Quello che vedo - Comune di Somma Lombardo

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Quello che vedo - Comune di Somma Lombardo
Quello che vedo di SIMONE CENSI
La chiave si infilò nella toppa e girò sicura, due mandate.
Il sole era appena apparso dalle montagne in fondo alla vallata, ma un cielo plumbeo faceva sì che
l’alba fosse solamente una notte meno buia.
La porta si spalancò piano in quel piccolo appartamento in periferia e la luce dei lampioni ancora
accesi filtrava attraverso le finestre semichiuse, mentre le tende smosse dal vento disegnavano
fantasmi sul pavimento.
Allungò la mano lungo la parete, nonostante fossero anni che viveva li ancora non riusciva a trovare
l’interruttore al primo colpo.
Il silenzio per le strade della città a quell’ora, era niente a confronto del silenzio che c’era in quel
piccolo alloggio ricavato in un seminterrato ed era niente soprattutto se paragonato al silenzio che
imperava nella testa di Pablo Conch.
Un uomo solo, senza una famiglia, senza qualcuno che attendesse ansioso a casa il suo ritorno.
Viso ruvido, rigato dalla vita come nell’anima, movimenti meccanici, non studiati, una schiena
curva, uno sguardo assente, abiti sgualciti e… intrisi di sangue.
Mani ruvide come quelle di chi è abituato a lavorare sodo, non avvezze alla benché minima
delicatezza, incapaci di poter rendere anche solamente una carezza.
Una scorza quella che Pablo Conch si era creato attorno a sé, una crosta che era abituato a rivestire
sempre con i soliti quattro cenci.
Richiuse l’uscio e si fermò subito un istante, chiuse gli occhi e respirò a pieni polmoni la stantia aria
di casa. Quegli appartamenti erano così umidi che spesso la mattina potevi trovare le pareti
completamente bagnate. Quell’odore di muffa era pregnante del’aria, ma al tempo stesso aveva un
effetto rassicurante per lui, era l’odore che era abituato a sentire quando finalmente ritornava nella
sua tana, l’odore che era abituato a sentire quando la nottata era trascorsa tutta bene e finalmente era
al sicuro da tutto e tutti, soprattutto da se stesso.
Si tolse la giacca e la lasciò scivolare su di una sedia e da lì finì direttamente in terra. Si fermò un
attimo sulla porta del bagno e si sfilò con estrema lentezza la maglia, i pantaloni, i calzini, le scarpe
lasciando gli indumenti alla rinfusa dietro di se, fino a rimanere completamente nudo.
Come un verme, così si sentiva e forse quello che era realmente.
Un lombrico che risiedeva in quel frutto marcio che era la città, lì proprio al margine, sotto la buccia,
un parassita abituato a prendere senza mai dare, con la capacità di trasformarsi da un semplice
vermicello in un animale feroce e letale.
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Fece cadere gli abiti a terra, il contatto con il freddo pavimento sembrava dargli un po’ di ristoro da
quel rogo che dentro lo avvampava. Aveva fatto gli straordinari quella sera, non si poteva certo dire
che si era risparmiato, era stato una vera e propria macchina per uccidere. Gi indumenti lisi e
maleodoranti di sudore erano puntellati da schizzi di sangue, sulle maniche, sulle braghe e sulle
scarpe, una vera mattanza quella notte e le tracce c’erano tutte.
Tutto era passato adesso, ora poteva riposare e sgomberare la mente da ogni cattivo pensiero, adesso
che stava a casa, al sicuro.
Fissava inebetito quei piccoli puntini rossi immaginando di riuscire a ricostruire i volti delle vittime
ricongiungendo le chiazze. Una pazzia.
Troppe le macchie, troppe le vittime da ricostruire, non riusciva nemmeno lui a ricordarle tutte
quante, non era molto fisionomista tra l’altro, lui doveva fare solo quello che doveva fare, punto e
basta.
Tutto era passato e rimaneva lì su quel pavimento, come fosse una corteccia da togliere ad un albero,
come se avesse lasciato cadere a terra la pelle che quella notte aveva abitato, indossando ora una
nuova veste, candida, pura, come se potesse d’un tratto ricostruirsi una nuova verginità.
Entrò in bagno, il freddo pungente che inizialmente sembrava essere un ristoro per quei callosi piedi,
iniziava a salire su per la spina dorsale. Arrivò davanti al lavandino e si sistemò sopra il tappeto.
Trafficò a lungo con entrambe le manopole del rubinetto, cercando di miscelare la temperatura, poi
iniziò a lavarsi gli avambracci e le mani, facendo molta attenzione ai residui che come ogni volta
rimanevano insistentemente sotto le unghie. Maledette unghie, da quando aveva smesso di
mangiarsele erano diventate il covo ideale per ogni tipo di sporcizia.
Era una fissazione per lui, prima di andarsi a riposare voleva essere assolutamente certo di aver
lavato via ogni possibile traccia, ogni segno che al risveglio lo potesse ricollegare al macello della
notte passata. Era così ogni notte, sotto le coperte prima di coricarsi lo assaliva improvviso come in
un agguato, il desiderio di risvegliarsi come un altro, ma non c’era niente da fare.
Miscelò nuovamente le manopole per abbassare la temperatura e raccolse l’acqua a mani giunte
immergendoci completamente il volto. Ripeté l’operazione più volte, strofinando forte e soffiandosi
il naso, una operazione lunga ma non sufficiente, la stanchezza che aveva addosso non l’avrebbe
lavata via così facilmente.
Si tirò su e si mise di faccia allo specchio. Non si riconobbe subito, non riusciva a credere a quello
che vedeva.
Era una faccia familiare ma non del tutto conosciuta, una faccia amica e ostile allo stesso momento.
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I segni del passaggio del tempo quelli sì che erano ben visibili, come erano evidenti i solchi che le
sofferenze arrecate e subite erano rimasti sul suo volto.
Si avvicinò di più, come incredulo, cercando di studiare a fondo quello sconosciuto che stava
vestendo e che vedeva riflesso allo specchio.
Questa volta si mise giù, con la testa sotto il getto dell’acqua, come a cercare una purificazione tanto
necessaria quanto improbabile, un nuovo battesimo.
Si rialzò lentamente, ma questa volta non cercò il contatto visivo con lo specchio, anzi, gli diede
proprio le spalle e si infilò sotto la doccia.
Un getto di acqua calda e gran lavoro di saponetta a raschiare ciò che la vita aveva sedimentato su di
lui, ma Pablo Conch rimaneva sporco dentro.
Un mostro si agitava in lui e lo avvolgeva in mille spire, quegli occhi innocenti che lo fissavano
mentre impugnava il coltello, quei flebili lamenti mentre affondava la lama, il sangue che zampillava
dalle ferite a lordare i vestiti, il fluido ematico che si rapprendeva e attraverso di esso la vita che
scemava.
Questo era Pablo Conch e questo era quello che agli occhi di molti lo faceva passare come un
mostro.
Si asciugò la pelle con un asciugamano, sembrava ora meno automa, con movimenti molto meno
meccanici, forse più rilassati, quasi umani.
Uscì dal bagno e si accese una sigaretta andandosela a fumare alla finestra, non aveva fame si
sarebbe nutrito al risveglio.
Il sole era salito in cielo e si era anche liberato delle nubi intorno, Pablo gettò la sigaretta a metà e
richiuse la finestra rimanendo nuovamente al buio.
Nell’oscurità a tentoni si avvicinò al letto e si distese su di un fianco con il volto verso il muro,
trascinando con se tutte le lenzuola.
Chiuse gli occhi, anche quel giorno era stato chiuso. Domani al mattatoio comunale, altri animali
attendevano Pablo Conch, il loro boia.
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