STRAUBOSCOPIE Rassegna audio-video musicale 2011 Primo
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STRAUBOSCOPIE Rassegna audio-video musicale 2011 Primo
ST RA U B OSC OP IE Rassegna audio-video musicale 2011 Primo incontro Martedì 4 ottobre 2011, ore 17.30 Venezia, Isola di San Giorgio Maggiore Machorka-Muff 1962 - 16'51" – bianco e nero Regia: Jean-Marie Straub. Sceneggiatura: Danièle Huillet, Jean-Marie Straub, dal racconto Hauptstädtisches Journal (Diario della capitale) di Heinrich Böll. Fotografia: Wendelin Sachtler. Suono: Janos Rozner, Jean-Marie Straub. Musica: Johann Sebastian Bach, François Louis. Montaggio: Jean-Marie Straub, Danièle Huillet. Interpreti: Erich Kuby (Erich von Machorka-Muff), Renate Lang (Inn), Johannes Eckardt (il prete), Rolf Thiede (Murcks-Maloche), Günter Strupp (Heffling), Heiner Braun (il ministro), Gino Cardella (il cameriere), Julius Wikidal (il muratore). Produzione: Straub-Huillet, Atlas Film (Duisburg), Cineropa-Film (Monaco). Direttore di produzione: Hans von der Heydt. Riprese: 3 settimane a Bonn e Monaco, settembre 1962 « Un rêve symboliquement abstrait, pas une histoire ». D’après Journal du général Erich von Teuf-Teufzim dans la capitale fédérale de Heinrich Böll. Il primo cortometraggio di Straub si basa sulla satira Haupstädtisches Journal di Heinrich Böll apparso nel 1956 in occasione della ricostituzione dell'esercito tedesco. Il colonnello Machorka-Muff è inviato a Bonn dal Ministero della Difesa, reintegrato e promosso generale. Sposa l'amata Inniga von Zaster-Pehnutz e può realizzare il suo progetto preferito: l'Accademia per la memoria militare, in cui ogni ex soldato, dal grado di maggiore in poi, dovrà avere la possibilità di scrivere le proprie memorie parlando con i camerati e collaborando con l'Ufficio per la storia bellica del Ministero. (Karsten Witte) Siccome dalla satira di Böll ho forgiato un'arma nuda per i molti che non sono né «militaristi» (l'antimilitarismo, come il ridere, è un narcotico per privilegiati) e per chi - come gli amanti del western - ha occhi e orecchie per ciò che il mio vecchio maestro Robert Bresson chiama «matière cinématographique», il distributore Atlas, i suoi cosidetti consiglieri artistici e alcuni altri che fungono da intellettuali (persino di sinistra) siedono davanti a Machorka-Muff come chi si aspettava una pornografia e invece gli si mostra una Venere di marmo! Inoltre M.-M. è dedicato all'autore di La resistibile ascesa di Arturo Ui e a quello di Jack Diamond gangster, ed è costruito sull'equazione M=M (Militär=Mörder, Militare=Assassino) (Jean-Marie Straub, «Filmkritik», aprile 1964) Voi stessi sapete bene che avete preso il cammino difficile. È perciò che vi scrivo, affinché sappiate che avete compiuto un buon lavoro. Nel campo dello spirito non conta l'abbondanza, ma la verità e l'efficacia creatrice. Il soggetto è preso dal nostro presente. È vero, preciso, universalmente valido. Colui che biasima la eccessiva acutezza non sa nulla della necessità artistica, di affidare un'idea all'estremo, affinché essa tocchi veramente. Date a dei tali brontoloni dei drammi greci o Shakespeare da leggere. Ciò che nel vostro film mi ha interessato soprattutto è la composizione del tempo, proprio al film come alla musica. Avete realizzato delle buone proporzioni di durata fra le scene dove gli avvenimenti sono quasi in movimento - sorprendente, in un tale film ristretto su una durata relativamente corta, il coraggio delle pause, dei tempi lenti! E quelle dove essi sono estremamemente rapidi - scintillante l'idea di scegliere giustamente per quello scopo gli estratti di giornali in tuttte le posizioni angolari sulla verticalità dello schermo. In più, la relativa densità dei cambiamenti nei tempi è veramente buona… Lasciare venire ogni elemento al suo momento insostituibile, che sarebbe impensabile di togliere; nessun ornamento. «Tutto è essenziale», diceva Webern in simili casi (soltanto ogni cosa a suo tempo, si dovrebbe aggiungere). Altrettanto buone la franchezza, la riflessione che continua nella testa dello spettatore, la rinuncia a ogni atto d'apertura e atto finale. Potrei aggiungere ancora molto: nessuna pretesa di «insegnare», migliorare il mondo, illudere, simbolizzare falsamente «Come se»: non ne avete avuto bisogno e al loro posto avete scelto dei fatti; non certo quelli di un piatto reportage ma giustamente per questo affinamento, questa condotta stranamente folgorante della macchina da presa nelle strade, l'hotel (benissimo, i muri della camera d'albergo che restano lungamente vuoti, dalla cui nudità non ci si può staccare), alla finestra… E ancora la condensazione «irreale» del tempo, senza che si abbia fretta, in questa linea tagliente fra la verità, la concentrazione e l'affinamento (che penetra bruciando nella percezione del reale), il progresso sarà possible. Da nessuna parte altrove. Oggi sappiamo bene che anche l'illusione fatta a pezzi è un'illusione. Voi non volete «cambiare» il mondo, non incidere in esso la traccia della vostra presenza e da lì dire che avete visto, che avete aperto una parte di questo mondo, come essa vi si dà. Questo mi è piaciuto. Aspetto con impazienza il vostro lavoro a venire… (Karlheinz Stockhausen, Colonia, 2 maggio 1963, da «Film», n. 2, 1963) Questo cortometraggio di un quarto d'ora, liberamente ispirato a Heinrich Böll, girato da un giovane francese esiliato da qualche anno oltre il Reno, non potrebbe essere, molto semplicemente, il primo (piccolo) film d'autore di tutta la produzione tedesca del dopoguerra? L'ambizione del regista era di mettere in scena un «carattere» (qui, quello di un ufficiale nazista che ritrova poco per volta una collocazione nella società adenaueriana), cioè qualcosa di più di un ritratto, «descrizione che si fa dall'esterno del carattere di una persona». Per seguire, con Jean-Marie Straub, la citazione (di Marmontel): «Quando si dipinge un tipo umano, come l'avaro, il geloso, l'ipocrita, il perbenista, la coquette, non si tratta più di un ritratto, ma di un carattere; e questo è ciò che contraddistingue la satira…». Questa era l'ambizione di Straub; e nel film essa è pienamente realizzata, con una densità e un equilibrio dei rapporti interni che suggeriscono di ricorrere al bagaglio delle metafore musicali. (Jacques Rivette, «Cahiers du Cinéma», n. 145, luglio 1963) Fortini / Cani 1976 - 82' 46" documentario, colore. Regia: Jean-Marie Straub e Danièle Huillet Franco Fortini Franco Latte, Luciana Nissim, Adriano Aprà. Girato a partire dal libro I cani del Sinai (1967) di Franco Fortini (1917-1994). Sullo scorrere di immagini relative ai paesaggi italiani, si sentono brani di testi sui suoi sentimenti ambivalenti nei confronti del giudaismo. Da questi rapporti tra testo e immagine si sviluppa una forma di ritratto politico del poeta e saggista. Fortini/1 Fortini ci interessava in quanto ha fatto una riflessione consistente nel reiscrivere i macelli nazisti nel contesto della lotta di classe, nel contesto del colonialismo, del neocolonialismo, dell'imperialismo ecc.; anche perché noi [J.-M: Straub e D. Huillet] nel nostro… nella nostra piccola evoluzione siamo arrivati a questo punto: è chiaro che è questo ciò che ci interessava, però non basterebbe a fare un film. Ci interessavano le informazioni… che sono tante: per esempio che un ebreo in Italia era esentato dalle lezioni di religione; per esempio tutto quel che è successo al padre di Fortini; per esempio le leggi razziali, che non sono più gentili di quelle naziste - delle quali però, in Italia, la borghesia non vuol sentire parlare. In Italia sono persuasi di non essere razzisti, di non esserlo mai stati… Dicono: sì, in Francia, certo, i tedeschi, certo… ma in Italia no. Chiaro, perchè in Francia c'è stata l'occasione, non soltanto con gli ebrei (perché queste teorie assurde che sono passate in Austria e poi in Germania e riprese dal signor Hitler, sono state in fondo inventate a Parigi - almeno nella forma che è stata ripresa dal nazismo), ma soprattutto con la guerra di Algeria, con tante persone di colore che lavorano a Parigi ecc. In Italia invece l'occasione non si è avuta, ma non dimentichiamo l'Abissinia… e poi, insomma, vediamo un po' come sono trattati quelli del Sud che vanno a Milano o a Torino: non c'è differenza tra questo trattamento e quello dei negri o degli immigrati a Parigi. Fortini/2 Se volete, il rapporto, la distanza con Fortini è quella che abbiamo con Brecht. Neanche Brecht l'abbiamo presentato come un profeta che comunica una verità assoluta; anche Brecht è messo in questione, come Fortini […] non soltanto con le carrellate della macchina dentro Roma [in Lezioni di Storia] ma dagli interpeti stessi Brecht è messo in questione; e in Fortini/Cani, Primo Franco stesso è messo in questione da noi; secondo: il film dà lo spazio anche allo spettatore di essere messo a suo modo in discussione e, terzo […] Fortini stesso, accettando di leggere dei testi di nove anni prima senza riscriverli, si mette in questione… per forza… (Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, Intervista, in «Filmicritica», a cura di F. Porcarelli G. Spagnoletti, registrata a Roma il 28.11.1976). Quodlibet riedita il testo di Franco Fortini che Jean-Marie Straub e Danièle Huillet trasferirono sul grande schermo. I cani del Sinai sono quelli che si «affrettano a correre in aiuto dei vincitori» e non vivono affatto sul Sinai. L’Italia, ad esempio, ne è attualmente infestata. I cani del Sinai sono inoltre (e soprattutto), uno dei libri più belli e crudeli di Franco Fortini e un terribile j’accuse di uno dei più raffinati protagonisti della cultura ebraica contro l’ottusa politica anti-araba delle destre israeline. A partire da una basilare affermazione, dalla pietra angolare che va posta all’inizio di qualsiasi discussione a proposito della situazione medio-orientale e cioè, per dirla con la chiarezza delle parole fortiniane, che «chiamare antisemita la disapprovazione della politica israeliana è pura soperchieria». Per poi aggiungere, poco più avanti: «Naturalmente non esiste, se si vuole evitare il ridicolo, nessuna possibilità di confondere la nozione di "ebreo" con quella di "Israele". Anzi la grande sfera culturale del giudaismo, il suo suono storico e allegorico si sono, credo, definitivamente separati da tutta la realtà, positiva e negativa dello stato israeliano e della sua vicenda». Era il 1967, quando Fortini scriveva queste righe, appena dopo la cosiddetta guerra dei sei giorni, ed è sconcertante – e voglio subito sottolinearlo – l’espresione di assoluta urgenza e contemporaneità che continuano a sprigionare le pagine del testo che Quodlibet riedita, arricchendolo delle note composte dall’autore per la riduzione cinematografica che ne diedero, nel 1976, Danièle Huillet e Jean-Marie Straub nell’indimenticabile Fortini/Cani e di una lettera che il poeta fiorentino scrisse agli «ebrei italiani» nel 1989 e che fu pubblicata sul «Manifesto». Intreccio raffinato di analisi interiore e polemica politica dal calor bianco, I cani del Sinai è una salutare doccia fredda che ci invita di nuovo ad approfondire con spietatezza i problemi, a guardare la luna e non il dito che ce la indica, è un elettroshock che stimola tutti noi – a sinistra in primis – a riacquistare il coraggio della critica e, ovviamente, quello dell’autocritica, nello sforzo di trovare le ragioni giuste «ragioni comuniste, non soltanto proarabe». L’arroganza del potere non cambia e a noi, ieri come oggi, in Italia quanto in Palestina ed Israele, tocca essere «astuti come colombe» e non dimenticare, lo sottolinea Fortini stesso, che «come è stato detto, "la tentazione del bene è irresistibile" e quanto più il destino sembra distrutto tanto più comincia ad assomigliare a una libertà». E dunque, oggi come ieri, vale l’invito che egli lancia a tutti gli ebrei, perché parlino e si oppongano all’ottusità di una politica che conosce solo la logica delle armi, perché «se ogni loro parola toglie una cartuccia dai mitra dei soldati dello Tsahal, un’altra ne toglie anche a quelli […] dei palestinesi. Parlino dunque». Oggi come ieri. Oggi più di ieri. (Lello Voce, Cane contro cane, uomo contro uomo, «L'Unità», 26.10.2002) Film di un testo letto, «Fortini/Cani» è condotto sulla "lettura" interlineare di una scrittura, che diviene recitazione di sé, in un rapporto di vicinanza-distanza con il suo autore, improvvisamente ricondotto allo stato di lettore, attore/attante di una rivisitazione critica, testuale, ma distaccata, partecipe ed impartecipe di un rapporto nuovo con le cose e con le idee che queste sottendono. "Lettura" ma anche invenzione di un testo, provocato a rimeditarsi, nella solitudine degli anni, nella sconfinata landa delle idee, rimozione di un senso di colpa, di una educazione borghese, di una intellettualità segnata dentro i confini di una generazione. (Edoardo Bruno, L'uomo che "si" legge e mentre legge si giudica, «Filmcritica, XXVI, 269-270, novembre-dicembre 1976)