Aprì gli occhi. Un vento brusco, deciso, si era intrufolato in camera

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Aprì gli occhi. Un vento brusco, deciso, si era intrufolato in camera
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Estratto da
Françoise Sagan, All’impazzata
Titolo dell’opera originale
La chamade
Traduzione a cura di Yasmina Melaouah
© Éditions Julliard, Paris 1965
© 2011 astoria srl
via Aristide De Togni 7 – 20123 Milano
Prima edizione: ottobre 2011
ISBN 978-88-96919-11-8
Progetto grafico: zevilhéritier
www.astoriaedizioni.it
Aprì gli occhi. Un vento brusco, deciso, si era intrufolato
in camera. Trasformava la tenda in una vela, faceva inclinare i fiori nel grande vaso posato per terra, e ora investiva
il suo sonno. Era un vento di primavera, il primo: odorava di boschi, di foreste, di terra, aveva attraversato indenne i sobborghi di Parigi, le strade impregnate di benzina,
e giungeva all’alba in camera sua, leggero, spavaldo, per
ricordarle, prim’ancora che riprendesse coscienza, il piacere di vivere.
Richiuse gli occhi, si girò bocconi, cercò con la mano, a
tentoni, l’orologio per terra, il volto sempre affondato nel
guanciale. Doveva averlo dimenticato, dimenticava sempre
tutto. Si alzò con precauzione, sporse il capo dalla finestra.
Era buio, le finestre di fronte erano chiuse. Era assurdo che
quel vento circolasse a quell’ora. Tornò a letto, si tirò addosso energicamente le lenzuola e per un po’ fece finta di
dormire.
Invano. Il vento sgroppava per la stanza, lo sentiva innervosirsi nella mollezza delle rose inclinate, nel gonfiore impaurito delle tende. A tratti passava su di lei, supplicandola con tutti i suoi profumi di campagna: “Vieni fuori, vieni
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fuori con me”. Il suo corpo intorpidito si rifiutava, lembi di
sogni tornavano a offuscarle il cervello, ma un sorriso le distendeva a poco a poco le labbra. L’alba, la campagna all’alba… i quattro platani sul terrazzo, le foglie che si stagliavano nitide contro il cielo bianco, il rumore della ghiaia sotto
le zampe del cane, l’eterna infanzia. Che cosa poteva ancora conferire qualche attrattiva all’infanzia dopo i rimpianti
degli scrittori, le teorie dei psicoanalisti, le subitanee effusioni di ogni essere umano non appena affrontava il tema:
“Quando ero bambino”? Forse la nostalgia di un’irresponsabilità suprema e perduta. Ma (non l’avrebbe confessato a
nessuno) lei non l’aveva perduta. Lei si sentiva totalmente
irresponsabile.
Quest’ultimo pensiero la indusse ad alzarsi. Cercò con lo
sguardo la vestaglia e non la trovò. Qualcuno doveva averla
messa via, ma dove? Aprì i grandi armadi sospirando. Decisamente, non si sarebbe mai abituata a quella stanza. Né,
del resto, a nessun’altra. Gli arredamenti la lasciavano del
tutto indifferente. Eppure era una bella stanza, col soffitto
alto, due grandi finestre che davano su una strada della Rive
gauche e una moquette grigio-azzurra, piacevole per l’occhio, e per il piede. Il letto sembrava un’isola, circondata
da due soli scogli: il comodino e un tavolo basso tra le due
finestre, entrambi in stile purissimo, a detta di Charles. E
la vestaglia, che finalmente scovò, era di seta, e il lusso una
cosa davvero molto piacevole.
Passò nella stanza di Charles. Dormiva, con le finestre
chiuse, la lampada da notte accesa, e non c’era vento che lo
disturbasse. I sonniferi erano disposti in bell’ordine accanto
al pacchetto di sigarette, l’accendino, la sveglia puntata per
le otto e la bottiglia di acqua minerale. Soltanto “Le Monde” giaceva a terra. Si sedette ai piedi del letto a guardarlo.
Charles aveva cinquant’anni, bei lineamenti un po’ molli
e un’aria infelice quando dormiva. Quella mattina aveva
l’aria ancora più triste del solito. Trattava in immobili, aveva molto denaro e rapporti umani abbastanza difficili dovuti a un misto di cortesia e timidezza che a volte lo rendeva glaciale. Vivevano insieme da due anni, ammesso che si
potesse definire vivere insieme il fatto di abitare nello stesso
appartamento, di frequentare le stesse persone e dividere
qualche volta lo stesso letto. Charles si girò verso la parete
e fece un breve gemito. Pensò ancora una volta che forse
lei lo rendeva infelice e, subito dopo, che lo sarebbe stato
comunque con una donna più giovane di lui di vent’anni e
con un forte senso d’indipendenza. Prese una sigaretta sul
comodino, l’accese senza fare rumore e riprese la sua contemplazione. I capelli di Charles diventavano grigi in alto, le
vene spiccavano sulle mani che aveva molto belle, e la bocca si scolorava un po’. Provò un impeto di affetto per lui.
Com’era possibile essere buono, intelligente e così infelice?
Non poteva far nulla per lui: non si può consolare nessuno
di essere nato e di dover morire. Si mise a tossire, faceva
male a fumare al mattino a digiuno. Non bisognava fumare
a digiuno, e neppure bere alcolici, né guidare troppo veloce,
né fare troppo l’amore, né affaticare il cuore, né spendere
soldi, nulla insomma. Sbadigliò. Sarebbe andata a prendere la macchina e avrebbe seguito il vento di primavera in
campagna, lontano. Oggi non avrebbe lavorato, esattamente come gli altri giorni. Grazie a Charles, ne aveva perso
l’abitudine.
Una mezz’ora più tardi correva sull’autostrada per
Nancy. La radio del cabriolet trasmetteva un concerto. Di
chi era? Grieg, Schumann, Rachmaninoff ? Senz’altro un
romantico, ma quale? La cosa la irritava e la divertiva in-
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sieme. Amava la cultura solo attraverso la memoria, e una
memoria sensibile. “L’ho ascoltato venti volte e so che in
quel momento ero infelice e mi pareva che questa musica
aderisse alla sofferenza come una decalcomania.” Aveva già
dimenticato chi fosse all’origine di quella sofferenza, stava
già invecchiando. Ma le importava poco. Era un bel po’ che
non si pensava più, che non si vedeva più, che non si definiva più ai propri occhi, e che soltanto il presente correva con
lei in quel vento dell’alba.
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