psicomotricita

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I.P.S.S.C.T.S. "P. Sella" Mosso
PSICOMOTRICITA’
Di psicomotricità si parla, in Italia, da circa 25 anni, ma non c’è stata una sola psicomotricità.
Psicomotricità si compone di due parti:
 Psiche la parte non tangibile, non biologica dell’essere umano
 Motricità l’azione di movimento compiuta dal corpo o parte di esso
pertanto la psicomotricità intende sottolineare il collegamento fra ciò che è interno e ciò che è
visibile.
Quando, alla fine degli anni ’60, nasce la psicomotricità francese, la scuola italiana è
dominata dall’imperialismo verbale, è tutta orientata sulla psiche, sul pensiero: imparare le
poesie, la grammatica, far di conto, è nobilitante; non lo è giocare, correre, saltare.
L’educazione motoria non esiste, o quando viene effettuata consiste in ordinativi militari,
cambi di fronte, esercizi alla spalliera; i bambini che non dimostrano disciplina vengono puniti,
emarginati, o espulsi.
Qualche novità viene portata dall’esperienza di D. Milani, che apre una scuola alternativa
presso la sua canonica a Barbiana, in Toscana, per ragazzi “difficili”, estromessi, a vario
titolo, dalla scuola ufficiale.
La psicomotricità nasce e si sviluppa grazie ad una sensibilità nuova verso i temi
dell’educazione.
L’idea è che il bambino è “uno solo”, non c’è un bambino che pensa, uno che legge … uno
che gioca.
Wallon, a partire dagli anni ‘30/’40, sviluppa in Francia degli studi a proposito del rapporto tra
emozione e comportamento, tra atteggiamenti e reazioni muscolari; per lui l’uomo è un’unità
biologica che vive, cresce e si esprime attraverso il movimento, e se questo risulta
particolarmente evidente nei primi anni di vita, non per questo lo diventa meno nelle fasi
successive dello sviluppo.
Altro importante punto di riferimento sono gli studi di Piaget sull’origine concreta
dell’intelligenza.
Per questo autore lo sviluppo delle funzioni intellettive non può essere attribuito solo alle
pressioni provenienti dal mondo esterno, ma non si può nemmeno considerare l’intelligenza
come una struttura preformata; egli sostiene che lo sviluppo dell’intelligenza è dovuto ad una
attività di esplorazione che il soggetto realizza con le azioni, e dalla quale ottiene informazioni
da lui stesso elaborabili e “accomodabili”.
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Se quindi l’uomo è una indissolubile unità che non solo pensa e si muove, ma
complessivamente agisce, non devono esistere due diverse organizzazioni educative, una
per l’intelletto e l’altra per il corpo, ma questi due aspetti si devono compenetrare.
Negli anni ’80 assistiamo ad un radicamento della psicomotricità, ma contemporaneamente
alcuni cominciano a discuterne le applicazioni pratiche.
Se è stato importante scoprire che c’è interrelazione tra i fenomeni intellettivi e il movimento,
e che non si può educare quest’ultimo separandolo da quello mentale, diventa importante
anche verificare quanto i percorsi psicomotori portassero a risultanti “coerenti” con le
elaborazioni teoriche.
Da questo punto di vista la traduzione organizzativa della psicomotricità nella scuola italiana
ha mostrato limiti evidenti.
Prima di tutto la ricerca di novità ha prodotto diverse scuole di pensiero, spesso in
competizione fra di loro alla ricerca della più efficace; un altro limite poi è stato rappresentato
dalla ingenuità di voler trasportare l’esperienza francese nella realtà italiana.
In Francia la psicomotricità è stata inserita ufficialmente nei programmi scolastici nel 1969,
con 6 ore settimanali in ogni classe della scuola primaria, all’interno del “terzo tempo
pedagogico”.
Da noi il boom della psicomotricità avviene negli anni 1970-74, e chi si occupa di educazione
al movimento è l’insegnante di Educazione Fisica, ma a partire dagli 11 anni; inoltre la sua
formazione, avvenuta all’ISEF, è basata sull’EF tradizionale, quella che sviluppa i muscoli.
Nelle scuole elementari invece se ne devono occupare i maestri, che non hanno
preparazione specifica al movimento, e quindi viene in genere effettuata da personale esterno
finendo per perdere il carattere pedagogico complessivo che aveva in origine; essa
richiedeva infatti la ridiscussione dell’intero ordinamento didattico, dominato da lettura,
scrittura e poesie da imparare a memoria, e non la settorializzazione della psicomotricità in
tempi, luoghi, spazi, diversi dalle altre aree curriculari; diventa non solo un’attività distinta
dall’area intellettiva, ma anche da quella fisico-sportiva.
Si viene così a creare un comparto per gli “apprendimenti cognitivi”, presentati come principali
perché ben specificati nei programmi ministeriali, un comparto “psicomotorio” che ha la
pretesa di riunificare il bambino-corpo con il bambino-mente attraverso esercizi mutuati dai
testi francesi, e un piccolo comparto di “motricità spontanea” e ludica rappresentata dalle
attività effettuate negli intervalli che serve a compensare gli sforzi profusi dai bambini per
accedere agli apprendimenti dei comparti precedenti.
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Lo spazio riservato alla psicomotricità si riduce di fatto ad un piccolo laboratoruio di 1-2 ore
settimanali, dove viene nuovamente proposta una motricità artificiale, con delle finalità
cognitive proprie del progetto dell’adulto, e le sedute psicomotorie intese come propedeutiche
alle acquisizioni matematiche, verbali, ecc, finiscono per risultare spesso noiose e poco
coinvolgenti per i bambini.
Gli psicomotricisti non sempre si sono posti il problema della motivazione al movimento del
bambino: “la presa di coscienza del proprio corpo non si fabbrica in laboratorio, ma in
situazione reale, attraverso il piacere di sentirsi muovere” (Pujade-Renaud); i bambini reali
esprimono bisogno di movimento, di gioco, ben superiori a quelli soddisfabili attraverso
esercizi di percezione globale e segmentaria.
Per esprimersi attraverso il corpo essi non necessitano di condizioni particolari.
In Italia a mio parere, non è comunque ben chiaro neanche il concetto di motricità, che in sé
sarebbe già sufficiente a coinvolgere tutte le funzioni vitali dell’organismo.
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