimangono nelle mani dei mafiosi
o dei loro familiari. Anche nei casi di confische “definitive”.
Per “far cessare questa scandalosa situazione di illegalità” la Direzione nazionale
antimafia ha avviato un’inchiesta su tutto il territorio nazionale incaricando la Direzione
investigativa antimafia di un monitoraggio città per città, per verificare che fine fanno i beni
confiscati alla criminalità organizzata e affidati all’Agenzia nazionale per i beni confiscati e
sequestrati. Agenzia che lavora con i Tribunali delle Sezioni misure di prevenzione e che
con i suoi pochi mezzi a disposizione non riesce però “a monitorare”. Così il lavoro svolto
da organi investigativi e pubblici ministeri risulta «vano, inutile», dicono alla Dna. E poi c’è
la gestione dei beni confiscati da parte di amministratori giudiziari che spesso, come sta
emergendo dall’inchiesta di Caltanissetta, lo fanno in regime di monopolio, spesso senza
alcun controllo. Dai primi report della Dia su cinque regioni (Piemonte, Campania,
Lombardia, Sicilia, Calabria), emerge «un quadro disastroso ». Per esempio: a Milano su
1.301 beni confiscati 259 risultano “occupati” di cui 131 dagli stessi mafiosi o prestanome.
E in Calabria su 54 beni “occupati”, 31 li hanno gli stessi ‘ndranghetisti. E a Torino
emerge, spiega la Dna, «quasi tutti i beni rimangano nel possesso delle persone alle quali
sono state sequestrate od ai loro familiari». Grandi responsabilità vengono addebitate ai
Tribunali delle misure di prevenzione: «Ci sono inadempienze incredibili — dice un
investigatore della Dia — dovute anche ai grandi carichi di lavoro e a procedure
farraginose. All’atto del sequestro il Giudice dovrebbe ordinare lo sgombero autorizzando
la permanenza solo in casi eccezionali, ma l’eccezione diventa regola».
Anche perché in alcuni casi tra richieste ed esecuzioni passano anche due o tre anni. Ma
di fatto il mafioso che continua a gestire il bene confiscato ci guadagna due volte.Non
paga le tasse perché il bene è confiscatto e se lo affitta incassa i proventi in nero.
Insomma una vera beffa.
Dall’analisi della Dia emerge anche un altro dato sconcertante relativo agli immobili
sequestrati poi diventati, dopo 20 anni, caserme di Carabinieri o Polizia: non si dice mai
quanto si è speso per ristrutturarli. A questo proposito viene riportato un caso “eclatante”
come quello della villa dei Lubrano in provincia di Caserta: subito dopo il sequestro fu
“devastata legalmente” perché il sindaco permise di asportare porte, finestre, sanitari ed
altre strutture sostenendo che la confisca riguardava “le mura” ma non gli accessori
all’interno della villa. Un altro aspetto del disastro dei beni confiscati riguarda i grandi
terreni, soprattutto nel sud dove la proprietà agraria è parcellizzata e spesso il bene del
mafioso confiscato è adiacente a quelli di altre persone, magari suoi parenti che lo
utilizzano ricavando anche in questo caso utili che non vengono tassati.
La situazione non cambia per quanto riguarda i veicoli: soltanto qualche centinaio viene
assegnato alle forze di polizia mentre la maggioranza resta nei depositi giudiziari dove si
pagano ingenti somme di denaro per la sosta in attesa, e passano molti anni, di essere
rottamati. Per questa ragione, in base ai primi risultati portati dalla Dia, la Direzione
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nazionale antimafia ha deciso di avviare questa inchiesta che investirà le autorità
giudiziarie competenti «affinché — affermano alla Dna — cessi questa scandalosa
situazione di illegalità».
del 23/10/15, pag. 2
Appalti dell’Anas, dieci arresti Le tangenti
della «Dama nera»
La dirigente Accroglianò a capo del gruppo. Fermato Meduri, ex
sottosegretario. Il Pd lo sospende
ROMA In testa alle aziende pubbliche per numero di appalti e budget a disposizione, da
poco rilanciata con nuovi vertici e finanziamenti, l’Anas aveva al suo interno «un vero e
proprio sistema corruttivo», «una cellula criminale» che lucrava su appalti, espropri e
contenziosi, anche su «sollecitazione» di costruttori e proprietari terrieri. Un gruppo di
funzionari e dirigenti, fra cui Antonella Accroglianò la «Dama nera», si sarebbero ritagliati
profitti sulla realizzazione di un valico, speculando su espropriazioni e lucrando sui
contenziosi accumulati. Quasi un manuale «della corruzione per asservimento della
propria funzione» scrive la gip Giulia Proto che ha firmato l’ordinanza cautelare nei
confronti di 9 persone oltre alla dirigente.
All’occorrenza ci si scambiava favori assieme ad altre «utilità»: in un caso, ad esempio, la
Accroglianò avrebbe agevolato il pagamento di alcune imprese sponsorizzate dall’ex
sottosegretario del governo Prodi Luigi Meduri — arrestato — in cambio del sostegno
politico alla candidatura del fratello in Calabria sulla scia dello zio «Peppino» Accroglianò.
L’inchiesta dei magistrati Francesca Loy e Nello Rossi ricostruisce fatti recenti, le
intercettazioni captano accordi fra maggio e giugno, tangenti recapitate fra luglio e agosto
e messe al riparo di mura domestiche negli ultimi giorni. Settantamila euro in contanti sono
stati trovati durante la perquisizione dei finanzieri del Gico della polizia Tributaria
nell’appartamento della madre della dirigente. La percezione di esser controllati,
intercettati e monitorati, non era un deterrente ma li spingeva a qualche supplemento di
cautela. Così, al telefono, la mazzetta prende nomi più innocui: «ciliege»,
«antiinfiammatori», «libri». E la Accroglianò raccomanda a un sodale: «Vai muto che nella
stanza non deve parlare più al telefono». La trama di «quotidiana corruzione» (definizione
del procuratore capo Giuseppe Pignatone) è ben descritta nel provvedimento di arresto fra
richieste quotidiane e strumenti normativi stravolti a propria misura.
L’accordo bonario ad esempio, finalizzato a risolvere imprevisti (come il ritrovamento
archeologico che blocca un cantiere) veniva reinterpretato a beneficio sia del funzionario
pubblico per guadagnare «una cresta» che dell’imprenditore per «recuperare parte del
ribasso praticato». Per espropriare un terreno necessario al completamento di una tratta,
la Accroglianò avrebbe accordato più del dovuto ai proprietari, in cambio di una
«provvigione» per sé di 50 mila euro. Provvigione recapitata in contanti dai proprietari
dell’appezzamento Giuseppe e Saverio Silvagni (arrestati per corruzione). Ovviamente in
danno all’Anas che ieri ha annunciato la costituzione di parte civile al processo ma anche
qualche misura in più sul fronte della massa di contenziosi: «Ne abbiamo per 9 miliardi,
non potremo approvare il bilancio senza aggredire questo problema» ha detto Gianni
Armani, presidente Anas. Sulla «cellula criminale» è intervenuto anche Matteo Renzi,
dopo la decisione di sospendere Meduri dalla commissione di garanzia Pd: «Chi ruba
all’interno delle aziende pubbliche va cacciato senza alcun perdono».
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Ilaria Sacchettoni
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SOCIETA’
del 23/10/15, pag. 27
Tre uomini su 10 a casa con i figli Il record
(inaspettato) dei siciliani In testa
Dopo la Sicilia, le regioni con le percentuali più alte di uomini che
chiedono il congedo parentale sono il Lazio (18,4%) e la Sardegna
(16,7%) I meno numerosi sono i papà di Piemonte (8,4%), Veneto e
Lombardia (8,1%)
Lo studio sulle aziende private. Sud e isole in testa malgrado la
disoccupazione
Gli uomini siciliani sono in prima fila quando diventano padri: più di tre su dieci prendono il
congedo di paternità, ben distanti della media italiana che vede (poco più) di un padre ogni
dieci andare in congedo alla nascita di un figlio o di una figlia, secondo i numeri diffusi ieri
dal broker assicurativo Assiteca. La Sicilia «doppia» il secondo classificato, il Lazio (in
terza posizione c’è la Sardegna).
In generale, sono gli uomini del Sud e delle Isole — aree di fortissima disoccupazione
femminile — a dimostrarsi più disponibili ad assentarsi dal luogo di lavoro per stare vicino
alla famiglia in un momento così importante come una nuova nascita. Esattamente il
contrario di quanto accade nelle regioni locomotiva d’Italia, la Lombardia, il Veneto, il
Piemonte, che vedono gli uomini più «resistenti» pur a dispetto di un tasso di occupazione
maggiore. Va detto subito che prendere il congedo di paternità non significa essere pagati
per stare a casa, ma invece rinunciare al 70 per cento dello stipendio, motivo per il quale i
congedi non hanno sfondato: se l’uomo guadagna più della donna, com’è nella media
italiana, conviene che a lasciare il lavoro nel momento in cui si diventa genitori sia la
mamma e non il papà.
A spiegare i risultati non serve neanche il ragionamento che nelle regioni del Sud gran
parte delle persone è dipendente pubblico — e quindi non corre il rischio di vedersi
cambiare di mansione o di avere la carriera pregiudicata perché si è goduto di un diritto —
perché l’analisi di Assiteca è stata realizzata soltanto sulle aziende private.
Com’è, allora, che il Nord non si ferma? Padri meno generosi? In assenza di ulteriori
elementi (l’indagine non dice, per esempio, quanti giorni/mesi di congedo siano realmente
presi), si può andare per ragionamenti. Mediamente, dice per esempio Patrizia Ordasso,
responsabile relazioni industriali di Intesa San Paolo, fresca di un accordo che integra lo
stipendio proprio durante la paternità, «gli uomini che prendono i congedi sono quelli che
guadagnano come o meno delle loro mogli/compagne o quelli con mogli/compagne che
sono precarie (e per le quali quindi non è opportuno assentarsi, ndr ). Nel settore del
credito, dove gli stipendi sono più elevati, ci sono pochissimi padri che ne fruiscono, anche
se i dati del nostro gruppo degli ultimi tre anni dimostrano una costante crescita. E con
l’accordo che abbiamo firmato cerchiamo di incrementarli ulteriormente». Anche Valeria
Fedeli, vice presidente del Senato, oltre che prima firmataria di una proposta di legge per
introdurre il congedo di paternità obbligatorio di quindici giorni, sottolinea il tema della forte
disoccupazione femminile del Sud.
Un dato è comunque certo: oggi l’attenzione è sui padri. È al loro ruolo che Assiteca ha
guardato per lanciare il suo premio «Welfare in Azienda: pratiche e modelli vincenti».
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Perché, come dice il presidente Luciano Lucca, nella crisi le imprese devono assicurarsi di
salvaguardare i loro bene più prezioso: il capitale umano.
Se si può anche avere famiglia, si lavora meglio. Le donne e gli uomini.
Maria Silvia Sacchi
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BENI COMUNI/AMBIENTE
Del 23/10/2015, pag. 33
Riciclare ma non troppo ecco i paradossi
della differenziata
La ricerca: se si arrivasse al 70% sarebbe insostenibile “Ma i benefici
per l’ambiente non hanno prezzo”
ELENA DUSI
Ma quanto conviene fare la differenziata? Nel 2001, quando solo il 20% della spazzatura
veniva selezionata, il costo di ogni tonnellata era di 12 euro ad abitante. Oggi che il tasso
di differenziazione ha superato il 42%, il costo del servizio è quasi quadruplicato: 46 euro
per tonnellata ad abitante. Secondo i dati Nomisma Energia del 2014, quella del riciclaggio
non sembra un’economia di scala. I costi aumentano con il giro d’attività, mentre i ricavi che coprono solo un quarto dei costi - sono rimasti fissi, o quasi, negli ultimi anni.
L’impennata dei costi è in parte dovuta al porta a porta, sistema adottato per raccogliere il
49% di carta, plastica e vetro. Nel 2007 il dato era solo del 28%, secondo un rapporto di
Bain & Company per Federambiente. Il servizio di raccolta a domicilio richiede personale,
camion e benzina assai più del singolo compattatore che ingurgita tutto. Uno studio del
gruppo Hera sui “Modelli territoriali a confronto” ha calcolato nel 2013 che il porta a porta
costa più del triplo rispetto ai cassonetti, anche se garantisce percentuali di
differenziazione più alte. Ed è soprattutto grazie a questo metodo che la raccolta di
materiali riciclabili è balzata in su nonostante il calo della produzione di spazzatura
provocato dalla crisi economica (meno 8% tra il 2007 e il 2012).
Oltre ai costi del porta a porta, il problema di una differenziata molto spinta è la qualità dei
rifiuti raccolti. Più si seleziona, più nei sacchetti colorati finiscono materiali spuri o scadenti.
E i benefici della differenziata finiscano per diluirsi soprattutto nelle grandi città, dove più
difficile è controllare la qualità dei rifiuti riciclabili. «Oltre una certa percentuale di
differenziazione, i costi aumentano vertiginosamente», conferma Giovanni Fraquelli,
economista dell’Università del Piemonte Orientale e del Cnr di Torino, autore nel 2011 di
uno studio sui costi del riciclaggio con Graziano Abrate, Fabrizio Erbetta e Davide
Vannoni. «Piccole realtà entro i 200-300 mila abitanti possono raggiungere percentuali del
70% senza enormi aggravi» aggiunge Fraquelli. «Ma se si cerca di spingere oltre la
differenziata si incappa in costi insostenibili». I dati di Nomisma Energia confermano
l’esistenza di un “confine” oltre il quale non è più conveniente andare. «In Emilia Romagna
— spiega il presidente Davide Tabarelli — abbiamo fatto dei tentativi di fare una raccolta
differenziata molto spinta, ma questo si è tradotto in maggiori costi, e quindi in aumenti per
le bollette, anche del 20%». Abrate e i suoi colleghi sono molto schietti nel considerare
un’altra componente di costo per alcuni comuni: la corruzione. “Riducendo il loro livello di
corruzione a quello medio del campione — scrivono nello studio The costs of corruption in
the italian solid waste industry —
i due più grandi comuni italiani, Milano e Roma, risparmierebbero rispettivamente 10 e 50
milioni di euro all’anno, pari all’8,8% e 14% della spesa per i rifiuti”.
Per Rosanna Laraia, responsabile del servizio rifiuti di Ispra (Istituto superiore per la
protezione e la ricerca ambientale) il riciclaggio resta comunque un impegno
imprescindibile: «È vero che i suoi costi aumentano con la crescita della differenziazione,
ma il riuso permette di risparmiare sulla voce delle discariche ». E i benefici ambientali
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restano importanti anche quando i prodotti da riciclare sono venduti a paesi dall’altra parte
del mondo. Secondo l’Epa (l’Environmental Protection Agency americana), il materiale più
proficuo da riutilizzare è l’alluminio: riciclarne 500 tonnellate permette di risparmiare 2mila
tonnellate di CO2 equivalente (pari a 1.569 auto), seguito da carta e cartone (700
tonnellate) e dalla plastica di tappi e detersivi (192 tonnellate).
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INFORMAZIONE
Del 23/10/2015, pag. 56
Debutta la televisione via internet che sta stravolgendo le abitudini del
pubblico nel mondo E tra contenuti on demand e produzioni originali
dalla Rete parte la sfida ai canali generalisti
Streaming revolution
Clicca e guarda La tv italiana entra nell’era di Netflix
SILVIA FUMAROLA
LA FORMULA magica è “click & watch”, perché l’era degli appuntamenti televisivi, degli
orari da rispettare, è destinata a scomparire, resterà nei ricordi degli spettatori adulti.
Netflix, la più grande rete di Internet tv del mondo, da ieri è disponibile in Italia. Tv su
misura, come e quando vuoi. Presto per dire se sarà l’anno zero del piccolo schermo, ma
certo è una rivoluzione che potrebbe cambiare anche da noi il panorama televisivo: la
sfida alla vecchia tv generalista e a Sky è partita.
Oltre 69 milioni di abbonati in oltre 50 Paesi, che ogni giorno guardano più di 100 milioni di
ore di programmi e film, serie e documentari. Lancio in grande stile a Milano, con il guru
Reed Hastings, co-fondatore e CEO di Netflix (filosofia di fondo: «prima portare la felicità
poi pensare al successo») e Ted Sarandos, responsabile dei contenuti, festa al
Palaghiaccio con red carpet e sfilata di star, da Daryl Hannah a Will Arnett a Taylor
Schilling a Krysten Ritter, da Steven Deknight a Pierfrancesco Favino, nel cast di
Marco Polo che scherza con gli altri attori di Suburra (il film diventerà una serie per
Netflix).
I tempi per la tv on demand sono maturi. La funzione è in streaming, bisogna avere un
televisore o un device (tablet, computer, smartphone, console video game, Apple Tv o
Chromecast) connessi a Internet. Si parte da 7,99 euro al mese. Si paga con carta di
credito, ma anche con PayPal, e per la disdetta non è necessario inviare raccomandate
con ricevute di ritorno, scaricare moduli, chiamare il servizio clienti: basta andare sul sito,
cliccare su un pulsante e sei fuori. Chi l’ha già sperimentato sa che è difficile resistere alla
tentazione di vedere tutti insieme gli episodi della serie preferita, anche il rito dell’attesa
diventa un ricordo. «Le persone vogliono il controllo su quello che vedono e una volta che
lo sperimentano non vogliono più tornare indietro», dice Sarandos. «In Italia ci sarà
rapidamente un nuovo pubblico aperto a nuovi format. Vogliamo creare programmi che
soddisfino tutti i gusti, puntiamo sulla diversità, abbiamo 21 serie originali in produzione,
l’anno prossimo ne avremo 30, e altrettante ne realizzeremo per i bambini ». Per stare al
passo col pubblico che consuma in fretta le serie, aumenterà la produzione. «L’obiettivo è
esplorare mondi mai esplorati prima e solo Internet ci dà questa possibilità », continua,
«ora ci sono più risorse per i creativi, c’è una bella lotta tra noi e altri produttori di
contenuti, è un ottimo stimolo: si crea una concorrenza positiva e di qualità».
Non è un caso se le serie cult degli ultimi anni sono nate per Netflix, da House of cards (
che però in Italia è trasmesso da Sky) a Narcos . Per conquistare il pubblico italiano ecco il
kolossal Marco Polo con il giovane Lorenzo Richelmy nei panni dell’eroe del Milione , e
Pierfrancesco Favino, il padre. Tra le migliaia di ore di intrattenimento disponibili, le
stagioni complete di serie come Suits , Penny dreadful , Pretty little liars , Orphan black ; la
fantascientifica Sense8 di Lana e Andy Wachowski con Daryl Hannah, Orange is the new
black . E poi Grace and Frankie con Jane Fonda e Lily Tomlin che diventano amiche
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quando i loro mariti fanno coming out e ammettono di amarsi, Unbreakable Kimmy
Schmidt su una giovane che comincia una nuova vita a New York dopo essere stata
salvata da una setta apocalittica in Indiana. Dal 20 novembre arriverà anche Marvel Jessica Jones , seconda di quattro serie dedicate agli eroi Marvel. E poi film come Molto
incinta , Mission Impossible III . Per i bambini programmi su misura: Lego Ninjago , Winx
Club e How to Train Your Dragon .
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CULTURA E SPETTACOLO
del 23/10/15, pag. 27
Quel mix di «live» e business che mantiene le
note in salute
Tra i concerti, Nannini e Consoli. Molti eventi nelle scuole
L’intera filiera della musica, dai produttori agli organizzatori di festival, dagli artisti ai
tecnici, si incontra a Bari dal 29 al 31 ottobre, alla quinta edizione del Medimex, la fiera
mercato dedicata al mondo professionale e al pubblico. Una cittadella della musica di due
ettari, nel più moderno padiglione della Fiera del Levante, accoglierà, nella tre giorni,
industria, professionisti e artisti italiani e stranieri provenienti da 27 paesi, con nomi come
Brian Eno, Gianna Nannini, Carmen Consoli, Natalie Imbruglia, Ludovico Einaudi, Vinicio
Capossela ma anche organizzatori ed esperti come Stacey Willhelm del festival South by
Southwest di Austin (USA) o Enrik Rasmussem del danese Roskilde festival, solo per
citarne un paio.
Il progetto ideato cinque anni fa da Antonio Princigalli, coordinatore del programma
regionale di sviluppo musicale Puglia Sounds, è diventato un appuntamento unico nel suo
genere in Italia. Si tratta, spiega Princigalli, di «un enorme strumento di conoscenza per
capire dove andrà il mercato internazionale della musica, un’occasione unica di confronto
tra artisti e case discografiche italiane e internazionali. Qui tutti i protagonisti portano una
propria progettualità. Dagli artisti ai direttori creativi ai partner come Siae, Fimi, laFeltrinelli,
ognuno presenta un tassello che compone il grande mosaico dell’intero sistema musicale
che ha contribuito anche allo sviluppo del sistema musicale pugliese, che in questi anni è
cresciuto tantissimo».
Senza trascurare l’aspetto del fare business che una fiera professionale deve sempre
avere, con circa mille operatori che si sono già accreditati al salone, una grande
attenzione è stata posta negli ultimi anni alla formazione nel senso di esperienza e
conoscenza per i giovani. In quest’ottica rientra l’iniziativa di Medimex Kids, «un progetto
— illustra Princigalli — di avvicinamento al Medimex ma anche di arricchimento della
conoscenza degli studenti, che ha coinvolto 18 scuole dell’intera regione e dieci artisti
pugliesi, dai Negramaro a Erica Mou, dai Sud Sound System a Renzo Rubino che sono
andati nelle scuole a tenere delle lezioni, a raccontare come hanno riconosciuto il proprio
talento e i percorsi che li hanno portati al successo».
«Questo — continua — per noi è un investimento sul futuro della musica perché una parte
dei 10 mila ragazzi che sono stati coinvolti dal programma, compresi quelli che verranno a
visitare il Medimex, potrà diventare artista, musicista, organizzatore di festival, tecnico del
suono o un’altra figura di questo settore anche grazie al fatto che è entrato in contatto con
i protagonisti di questo settore».
Un’altra novità è il superamento dei confini della fiera e anche di quelli della città di Bari
che lo ospita, con la diffusione su tutto il territorio della regione (per quanto riguarda le
scuole) ma soprattutto nella città di Lecce che insieme a Bari sviluppa il 70% della
produzione musicale regionale. Per questo, nel capoluogo salentino a ottobre sono stati
organizzati 100 appuntamenti che si concluderanno il 29 ottobre quando un treno carico di
musicisti partirà da Lecce e arriverà a Bari per l’apertura del Medimex. Nella città ospitante
poi, non resta più tutto confinato alla fiera, a partire da Brian Eno, l’inventore dell’ambient
music che aprirà la tre giorni con la prima mondiale della sua nuova installazione «Light
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paintings» che sarà ospitata fino al 14 novembre al teatro Margherita, nel centro della
città. Oltre a quattro percorsi musicali sempre in centro, dedicati alle musiche Classica,
World, Pop e Jazz. Tornando al Medimex, occorre ricordare i numeri di questa edizione,
con 150 eventi tra concerti (40) incontri d’autore, panel, case history, face to face e
presentazioni a partire da quella nazionale del nuovo album della Nannini.
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ECONOMIA E LAVORO
del 23/10/15, pag. 1/3
Il castello sfatato
Legge di stabilità. Il falso scontro sulle case di lusso nasconde l’unica
vera posta in gioco: la rinegoziazione del debito e delle regole europee
Marco Bascetta
Neanche Gulliver, nei suoi straordinari viaggi, si è mai imbattuto in un paese in cui
scontrini e castelli occupassero il centro del dibattito politico. Del resto quando si procede
lungo binari obbligati e compatibilità senza varianti trovare oggetti di disputa richiede un
sempre maggiore sforzo di fantasia.
Così il premier avrebbe fatto marcia indietro sulla detassazione dei primi castelli. Non
l’aveva mai prevista? Si è lasciato convincere?, si interroga la stampa più maliziosa. Nel
secondo caso la sinistra dem avrebbe inferto un colpo mortale al feudalesimo solo 226
anni dopo la Rivoluzione francese. In entrambi i casi è evidente che la questione conta
meno di zero. Ragion per cui occupa da giorni editoriali, commenti, vignette, indignate
dichiarazioni su gran parte dei media italiani. Insomma sta in buona compagnia, quanto a
rilevanza effettiva, con tutti gli altri “successi” conseguiti dalla sinistra del Pd sotto il regno
di Matteo Renzi.
Intanto la legge di stabilità striscia nell’ombra verso l’approvazione garantita dalla fiducia.
Furbetta, a volte roboante, nei confronti delle severe regole europee, ma tutto sommato
piuttosto obbediente. Bruxelles potrà anche storcere il naso sulla detassazione della prima
casa (che essendo un bene di consumo, contrariamente ad altre rendite da capitale, figura
tra i bersagli prediletti dall’ideologia fiscale liberista dedita a garantire l’accumulazione del
capitale) ma sa bene che il terreno perso potrà essere recuperato tra tagli, privatizzazioni
e tassazioni indirette. Queste ultime, causa scatenante di innumerevoli rivolte nel corso
della storia, godono oggi di un certo anonimato e scarsa attenzione. In fondo nessuno ti
chiama a pagare per nome e cognome. Mal comune mezzo gaudio. Su questo piano
siamo tutti ampiamente mitridatizzati e non c’è governo che non lo sappia.
Dunque, insiste Bruxelles e Roma recepisce, bisogna detassare il lavoro. Lo sgravio si
sdoppia però in due voci: favorire i profitti d’impresa o la busta paga dei dipendenti, o
entrambi in determinate proporzioni. Il risparmio fiscale delle imprese si suppone
indirizzato agli investimenti e dunque a nuova occupazione. Si suppone perché trattasi di
un risultato del tutto aleatorio. In primo luogo e nel migliore dei casi gli investimenti
possono essere indirizzati alla sostituzione di lavoro vivo con lavoro morto. In secondo
luogo, così come le enormi somme di denaro immesse nelle casse delle banche, i risparmi
fiscali possono prendere la via del circuito finanziario. Infine, tasse o non tasse, se il
mercato e cioè i consumi non “tirano”, gli imprenditori si guarderanno bene dall’assumere
nuovo personale, come hanno più volte dichiarato. Consumi che dovrebbero invece
crescere grazie al ridotto carico fiscale sulle buste paga, ma che, se fortemente tassati a
loro volta come prescritto dalla dottrina liberista, non produrrebbero alcun effetto
espansivo. C’è naturalmente la scommessa sul primato dell’export. Ma chi ci crede
nell’attuale congiuntura globale? O nelle retoriche del «facciamo meglio della Germania»?
A forza di vantarci di non essere «come i Greci», sembra che lo stratosferico debito
pubblico italiano sia completamente scomparso. Sono lontani i tempi in cui il «signor
Spread» era più popolare delle star del calcio e oggetto di accalorate discussioni in ogni
bar del paese. Compiti fatti, problema risolto. Questa l’orgogliosa narrazione governativa.
Occupatevi, se vi garba davvero litigare, di manieri e scontrini.
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E se, invece, fosse proprio l’esame e la rinegoziazione di quel debito e le regole di rientro
stabilite dalle «istituzioni» europee il tema principale da affrontare quanto alla pressione
fiscale e ai suoi effetti recessivi?
Certo non è facile, dopo aver sbeffeggiato Atene e sacralizzato gli interessi dei creditori,
immaginando di poter rosicchiare in cambio qualche margine di tolleranza a Francoforte e
Bruxelles. Magari sulla pelle dei migranti. «Quali tasse e quali tagli, lo decidiamo noi!»,
tuona il premier. Ma è evidente che non è affatto così, che la decisione sia imposta per via
diretta o indiretta. Né prima, né durante, né dopo la crisi greca vi è stato alcun discorso
serio sull’Europa e le sue politiche economiche e finanziarie da parte del governo di
Roma, impegnato, semmai, in una gestione meschina (e perdente) del vantaggio
nazionale. Cosicché la questione fiscale ci viene riproposta in termini assolutamente
arcaici, quando non interessatamente banali, prescindendo allegramente dal peso della
rendita finanziaria e dal dumping fiscale all’interno dell’Unione. Come una partita che
possa risolversi all’interno dei singoli paesi o nella loro autonoma e furbastra
contrattazione con Bruxelles. E’ il paradosso di quell’europeismo nazionalista che ha
disgraziatamente occupato il campo del progetto di integrazione europeo.
Il governo di Atene ha appena licenziato la direttrice dell’agenzia delle entrate sulla quale
sono state aperte due delicate inchieste giudiziarie. Si temono veementi reazioni da
Bruxelles perché l’autonomia dell’organismo tributario dal governo ne risulterebbe
minacciata. Organismo che si suppone debba, invece, sottostare alle ragioni indiscusse
dell’austerità e dunque a quelle dei creditori. Ma non è il caso di preoccuparsi: «Noi non
siamo mica la Grecia!»
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