La storia dell`ambiente, Carocci 2004

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La storia dell`ambiente, Carocci 2004
UNIVERSITÀ
/ 586
STUDI SUPERIORI
A Giulia
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Marco Armiero
Stefania Barca
La storia dell’ambiente
Un’introduzione
Carocci editore
Il libro è frutto di un progetto e di un lavoro comune. Sebbene gli autori siano
ugualmente responsabili per l’intero volume, Marco Armiero ha scritto i CAPP. 1
e 5 e i PARR. 4.2, 4.4 e 4.6; Stefania Barca ha scritto i CAPP. 2 e 3 e i PARR. 4.1,
4.3 e 4.5.
1a edizione, maggio 2004
© copyright 2004 by Carocci editore S.p.A., Roma
Finito di stampare nel maggio 2004
per i tipi delle Arti Grafiche Editoriali Srl, Urbino
ISBN
88-430-3003-5
Riproduzione vietata ai sensi di legge
(art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633)
Senza regolare autorizzazione,
è vietato riprodurre questo volume
anche parzialmente e con qualsiasi mezzo,
compresa la fotocopia, anche per uso interno
o didattico.
Indice
1.
Presentazione
di Piero Bevilacqua
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Prefazione
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Storia
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1.1. Il ritorno della natura. Geografie e comologie della storia ambientale
1.2. I luoghi e i tempi della storia ambientale
1.3. Fonti e metodi
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1.3.1. Il Dust Bowl, per esempio / 1.3.2. Saperi, culture, sensibilità:
quando la storia dell’ambiente incontra la storia delle idee / 1.3.3. Storia
dell’ambiente e storia ecologica
1.4. La storia dell’ambiente in Italia
1.5. Conclusioni
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2.
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Natura
2.1. Evoluzione e co-evoluzione. La natura secondo gli storici
2.2. Natura, capitale, lavoro. Da Marx all’economia ecologica
2.3. Conclusioni
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3.
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Economia
3.1. L’Europa e le altre. Storie economico-ambientali del
mondo
3.2. Non solo capitalismo. Mercato, natura e storia
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LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
3.3. Prometeo da rivisitare: per una storia ecologica della
rivoluzione industriale
3.4. Nature e nazioni
3.5. Conclusioni
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000
4.
Risorse
000
4.1.
4.2.
4.3.
4.4.
4.5.
4.6.
4.7.
Risorse/società/culture
Suolo & vegetazione
Acque
Animali
Città e industria
Disastri
Conclusioni
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5.
Ecologia
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5.1.
5.2.
5.3.
5.4.
L’ecologia come scienza
L’ambientalismo
I conflitti ecologici
Conclusioni
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Epilogo
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Riferimenti bibliografici
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Indice dei nomi e dei luoghi
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Presentazione
Con molto coraggio, due giovani studiosi, Stefania Barca e Marco Armiero, si sono assunti l’onere di offrire al pubblico italiano un’impegnativa introduzione alla storia dell’ambiente. Il coraggio, in effetti, è
stata la materia prima necessaria, almeno in un duplice senso. Intanto, sotto il profilo intellettuale. Benché la storia dell’ambiente non
possa vantare che qualche decennio di vita, è pur vero che ai giorni
nostri essa ha ormai sedimentato una cospicua letteratura internazionale. E dunque non è più agevole per nessuno maneggiare la mole
considerevole di libri, saggi, articoli che si è andata accumulando in
tutti questi anni. D’altra parte, il coraggio per intraprendere un simile
compito era necessario anche sotto il profilo editoriale. Questo libro
non è propriamente un saggio di larga divulgazione e, benché i due
autori rifuggano dai tecnicismi e dalle gergalità del mestiere, esso si
presenta come un’ampia illustrazione dei principali percorsi compiuti
da alcuni campi del sapere – la storia dell’ambiente, ma non solo –
destinata agli specialisti e a un pubblico colto, che certo in Italia non
appare oggi particolarmente vasto.
Credo di poter affermare che il compito di Barca e Armiero sia
pienamente riuscito: sia per la qualità e la completezza della loro ricostruzione, sia per l’evidente utilità del loro lavoro. Il volume offre
al pubblico nazionale (sic?) la possibilità di farsi un’idea non superficiale, ma neppure troppo specialistica, di un settore di studi che incarna una delle più profonde rivoluzioni culturali del nostro tempo.
Il maggiore torto che si potrebbe fare a questa Storia dell’ambiente è
di scambiarla per una semplice rassegna storiografica, volta a incasellare questo nuovo filone di studi, oggi “alla moda”, accanto alle
altre tematiche storiografiche fiorite negli ultimi decenni in Europa.
Ma la storia dell’ambiente non è – come chiariscono gli autori – «una
nuova disciplina» o «un ennesimo specialismo accademico». Al contrario
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LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
Si tratta di qualcosa di più ambizioso, un progetto che vuole mettere in discussione l’intero statuto epistemologico delle scienze storiche, lanciando una
sfida: rimettere la natura dentro la storia, e riscrivere i libri guardando al
modo in cui gruppi, società, nazioni, individui e culture hanno interagito coi
loro ambienti, e sono stati influenzati da essi.
La storia ambientale, in effetti, è portatrice di un radicalismo originario nei confronti dello statuto fondativo della disciplina, di quello che
a buon diritto può considerarsi il più antico sapere dell’umanità: rovescia o, comunque, corregge profondamente la visione antropocentrica
di tutto il nostro passato. E non è per nulla paradossale che sia proprio la storia in quanto disciplina a rimettere in discussione la centralità dell’uomo che osserva e racconta. Non ci si pensa, ma l’uomo, in
quanto essere naturale, è il frutto di una storia non umana, la storia
millenaria della Terra. È stata la lunga evoluzione geologica e biologica
del pianeta che ha portato alla formazione dei primi ominidi e all’ambiente favorevole alla loro sopravvivenza. Gli uomini che intraprendono a raccontare la loro storia sono il frutto di una storia naturale dimenticata. Una vicenda che li precede e che continua anche quando
l’umano dominio è diventato così grande come ai nostri giorni.
Gli autori danno conto di questa nuova ambizione epistemologica
con ampiezza di riferimenti tematici e attraverso la rapida ricostruzione del profilo di vari autori. Ma, prima di tutto, come si fa in ogni
storia che si rispetti, cercano di svelare il “mistero” delle origini. Dove
e com’è nata la storia dell’ambiente? Da quali percorsi culturali proviene questo nuovo modo di raccontare il passato che attraversa lo scenario culturale del nostro tempo? Gli autori non pretendono, ovviamente, di dare risposte esaurienti a una questione che – come tutte le questioni delle origini – è destinata a non trovare soluzioni definitive.
E tuttavia essi individuano due grandi tradizioni storiografiche
che hanno profondamente marcato, per la loro radicalità innovativa,
la cultura di una parte almeno dell’età contemporanea. La ricerca e le
elaborazioni culturali che fanno capo alle “Annales” francesi – quella
storia che per quasi tutto il XX secolo ha saputo dialogare con la più
avanzata geografia umana – e la storiografia americana della frontiera,
che aveva posto al centro della sua ricostruzione gli spazi dell’Ovest.
Due tradizioni, come si vede, molto distanti, che hanno messo capo a
diversi stili di storia ambientale – ma per la verità la Francia, che ha
compiuto il miracolo novecentesco delle “Annales”, non ha ancora
generato nulla di particolarmente significativo in tale nuovo ambito –
e che oggi vengono a comporre, attraverso diverse lingue nazionali, il
variegato mosaico degli studi internazionali di storia dell’ambiente.
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PRESENTAZIONE
Mi sembra una griglia interpretativa degna di nota, e che sicuramente
cattura buona parte di quello che deve essere stato il percorso reale,
ma che certamente non può racchiudere e imbrigliare tutte le vicende
nazionali. La storiografia tedesca, ad esempio, benché certo influenzata anch’essa dalle “Annales”, mi sembra svilupparsi su basi culturali
più autoctone rispetto alle altre esperienze nazionali. Ma queste sono
questioni troppo precoci per un’area disciplinare che sta solo oggi
prendendo il morbillo e la varicella (sic?).
Ciò che invece importa sottolineare è che gli autori riescono a
porre in rilievo il portato radicalmente innovatore di questi nuovi studi di storia – e a mostrarlo persuasivamente al lettore – attraverso il
rapido richiamo ad alcune figure di rilievo che hanno contribuito a
formare, sul piano della ricerca e dell’elaborazione teorica, la tradizione del pensiero ecologico. A volte, tali figure sono assai note, fanno
parte dell’Olimpo del pensiero contemporaneo. E Barca e Armiero,
tuttavia, si incaricano – sulla scorta della letteratura ambientalista degli ultimi anni – di mostrare alcuni lati nascosti, ma fecondi del pensiero di questi autori, che hanno contribuito a una visione critica della società capitalistica e dei saperi dominanti che la orientano e la
rappresentano. È il caso, ad esempio, del Marx dei Manoscritti economico-filosofici del 1844, o del terzo libro del Capitale, che si sofferma
con ampiezza sui problemi della rendita fondiaria. Non pochi ambientalisti, infatti, e anche storici dell’ambiente, hanno visto nell’opera di Marx il patrimonio di riferimento teorico fondamentale a cui
ispirarsi. E in alcuni casi tale scelta ha dato vita a una vera e propria
corrente di ricerche e studi, come quella dell’ecomarxismo, che vanta
ormai molti anni di milizia intellettuale e non pochi proseliti.
Anche autori meno influenti di Marx, come Malthus o Polanyi,
vengono trascinati sul palcoscenico dei capostipiti. E questo in omaggio a una pratica ormai consolidata da parte di non pochi studiosi
che hanno voluto delineare l’archeologia dei saperi su cui si fonda
l’attuale cultura ecologica e ambientalista. Ma di sicuro la carica di
critica più dirompente i due autori l’affidano, nella loro ricostruzione,
ad alcune figure di studiosi, nostri contemporanei, che hanno svolto
un ruolo rilevante nel rovesciare il tavolo delle carte del pensiero
scientifico e sociale del nostro tempo. Il rapido profilo del biologo
americano Barry Commoner e dell’economista rumeno Nicholas
Georgescu-Roegen, ad esempio, consente di rivisitare alcune acquisizioni-chiave del pensiero critico che ispirerà la ricerca storica. Commoner, nel suo fondamentale Il cerchio da chiudere (1971), mostrava
come il sistema economico moderno «ha spezzato il cerchio della vita
trasformando i suoi cicli senza fine in eventi umani di tipo lineare»,
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LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
mettendo così a rischio, per la prima volta nella storia dell’umanità,
la capacità di rigenerazione ciclica della natura.
Su un altro versante, quello del consumo di energia, GeorgescuRoegen squadernava davanti al pensiero economico gli scenari inquietanti dell’entropia, l’assoggettamento della produzione della ricchezza
alle leggi fisiche della termodinamica. Illustrando alcune riflessioni
fondamentali dell’economista rumeno, commentano Barca e Armiero:
Al termine di ogni processo di produzione una parte della materia-energia è
irrimediabilmente perduta. L’importanza di questa affermazione da un punto
di vista storico è enorme: d’ora in avanti non sarà possibile concepire la storia come un processo ininterrotto del genere umano verso un maggiore grado di benessere e sicurezza, ma sarà necessario considerare anche i costi del
progresso, non solo quelli sociali e culturali, ma anche quelli propriamente
fisici. Insomma, il sistema economico non è un mondo astratto, dominato
dalle leggi dell’utilità marginale e delle preferenze individuali, ma un sottoinsieme del più ampio sistema ecologico, governato dalle leggi della trasformazione della materia-energia, che bisogna in qualche modo tenere in conto.
Potrebbe apparire, da questi fin troppo rapidi cenni, che gli autori
diano rilievo e visibilità soprattutto al pensiero ecologico e ai suoi
maggiori rappresentanti, piuttosto che alle posizioni degli storici e
alle varie scuole di appartenenza. Ovviamente non è così. Gli storici
ci sono, con i loro studi, acquisizioni, controversie e i due autori ne
danno ampiamente conto, informando anche il lettore delle diverse
strategie metodologiche e dei vari stili di pensiero che li ispirano. E
occorre aggiungere che svolgono tale compito con maturità di giudizio e con equilibrio, evitando di sposare posizioni unilaterali, ancorché suggestive, che alcuni storici propongono.
Essi mettono al tempo stesso in evidenza i progressi compiuti sul
piano dei rapporti tra i diversi saperi e le discipline e si discostano
anche apprezzabilmente dal “pessimismo” di qualche studioso. A tal
proposito, concordo pienamente con Barca e Armiero allorché non
accettano fino in fondo l’opinione di Donald Worster – uno dei più
autorevoli storici dell’ambiente – secondo cui «la storia dell’ambiente
non è mai diventata una disciplina nuova in grado davvero di ibridare diversi saperi; piuttosto essa appare come un ramo nuovo su un
albero vecchio». In tale giudizio, che giustamente non cede ai trionfalismi, c’è tuttavia una sottovalutazione sostanziale dei risultati ottenuti. Osservano i due autori:
Storici che frequentano la letteratura prodotta da scienziati naturali e medici
e viceversa scienziati che leggono opere di storici o, più spesso, introducono
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PRESENTAZIONE
elementi diacronici nelle loro ricerche ci sembrano comunque risultati importanti. L’ibridazione tra i saperi non è avvenuta ma si è lanciato un ponte
tra mondi da lunghissimo tempo sottoposti ad una rigida segregazione.
D’altro canto, poiché la storia dell’ambiente, come si è detto, non è
un qualunque settore disciplinare – e l’assunto di Barca e Armiero
non è quello di una sistematica rassegna storiografica – appare naturale che diano un rilievo particolare alle acquisizioni di pensiero, alle
critiche che illuminano di inatteso bagliore il conformismo economicistico che soffoca la cultura del nostro tempo.
Non è peraltro meno vero, come questo volume mostra ampiamente, che anche gli storici sono spesso portatori di interpretazioni
radicalmente innovative, sulla base, talora, di proprie originali elaborazioni. È il caso, ad esempio, di Alfred Crosby, l’autore di Lo scambio colombiano. Conseguenze biologiche e culturali del 1492 (1972)
che ha gettato una luce assolutamente inedita sulla “scoperta dell’America” e sul processo di colonizzazione. Il tema, che era stato così a
lungo affidato al racconto più o meno edificante di conflitti armati, di
relazioni economiche, di processi di civilizzazione ecc., viene riscoperto sotto il profilo del dominio biologico, dei virus, delle malattie con
cui le popolazioni del Vecchio Continente assoggettarono e talora decimarono le popolazioni indie.
Ma, in genere, il contributo degli storici, benché orientato a scoprire nuovi territori di ricerca e di racconto, è anche portatore di
nuovi modi di leggere la realtà. Barca e Armiero ne danno diffusamente conto, inquadrando i diversi autori nella cultura e nelle tradizioni storiografiche dei diversi ambiti nazionali. Il lettore troverà dunque nel testo anche le informazioni che riguardano le ricerche in diversi Paesi, fra cui anche l’Italia. È giusto, tuttavia, ricordare che –
pur radicati nel loro contesto nazionale, e impegnati talora a ricostruirlo sotto il nuovo versante ambientale – gli storici sono portatori
di idee e di critiche di portata universale. La storia dell’ambiente è
naturalmente mondiale, anche quando locale è il luogo della sua applicazione. Essa dà conto, sempre, di una natura – per quanto manipolata e trasformata – che è totalità imprescindibile del nostro esistere, prima ancora che del nostro agire. Viene prima della storia ed
è, inestricabilmente, dentro la nostra storia. È il principio di realtà di
tutti i viventi, qualunque sia il loro linguaggio.
Così, ad esempio, in uno dei capostipiti della storia ambientale
del Nord America, possiamo trovare una riflessione che riguarda tutti
gli storici – e non solo ovviamente costoro – e che illumina, a mio
avviso, su un punto di vista secolare, su un modo di guardare alla
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LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
realtà e al passato che ha orientato e dominato gli uomini e le società
per tutta l’età contemporanea. Il «principio organizzativo praticamente di tutti i testi di storia del mondo attualmente disponibili – scrive
Donald Hughes – e usati nei corsi di storia in Nord America è lo
sviluppo». In realtà tale principio organizzativo orienta da oltre due
secoli la ricerca storica in ogni angolo del mondo: esso si è chiamato
in diversi modi e ha assunto, soprattutto in Europa, l’ideologia universalistica e il nome di progresso. Ma il punto di vista e l’ispirazione
del racconto erano sempre gli stessi. E proprio tale asse di orientamento, tale senso comune universale, va ora in pezzi di fronte al nuovo sguardo che l’ambientalismo e la storia dell’ambiente gettano sulla
realtà presente e sul nostro passato. È una frattura epocale del sapere
e della spiritualità umana che spiazza in maniera drammatica la ricerca storica tradizionale, la quale su quel principio aveva fondato
tutti i suoi paradigmi, le sue stesse ragioni di esistenza, il suo telós, il
suo linguaggio. Ma, per la maggior parte degli storici del nostro tempo, la nottola di Minerva deve ancora iniziare il suo volo.
La favola di un avanzare progressivo dell’umanità verso un futuro
sempre più radioso è oggi dissolta da un nuovo e ben più inquietante
racconto, che ci mostra come il procedere delle società sia portatore
di progressive distruzioni, in grado di mettere in pericolo la nostra
stessa sopravvivenza biologica. «Uno dei più gravi errori compiuti
dalla moderna civiltà urbana – scrive ancora Hughes – inclusi gli autori di testi di storia del mondo, è quello di pensare che gli esseri
umani esistono ed agiscono senza alcun riferimento ad altre forme di
vita». Essi invece avanzano distruggendo o facendo estinguere innumerevoli specie biologiche, impoverendo la biodiversità della Terra,
alterando gravemente gli ecosistemi, modificando equilibri millenari
del clima, consumando risorse che saranno perdute per sempre.
L’ambientalismo e la storia dell’ambiente hanno in realtà risvegliato
l’umanità da un lungo sonno dogmatico, dalla convinzione, intimamente ottimistica, che il tempo lavora per noi. Oggi abbiamo perduto, e per sempre, questa rassicurazione. Stiamo prendendo coscienza,
con doloroso stupore, che il futuro non ci sarà graziosamente consegnato da qualche metafisica progressista, ma è drammaticamente nelle
nostre mani, dipende dal nostro senso di responsabilità e dalla capacità collettiva di piegare le potenze dominanti alle ragioni degli interessi generali. Barca e Armiero ci introducono dunque non nei sentieri di una storia qualunque, ma verso la frontiera di uno dei più ricchi
e disvelatori scenari della ricerca e della cultura del nostro tempo.
PIERO BEVILACQUA
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Prefazione
La storia dell’ambiente raccontata in questo libro non è quella di una
regione particolare, o delle relazioni ecologiche tra diverse aree geografiche negli ultimi due secoli. Essa non coincide nemmeno con la
storia della biosfera nel suo complesso, e delle modificazioni antropogeniche che si possono registrare con una certa approssimazione
dopo duecento anni di industrializzazione. Questi diversi approcci
alla storia ambientale, come pure molti altri punti di vista, fanno parte del libro, ne costituiscono l’ossatura principale, e tuttavia il libro
non pretende di esaurire temi così vasti e complessi. Esistono ottimi
studi, ai quali si farà un continuo riferimento nel testo, sui più disparati problemi ambientali di una singola regione o nicchia ecologica, come del pianeta nel suo complesso, esaminati in prospettiva storica. Il compito di questo libro è dare conto della loro esistenza ad
un pubblico più vasto di quello specialistico, fornendo al lettore un
quadro di riferimento per orientarsi nella vastità delle informazioni e
degli stimoli che provengono dalla storia ambientale. Insomma, il nostro intento non è quello di riscrivere la storia del mondo dal punto
di vista ambientale, ma piuttosto ricostruire come un piccolo gruppo
di persone, una comunità scientifica internazionale, ha visto e interpretato quella storia.
I cinque capitoli in cui è organizzato il libro (Storia, Natura, Economia, Risorse, Ecologia) non intendono suggerire alcun ordine tassonomico o cronologico dei problemi. Essi hanno uno scopo puramente
indicativo, servono cioè come macro-aggregati intorno ai quali organizzare il discorso sulla storia dell’ambiente, che ovviamente potrebbe
essere discusso in molti altri modi. Il primo capitolo serve da introduzione storiografica e metodologica: ci è sembrato utile cioè partire
dalla genesi della storia ambientale, cercando di coglierne i legami
con i diversi contesti in cui si è sviluppata. Il secondo capitolo cerca
di mettere a fuoco un problema cruciale per chi voglia fare storia dell’ambiente, quello di definire cosa sia la natura, e cosa sia il rapporto
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LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
società-natura in chiave storica. Risposte importanti a questa domanda provengono dalle scienze naturali, ma anche da quelle sociali, alle
quali si farà riferimento in questo capitolo. Uno dei contributi più
pregnanti della storia ambientale al rinnovamento delle scienze storiche è stato quello di rimettere in gioco la natura all’interno delle vicende umane (e viceversa), senza rinunciare a confrontarsi con oggetti e problemi generalmente rimossi dalla storiografia: acque, boschi,
animali, ma anche città e industria, sono presentati nel capitolo Risorse come luoghi di incontro tra umano e non umano, e tra diversi
modi di organizzare socialmente la produzione. Infine, il quinto capitolo cerca di dare conto del complesso e multiforme mondo dell’ecologia, nella sua versione scientifica, ed in quella politico-sociale. Abbiamo scelto di concludere con l’ecologia, non perché essa costituisca
una sorta di epilogo della storia contemporanea (dalla rivoluzione industriale alla coscienza ecologica), in quanto, in realtà, le due cose si
sviluppano contemporaneamente; piuttosto, ci è sembrato che il fine
a cui l’ecologia (sia scientifica che politico-sociale) aspira sia ancora in
larga parte da realizzare, e che quindi esso vada cercato nel futuro,
piuttosto che nel passato. E il contributo che la storia ambientale può
dare alla formazione della coscienza ecologica del futuro è quello di
far dialogare le scienze della natura e quelle dell’uomo, inventando
un linguaggio comune, con il quale ricomporre i pezzi del mondo, e
immaginarlo come uno.
Il primo ringraziamento va al piccolo gruppo di storici italiani con i quali da
qualche anno condividiamo l’esperienza di lanciare la storia dell’ambiente,
dentro e fuori le aule universitarie: un’esperienza dalla quale è nata la rivista
“I frutti di Demetra. Bollettino di Storia e Ambiente”, oltre a una quantità
di collaborazioni, incontri, seminari, pubblicazioni. Piero Bevilacqua e Gabriella Corona, in particolare, ci sono stati vicini in questi anni, e il continuo
scambio di idee e letture con loro è stato fondamentale per la nostra formazione di storici dell’ambiente. Grazie a John McNeill, che più volte ha dimostrato interesse e attenzione ai nostri studi e con il quale abbiamo avuto la
fortuna di avere ripetuti scambi di opinioni. Molta parte della ricerca per
questo libro è stata resa possibile dalla disponibilità e dall’accoglienza dei
Dipartimenti di storia della Kansas University e della Brown University, che
ci hanno ospitato durante i nostri soggiorni di studio: a loro va la nostra
gratitudine. A Teresa Isenburg dobbiamo un utile suggerimento che ha consentito di realizzare questa pubblicazione. Un supporto logistico indispensabile è stato fornito dall’Istituto di Studi sulle Società del Mediterraneo del
CNR di Napoli, che ci ha permesso di consultare un’invidiabile biblioteca di
storia ambientale, di organizzare incontri seminariali e convegni, e di avere
sempre un importante scambio di opinioni con i suoi ricercatori.
Il nostro lavoro come storici dell’ambiente si è arricchito con la parteci-
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PREFAZIONE
pazione alla European Society for Environmental History, che, con la sua
bibliografia on line, la rivista “Environment and History”, e le conferenze
internazionali ha intrapreso un’importante e complessa opera di collegamento tra gli storici ambientali europei.
Un grazie particolare a Lorenzo Barca, per tutto l’aiuto, materiale e immateriale, di cui abbiamo sempre goduto.
Un grande ringraziamento va, infine, a Donald Worster, per aver sostenuto, culturalmente e materialmente, i nostri studi sulla environmental history, e per l’amicizia di cui da diversi anni ci onora: speriamo di aver imparato
almeno un po’ da lui. E non solo di storia dell’ambiente.
Napoli, dicembre 2003
MARCO ARMIERO
STEFANIA BARCA
17
1
Storia
1.1
Il ritorno della natura.
Geografie e cosmologie della storia ambientale
Da qualche tempo la natura è tornata a prendere il suo posto dentro
la storia. Non si tratta di una nuova disciplina, o di un ennesimo specialismo accademico, almeno non nelle intenzioni della maggior parte
degli storici dell’ambiente. Si tratta di qualcosa di più ambizioso, un
progetto che vuole mettere in discussione l’intero statuto epistemologico delle scienze storiche, lanciando una sfida: rimettere la natura
dentro la storia, e riscrivere i libri guardando al modo in cui gruppi,
società, nazioni, individui e culture hanno interagito con i loro ambienti, e sono stati influenzati da essi. Si tratta di un progetto che un
gruppo di persone, una comunità scientifica sparsa per il mondo, persegue già da qualche decennio, con maggiore o minor fortuna e successo. Quanto questo progetto sia stato determinante per cambiare i
destini della “storia” sarà il tema di questo libro. Per cominciare, cerchiamo di rispondere a una domanda apparentemente semplice: da
dove viene la storia ambientale?
Non è facile trovare un accordo su questo. Alcuni la vedono nascere dentro i cortei di protesta studentesca negli anni sessanta, a
Berkeley o al Greenwich Village, o nei circoli intellettuali legati al
Club di Roma con il suo rapporto bomba su I limiti dello sviluppo 1;
altri, invece, rivendicano la sua continuità con la rivoluzione culturale
espressa dalla rivista francese “Les Annales”, nell’Europa degli anni
trenta, con l’invenzione della geo-storia; ancora più indietro, si potrebbe rilanciare la palla verso la frontiera e il West degli Stati Uniti,
o nel Midwest durante la grande crisi, quando nasceva pure l’ecolo1. Cfr. D. H. Meadows, D. Meadows, J. Randers, W. W. Behrens, I limiti dello
sviluppo, Mondadori, Milano 1972.
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LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
gia scientifica americana. Probabilmente, volendo fare un discorso
sulle origini storiografiche, sarebbe giusto concentrarsi su questi ultimi due filoni, e cioè la storiografia sulla frontiera americana e le “Annales” francesi.
La forza attuale della environmental history statunitense ha contribuito a rafforzare l’ipotesi di una sua origine d’oltreoceano. Era tra
la fine dell’Ottocento e i primi del nuovo secolo che Frederick Jackson Turner pubblicava i suoi lavori sulla frontiera nella storia americana 2, inaugurando una feconda stagione di studi dedicata all’espansione verso l’Ovest. Nella frontiera, spazio da conquistare e non linea
di confine, le istituzioni ed i valori dei pionieri si erano trasformati
nell’impatto con un ambiente radicalmente nuovo. Seguendo questa
ipotesi, la democrazia americana era nata dalle foreste, ed aveva attraversato l’intero continente seguendo i corsi d’acqua. Non è questa la
sede per una riflessione critica sulle ipotesi interpretative di Turner a
proposito della storia americana e della sua eccezionalità: piuttosto ci
interessa segnalare la forza dei dati ambientali nelle sue argomentazioni, l’intuizione di mettere in relazione l’esperienza politico-istituzionale ed il contesto ecologico ed, infine, talune raccomandazioni di
metodo, forse tra i lasciti più fecondi dell’eredità turneriana. Se nella
frontiera gli agenti naturali diventavano attori della storia, allo storico
toccava il compito di attrezzarsi per riuscire a leggerne gli accadimenti: per questo Turner raccomandava ai suoi allievi di uscire dai rigidi
steccati disciplinari, avvicinandosi ai lavori degli scienziati naturali. La
frontiera diventava, dunque, uno spazio di contaminazione non solo
geografico, ma anche disciplinare.
A partire da Turner, la western history avrebbe iniziato a tessere
una proficua rete di relazioni con le scienze naturali: valgano per tutte le opere di storici come Walter Prescott Webb 3 e James Malin 4, o
di ecologi come Aldo Leopold 5, esempi fecondi di questa stagione di
contaminazioni tra saperi umanistici e naturalistici. In particolare, Le
grandi pianure di Prescott Webb, pubblicato negli anni trenta del
Novecento, rappresenta uno dei primi e più interessanti esempi di
questa esperienza, maturata all’interno della western history: le grandi
2. I saggi di Turner sono stati raccolti e tradotti nel volume La frontiera nella
storia americana, il Mulino, Bologna 1975.
3. Le grandi pianure, il Mulino, Bologna 1967 (prima ed. 1931).
4. History and Ecology. Studies of the Grasslands, University Press of Nebraska,
Lincoln-London 1984.
5. Tra le molte opere di Leopold si veda: A Sand Country Almand with Essay on
Conservation from Round River, Ballantine Books, New York 1970 (prima ed. 1966).
20
1.
STORIA
pianure non erano solo lo sfondo della narrazione, ma ne diventavano le protagoniste, senza che questo comportasse affatto l’invisibilità
dei gruppi umani. Nelle Great Plains, spagnoli, indiani, americani si
confrontarono tra loro e, soprattutto, con le sfide dell’ambiente naturale: tecnologie, istituzioni, economie, successi e fallimenti dovettero
fare i conti con gli agenti naturali. Il risultato storiografico di tutto
questo fu un libro ancora oggi straordinario, nel quale si tenne conto
del clima e della letteratura, dell’idrografia e della legislazione, della
cultura materiale e degli elementi religiosi.
Non sembra un caso che la western history e la sua diretta discendente, la new western history, meno ideologica e teleologica della
prima (ossia meno incline a una visione tutta positiva dell’espansione
ad Ovest della frontiera), siano state tante volte indicate come le radici profonde della environmental history. Non si tratta, tuttavia, solo
di una questione di opportunità: il West, luogo selvaggio per eccellenza, incarnazione della wilderness americana, costituirebbe una sorta di campionario di tutti i possibili temi ambientali della ricerca storica, quasi fosse uno spazio più naturale degli altri. Piuttosto la frontiera americana, oltre ad essere uno spazio geografico è, come tutti gli
spazi, anche e soprattutto una costruzione culturale: da questo punto
di vista, l’Ovest è un buon laboratorio di storia dell’ambiente proprio
perché la sua natura – ecologica e culturale insieme, dunque storica –
appare davvero come una metafora più generale delle relazioni tra
uomini e ambienti.
Sull’altra sponda dell’Atlantico non c’era da tempo traccia di wilderness, e la frontiera, intesa come spazio da occupare, si era esaurita
dopo le prime grandi ondate di colonizzazione, con il diboscamento e
la bonifica di gran parte del Vecchio Continente. Così, se negli Stati
Uniti la storia dell’ambiente sarebbe nata dall’incontro tra la western
history turneriana e la tradizione protezionista simboleggiata da H. D.
Thoreau e J. Muir, in Europa era la geografia umana francese a costituire l’humus sul quale si sarebbero innestate le prime esperienze
storiche relative all’ambiente.
Storia dell’ambiente e storia sociale sembrano nascere, dunque,
dallo stesso brodo di coltura: le “Annales” scoprivano nuovi campi di
indagine, restituendo alla memoria soggetti prima invisibili (ceti subalterni, marginali, piccole comunità ecc.).
La critica degli annalisti per quello che definivano l’evenemenziale, ossia la storia del tempo breve, fatta di battaglie, trattati e personaggi celebri, portava in sé l’opzione per una scala temporale più dilatata; era il tempo lungo a scandire le dinamiche evolutive delle
strutture profonde che sottostavano ai sommovimenti più appariscen21
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
ti della superficie. E niente più dell’ambiente geografico appariva
come la struttura profonda sulla quale scorrevano le vicende rapide e
convulse delle società umane. L’ambiente è presente in molte delle
opere dei principali esponenti delle “Annales”: Lucien Febvre dedicava un intero volume sostanzialmente ai rapporti tra geografia e storia 6; Marc Bloch impostava I caratteri originali della storia rurale
francese 7 con una forte impronta ambientale, collegando l’inesorabile
avvento dell’individualismo proprietario agli assetti ecologico-territoriali; ma era con Emmanuel Le Roy Ladurie che l’ambiente entrava
in maniera più consapevole dentro le “Annales”. La sua monografia
su Montaillou 8 si apriva proprio con una sezione dedicata esplicitamente all’ecologia del villaggio, basata sull’esame delle forme dell’insediamento (la casa) e dei modi di produzione (l’economia pastorale
transumante). Rileggendo oggi quelle pagine sarebbe facile sottolinearne il debole impianto ecologico: scarsa attenzione agli assetti vegetazionali o ai flussi di energia e di materiali, ma non è questo il
punto. L’ecologia entrava in un libro di storia e con essa facevano
capolino una serie di strumentazioni, fonti e saperi fino ad allora
estranei a quella disciplina; con il suo Tempo di festa, tempo di carestia 9 Le Roy Ladurie avrebbe rafforzato la sua convinzione della necessità di un dialogo con le scienze naturali, arrivando a sostenere la
possibilità di una storia che avesse come protagonista la natura stessa
e non necessariamente la sua relazione con la società. Eppure nella
introduzione al numero monografico delle “Annales” dedicato a storia e ambiente 10, lo stesso autore prendeva le distanze da una storia
dell’ambiente che gli appariva allora solo come una nuova ed effimera
moda storiografica.
D’altronde Le Roy Ladurie negava carattere di novità alla storia
dell’ambiente, dal momento che a suo avviso l’attenzione al contesto
geografico-naturale era da tempo presente dentro le discipline storiche, ed in particolare nella storia dell’agricoltura. Niente di nuovo
sotto il sole, dunque? In effetti l’attenzione all’ambiente maturata nelle “Annales” trovava un solido retroterra, oltre che nella geografia
umana francese, proprio nella storia agraria e in quella economica. Le
6. La terra e l’evoluzione umana, Einaudi, Torino 1980.
7. Einaudi, Torino 1973.
8. Storia di un paese: Montaillou. Un villaggio occitanico durante l’Inquisizione
(1294-1324), Rizzoli, Milano 1977.
9. Tempo di festa, tempo di carestia: storia del clima dall’anno mille, Einaudi, Torino 1982.
10. “Annales ESC”, 1973, 3.
22
1.
STORIA
fonti di energia, la demografia, la produttività della terra, le tecniche
costituivano i punti di forza delle ricerche e delle ipotesi interpretative di Fernand Braudel. Oggi nessuno storico dell’ambiente può fare a
meno di confrontarsi con la sua ripartizione del tempo storico: secondo questa impostazione le vicende ambientali sarebbero contenute
solo dentro le scansioni lunghissime dei tempi geologici e geografici,
mentre nel breve e nel medio periodo non ci sarebbe spazio per alcun elemento dinamico. Questioni di scala su cui torneremo nel prossimo paragrafo.
Pur ammettendo l’esistenza di una matrice annalista della storia
europea dell’ambiente, per niente scontata, essa ha significato soprattutto questa forte contaminazione, almeno all’origine, con gli studi di
storia economica, in generale, e agraria in particolare. Il workshop di
Bad Homburg sulla Storia ambientale europea del 1989, che avrebbe
dato il via alla European Association for Environmental History
(EAEH), era nato proprio dagli storici economici che si preparavano
ad organizzare una sessione sulla storia ecologica per il loro X congresso internazionale di Leuven. Il ruolo degli storici economici nella
nascita della storia ambientale europea è evidentissimo: se andassimo
a frugare nel background degli storici ambientali europei, troveremmo molti storici dell’agricoltura (soprattutto in Italia e Spagna, ma
anche in Inghilterra o in molti paesi nord-europei), dell’industria (soprattutto in Germania), dell’urbanizzazione (in Francia, Gran Bretagna, Germania), molto meno storici della cultura e/o dei movimenti
sociali. D’altronde era l’economia stessa che ripensava il suo rapporto
con la natura: la nascita prima dell’economia ambientale, cioè di un
tentativo di inserire nel discorso economico le esternalità legate alla
produzione, e poi dell’economia ecologica, che all’opposto si proponeva di inserire il sistema economico all’interno di quello ecologico,
trascinavano con loro anche pezzi della storia economica (si veda in
proposito il capitolo Natura).
Insomma, non è facile ricostruire alberi genealogici universali, che
funzionino a tutte le latitudini storiografiche; in altre parole, alla storia ambientale si è giunti spesso attraverso traiettorie e percorsi diversi, strettamente collocati nei diversi contesti nei quali sono maturati. Tuttavia, malgrado queste forti specificità, è possibile cogliere alcuni passaggi che hanno scandito l’affermazione dell’interesse per l’ambiente su scala più ampia. La storia dell’ambiente risulta, infatti,
strettamente connessa tanto all’ecologia scientifica quanto all’ecologia
politica (si veda su questo il capitolo Ecologia).
Gli anni settanta sono senza dubbio uno spartiacque importante:
risaliva al 1970 (che era peraltro anno europeo della natura) la prima
23
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
giornata mondiale della Terra; nel 1972 si convocava a Stoccolma la
conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente. La crisi petrolifera del
1973 avrebbe segnato, come è noto, uno shock per i paesi occidentali
non solo di natura economica, ma anche culturale: per la prima volta
dalla rivoluzione industriale apparivano evidenti i limiti fisici delle risorse naturali e l’illusorietà della crescita illimitata. Non si trattava,
peraltro, di eventi isolati; in realtà era dagli anni sessanta che stava
maturando una nuova sensibilità ecologista, ben rappresentata dall’impatto che su scala planetaria ebbe il libro della biologa americana
Rachel Carson, Silent Spring 11, che denunciava gli effetti nocivi dei
pesticidi su tutte le forme di vita, compresa l’umana. L’ondata verde
fu piuttosto forte tra gli anni sessanta e settanta del Novecento: tra i
libri pubblicati in questo periodo, e che senz’altro hanno esercitato il
maggiore stimolo sugli storici dell’ambiente, va ricordato Il cerchio da
chiudere 12 del biologo statunitense Barry Commoner. Il volume, divenuto uno dei testi sacri del pensiero ecologico, ricordava l’unità che
lega l’insieme dei fenomeni biologici e fisici nell’ecosfera, in cui la
vita si presenta come un insieme di cicli: il sistema economico moderno, sosteneva Commoner, «ha spezzato il cerchio della vita trasformando i suoi cicli senza fine in eventi umani di tipo lineare»,
mettendo in pericolo, per la prima volta nella storia dell’umanità, la
capacità di riproduzione delle risorse fondamentali per la vita sul pianeta. La metafora del cerchio spezzato ebbe vasta eco nella formazione del pensiero ecologista, grazie anche alla ricchezza delle suggestioni contenute nel libro: il fallout radioattivo successivo agli esperimenti
nucleari inaugurati negli anni cinquanta, lo smog a Los Angeles, la
contaminazione delle acque dell’Illinois causata dai fertilizzanti sintetici, il clamoroso caso di eutrofizzazione del lago Erie, sono soltanto
alcuni degli esempi storici che accompagnavano argomentazioni più
generali sulla questione demografica, sulla “società affluente” ( = il
modello di consumo dei paesi industrializzati), sul ruolo della tecnologia nel proporre risposte sociali alle questioni ambientali, e così
via.
Un analogo successo ebbero anche le quattro leggi informali dell’ecologia proposte dall’autore, che indicavano alcune delle piste più
interessanti della ricerca scientifica degli ultimi decenni, ad uso di
11. Houghton Mifflin Company, Boston 1962 (trad. it. Primavera silenziosa, Feltrinelli, Milano 1966).
12. Il cerchio da chiudere. La natura, l’uomo e la tecnologia, Garzanti, Milano
1972.
24
1.
STORIA
quanti volessero accostarsi allo studio della società moderna ragionando in termini ecologici:
1. “ogni cosa è connessa con qualsiasi altra” attraverso complessi sistemi di retroazione, che sono compresi finora solo in parte (grazie
alla cibernetica);
2. “ogni cosa deve finire da qualche parte”, ossia ciò che noi consideriamo scarto o rifiuto non per questo scompare magicamente, ma
entra a far parte dell’infinita catena della materia-energia;
3. “la natura è l’unica a sapere il fatto suo”, nonostante la fede generalizzata nella tecnologia come “miglioramento” della natura, poiché i
prodotti sintetici, a differenza dei principi chimici organici, non sono
“biodegradabili”, cioè producono effetti a senso unico e non reversibili;
4. “non si distribuiscono pasti gratuiti”, cioè nessun guadagno è ottenuto senza un costo corrispondente, e ciò che il sistema economico
preleva dalla natura va restituito, se si vuole preservare l’intero funzionamento della vita.
Ovviamente la questione è valutare quanto questa ondata ecologista sia riuscita a penetrare tra gli storici. Qui il discorso si fa piuttosto complesso, perché la situazione americana è diversa da quella europea e anche all’interno del Vecchio Continente le differenze sono
rilevanti. A tentare qualche generalizzazione, si può sostenere che tra
le scienze sociali la storia è stata quella più refrattaria a misurarsi con
i temi, i problemi e le metodologie dell’ecologia e dell’ambientalismo.
Probabilmente la questione investe lo stesso statuto disciplinare ed
ontologico della storia dell’ambiente: in altri termini, esiste una storia
dell’ambiente come disciplina e come la si pratica? Non ci sono molte definizioni della storia dell’ambiente, probabilmente perché esse
appaiono sostanzialmente tautologiche: la natura e le sue relazioni
con le società costituiscono l’oggetto della storia ambientale. Ad oggi
siamo ancora lontani da una definizione netta, circostanziata di cosa
sia la storia ambientale; il problema, semmai, è se sia poi così necessario cercare questa definizione o se piuttosto non sia più giusto
fare i conti con una forte dose di indeterminatezza, che d’altra parte
sembra il prezzo da pagare ad un approccio olistico.
Juan Martinez Alier, un economista ecologico tra i più noti, attento alle problematiche storiche, agli inizi degli anni novanta, indicava
tre possibili esiti per la storia ambientale: diventare una sottodisciplina, più o meno forte, ma autonoma, “appartata”; ricoprire con una
tinta di verde i soliti approcci e filoni storiografici; riuscire ad entrare
e stare dentro la storia economico-sociale, tentando di cambiarne i
25
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
paradigmi e i presupposti concettuali 13. Era quest’ultima la proposta
più interessante secondo Martinez Alier, l’antidoto all’ennesima sottodisciplina magari accademicamente forte, ma debole sotto il profilo
dell’impatto nella costruzione del sapere storico. Ma davvero la storia
dell’ambiente comporta una svolta di prospettive, l’introduzione di
nuovi paradigmi? O piuttosto si è verificata soltanto un’espansione di
temi di ricerca, tale da comprendere nuovi e originali oggetti d’indagine? Sia chiaro che anche questo non è poco: studiare i boschi, le
risorse idriche, i disastri, le legislazioni ambientali, l’energia ha arricchito la mole di conoscenze storiche, restituendo pezzi di un passato
a lungo invisibile. Inoltre l’oggetto di ricerca ha spesso costretto a
fare i conti con saperi diversi e a volte con le logiche interne di funzionamento di quegli stessi oggetti: difficile confrontarsi con i boschi
o con i fiumi senza considerarne la complessità ecologica di funzioni
e relazioni. La storia dell’ambiente è anche questa dilatazione di campi di ricerca. Tuttavia, gli elementi di maggiore innovazione non sono
necessariamente connessi all’opzione per determinati temi, quanto
piuttosto al punto di vista: il rifiuto di una visione teleologica e progressiva della storia; l’approccio olistico; la nozione di entropia costituiscono i tratti più innovativi, anche se non gli unici, di questo
filone di ricerca (si veda il capitolo Natura). La storia dell’ambiente,
inoltre, sembra caratterizzarsi per una forte carica etico-politica: in
piena crisi delle ideologie, essa propone una radicale critica all’attuale
sistema di produzione, distribuzione e consumo, rifiutando l’assioma
che esso sia il migliore possibile.
1.2
I luoghi e i tempi della storia ambientale
Qual è il tempo dell’ambiente? Braudel ci ha insegnato che per ragionare di montagne, fiumi, mari, temperature non si può fare a meno
di utilizzare scansioni temporali lunghe, se non lunghissime. Il tempo
lungo è il signore dell’ambiente. Sono le ere geologiche, le grandi trasformazioni geografiche, i rivolgimenti orogenetici, il lento e inesorabile lavorio dell’erosione a muovere personaggi quasi immobili, a rendere dinamici paesaggi ed ambienti. I tempi biologici e i tempi storici
davvero sembrano viaggiare su binari paralleli, destinati ad incontrarsi solo in occasione di particolari eventi traumatici, quasi che la cata13. J. Martinez Alier, Temas de historia económico-ecológica, in “AYER”, 1993,
11, numero monografico su Historia y Ecologia, a cura di M. Gonzalez De Molina e J.
Martinez Alier, p. 45.
26
1.
STORIA
strofe costituisca l’unico punto di contatto tra il mondo della natura
e quello degli uomini. Ma è proprio vero che le cose stanno così? Se
così fosse la storia dell’ambiente, almeno quella fatta dagli storici,
non avrebbe molto senso: altro discorso, ovviamente, quello relativo
ai geologi, ai geografi storici, agli archeobotanici ecc.
L’avvicinamento tra tempi storici e tempi biologici, ossia tra tempi della natura e tempi degli uomini, costituisce probabilmente la
maggiore novità della storia dell’ambiente rispetto alla scuola annalista. Infatti una acquisizione della storia ambientale è proprio la possibilità di vedere interagire le trasformazioni ecologiche e quelle sociali,
economiche, culturali, politiche: i tempi degli uomini e quelli della
natura si incontrano, si mescolano, si intrecciano, certo nel lungo periodo, ma anche nei tempi medio-brevi. Per essere chiari: il Mediterraneo di Braudel 14 – o meglio quello di Filippo II – si era formato
nei lunghi millenni che avevano visto i continenti staccarsi, le montagne sollevarsi, i ghiacciai ritirarsi; eppure gli ecosistemi mediterranei
continuavano a trasformarsi anche dinanzi agli occhi di Filippo II,
come del suo storico. Cambiamenti a volte impercettibili, ma spesso
anche ben evidenti, soprattutto su scala locale: foreste che sparivano,
fiumi che inondavano, montagne che franavano. Senza dimenticare,
poi, le grandi trasformazioni su scala planetaria, certo più incisive, rapide e visibili per l’età contemporanea, ma non assenti già in epoche
precedenti: il mondo stava cambiando, fuori dal Mediterraneo, sull’altra sponda dell’oceano, nell’impatto tra conquistadores e popolazioni
indigene, e tutto questo faceva sentire il suo riverbero fin nel vecchio
mondo.
Alfred Crosby è stato probabilmente il primo storico ambientale a
parlare di imperialismo biologico, a tentare una storia dell’espansione
europea nei nuovi mondi, mettendo in relazione fatti politici, economici, sociali con trasformazioni ecologiche (si veda il capitolo Economia). Non i tempi lunghi della geologia sono stati necessari per vedere i grandi sconvolgimenti demografici legati alla conquista delle
Americhe; non i millenni dell’orogenesi hanno modellato il paesaggio
nord-americano nei convulsi anni dell’espansione verso Ovest; ma lo
stesso potrebbe dirsi per le grandi dighe che hanno modificato i regimi idraulici e i cicli della rigenerazione dei suoli in tanti paesi, soprattutto africani ed asiatici: nel breve volgere di qualche generazione
l’uomo ha assistito a gigantesche trasformazioni ambientali, progressivamente sempre più estese, al punto da riguardare l’intera tenuta del
14. F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, 2 voll., Einaudi, Torino 1976.
27
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
pianeta e dei suoi cicli vitali (si pensi alle trasformazioni del clima,
all’effetto serra e alla riduzione dello strato di ozono).
La storia dell’ambiente, dunque, non è prigioniera del tempo lungo, quasi territorio di caccia esclusiva dei geologi, a loro agio nello
scorrere dei millenni; con questo, tuttavia, non vogliamo negare le
difficoltà legate alle scansioni cronologiche proprie di questo campo
di studi. Si può contenere la storia dell’ambiente dentro il tempo medio o breve? In realtà la questione delle scale temporali, delle scansioni cronologiche, non riguarda solo gli storici ambientali: è in corso
da tempo un ripensamento profondo in merito alle cesure periodizzanti, alle discontinuità capaci di segnare in modo netto le diverse
fasi storiche. In pochi oggi crederebbero che realmente nel 1815 sia
iniziata l’età contemporanea o che nel 1492 sia finita l’età medievale e
via dicendo. È evidente, poi, che quando si ragiona di processi e non
di accadimenti le scansioni e le cronologie siano piuttosto fluide: difficile dare la data di inizio della rivoluzione industriale, dell’urbanizzazione o dello Stato moderno. La storia ambientale, quasi per definizione storia di processi più che di accadimenti, risente con particolare
forza di questa crisi generale delle tradizionali scansioni cronologiche;
inoltre la complessità dei fenomeni biologici, la difficoltà a coglierli
senza un’adeguata strumentazione scientifica, sia tecnologica che epistemologica, hanno indebolito l’accumulo di conoscenze sull’evoluzione degli ambienti: in altri termini, è difficile stabilire quand’è che l’aria o i mari hanno cominciato ad essere inquinati perché, se la percezione del fenomeno è arrivata tardi, dati attendibili su questi fatti risalgono ad epoche ancora più recenti.
L’opzione per scale temporali dilatate implica la convinzione che
solo il tempo lungo consenta di cogliere i mutamenti, altrimenti impercettibili, degli ecosistemi. In questa ipotesi sono in genere due le
cesure individuate, (quelle che Clive Ponting definisce le grandi transizioni 15): la rivoluzione agricola del neolitico e la rivoluzione industriale di fine Settecento. Si trattava sostanzialmente del passaggio tra
sistemi energetici differenti: con l’agricoltura del neolitico si era resa
disponibile una grande quantità di energia, attraverso i convertitori
vegetali e animali; la rivoluzione industriale, poi, con l’impiego dei
combustibili fossili, consentiva un ulteriore balzo in avanti nella
quantità di energia pro capite disponibile. Transizioni che, per Ponting, non investono solo i processi economici e la tecnologia ma, in
15. C. Ponting, Storia verde del mondo, Società Editrice Internazionale, Torino
1991.
28
1.
STORIA
sintonia con un approccio olistico, interagiscono con la riproduzione
biologica e sociale dell’intero ecosistema.
La scelta per la long durée diluisce il dinamismo degli ecosistemi,
divarica le possibilità di interrelazioni tra società e ambienti, implica
la certezza che, sia pure lentamente, l’ambiente abbia cominciato ad
essere trasformato fin dall’antichità. Quella delle origini della questione ambientale è un’altra delle grandi domande con cui si sono confrontati gli storici. Quando sono iniziati i problemi ecologici? A lungo si è creduto che si trattasse di questioni della contemporaneità, da
ricondurre al massimo alle origini dell’industrializzazione: la fabbrica,
come il serpente di Adamo ed Eva, avrebbe rotto l’incantesimo edenico, corrompendo un mondo fino ad allora incontaminato. Ovviamente sono esistiti problemi ecologici differenti a seconda delle epoche, ed è scontato che alcuni di essi siano iniziati solo con l’età contemporanea; si pensi, ad esempio, all’era atomica o a quella dell’inquinamento chimico o dei mari. Lo storico italiano Piero Bevilacqua
ha sottolineato come nell’età contemporanea i problemi ambientali
abbiano subito un cambiamento in termini di intensità e ampiezza: la
desertificazione, il diboscamento, l’inquinamento sono sempre esistiti,
a cambiare è stata l’intensità e l’ampiezza dei fenomeni 16.
La storia dell’ambiente che, pur comprendendo la storia dei problemi ecologici di natura antropica, non si esaurisce affatto con essa,
acquista, dunque, in età contemporanea, caratteristiche peculiari; e
non si tratta solo degli elementi puramente distruttivi-disturbativi, ma
di tanti elementi di novità, che hanno cambiato gli equilibri ecologici,
dalla nuova percezione degli spazi e del movimento sulla terra (la rivoluzione dei trasporti) alle scoperte nel campo della salute, in grado
di innescare una nuova stagione nei rapporti tra agenti patogeni e società umane. Anche in questo caso, tuttavia, spetterà allo storico indicare gli elementi di continuità e quelli di rottura, sapendo cogliere le
radici profonde o, al contrario, le innovazioni radicali introdotte dall’età contemporanea.
Tempo breve, tempo lungo, tempo medio: la storia dell’ambiente
gioca, può giocare su tutti questi piani. Ma la questione non si limita
a questo. Infatti, qualunque sia l’opzione di scala, e tanto più se si
sceglie per il tempo medio-breve, resta agli storici ambientali il compito di individuare nuove scansioni cronologiche o di reinterpretare
le vecchie. Senza dubbio la storia della tecnologia può essere utile
allo scopo: microinnovazioni, come l’introduzione della motosega o
16. Cfr. Il secolo planetario. Tempi e scansioni per una storia dell’ambiente, in
“Parolechiave”, 1996, 12.
29
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
del combustibile liquido, e grandi trasformazioni epocali, come l’invenzione dell’automobile o del refrigeratore, hanno segnato dei punti
di svolta nelle trasformazioni ambientali. Per i processi è più difficile
indicare date precise da utilizzare come cesure periodizzanti; tuttavia,
è evidente che è possibile allo storico ambientale, specie per quello
dell’età contemporanea, seguire, ad esempio, le fasi dell’urbanizzazione oppure quelle dell’imperialismo. Anche i grandi disastri ecologici
possono essere utilizzati come punti cardinali per orientarsi lungo la
linea del tempo della storia ambientale: quanto il grande terremoto di
Lisbona del 1755, oppure Cernobyl, Bhopal, o Seveso in Italia, hanno
rappresentato altrettanti punti di passaggio nella cultura, nelle politiche e nei saperi relativi all’ambiente?
Ma i tempi dell’ambiente sono indipendenti dai suoi spazi? Ossia
scegliere per la lunga durata o per il tempo medio-breve non è in
relazione con gli spazi che scegliamo di raccontare? Forse niente è
più globale dell’ambiente. I problemi ecologici, le trasformazioni ambientali generalmente non riguardano spazi chiusi, non si lasciano imbrigliare facilmente dalle frontiere degli stati. È questo un problema
estremamente attuale che, come è noto, mette in crisi molte delle
strategie di tutela ambientale: la collaborazione tra gli Stati, infatti, è
una condizione imprescindibile per la buona riuscita di molte delle
politiche verdi. L’inquinamento viaggia senza passaporto, e lo sfruttamento delle risorse naturali o le politiche in materia di biotecnologie
e di difesa della natura necessitano di una strategia comune, pena subire le conseguenze tanto delle scelte adottate unilateralmente quanto
delle opzioni altrui.
La storia dell’ambiente, dunque, dovrebbe essere la meno nazionalista delle storie: eppure a guardare non quanto si dice, ma quanto
è stato fatto, non è così. La maggioranza delle storie ambientali sono
essenzialmente storie nazionali, e anche quando si opta, per la verità
molto spesso, per un taglio regionale, si tratta pur sempre di regioni
connotate nazionalmente, di aree transnazionali praticamente mai.
Questo fenomeno dipende in gran parte dall’indirizzo prevalente assunto dalla environmental history: il fatto che la storia della natura in
sé, ovvero la storia ecologica in senso stretto, abbia complessivamente
una scarsa diffusione, a fonte della prevalenza di storie economicosociali, culturali e politiche dell’ambiente, implica la forza di un approccio ancora centrato sull’unità statuale.
A spiegare questa diffusa opzione di scala, tuttavia, non basta fare
riferimento alle fonti adoperate dagli storici, prevalentemente nazionali, né al fatto che sono le comunità nazionali ad utilizzare le risorse
naturali; piuttosto ci sembra che questa condizione della storiografia
30
1.
STORIA
ambientale rifletta una situazione e un portato storico: la natura sembra essere stata nazionalizzata, e non solo quanto a legislazioni, burocrazie ed economie, ma anche nella sua essenza. Esisterebbe insomma
una natura italiana, una natura francese o inglese, una natura nordamericana, legate a filo doppio con le culture nazionali, come se una
sorta di duplice imprinting abbia segnato entrambe. Probabilmente il
discorso si fa più chiaro se al concetto di natura sostituiamo la più
comune categoria di paesaggio: allora non ci sembrerà affatto strano
pensare ad un paesaggio connotato nazionalmente, nei cui caratteri
originali siano profondamente incisi i geni di un popolo e della sua
civiltà. Certo il peso dell’invenzione della tradizione è forte, così
come forti sono i continui rimandi cultural-identitari che in un gioco
di specchi si dipanano tra il paesaggio e la memoria collettiva: la wilderness americana o il bel paese italiano sono un prodotto culturale,
un paesaggio immaginario impresso nella mente dell’osservatore prima ancora che dinanzi ai suoi occhi. Ciò non significa, tuttavia, che
quei paesaggi non siano anche reali: nella natura è possibile intravedere le sedimentazioni del lavoro di generazioni, in grado di modificare l’aspetto del paesaggio e il modo stesso di concepirlo.
Insomma, la storia ambientale non ha rotto con le frontiere politiche e con le identità nazionali, anche se ha dato un forte impulso alle
ricerche su scala global history, sia a livello comparativo, che come
lavori di sintesi. D’altronde uno degli slogan dell’ambientalismo politico, così connesso alla storia ambientale, è da sempre “pensare globalmente e agire localmente”; in esso, cioè, si connettono due dimensioni di scala, ed anche gli storici sembrano aver sposato questo punto di vista, convinti che dall’osservazione del particolare sia possibile
ricavare spunti per la comprensione del tutto. Davvero lo studio di
una città come Venezia 17 o di regioni come la Rhur 18 o la Merrimack Valley 19 possono significare una rilettura di fenomeni più vasti,
come l’urbanizzazione e l’industrializzazione; la storia ambientale,
come la storia in genere, procede raramente per astrazioni, preferendo le complicazioni dei casi empirici alle certezze dei modelli teorici.
Osservare il tutto, cogliere le relazioni diventa un esercizio che, valido sulla scala piccola, può dire molto anche su quella più ampia.
17. P. Bevilacqua, Venezia e le acque. Una metafora planetaria, Donzelli, Roma
1995.
18. F.-J. Brüggemeir, A Nature Fit for Industry. The Environmental History of
the Ruhr Basin 1840-1889, in “Environmental History Review”, 1994, 1.
19. T. Steinberg, Nature Incorporated. Industrialization and the Waters of New
England, Cambridge University Press, Cambridge-New York 1991.
31
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
Tra le maglie larghe della global history e le frontiere della scala
nazionale si collocano studi su scala micro, fortemente segnati da un
approccio di tipo ecologico. Il sito diventa l’unità di osservazione
per ricerche sulle trasformazioni ambientali; in genere sono i boschi
a prestarsi meglio per questo tipo di analisi, che, attraverso l’esame
del terreno, mirano a ricostruire le trasformazioni ecologiche avvenute. Su questo, tuttavia, torneremo a proposito delle fonti e dei metodi della storia ambientale, dal momento che l’opzione per la scala
micro porta con sé strategie di ricerca specifiche e sostanzialmente
originali.
1.3
Fonti e metodi
Di recente Donald Worster ha scritto che la storia dell’ambiente non
è mai diventata una disciplina nuova in grado davvero di ibridare saperi diversi; piuttosto essa appare come un ramo nuovo su un vecchio albero 20. La questione centrale è, dunque, il rapporto tra storia
e saperi scientifico-naturalistici: la storia dell’ambiente è riuscita a
fondere i due campi di indagine, ad utilizzare un linguaggio capace di
parlare ad entrambi gli specialismi? Quanto è nuovo il metodo di indagine della storia ambientale e quanto è in relazione con la scienza
madre, l’ecologia? Worster ha sostanzialmente ragione, ma forse sottovaluta i risultati ottenuti fino ad ora. Storici che frequentano la letteratura prodotta da scienziati naturali e medici, e viceversa scienziati
che leggono opere di storici o, più spesso, che introducono elementi
diacronici nelle loro ricerche, ci sembrano comunque risultati importanti. L’ibridazione tra saperi non è avvenuta ma si è lanciato un
ponte tra mondi da lunghissimo tempo sottoposti ad una rigida segregazione.
Ciò non significa che gli storici abbiano ignorato le altre discipline prima dell’arrivo dell’environmental history. Gli storici dell’agricoltura, forse più e prima degli altri, hanno intessuto proficue relazioni
con scienze diverse: una grande mole di pubblicistica tecnica, prodotta essenzialmente da agronomi, ma anche da chimici e botanici, ha
costituito una miniera inesauribile di informazioni e di dati sui sistemi agrari del passato e sulle loro trasformazioni. Molti storici ambientali, soprattutto spagnoli e italiani, provengono proprio da quel back20. D. Worster, Oltre la Wilderness? La storia ambientale negli Stati Uniti, in M.
Armiero (a cura di), Alla ricerca della storia ambientale, in “Contemporanea”, 2002, 1,
p. 142.
32
1.
STORIA
ground. Anche gli storici della tecnologia, della scienza e della medicina hanno un consolidato rapporto con saperi altri; spesso si tratta,
tuttavia, di storici ibridati in partenza, ossia di provenienze disciplinari extraumanistiche, il che ovviamente facilita le relazioni, almeno in
uno dei due sensi. Le ricerche scientifiche possono essere utilizzate
come fonti per ricostruire le vicende degli ambienti e dei loro problemi, o per studiare, invece, la percezione che gli scienziati hanno
avuto di quegli ambienti, o l’evoluzione del sapere scientifico, di una
particolare disciplina o di una tecnica ecc.
In realtà, in un buon lavoro di ricerca storica spesso sono presenti
tutte queste cose: la scienza non è esatta, nel senso che non è infallibile, e, soprattutto, non è estranea al contesto che l’ha generata. Non
si può pensare di utilizzare i materiali prodotti in ambito scientifico
(monografie, ricerche, inchieste ecc.) come un ammasso di dati, di informazioni oggettive in grado di fotografare al naturale, senza filtri,
ciò che ci interessa. Allo storico spetta il compito di contestualizzare
le fonti che adopera, di decifrarne i messaggi, di svelarne le origini e
le finalità, esplicite o nascoste; vale la pena di ricordare con Kuhn
che la scienza non è mai un semplice accumulo di dati, ma che essi
sono stati raccolti e sistematizzati dentro paradigmi interpretativi che
ne costituiscono il significato. Per essere più chiari può funzionare un
esempio: coloro che si cimentano con la storia del bosco hanno ovviamente avuto a che fare con la nascita e lo sviluppo della selvicoltura moderna. In un’abbondante pubblicistica selvicolturale si ripete incessantemente la necessità di ovviare ai mali di un irrazionale uso del
bosco da parte delle popolazioni, ignoranti delle più elementari regole di riproduzione della risorsa; eppure alcuni storici hanno dimostrato la coerenza e la sostenibilità ecologica di taluni sistemi popolari di
attivazione delle risorse forestali. Insomma, prima di sposare definitivamente la tesi che contrappone “usi tradizionali – irrazionalità e distruzione – proprietà comune e arretratezza” a “usi scientifici – razionalità e conservazione – proprietà privata e sviluppo”, vale forse la
pena di ragionare più complessivamente sulla questione, svelando
quanto certe affermazioni fossero profondamente dentro un conflitto
in atto tra diversi modi di vedere la natura, di concepirne lo sfruttamento e i diritti di accesso. Il fatto che abbia vinto un sistema invece
dell’altro non significa necessariamente sposare in pieno tutte le sue
ragioni. Insomma sembra molto più interessante analizzare la costruzione di un’immagine presunta oggettiva che non affidarsi ad essa,
magari nell’illusione che le cifre siano meno ambigue delle parole.
La critica delle fonti, anche quelle scientifiche, è solo una parte
del dialogo tra storia e scienze naturali: in realtà la sfida per gli envi33
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
ronmental historians non è tanto quella di adoperare le ricerche scientifiche come fonti, ma piuttosto quella di servirsi delle categorie utilizzate nei saperi scientifici. Nozioni come quella di sostenibilità, di
entropia, di ecosistema, di flussi di energia e materia, di carrying capacity sono presenti ormai in molte ricerche di storia ambientale. Ma,
più in generale, è un’attitudine a vedere le cose da un punto di vista
ecosistemico, olistico, il debito più grande contratto dalla storia ambientale con le scienze naturali. Servirsi della biologia, della genetica,
della fitogeografia, della climatologia e della zoologia per raccontare
la storia degli uomini, e magari per comparare le performance delle
diverse civiltà, è un esercizio molto pericoloso. Il determinismo è
sempre in agguato quando si fa storia dell’ambiente. Ed è proprio
per evitare il determinismo che l’ambiente è stato a lungo bandito dal
terreno degli storici: nessuno voleva cadere in semplificazioni magari
razziste che spiegassero con i dati della natura i caratteri delle società.
Ma è determinismo ricordare che le opzioni date non erano infinite,
che non tutto e dappertutto era ugualmente alla portata delle diverse
società, che il clima, la chimica dei suoli, la zoologia hanno condizionato in modo pesante i destini delle civiltà? O forse non è ancor più
determinista ricondurre tutte le differenze alle culture, intendendo
queste come variabili indipendenti dai contesti ecologici? Ragioneremo a lungo di queste cose nel capitolo Economia.
Eppure oggi non è il determinismo la cifra dominante della storiografia ambientale. Probabilmente l’antidoto principale è una buona
dose di quella che gli statunitensi chiamano gender-class-race analysis:
potremmo dire, dunque, che un forte legame con la storia sociale bilancia il rischio di un eccessivo appiattimento della environmental history sulle scienze naturali. L’analisi di genere, classe e razza fa sì che
gli storici ambientali non rimangano prigionieri di una visione che
contrapponga in modo un po’ semplicistico uomo e natura. L’opzione per un approccio olistico enfatizza, ovviamente, gli elementi generali, i quadri d’insieme, ma non implica l’appiattimento delle diversità: si tratta, anzi, di verificare come tali diversità interagiscano e non
di annullarle, semplificando. L’olismo vuole essere, in realtà, proprio
l’opposto di un approccio riduzionista, che semplifica la pluralità della realtà, al fine di includerla in un paradigma 21. Dentro l’ecosistema,
le trasformazioni riguardano l’ambiente naturale e sociale; la natura
cambia e insieme con essa cambiano le relazioni dei gruppi umani tra
21. W. Cronon, Modes of Prophecy and Production: Placing Nature in History, in
“The Journal of American History”, 1992, 3, pp. 1128-9.
34
1.
STORIA
loro e con il loro habitat. Parlare di interazione tra uomo e ambiente
appare davvero troppo generico e totalizzante; peraltro un’impostazione di questo tipo è ovviamente molto più esposta ai rischi di un
determinismo schiacciato tra contesti e condizioni eccessivamente
ampi e, quindi, necessariamente vaghi 22. La storia dell’ambiente non
è la notte in cui tutte le vacche sono nere, o magari verdi: donne e
uomini, gruppi etnici diversi, europei, americani e asiatici 23, piccoli
coltivatori e grandi imprenditori dell’agricoltura industriale interagiscono tra loro e con le risorse ambientali in un rapporto dialettico
dal quale nessuno esce uguale a come era prima. Si pensi, ad esempio, al ruolo dell’identità di genere e alla sua interrelazione con la
natura così come viene proposto nei lavori di Carolyn Merchant: le
donne hanno interagito con l’ambiente secondo procedure e traiettorie proprie, insieme biologiche (la riproduzione della specie) e culturali (diversità uomo/donna nel rapporto con il lavoro, il tempo libero,
l’approvvigionamento alimentare, l’idea del bello ecc.) 24.
Non si tratta, tuttavia, solo di declinare la storia dell’ambiente
mettendo al centro dell’analisi le donne; piuttosto occorre riconsiderare radicalmente l’idea di natura e il divenire storico di quella stessa
idea: per questo la Merchant colloca la rottura dell’equilibrio ecologico e le radici della crisi non nell’avvento del modello economico capitalistico (come fa Worster, ad esempio) ma piuttosto nella rivoluzione scientifica baconiana, interpretata dalla storica come il predominio maschile sulla natura donna, proponendo un’inquietante equivalenza tra indagine scientifica e violenza sessuale 25. Applicare la gender
analysis non vuole dire dunque solo vedere come le donne hanno visto/usato/trasformato l’ambiente naturale; è possibile, ad esempio, rileggere le relazioni tra gruppi sociali e natura alla luce della categoria
di dominio (dominio dell’uomo sulla donna, dell’uomo sulla natura,
22. J. Opie, Environmental History: Pitfalls and Opportunities, in K. E. Bailes,
(ed.), Environmental History. Critical Issues in Comparative perspective, University
Press of America, Lanham 1985, p. 28.
23. Per un punto di vista policentrico della scoperta della natura americana, che
tenga conto delle diverse etnie, ed in particolare di quelle asiatiche, e del loro interagire con l’ambiente si veda P. Nelson Limerick, The Legacy of Conquest: the Unbroken Past of the American West, Norton, New York 1987.
24. C. Merchant, Gender and Environmental History, in “The Journal of American History”, 1990, 4, vol. 76.
25. Ead., La morte della natura, Garzanti, Milano 1988 (ed. or. The Death of
nature: Women, Ecology and Scientific Revolution, Harper&Row, San Francisco
1980).
35
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
dell’uomo sull’uomo) e dunque interpretare l’intera questione ambientale in termini di giustizia sociale 26.
Un ottimo antidoto alle possibili derive deterministe della storia
ambientale è la categoria di agroecosistema (ossia di ecosistema addomesticato per la produzione agricola) proposta da Worster. Infatti
essa, comprendendo ambiente e cultura, natura e tecnica, consente di
ragionare sul rapporto tra ambiente e gruppi umani senza escludere
la tecnologia, pur non rimanendone schiacciata. La prospettiva agroecosistemica recupera la forza creatrice della natura senza trascurare
tuttavia le interazioni tra essa e la tecnologia: se è vero che l’agroecosistema dipende da una serie di funzioni naturali (clima, ciclo dell’acqua, chimica del suolo ecc.), è pur vero che allo storico restano da
scoprire i metodi con cui i gruppi umani hanno conservato quelle
funzioni o le hanno irrimediabilmente perdute 27.
L’attenzione alla tecnologia – intesa come «applicazione delle conoscenze e delle capacità umane allo sfruttamento dell’ambiente» 28 –
conduce l’environmental history ad un recupero della dimensione materialistica dell’analisi storica 29: la tecnologia è manifestazione di date
conoscenze scientifico-empiriche ma è anche espressione di un determinato sistema socio-economico. La tecnologia non è mai neutra riguardo ai fini, non è mai un mero strumento, un mezzo: da questo
punto di vista gli storici ambientali americani sono debitori ai lavori
dell’antropologia, che più di altre discipline ha ragionato sull’interazione tra le strategie culturali dei diversi gruppi umani e i loro ambienti 30. Le relazioni tra tecnologie e sistemi economico-sociali sono
racchiuse nella categoria di mezzi di produzione, centrale nell’analisi
di molti environmental historians. Non si tratta, però, di un recupero
ortodosso della categoria marxiana: i differenti modi di produzione
hanno organizzato non solo il lavoro umano, il suo rapporto con le
macchine e, in definitiva, la struttura delle relazioni sociali, ma hanno
anche trasformato la natura e le relazioni tra questa e i diversi gruppi
26. Ead., Introduction, in Ead. (ed.), Ecology, Humanities Press, Atlantic Highlands 1994, p. 1.
27. D. Worster, Transformations of the Earth: Toward an Agroecological Perspective in History, in “The Journal of American History”, 1990, 4, 76, pp. 1096-7.
28. Id., Studiare la storia dell’ambiente, in Id. (a cura di), I confini della terra.
Problemi e prospettive di storia dell’ambiente, Franco Angeli, Milano 1991, p. 247.
29. W. Cronon, The Uses of Environmental History, in “Environmental History”,
1993, 3, 17.
30. Una rassegna sull’antropologia e le sue relazioni con la environmental history
è in D. Worster, History as Natural History: An essay on Theory and Method, in “Pacifical Historical Review”, 1984, 1, 53, pp. 7-15.
36
1.
STORIA
sociali 31; un’impostazione, dunque, che enfatizza il ruolo dei fattori
naturali nella formazione di un determinato modo di produzione 32.
Non a caso due storici ambientali indiani hanno proposto di sostituire l’espressione “modo di produzione”, con quella di modi d’uso
(modes of resource use), affermando che quella di derivazione marxista non sia abbastanza ricettiva nei confronti del contesto ecologico 33. I modi di produzione, come gli ambienti e le culture, ovviamente non sono statici: la storiografia ambientale americana ha proposto alcune scansioni fondamentali che segnano altrettanti punti di
svolta. È questa una delle chiavi di lettura delle “rivoluzioni ecologiche” di Carolyn Merchant:
La mia tesi è che le rivoluzioni ecologiche sono le maggiori trasformazioni
nelle relazioni umane con la natura. Esse hanno origine dai cambiamenti,
dalle tensioni e dalle contraddizioni che si sviluppano tra i modi di produzione di una società e la sua ecologia, e tra i suoi modi di produzione e
riproduzione 34.
La storia americana sarebbe segnata, dunque, da tre grandi transizioni ambientali e insieme socio-economiche: la rivoluzione coloniale,
quella capitalistica e, infine, quella ecologica globale. Ciò che interessa qui mettere in rilievo è lo stretto rapporto stabilito in questa impostazione tra assetti ecologici e socio-economici: coloni e capitalisti riplasmano il Nuovo Mondo, ne reinventano gli spazi e le percezioni e,
al tempo stesso, ne sono plasmati; non c’è separazione, e la storia dell’ambiente diventa storia tout court. Da questo punto di vista l’analisi
ecologica appare particolarmente utile per valutare i cambiamenti storici nei modi di produzione, al punto da poter considerare l’intera
economia come un sottoinsieme dell’ecologia 35.
In questo tipo di impostazione, che peraltro non è affatto omogenea e coesa, ma presenta molte sfumature, l’approccio metodologico
attiene sostanzialmente alle scienze storiche, sia pure con diversi gradi di contaminazione con questioni e categorie proprie delle scienze
31. Worster, Transformations of the Earth, cit., p. 1091.
32. Id., History as Natural History, cit., p. 4.
33. M. Guha, R. Gadgil, This Fissured Land. An Ecological History of India, UP
of Berkeley, Los Angeles 1992, pp. 12-3.
34. C. Merchant, Ecological Revolutions: Nature, Gender, and Science in New England, University of North Carolina Press, Chapel Hill 1989, pp. 2-3 (trad. degli autori).
35. W. Cronon, La terra trasformata: indiani e coloni nell’ecosistema americano,
edizioni dell’arco, Milano 1992, p. 12 (ed. or. Changes in the Land: Indians, Colonists,
and the Ecology of New England, Hill and Wang, New York 1983).
37
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
naturali. Elementi di maggiore discontinuità sono presenti tra quegli
studiosi che si occupano soprattutto di storia del soprassuolo, spesso
delle foreste. In questo tipo di approccio è il terreno a diventare documento, come scrive Diego Moreno, uno dei primi sostenitori dell’ecologia storica: l’archeologia forestale e l’analisi pollinica, ma più
in generale l’osservazione diretta del sito (field study ovvero studi sul
campo) costituiscono le metodologie e le fonti di questo tipo di ricerche. Per questo, però, c’è bisogno di competenze per lo più ignote alla maggior parte degli storici: analisi dei terreni, indagini polliniche, dendrocronologia, nozioni di ecologia vegetale.
In sintesi, è possibile individuare, seguendo un noto schema interpretativo di Worster, tre grandi filoni di ricerche: la storia della natura in sé, la storia socio-economica della natura, la storia della cultura,
delle idee e delle sensibilità ambientali. Forse qualcuno aggiungerebbe a questi tre campi di indagine, altri due: gli studi di gender and
environment e quelli di justice and environment. A noi sembra, tuttavia, che più che filoni autonomi di ricerca, siano piuttosto delle chiavi
interpretative che tagliano trasversalmente temi diversi, attinenti soprattutto alla storia socio-economica della natura e a quella delle culture ambientali. Proveremo a descrivere ciascuno di questi filoni, proponendo per ciascuno un libro che ci è sembrato particolarmente utile ad esemplificarne contenuti, metodi e fonti.
1.3.1. Il Dust Bowl, per esempio
Uno storico, un luogo, una storia: il Dust Bowl di Donald Worster 36
racconta le tempeste di sabbia che si scatenarono sulle grandi pianure
americane negli anni trenta del Novecento. Un libro fortemente radicato nella storia americana, nella storia del West, che racconta una
vicenda alla quale l’autore è legato da personalissimi motivi biografici
(Worster nasce da una famiglia di rifugiati del Dust Bowl); eppure un
libro che parla indirettamente di noi tutti, che riesce a trasfigurare la
vicenda narrata in una metafora planetaria: per questo si tratta di un
vero modello di storia dell’ambiente.
In Italia la vicenda del Dust Bowl è praticamente sconosciuta,
sebbene un esperto di fama mondiale come George Borgstrom lo definisca uno dei peggiori errori ecologici della storia, sottolineando con
il termine “errore” il carattere antropogenico del disastro. La domanda sulle cause, o per meglio dire sui colpevoli, è sempre centrale in
36. Dust Bowl: the Southern Plains in the 1930s, Oxford University Press, New
York 1979.
38
1.
STORIA
ogni storia “catastrofica” e Worster non si sottrae alla questione: certo, la natura ha fatto, come sempre, la sua parte, ma essa ha solo reso
possibile il Dust Bowl, non l’ha creato. Tuttavia Worster rifugge una
risposta semplificata e astorica, magari un po’ romantica, per cui sono
gli uomini a fare i disastri ambientali: piuttosto è stata una precisa
cultura che deliberatamente ha portato negli anni trenta le grandi
pianure alla rovina.
Il libro ci mostra come l’ecologia e l’economia abbiano interagito
nelle grandi pianure, riuscendo a tenere insieme entrambi gli aspetti,
come ogni storico dell’ambiente è chiamato a fare. Più di 100 milioni
di acri di terra (circa 40 milioni di ettari), attraverso cinque Stati diversi, furono sconvolti negli anni trenta da una serie di tempeste di
sabbia. A partire dal 1931 la siccità aveva fortemente danneggiato i
raccolti; i venti che spazzavano le grandi pianure non trovarono, dunque, nulla che trattenesse la terra, sollevando enormi nubi di polvere,
tali da oscurare i cieli. Per avere un esempio dell’imponenza del fenomeno, nella sola giornata del 9 maggio 1934 si posarono su Chicago
12 milioni di tonnellate di polvere, ed anche città più lontane come
New York furono toccate da quella che fu definita la “terra del Kansas”. Nel 1934 i costi del Dust Bowl ammontavano a una volta e
mezza le spese militari sostenute dagli Stati Uniti nel corso della prima guerra mondiale; due anni dopo, si calcolava una perdita giornaliera di 25 milioni di dollari. Eppure la siccità e le tempeste non erano certo eventi eccezionali nelle grandi pianure. Worster ricostruisce
le serie storiche dei dati relativi alle piogge e alle temperature, dimostrando come la mancanza di acqua sia un fatto strutturale nell’area,
con ondate di siccità estrema ogni trenta anni, media ogni quattro.
D’altronde già ai primi esploratori le pianure centrali americane erano apparse un paesaggio sostanzialmente desertico, tendenzialmente
inadatto all’insediamento umano.
Qui Worster riprende le tesi di un altro storico americano, Walter
Prescott Webb, che proprio negli anni trenta pubblicava il suo studio
sulle grandi pianure, dal quale emergeva con chiarezza come quell’area fosse apparsa ai primi esploratori spagnoli, giuntivi intorno al
1500, un luogo inospitale, adatto appena a sostenere un pugno di indiani. Né le cose sarebbero cambiate poi tanto tre secoli dopo, all’arrivo dei primi esploratori americani provenienti dall’East Coast, come
Zebulon Pike, che nel 1806 definiva le grandi pianure come il grande
deserto americano. Worster conosce molto bene il lascito culturale di
un altro esploratore che nella seconda metà dell’Ottocento si spinse
oltre il 100o meridiano: John Wesley Powell rappresentò la mediazione tra le tesi di Pike e quelle espansioniste del presidente Jefferson;
39
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
infatti, pur riconoscendo i limiti ecologici delle grandi pianure che
escludevano l’uso agricolo del suolo, riteneva possibile la loro occupazione stabile, attraverso un’estesa industria del bestiame. A Powell,
e alla sua visione delle “regioni aride” degli Stati Uniti, Worster ha
dedicato una ricca biografia; qui, invece, ciò che gli preme sottolineare è la naturalità del Dust Bowl e l’innaturalità dell’agricoltura: che
l’acqua fosse poca, la terra arida, la siccità periodica, i venti forti erano acquisizioni comuni a tutti gli abitanti delle grandi pianure anche
prima dell’impiego di sofisticati strumenti di misurazione meteorologica.
Forse pochi ricordano che Il mago di Oz, ambientato in Kansas,
comincia proprio con una terribile tromba d’aria in grado di sollevare
via la casa, prima che la piccola protagonista della fiaba riesca a raggiungere la cantina dove, abitualmente, si rifugia la famiglia in casi
come questi. L’uomo bianco aveva deliberatamente scelto di forzare
questi limiti, di ignorare i tanti campanelli di allarme che avrebbero
dovuto metterlo in guardia dal cambiare in modo così radicale l’aspetto e l’ecologia delle pianure del Midwest. Ed era l’agricoltura capitalistica l’artefice di questa trasformazione. Nella ricerca di Worster
il sistema ecologico delle pianure incontra il sistema economico-sociale che su di esso si era innestato e che con esso interagiva: l’espansione agricola nelle terre dure dell’Ovest è messa in relazione con gli
eventi bellici della Grande Guerra, con le innovazioni tecnologiche
che a partire da fine Ottocento permisero l’espansione della dry farming (aridocultura), con il boom del settore bancario che consentiva
un largo accesso al credito, necessario per convertire le fattorie in
grandi industrie meccanizzate ad alta intensità di capitali. Più in generale, quanto accadde nelle grandi pianure altro non era che l’altra
faccia della grande crisi che negli stessi anni investiva tutto il mondo,
proprio a partire dagli Stati Uniti: gli sporchi anni trenta, così come
furono definiti dalla polvere che impregnava ogni cosa, sono ricordati
per la crisi finanziaria, mentre è praticamente ignorata la sua radice
ecologica ed economica.
La mia tesi [scrive Worster] è che ci fu uno stretto legame tra il Dust Bowl
e la depressione, ossia che la stessa società produsse entrambi e per ragioni
simili. Entrambi gli eventi rivelano fondamentalmente la debolezza della cultura tradizionale americana, l’uno in termini economici, l’altro in termini
ecologici 37.
37. Ivi, p. 5.
40
1.
STORIA
Se la cause del Dust Bowl non furono solo naturali, anche le sue
conseguenze investirono l’intero sistema sociale delle grandi pianure.
Insieme al vento e alla polvere, furono le banche a mangiare la terra
degli agricoltori degli Stati centrali, ormai strozzati dai debiti e dalle
ipoteche sottoscritte per sostenere una produzione ad alta intensità
di capitali. Un vero e proprio esodo forzato di donne, uomini, bambini si verificò dalle aree colpite in direzione della California: l’epopea degli Okies, così vennero chiamati coloro che scappavano dall’Oklahoma, epicentro del Dust Bowl, fu raccontata da Steinbeck in
un noto romanzo 38, che mostrava tanto la disperazione di chi aveva
perso tutto, quanto l’insofferenza quasi razzista nei loro confronti da
parte degli abitanti degli Stati vicini.
L’analisi di Worster, che pure si fa puntuale e dettagliata con due
minuziosi case studies sulle contee di Cimarron ed Haskell, non rinuncia ad una visione di insieme in grado di collocare l’esperienza
dell’agricoltura nelle grandi pianure in un quadro più vasto: è il capitalismo, inteso come una cultura prima ancora che come un sistema
economico, la matrice dell’esperienza del Dust Bowl. A livello ecologico, il capitalismo propone tre imperativi fondamentali: l’uomo deve
intendere la natura come capitale; deve sfruttarla per un costante
avanzamento personale (una cultura intensivamente massimizzante);
l’ordine sociale deve permettere e incoraggiare questo continuo incremento di ricchezze personali. Negli anni venti l’idea che la natura
mettesse dei limiti a quella espansione era aborrita almeno quanto la
possibilità di controlli e vincoli sociali nella vita economica. Worster,
comunque, sgombra subito il campo da possibili equivoci: la mania
della crescita non era una prerogativa delle società capitalistica, ma
investiva anche le società socialiste: tra il 1945 e il 1965 l’URSS di
Chruščëv visse un suo Dust Bowl causato dal tentativo di mettere a
coltura una enorme massa di terre vergini tra Russia, Siberia e Kazakhstan.
Se la base culturale di quel disastro era il capitalismo e/o la crescitomania, l’antidoto avrebbe dovuto agire proprio su questo elemento, ma così non fu. Il New Deal nelle grandi pianure non significò una critica all’agricoltura industriale, ma pure rappresentò una
svolta significativa. In particolare Worster lega al nuovo corso rooseveltiano l’arrivo nelle grandi pianure dell’ecologia come scienza: se
la pianificazione e le agenzie governative per la protezione del suolo
38. Furore, Tascabili Bompiani, Milano 2001. Dal romanzo John Ford trasse l’omonimo film del 1940.
41
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
erano gli strumenti della nuova politica, occorreva sapere di più sulla
natura e sul suo modo di funzionare per elaborarli.
Nel Dust Bowl, nelle grandi pianure come nelle pagine di Worster, si intrecciarono economia ed ecologia, culture e politiche, piccole storie locali e grandi crisi epocali: questo libro mostra come la storia dell’ambiente non sia qualcosa a parte, una sottodisciplina relegata
ad occuparsi di temi verdi; piuttosto la sfida è rileggere le grandi questioni, come la depressione degli anni trenta o l’organizzazione capitalistica della produzione, con nuove chiavi interpretative ed anche con
nuove fonti. Worster si muove a suo agio tra i dati dei climatologi e
dei geografi, tra i rapporti degli agronomi, gli articoli dei giornali, le
fonti delle agenzie governative e le statistiche economiche e sociali,
ricordandoci, tuttavia, che la differenza tra uno storico e un collezionista di francobolli sta nelle domande che ci si pone, nell’interpretazione dei fatti, nelle ipotesi di partenza, che sole danno senso alla
raccolta di informazioni.
1.3.2. Saperi, culture, sensibilità:
quando la storia dell’ambiente incontra la storia delle idee
Lo storico dell’ambiente è fortemente interessato alle rappresentazioni culturali, alle costruzioni ideologiche, ai saperi e alle sensibilità che
hanno regolato e interpretato le relazioni tra uomini e natura. Probabilmente è stato proprio questo il campo di indagine sul quale iniziarono a confrontarsi le prime ricerche di storia ambientale statunitense; la vicenda storica nord-americana, così segnata prima dal conservazionismo, poi dal protezionismo produttivistico e infine, negli anni
sessanta e settanta, dall’ambientalismo, stimolava la ricerca su questi
temi. La precoce attenzione nord-americana alla storia delle idee e
delle culture ambientaliste è evidente se pensiamo che il libro di Samuel P. Hays sul conservazionismo negli Stati Uniti tra 1890 e 1920
era pubblicato nel 1959 39.
Confrontarsi con la storia delle idee ecologiche significa, dunque,
riprendere una feconda stagione di ricerche sulla storia della scienza,
partendo dalle intuizioni proposte da Thomas Kuhn e riprese da molti degli storici ambientali. In un saggio del 1987 Elizabeth Ann Bird
scriveva con chiarezza che i paradigmi scientifici sono costruzioni storico-sociali, date non dal carattere della natura in sé ma dall’esperienza sociale, dai valori culturali e dalle strutture socio-economiche; le
39. Conservation and the Gospel of Efficiency; the Progressive Conservation Movement, 1890-1920, Harvard University Press, Cambridge.
42
1.
STORIA
teorie scientifiche, nonché le pratiche razionali di gestione della natura ad esse ispirate, sarebbero, dunque, espressive di una negoziazione
tra gruppi-interessi-valori e tra tutto ciò e la natura stessa 40.
Insomma, non si può pensare che ricostruire la storia dei saperi
ecologici sia cosa diversa dalla storia delle società, delle economie e
delle più generali culture dentro le quali quei saperi si sono generati.
La Storia delle idee ecologiche di Donald Worster, la Morte della natura di Carolyn Merchant sono senz’altro tra i migliori esempi di questo tipo di approccio: l’evoluzione dei saperi scientifici si innerva con
le trasformazioni generali della società, in particolare con i cambiamenti in campo economico; gli autori non seguono un modello teleologico che spieghi l’evoluzione dei saperi in senso progressivo, preferendo, piuttosto, la ricostruzione del conflitto per l’affermazione delle
ortodossie scientifiche in termini di controllo sociale e di egemonia
culturale, seguendo spesso anche alcuni filoni di pensiero perdenti.
Ad ogni modo, questo livello della storia ambientale non si identifica tout court con la storia della scienza e nemmeno con una più inclusiva e innovativa storia dei saperi. Le mentalità, i comportamenti
collettivi, i movimenti ambientalisti, le politiche sono altrettanti filoni
di ricerca che a buon titolo rientrano tra gli interessi degli storici ambientali attenti a questo livello di analisi. Come è ovvio, non è possibile presentare un libro per ciascuno di questi filoni; così abbiamo
scelto un volume che, soffermandosi in particolare su alcuni aspetti di
storia della mentalità, della cultura e dei comportamenti collettivi,
presenta qualche collegamento anche con le vicende dell’ambientalismo e delle politiche statali in tema ambientale.
L’uomo e la natura di Keith Thomas 41 era pubblicato a Londra
nel 1983 e solo dieci anni dopo era tradotto in italiano dalla casa editrice Einaudi. Thomas ricostruisce la storia delle relazioni intercorse
tra uomini e natura in Inghilterra tra il 1500 e il 1800, soffermandosi
soprattutto sul rapporto con gli animali. La sua è una storia della
sensibilità, della cultura, degli atteggiamenti mentali e delle abitudini
materiali (ad esempio del cibo). Una ricerca ambiziosa, per un arco
di tempo piuttosto vasto, che copre quattro secoli tra età moderna e
contemporanea, costruita essenzialmente su fonti letterarie, ossia su
quell’enorme massa di pubblicistica (trattati teologici, scientifici, poesie, memorialistica) che secondo l’autore può rivelare gli umori di
40. E. A. R. Bird, The Social Construction of Nature: Theoretical Approaches to
the History of Environmental Problems, in “Environment Review”, 1987, 4, 11.
41. L’uomo e la natura. Dallo sfruttamento all’estetica dell’ambiente 1500-1800,
Einaudi, Torino 1994 (ed. or. Penguin Books, London 1983).
43
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
fondo, le grandi linee di pensiero, le attitudini culturali di un intero
popolo. L’opzione per un arco cronologico piuttosto lungo consente
di cogliere trasformazioni che altrimenti potrebbero risultare meno
chiare, come, ad esempio, il passaggio da un’idea di foresta come
spazio orribile, male da evitare, a quella più recente di luogo bello da
preservare. I cambiamenti nel gusto e l’evoluzione dell’idea del bello
sono spesso lenti e il lungo periodo sembra la taglia temporale giusta
per coglierli.
Quanto alle fonti, una storia della mentalità e dei comportamenti
collettivi implica sempre una grossa difficoltà: si tratta di capire quali
possano essere le spie utili per cogliere trasformazioni culturali, a volte consistenti a volte impercettibili, ed anche in che modo valutare la
reale portata di quei mutamenti. Il libro di Keith Thomas è interessante anche per questo: proprio perché consente di riflettere sugli
strumenti interpretativi e sulle fonti utili per un approccio di tipo cultural history alla storia dell’ambiente. Thomas non è certo uno sprovveduto; perciò mescola con intelligenza fonti letterarie e scientifiche e
altre fonti in grado di raccontare cose diverse, come la nascita di legislazioni ad hoc (sui combattimenti degli animali, sui mattatoi, sulla
caccia o sui boschi), la fondazione di associazioni per la difesa della
natura o informazioni più generali sulle abitudini e gli stili di vita degli inglesi (giochi infantili, passatempi, abitudini alimentari). Ed anche nel caso delle fonti letterarie non tralascia piste più complicate da
seguire, come quelle relative alle leggende e ai saperi popolari.
Quella della comunicazione tra alto e basso, scientifico e vernacolare, elitario e di massa è una delle linee che percorrono l’intero volume. Thomas ricorda, ad esempio, quanto gli studiosi di scienze naturali ricorressero spesso ai saperi popolari, la cui tassonomia era molto
più ampia di quanto fosse necessario per soli fini utilitaristici, pur segnalando la frattura costituita in questo senso dall’affermazione della
terminologia scientifica. In estrema sintesi, con l’avvento di una moderna società urbana, la frattura tra città e campagna, tra lavoro e
natura portò ad una riorganizzazione delle relazioni tra questi spazi,
materiali e culturali: cambiò il modo in cui specie animali innanzitutto, ma anche vegetali ed interi ecosistemi erano percepiti, passando tendenzialmente da una visione puramente utilitaristica ad un’altra, maggiormente connotata in senso affettivo ed estetico.
Una rivoluzione culturale che divenne particolarmente evidente
nel Settecento, con una vera e propria mania per gli animali da compagnia e per il giardinaggio, ma della quale Thomas sa ritrovare le
radici antiche, anche smentendo un’accreditata ed un po’ troppo facile connessione tra tradizione giudaico-cristiana e atteggiamenti ostili e
44
1.
STORIA
di dominio nei confronti della natura: anche dentro quella tradizione
c’era, infatti, posto per un atteggiamento di rispetto verso le altre
creature, dal momento che l’intero creato era stato affidato da Dio
all’uomo perché ne avesse cura. Sebbene l’autore parli in generale
delle relazioni tra uomo e natura, senza, ad esempio, insistere particolarmente sulle differenze di genere, nel suo libro è possibile cogliere
le diversità sottese alla stratificazione sociale. A lungo la pietà per gli
animali andò di pari passo con il disprezzo o, almeno, la forte critica
contro le classi subalterne, ritenute le principali colpevoli delle crudeltà ai danni delle bestie. Il macellaio divenne l’emblema di una genia di corrotti, in un giudizio che mischiava insieme collocazione sociale, attitudini morali e inclinazione alla violenza. Tuttavia, sull’altro
estremo della piramide sociale, la cultura dell’aristocrazia inglese si
connotava per un forte radicamento della caccia come pratica esclusiva, che rimandava a simboli e valori come il militarismo, la virilità e il
coraggio. In realtà, il cambiamento di atteggiamento verso la natura
non implicava scelte e comportamenti coerenti ad un unico universo
mentale, meno che mai simile alla nostra attuale sensibilità ambientale: si pensi alla differenza tra animali nocivi e non, che sembrava
scontata fino a non molto tempo fa e che implicava differenti modelli
comportamentali (si poteva uccidere le volpi, ma non i daini).
Il libro di Keith Thomas è un modello per chi voglia fare storia
delle trasformazioni culturali avvenute nella sensibilità ecologica. Il
lungo periodo, l’integrazione tra fonti letterarie e altre fonti, l’attenzione per la comunicazione ascendente-discendente tra saperi e culture costituiscono un bell’esempio di storia ambientale, a prescindere
dai contesti e dai periodi esaminati.
1.3.3. Storia dell’ambiente e storia ecologica
Il paesaggio è come una biblioteca sterminata, piena di libri spesso
scritti in lingue antiche e sconosciute. Con questa immagine lo storico
inglese Oliver Rackham proponeva di uscire dalla tirannia delle fonti
scritte: il territorio stesso poteva, doveva essere documento 42. La
proposta di Rackham partiva da una critica piuttosto radicale al tradizionale approccio alla storia dell’ambiente, e in particolare a quella
dei boschi: troppo spesso gli storici avrebbero contribuito a rafforzare e tramandare stereotipi privi di ogni fondamento, basandosi su
42. The History of the Countryside, J. M. Dent & Sons, London 1986.
45
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
fonti scritte inattendibili. Spesso accade che non solo gli storici non si
siano mai recati sui luoghi che descrivono, ma che finanche le loro
fonti siano il prodotto di autori a distanza: ne risulterebbe un’immagine due volte deformata dell’oggetto rappresentato.
La critica alle fonti scritte investe tutti i tipi di fonte: senz’altro
quelle letterarie – le peggiori secondo l’autore – ma anche quelle statistiche, spesso confusionarie e imprecise, quelle legislative, tendenzialmente irrilevanti, o quelle amministrative, tipo le grandi inchieste
sui boschi, in genere molto parziali quanto a interessi e campi di indagine. Alcuni assunti della storia forestale, ma forse più in generale
del senso comune sui boschi, rivelano, alla luce di queste critiche, le
loro intrinseche debolezze: convinzioni come “i boschi sono distrutti
perché gli uomini li usano” appaiono luoghi comuni senza fondamento, mentre il taglio o il fuoco vanno reinterpretati in maniera più corretta come forme normali di uso o di funzionamento dell’ecosistema,
e non come patologie antropiche.
Se le fonti scritte sembrano insufficienti o fuorvianti per questo
tipo di ricerche, Rackham proponeva un ventaglio di risorse diverse,
che andavano dall’analisi pollinica alla landscape archeology, dai field
studies alle fonti orali. Il nocciolo di questa proposta era quell’idea
del paesaggio come grande biblioteca storica, ossia come raccolta vivente delle testimonianze della terra; ed aveva ragione Rackham a
dire che i libri conservati in quella biblioteca erano spesso scritti in
lingue antiche e misteriose, perché tali sono per gli storici i linguaggi
scientifici necessari per decifrare quei documenti. Rackham mette in
pratica la sua proposta metodologica in molti lavori sulla storia del
paesaggio, tanto su scala locale, per l’Inghilterra o Creta, tanto su
scala comparativa, per l’intero Mediterraneo 43.
Colpiscono alcune caratteristiche di questi studi: un forte orientamento per il tempo lungo (l’autore parte spesso dalla fine dell’era glaciale); il corredo fotografico e iconografico come parte fondante e
non decorativa della tesi esposta nel testo; una grande conoscenza
delle scienze naturali e in particolare della botanica. Non mancano
affatto le fonti scritte, ma esse sono sempre verificate dalla ricerca sul
campo e, ad ogni modo, appaiono in una posizione meno preminente
43. Ibid.; O. Rackham, J. Maady, The Macking of the Cretan Landscape, Manchester University Press, Manchester-New York 1996; Cfr. A. T. Grove, O. Rackham,
The Nature of the Mediterranean Europe. An Ecological History, Yale University Press,
New Haven 2001.
46
1.
STORIA
rispetto allo standard degli studi storici cui siamo abituati. Questo
tipo di ricerche ha avuto, almeno per ora, una ricezione e una diffusione piuttosto limitate; d’altronde la difficoltà dei linguaggi, legata
alla separatezza delle scienze sociali da quelle naturali, non ha certo
agevolato la diffusione delle metodologie proposte dalla scuola di
Rackham. Tuttavia la ricezione di questa ipotesi storiografica è andata
ben al di là di mere appartenenze di parrocchia. Per la verità è proprio di ciascuno storico, al di là delle sensibilità e degli approcci,
procedere ad un’analisi critica delle fonti, la cui attendibilità, peraltro, non può essere misurata solo in funzione della vicinanza geografica all’oggetto descritto (una guardia forestale poteva conoscere da
vicino una foresta ma non per questo era necessariamente oggettiva
nelle sue relazioni).
Una certa ingenuità nel riportare pedissequamente dati e informazioni non è ascrivibile, insomma, ai limiti della fonte e alle strategie
metodologiche, ma piuttosto ai limiti dello storico che le sta adoperando. Ciò non toglie i meriti delle critiche sollevate da un approccio
alla Rackham: oggi sono davvero pochi coloro che userebbero fonti
legislative per descrivere i modi in cui i boschi erano utilizzati o che
si servirebbero di statistiche forestali senza averne adeguatamente illustrato i limiti. La necessità di confrontarsi con le pratiche di attivazione delle risorse – ed anche questa terminologia è figlia di quella
impostazione – è oggi avvertita praticamente da tutti coloro che si
misurano con la storia dell’ambiente, come pure l’esigenza di masticare almeno un po’ delle nozioni scientifiche di base indispensabili per
affrontare lo studio dei diversi ecosistemi.
Si pensi, ad esempio, al recente volume di Grove e Rackham sulla
storia del paesaggio nell’Europa mediterranea. Il punto di partenza è
la tesi del ruined landscape, come essi la definiscono: l’idea, cioè, di
una progressiva degradazione del paesaggio causata dalle attività antropiche; insomma una sorta di sindrome da paradiso perduto. Per
Grove e Rackham la nozione di “degrado” è piuttosto generica e tendenzialmente soggettiva: spesso gli storici definiscono degradati tutti
gli ambienti che per un qualche motivo non rientrino nei loro parametri estetici e/o culturali; molti studiosi nord-europei e americani
porterebbero con sé la propria idea di foresta in ambienti profondamente diversi dai loro, proprio come quello mediterraneo. Applicando i field studies, l’archeologia del paesaggio, la datazione pollinica,
gli autori propongono, invece, una visione diversa di alcuni aspetti
degli ecosistemi mediterranei, come i terrazzamenti, le savane, ovvero
i pascoli alberati, il fuoco e i deserti.
47
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
Per quanto possa sembrare strano, anche il fuoco è stato parte
integrante dei modi di funzionamento degli ecosistemi agro-forestali:
Stephen Pyne ha parlato di una pirofobia che ha cancellato la nozione del fuoco come elemento naturale di molti ambienti 44. L’approccio di Grove e Rackham restituisce al fuoco il suo ruolo all’interno
degli ecosistemi mediterranei; una ricerca empirica, minuziosa e sul
campo, consente di non parlare di fuochi generici, ma di individuarne tipi diversi, per qualità, finalità, ed, ovviamente, esiti. D’altronde
su queste stesse posizioni si collocavano le riflessioni di Pyne, che per
il Nord America ha collegato la grande stagione delle conflagrazioni
forestali avvenuta nel 1910 all’affermazione delle politiche preservazioniste che bandivano definitivamente i cosiddetti fuochi domestici
(ossia controllati).
In Italia è stato Diego Moreno ad adottare l’approccio proposto
da Rackham. Scala di indagine micro e archeologia forestale sono le
parole d’ordine della sua proposta storiografica, che vuole utilizzare
come fonte il terreno stesso (field studies, scavi, datazioni ecc.) 45. In
forza di questa strumentazione analitica, Moreno propone di sfuggire
da dicotomie nette, come domestico vs. selvatico, colto vs. incolto,
dimostrando come nella realtà le cose fossero molto più confuse e
sovrapposte che non in teoria. Perché, infatti, un altro dei punti fondanti di Moreno è la critica ad una storiografia che, basandosi solo su
fonti normative/prescrittive (come leggi e trattati), immagina di descrivere l’ambiente, mentre sta raccontando solo una sua rappresentazione.
Le testimonianze della cultura materiale, come le fonti orali, la ricerca linguistica dovrebbero ovviare a questi limiti, consentendo di
arrivare alle reali pratiche di attivazione delle risorse. Tuttavia, va
detto che quella di decodificare le fonti normative, prescrittive, o anche letterarie, è una necessità generale per lo storico, e il rischio di
confondere la fonte con l’oggetto di studio, appiattendosi sulla prima,
non si supera per il solo fatto di optare per il terreno. Anzi, proprio
in quel caso l’identificazione fonte-oggetto di studio richiede una
maggiore capacità di analisi, dal momento che il terreno, trasformato
in fonte, ha tutte le insidie proprie del documento (a titolo d’esempio
si pensi all’individuazione sul campo di un terrazzamento: chi lo ha
44. Cfr. Year of the Fires: the Story of the Great Fires of 1910, Viking, New York
2001.
45. Cfr. Dal documento al terreno, il Mulino, Bologna 1990.
48
1.
STORIA
prodotto, quando, per quali finalità; chi, come e perché ce lo ha tramandato; se è in cattivo stato, come è successo ecc.).
1.4
La storia dell’ambiente in Italia
Qual è il rapporto tra storia e ambiente in Italia? Si sarebbe tentati di
dare un quadro piuttosto arretrato della nostra storiografia su questi
temi, denunciando un ritardo della nostra cultura a fronte di esperienze molto più dinamiche e precoci, come quelle di lingua inglese
(americane, britanniche, australiane), tedesche e nord-europee. Tuttavia, sebbene ci sembri interessante segnalare lo scarto tra le diverse
esperienze, è altrettanto utile tentare di capire le peculiarità di ciascuna storiografia, e il modo in cui esse hanno interagito con un più
vasto background culturale.
In Italia l’ambientalismo non è mai stato particolarmente forte e
radicato; ad una sua scarsa diffusione nella coscienza collettiva ha fatto riscontro una limitata attenzione anche della cultura accademica,
tanto più delle scienze umane e sociali. In particolare sulla storiografia italiana pesava la duplice eredità marxista e idealista, che tendeva
ad escludere ogni riflessione sulle condizioni ambientali; schematizzando potremmo dire che per i marxisti era necessario partire dal lavoro e dal capitale per comprendere le dinamiche della società, senza
cadere in derive deterministe che “naturalizzassero” le attuali strutture sociali; mentre gli idealisti proponevano di concentrarsi sulla sovrastruttura, con il preciso monito di Croce a non sostituire la storia degli uomini con la storia degli elementi naturali, che gli uomini non
potevano conoscere.
Questo in linea teorica. In realtà la storiografia marxista iniziò
presto a rompere con l’ortodossia, recuperando le intuizioni già presenti nel pensiero di Marx a proposito della natura e del rapporto tra
questa, il lavoro e il capitale (si veda in proposito il capitolo Natura).
In particolare, a partire dagli anni cinquanta e sessanta, si sviluppò in
Italia una storia dell’agricoltura di matrice marxista che, seppure inconsapevolmente, aprì una finestra su alcune questioni di carattere
ambientale: quegli storici agrari tentavano di ricostruire l’evoluzione
del paesaggio italiano, le sedimentazioni del lavoro, i saperi e le tecniche con cui i gruppi sociali si relazionavano e costruivano l’ambiente
fisico circostante.
In merito alle fonti, gli storici dell’agricoltura recuperavano una
cospicua mole di documentazione sugli usi del territorio, sulle rese
agrarie, sulle tecniche e i saperi che sovrintendevano ai lavori della
49
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
terra; un volume come La storia del paesaggio agrario italiano di Emilio Sereni 46 rappresenta un caso esemplare e precoce di come quella
storia dell’agricoltura si espandesse verso una più complessiva analisi
dell’intero ambiente italiano, servendosi anche di fonti inconsuete,
come quelle iconografiche, cartografiche o delle testimonianze di cultura materiale, cristallizzate nell’apparato tecnologico o sedimentate
nella forma dei paesaggi antropogenici. Grosso modo in quegli stessi
anni si moltiplicavano in Italia, soprattutto nelle regioni del centro,
quei musei della civiltà contadina, che costituivano proprio un esperimento di recupero della cultura materiale, nel tentativo, non sempre
consapevole o riuscito, di mettere in relazione tecnologie, culture,
paesaggi.
In Italia, come del resto in Spagna, il rapporto tra storia dell’agricoltura e storia dell’ambiente è stato decisivo. Lo ha spiegato di
recente Piero Bevilacqua 47, mettendo in relazione la nostra storiografia sull’agricoltura e sul paesaggio con i nuovi interessi ambientali.
Non si tratta solo di una semplice contiguità tematico-spaziale, per
cui dai campi coltivati si è passati facilmente ai boschi, e di qui al
dissesto idrogeologico e alle grandi trasformazioni ambientali operate
dagli uomini. Contratti agrari e forme di conduzione della terra, modi
di produzione e indirizzi colturali, strategie di politica economica degli Stati e strategie di sussistenza e redistribuzione delle comunità
contadine, rapporti di classe, geografie degli insediamenti e strutture
del potere: gli storici dell’agricoltura hanno mostrato come la società
e l’economia plasmassero l’ambiente o, quanto meno, avessero molto
a che fare con quello. Le sedimentazioni del lavoro e della struttura
sociale apparivano intimamente connesse con le forme dell’ambiente;
terrazzamenti o colline denudate e franose, fiumi irreggimentati o irrequieti, grandi pascoli aperti o piccoli campi chiusi: tutte queste
cose mostravano la connessione tra forme del paesaggio e forme della
società, ossia tra modi di produzione (di beni) e modi di riproduzione (della natura).
Sono evidenti le strette connessioni esistenti tra storia dell’agricoltura e storia economica; dunque, nell’albero genealogico della storia
ambientale nostrana anche la storia economica ha avuto un ruolo decisivo. Si tratta, come si è detto, di un legame che riguarda non solo
la nostra tradizione storiografica, ma più in generale quella europea.
L’interesse degli storici economici per le risorse naturali non è certo
46. Laterza, Bari 1961.
47. Storia e ambiente in Italia, in Armiero (a cura di), Alla ricerca della storia
ambientale, cit.
50
1.
STORIA
recente, si pensi all’attenzione da sempre prestata dagli storici dell’economia alla questione energetica o al problema del reperimento delle materie prime: gli studi sulle localizzazioni industriali, sui combustibili, sugli andamenti dei prezzi del legname, sulle innovazioni tecnologiche sono temi tradizionali della disciplina.
In Italia potremmo citare studi pionieristici come quelli di Giuseppe Prato del 1913 su localizzazioni industriali e combustibili, ma è
sicuramente Carlo Maria Cipolla lo storico economico che con maggiore consapevolezza seppe coniugare questioni economiche ed ecologiche, prima fra tutte quella energetica 48. Il legame tra storici agrari
ed economici e storici dell’ambiente è evidente se verifichiamo i percorsi individuali di molti degli storici ambientali italiani: sono tanti
quelli che provengono da almeno uno dei due background; e non si
tratta solo di passaggi e/o conversioni ma anche di rapporti proficui,
pur nella reciproca indipendenza, come testimoniano i molti incontri
su temi specifici come la storia dell’energia o quella dei boschi.
Qual è l’eredità che questa duplice matrice – agraria ed economica – ha lasciato alla nostra storia ambientale? A parte una notevole
contiguità di temi, per cui le ricerche si sono addensate in alcuni ambiti e molto meno, fino ad adesso, in altri, il legame più interessante
sembra di natura metodologica e di prospettiva: l’ambiente della nostra storia è stato fin dall’inizio fortemente storicizzato, frutto della
combinata azione di elementi socio-economici e di fattori naturali;
con un approccio che alla lunga ha costituito un buon antidoto contro tentazioni “naturaleggianti” o deterministiche, sempre in agguato
quando si fa storia dell’ambiente 49.
Da questo punto di vista, i rischi più volte segnalati di una visione manichea che contrapponga uomo e natura, e che faccia poche
distinzioni tanto tra gli uomini (classi, gruppi, mestieri) quanto all’interno della natura stessa, sembrano piuttosto lontani dalla nostra storia ambientale, probabilmente proprio grazie all’imprinting delle discipline madri. Questo, tuttavia senza ignorare i limiti che la storia
economica e la storia dell’agricoltura hanno consegnato alla nostra
storia ambientale: ad esempio si sono recuperati i temi ambientali che
48. Cfr. The Economic History of World Population, Penguin Books, Baltimore
1962, trad. it. Uomini, tecniche, economie, Feltrinelli, Milano 1966.
49. In altri termini la storia ambientale italiana non è partita dal presupposto che
la natura funzioni senza uomini e per questo non si è persa nella ricerca degli spazi
davvero naturali – ossia senza uomo – o della naturalità degli spazi – ovvero prima
dell’arrivo dell’uomo – accettando, grosso modo nella sua totalità, la sfida di tenere
insieme economie e natura, società ed ecosistemi.
51
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
meglio si prestavano ad una lettura economicista, mentre altri, come
il mare, l’aria o gli animali, sono stati completamente ignorati; o ancora, la ricerca del valore di mercato di singole risorse ha fatto sparire altri elementi altrettanto importanti come il valore d’uso o d’esistenza o i nessi ecosistemici che legano i diversi elementi; ed infine la
nozione stessa di crescita, che ha sotteso quelle ricostruzioni storiche,
non sempre sembra superata o sottoposta a critica in un approccio di
storia ambientale.
Probabilmente è anche a causa di questa radice agraria che la storia dell’ambiente in Italia non ha toccato, almeno fino ad oggi, temi
grossi come quello della città e dell’industria, al contrario molto presenti nelle altre storiografie ambientali. Sulla città, in realtà, pesa anche un problema concettuale di fondo: cosa c’entrano i grandi agglomerati urbani con la natura e la sua storia? Il dibattito è aperto, specie in ambito americano, dove la presenza, vera o immaginaria che
sia, di ampie aree di wilderness porta con sé di conseguenza ancora
una dicotomia tra natura e artefatto; differenza molto meno avvertita
in ambito europeo, data la presenza pervasiva della città che organizza e costruisce essa stessa la campagna (ne riparleremo nel capitolo Risorse).
Nel caso dell’industria, la scarsissima presenza di ricerche di storia ambientale non può essere spiegata solo con la matrice agricolturalista dei nostri studi, dal momento che accanto ad essa abbiamo individuato anche una radice di storia economica tout court, che avrebbe potuto garantire un’attenzione per questo campo d’indagine. In
questo caso, ha giocato un ruolo importante probabilmente la base
ideologica: una storiografia animata da una visione progressiva, che,
affannata a cercare nell’arretrata Italia le tracce della modernizzazione
industrialista (tanto nella versione borghese che in quella operaia),
non aveva nel suo orizzonte culturale i concetti e gli strumenti per
un’analisi critica dal punto di vista ambientale di quella esperienza.
Ma si badi bene, un punto di vista che parta dalle risorse naturali e
dalla nozione di ecosistema non vuol dire costruire la controstoria
dell’industrializzazione, facendo una storia dell’inquinamento o dei
danni ambientali (anche se, come è ovvio, le celebrazioni e l’assenza
di spirito critico di certa storiografia sull’impresa hanno in qualche
modo costretto ad un’impostazione soprattutto di questo tipo): si
tratta ancora una volta di tenere insieme il tutto, energia e rifiuti,
consumo e forza lavoro, lotte sociali e coscienza di specie.
Schematicamente, potremmo individuare tre ampi campi di indagine della nostra storia ambientale: la storia dei guasti; la storia dell’uso delle risorse; la storia delle sensibilità e delle culture ambientali.
52
1.
STORIA
Ad essi dovremmo aggiungere una storia della natura in sé, per la
verità poco praticata dagli storici e sostanzialmente appannaggio del
già descritto approccio di ecologia storica.
Sui guasti ambientali si pongono innanzitutto problemi relativi
alla periodizzazione. Dobbiamo concentrare i danni all’ambiente negli
ultimi 150-200 anni o piuttosto ricostruire processi di più lungo periodo, arretrando il termine a quo dei fenomeni di inquinamento e
degrado ambientale? Se è vero che la rivoluzione industriale segna
una cesura negli equilibri ambientali del pianeta, è altrettanto vero
che restano da indagare le scansioni che su scala nazionale e/o locale
hanno segnato l’evoluzione dei particolari ecosistemi. In Italia non
sono molti i contributi di ricerca su questi temi.
Basti pensare che alcuni episodi simbolo della nostra storia ambientale attendono ancora il loro storico, come le alluvioni del Polesine del 1951 o di Sarno del 1998, il disastro del Vajont del 1963, la
nube tossica di Seveso del 1976, l’inquinamento a Porto Marghera.
Diverso il caso dei terremoti, che da tempo sono oggetto di un’attenta analisi storica, grazie essenzialmente ad una riconosciuta utilità
pratica di questo genere di ricerche (la storia fornisce prove e informazioni sulla sismicità di determinate aree) e alla determinazione di
una studiosa come Emanuela Guidoboni che ha animato questo filone di studi. Terremoti, inondazioni, grandi disastri industriali: tuttavia, parlare di guasti, e non solo di disastri, ambientali suggerisce l’idea di fenomeni meno eclatanti, quasi quotidiani. Più dell’evento
traumatico è stata spesso l’iterazione di comportamenti pericolosi a
portare ad effetti dannosi cumulativi, spesso irreversibili. La storia
dell’industria potrebbe dire qualcosa in questo senso, ma sono ancora
piuttosto rare le ricerche su questi temi. Le poche esistenti ci restituiscono in genere l’impresa all’interno del territorio in cui è collocata,
messa in relazione con le forme di reazione delle popolazioni danneggiate e con le istituzioni.
La storia dell’uso delle risorse sembra quella che maggiormente
risente del rapporto con la storia economica e sociale. Uso delle risorse è significato in Italia soprattutto acque e boschi: si pensi alla
riflessione di Piero Bevilacqua sull’Italia dei fiumi e quella dei torrenti e ai nessi che lo studioso propone tra assetto dei bacini idrici, disponibilità di acqua e comportamenti più o meno cooperativi dei soggetti sociali 50; o ancora alla sua rilettura della bonifica del Vallo di
50. P. Bevilacqua, Stato e gestione delle risorse, in Id., Terre del grano, terre degli
alberi: l’ambiente nella storia del Mezzogiorno, Calice, Rionero di Volture 1992, pp.
88-9.
53
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
Diano, che mette al centro il circolo vizioso del conflitto socio-ambientale tra utilisti, élite governative e privati interessati alla bonifica 51. Meno indagati i modi di uso di altre risorse ambientali, come le
miniere, il mare o gli animali.
Più di recente, una certa quantità di lavori è apparsa in Italia sul
tema delle risorse, interpretate in chiave ambientale, spesso culminati
in pubblicazioni a carattere collettaneo: un convegno sulla storia dell’ambiente nel Mezzogiorno, ad esempio, dava vita nel 2000 ad un
volume curato da Piero Bevilacqua e Gabriella Corona, incentrato sui
luoghi (boschi, mare, montagne, acque, città), ma anche sull’evoluzione legislativa e il ruolo delle élite politiche e delle burocrazie, e con
contributi tematici relativi alla storia della biodiversità, dei terremoti,
del suolo 52.
L’anno precedente un volume curato da Angelo Varni 53 raccoglieva interventi di taglio nazionale: sul rapporto tra industria e ambiente, sulla storia urbana, sull’acqua, sul diboscamento, sulla letteratura e sulla pubblicistica ambientalista, sulla bonifica; ma anche di taglio regionale e micro: sull’attività mineraria e sui boschi della Sardegna e sull’archeologia industriale a Pontedera.
Nel 2001 un’altra raccolta di saggi, curata da Andrea Filippo Saba ed Edgar Meyer, con l’introduzione di Giorgio Nebbia, era incentrata sul paesaggio agrario della pianura lombarda, sulle implicazioni
ambientali delle politiche autarchiche durante il fascismo, e sulla nascita ed evoluzione del movimento ambientalista italiano 54.
Ancora, nel 2002 usciva un volume collettaneo a cura di Simone
Neri Serneri 55, su paesaggio e territorio in Toscana, con interventi di
taglio storiografico multidisciplinare (geografia, sociologia, storia dell’agricoltura, economia, urbanistica, diritto), fortemente orientato all’attualità dei caratteri e delle questioni ambientali della regione, con
una sezione interamente dedicata alla storia delle crete senesi. Il libro
esprime una forte continuità con la ricca e feconda tradizione degli
studi sul paesaggio in Italia, ibridati con approcci disciplinari diversi,
che costituisce forse l’aspetto più originale della storiografia sull’am51. Id., Tra natura e storia: ambiente, economie, risorse in Italia, Donzelli, Roma
1996, cap. III.
52. Cfr. P. Bevilacqua, G. Corona (a cura di), Ambiente e risorse nel Mezzogiorno contemporaneo, Meridiana Libri, Corigliano Calabro 2000.
53. Storia dell’ambiente in Italia tra Ottocento e Novecento, il Mulino, Bologna
1999.
54. Cfr. Storia ambientale. Una nuova frontiera storiografica, Teti, Milano 2001.
55. Storia del territorio e storia dell’ambiente. La Toscana contemporanea, Franco
Angeli, Milano 2002.
54
1.
STORIA
biente in questo paese. In posizione antitetica, si colloca poi la Storia
della natura d’Italia 56 pubblicata da Fulco Pratesi, fondatore e presidente del WWF Italia, che presenta la propria come una storia “in negativo” del paesaggio nazionale (dalla natura al degrado).
Solo negli ultimi anni la storiografia ha iniziato a confrontarsi con
temi relativi alla cultura e alla sensibilità ambientale. Il ritardo su
questi temi in Italia è senza dubbio ascrivibile alla scarsa presa dell’ambientalismo nel nostro paese; in questo senso si spiega facilmente,
al contrario, la grande mole di studi sulla storia del conservazionismo
negli Stati Uniti, dove, vale la pena di ricordarlo, nasce il concetto di
parco naturale. Tuttavia, mi sembra che alcune ricerche hanno dimostrato che indagando su questo aspetto è possibile fare emergere tratti della nostra cultura finora dimenticati. Sarebbe necessario partire
dal lontano volume di Bruno Vecchio sulla pubblicistica italiana tra
Settecento ed età napoleonica e i boschi, che aveva svelato l’esistenza
di un dibattito acceso sull’utilizzo, la tutela, la funzione delle superfici
forestali e il difficile rapporto tra libertà dei singoli e interessi generali. Nel caso di Vecchio non si poteva parlare, se non con molta prudenza, di una vera e propria cultura ambientalista; diverso, invece, il
caso di studi più recenti che si sono soffermati proprio sulla costruzione di una coscienza ambientale, ricostruendo la genesi del sistema
dei parchi in Italia 57, biografie di singoli ambientalisti o storie di
gruppi 58 (ne riparleremo nel capitolo Ecologia).
1.5
Conclusioni
La storia ambientale è figlia del pensiero ecologista maturato negli ultimi trent’anni, a partire dalla protesta degli anni sessanta e settanta
del Novecento, ma ha radici antiche: tanto negli Stati Uniti che in
Europa, essa ha rielaborato categorie e metodi preparati dalle generazioni precedenti, dalla storia del West influenzata da Turner, alla tradizione delle “Annales” con la geostoria di Braudel, Febvre, Le Roy
Ladurie. Qual è, allora, la novità della storia ambientale? Potremmo
dire il fatto che al centro della storia non è l’uomo come entità sepa-
56. Editori Riuniti, Roma 2001.
57. Si veda in particolare “Memorie e Ricerche”, 1998, 1, numero monografico
Ambiente, territorio, parchi, a cura di Patrizia Dogliani.
58. Sul movimento ambientalista italiano si veda E. Mayer, I pionieri dell’ambiente. L’avventura del movimento ecologista italiano: cento anni di storia, Carabà, Milano
1995.
55
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
rata dalla natura, ma piuttosto il rapporto tra i due, al di fuori del
quale non è possibile interpretare la storia umana, ma nemmeno, in
gran parte, quella della natura. Per raggiungere questo obiettivo gli
storici devono ragionare su diverse scale temporali, o meglio far interagire i tempi lunghissimi della geologia o del clima con quelli medi
dei cicli economici e con quelli brevi delle catastrofi e delle rivoluzioni. Ma essi devono anche far interagire tra loro scale spaziali diverse,
quelle del singolo ecosistema con quelle del pianeta nel suo complesso o della relazione tra continenti e aree apparentemente lontane.
Le metodologie, le cassette degli strumenti, o meglio gli zaini dello storico ambientale, devono quindi somigliare non soltanto a quelle
degli scienziati sociali, ma anche a quelle degli scienziati naturali, che
più di altri parlano il linguaggio della natura. Questo non vuol dire
che tutto ciò che produce o abbia prodotto la scienza abbia un valore
incontestabile, anzi: è proprio la storia ambientale ad aver dimostrato
in più casi come la scienza sia una percezione della realtà legata al
contesto storico, sociale e culturale, e alle dinamiche del potere. Dunque la storia ambientale può dispiegarsi su livelli diversi (la storia della natura in sé, la storia economico-sociale della natura e la storia delle idee ecologiche), ma soprattutto deve imparare a farli dialogare tra
loro, poiché generalmente le trasformazioni dell’ambiente sono influenzate dai sistemi di valori e dalle tecniche, mentre quelle del sistema economico e sociale hanno a che fare tanto con la natura e le
sue dinamiche, quanto con il modo in cui i gruppi umani la interpretano.
56
2
Natura
2.1
Evoluzione e co-evoluzione. La natura secondo gli storici
Se la storia ambientale non è un campo di studi, ma un punto di
vista sulle vicende umane e sul passato, allora la natura non può essere semplicemente l’oggetto, la protagonista di questo tipo di storia.
La storia dell’uomo come specie, in qualsiasi epoca lo si voglia guardare, è sempre una storia di interazione con le forze della natura e
con l’ambiente terrestre, entro il quale l’essere umano è collocato.
Inoltre, non è soltanto l’umanità ad avere una storia: anche la natura
ne ha una propria, come ci insegnano le scienze naturali, e una parte
sorprendentemente grande di quella storia non riguarda affatto la
specie umana, poiché è precedente alla sua comparsa.
Gli storici hanno poco o nulla da dire sull’evoluzione del pianeta
fino all’apparizione delle prime società di cacciatori e raccoglitori,
poiché l’oggetto proprio del lavoro storiografico resta pur sempre
l’uomo. E tuttavia la “storia naturale”, cioè la storia delle trasformazioni della crosta terrestre, dell’atmosfera, degli oceani, del sottosuolo, forma un bagaglio di conoscenze estremamente importanti per lo
storico ambientale, poiché essa può dire molto sul mondo che la specie umana si è trovata ad abitare; inoltre queste trasformazioni, seppure generalmente lentissime, non hanno cessato di verificarsi, influenzando direttamente la storia umana. Dal punto di vista dello storico ambientale, quindi, la novità consiste nel collocare al centro dell’analisi non un soggetto singolarmente preso, ma un rapporto, quello
tra uomo e natura, osservato nel suo divenire nel corso del tempo.
Espressa in questi termini, la storia ambientale mostra tutto il suo
essere figlia, o meglio nipote, dell’evoluzionismo ottocentesco e del
percorso conoscitivo che, da Darwin in poi, ha portato alla maturazione dell’ecologia, come scienza delle relazioni sistemiche tra organismi viventi e non viventi, fino ad approdare alle moderne teorie del
57
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
caos, in cui quell’evoluzionismo originario si stempera e scompare. La
natura appare ora come una co-protagonista indiscussa della storia,
termine imprescindibile di un rapporto dialettico al di fuori del quale
non è possibile comprendere appieno le vicende umane 1.
Ma, in sostanza, che cos’è la natura? Cosa significa l’aggettivo
“naturale”? Non pochi storici ambientali, soprattutto nella fase di avvio della disciplina, si sono interrogati sull’idea di natura nelle società
contemporanee, per poter procedere ad un’analisi fondata di quel
rapporto. Con la metodologia propria degli storici, il concetto di natura viene indagato in questi studi nel significato che viene attribuito
ad esso in epoche e luoghi diversi, come concetto quindi storicamente definito. Esso perde così la sua accezione universalistica, per diventare il luogo in cui si incarnano, nell’immaginario sociale, la somma delle conoscenze scientifiche sul mondo, e la pratica quotidiana
dei rapporti di scambio energetico tra società e ambienti, mediata dal
lavoro e dalla produzione.
Letta in questa chiave, è chiaro che la natura dell’uomo occidentale del XIX secolo non è più quella immaginata e vissuta in altre epoche, precedenti alla rivoluzione industriale, alle scoperte scientifiche
del darwinismo, al completamento delle esplorazioni geografiche in
tutti i continenti. E, d’altra parte, l’ecologia, come modello scientifico, nasce alla fine di quel secolo, per svilupparsi pienamente nel successivo. Gli storici dell’ambiente della fine del XX secolo avranno
quindi a loro disposizione un intero bagaglio di formulazioni e idee
sulla natura, condensate in un centinaio d’anni circa di evoluzione
culturale, con cui confrontarsi, utilizzandole come paradigmi concettuali per la ri-lettura dei fatti storici.
Dire che la storia ambientale è storia del rapporto tra uomo e natura non significa, tuttavia, dire che la storia della natura è tutta legata all’azione umana (e viceversa). Esiste ovviamente una storia delle
forze naturali indipendente dall’influsso che gli uomini hanno sul loro
ambiente. Il clima, i cicli bio-geo-chimici che regolano la composizione dei suoli, la presenza dei diversi gas nell’atmosfera, la distribuzione originaria delle acque, delle essenze vegetali e delle specie animali
sul pianeta, l’azione svolta dalle forze geologiche e quella esercitata
dal sole attraverso la fotosintesi: sono soltanto alcuni esempi dell’esistenza di fenomeni naturali che non sono stati creati dal genere uma1. Su questa definizione si veda C. Merchant, Che cos’è la storia ambientale?, in
M. Armiero (a cura di), Alla ricerca della storia ambientale, in “Contemporanea”,
2002, 1, e A. Caracciolo, L’ambiente come storia, il Mulino, Bologna 1988.
58
2.
NATURA
no, e sui quali l’uomo ha a lungo esercitato un controllo molto parziale 2.
La storia della natura in sé non è soltanto quella dei geologi o dei
climatologi: essa si dipana ancora, fortunatamente, all’interno della
storia umana, e interagisce con essa offrendo alla specie umana le
condizioni di base per l’esistenza. Insomma, non tutto ciò che avviene nel mondo naturale, nell’ecosistema terrestre, è una diretta opera
dell’uomo. Uno dei primi compiti della storia ambientale è allora
quello di reintrodurre soggetti a lungo trascurati all’interno del discorso storico, concentrando l’attenzione sulla loro evoluzione, e su
come essa abbia a che fare con l’evoluzione umana. Questi soggetti
sono molteplici, e possono essere in vario modo classificati e raggruppati: alberi e vegetazione, acque (dolci e salate), animali e virus, suolo
e sottosuolo, aria, sono i protagonisti principali della storia ambientale, ma essi possono anche venire compresi in macro-aggregati, come
quelli scelti da J. R. McNeill nella sua storia ambientale del Novecento 3, alcuni mutuati dalle scienze fisiche (litosfera e pedosfera, atmosfera, idrosfera, biosfera), altri dalle scienze sociali (popolazione e
città, combustibili, strumenti, economia, idee e politica). Si può scegliere di adottare un’ottica spaziale, privilegiando l’evoluzione di un
singolo ecosistema (ad esempio una foresta), o di un’area geografica
come aggregato di ecosistemi (ad esempio il Mediterraneo); o ancora
un’ottica tematica, scegliendo di analizzare un’attività economica (ad
esempio la pesca), in una singola area o in comparazione tra più
aree.
Una distinzione che certamente ha esercitato un largo peso nelle
categorie di analisi adottate dagli storici è quella proposta in La morte della natura di Carolyn Merchant, che esordiva dichiarando: «Il
mondo che abbiamo perduto era organico». La distinzione proposta,
quindi, era tra una concezione olistica della natura, come un tutto
composto da organi con diverse funzioni, e una concezione meccanicistica, che tendeva a vedere singole parti di natura, a studiarle e misurarle per ottenerne un maggiore controllo, sulla base del quale costruire forme di potere e segregazione sociale, di specie e di genere.
La natura era quindi il mondo “organico”, cioè l’insieme che comprendeva tutte le forme di vita, umane e non umane, ed il loro am2. Cfr. D. Worster, Fare storia dell’ambiente, in Id. (a cura di), I confini della
terra. Problemi e prospettive di storia dell’ambiente, Franco Angeli, Milano 1991.
3. Cfr. Qualcosa di nuovo sotto il sole. Storia dell’ambiente nel XX secolo, Einaudi,
Torino 2002.
59
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
biente fisico; ed era un mondo organizzato per mezzo di leggi proprie, alle quali anche la specie umana doveva adattarsi.
Tutte queste strutture analitiche sono ugualmente efficaci, poiché
forniscono una ricchezza di elementi per conoscere e valutare un oggetto per molti versi sfuggente e di certo molto complesso, come l’interazione storica tra gli esseri umani ed il loro ambiente. Il problema
della storia ambientale, in effetti, non è quello di organizzare questi
soggetti o temi storiografici dentro una tassonomia, o struttura interpretativa generale: più importante per gli storici, invece, è ricostruire
i rapporti di causalità che intercorrono tra evoluzione della natura ed
evoluzione umana. In altri termini, quanta parte dei cambiamenti che
si osservano nell’ambiente terrestre è da ricondurre all’influsso esercitato dall’agricoltura, dall’industria, dalla caccia, dall’urbanizzazione e
così via, e quanta invece è inscritta in un ordine “naturale” dei fenomeni? Insomma, la domanda di base per la storia ambientale probabilmente è questa: cosa è naturale, e cosa non lo è? Si tratta di una
questione che a lungo ha costituito il fulcro anche dell’ecologia scientifica, come vedremo meglio nel CAP. 5. Ma si tratta di una questione
cruciale anche per l’ecologia politica, in quanto essa presuppone una
consapevolezza del ruolo che le società umane occupano nell’ambiente naturale, su scala sia locale che planetaria.
Per quanto riguarda gli storici, le certezze originarie sulla distinzione tra natura e uomo, domestico e selvatico, si sono andate sfaldando, per lasciare spazio ad una visione più critica, che potremmo
definire in parte “de-costruzionista”: essa tende cioè a vedere, specie
nella storia moderna e contemporanea, un insieme di habitat largamente influenzati dalla presenza umana, che si sono quindi evoluti
co-esistendo con essa, anche negli ambienti meno popolati o abitati
da popoli in possesso di tecnologie semplici. Questo percorso interpretativo ha seguito probabilmente due livelli di analisi: il primo attiene all’ecologia storica, alla storia delle trasformazioni inscritte nel
paesaggio; il secondo si è sviluppato più che altro sul piano delle idee
scientifiche, dei movimenti culturali e politici, dell’immagine che popoli e gruppi sociali diversi hanno avuto del loro ambiente o della
natura in genere. Affronteremo brevemente questi due percorsi, per
poi cercare di sintetizzarne i risultati.
In una delle prime sintesi sulla storia dell’ambiente, offerta da I.
G. Simmons una decina di anni fa 4, con un’impostazione decisamente di lungo periodo (dalle comunità di caccia e raccolta del paleoliti4. Cfr. Environmental History. A Coincise Introduction, Blackwell, Oxford-Cambridge (MA) 1993.
60
2.
NATURA
co ad oggi), il rapporto uomo-natura viene presentato in questi termini: gli esseri umani vivono in due mondi, uno ecologico, in cui essi
manifestano caratteristiche metaboliche di base analoghe a quelle di
altri organismi, e uno psicologico, in cui si esplicano le facoltà cognitive e le elaborazioni simbolico-culturali. In sintesi, per definire
cosa sia naturale, o “selvatico”, e cosa artificiale, o “domestico”, l’autore divide gli ecosistemi terrestri in quattro gruppi: quelli definibili
come “naturali”, ossia non toccati dalla presenza umana (la maggior
parte dei fondali oceanici, ad esempio); quelli su cui l’uomo ha una
certa influenza, ma senza modificarne la struttura essenziale (una foresta, ad esempio), definibili come sub-naturali; quelli in cui la struttura è stata modificata, ma le specie vegetali sono ancora quelle originarie, cioè non domesticate (ad esempio una brughiera succeduta ad
un bosco), definibili come semi-naturali; infine, quelli in cui le specie
dominanti derivano dalla domesticazione (prodotti agricoli, animali
da allevamento, specie di importazione), che sono gli ecosistemi culturali.
È chiaro come una tale tassonomia implichi un approccio necessariamente storico allo studio degli ecosistemi, poiché ciascuno di essi
corrisponde non solo ad un’area geografica, ma anche ad una fase
dell’evoluzione nel rapporto uomo-ambiente. Insomma, la distinzione
tra i diversi tipi di ecosistemi non è in alcun modo statica, ma deve
servire per spiegarne le caratteristiche in chiave storica, svelando cioè
in che misura l’evoluzione di ciascuno di essi sia stata “naturale” o
influenzata dall’azione umana.
L’autore offre quindi un’ulteriore concettualizzazione, che si propone di caratterizzare i diversi modi in cui le società influenzano gli
ambienti naturali:
1. “deviazione” (deflection), che consiste nell’intervenire ad un certo
stadio della successione naturale di un ecosistema per bloccarla (ad
esempio gli usi tradizionali del fuoco per ottenere un rinnovo continuo della vegetazione);
2. “semplificazione”, che consiste nell’esaurimento di alcune specie
vegetali o animali che si sono rivelate in competizione con la specie
umana, o meno adatte a rispondere ai bisogni umani (ad esempio alcuni grandi mammiferi predatori, e diverse qualità di cereali);
3. “estinzione”, ossia una conseguenza possibile di entrambi i processi precedenti, che si verifica quando un ecosistema viene sfruttato
fino al limite delle capacità di riproduzione naturale (ad esempio la
desertificazione nelle aree aride o semi-aride soggette ad agricoltura,
allevamento, o deforestazione intensive);
4. “domesticazione”, che consiste nella selezione genetica delle spe61
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
cie vegetali e animali più “produttive”, secondo le caratteristiche richieste dall’organizzazione sociale o dall’ambiente in cui questa si
esplica (maggiore tolleranza alle malattie, alla salinità dei suoli, alla
siccità);
5. “diversificazione”, che coincide con la diffusione di specie (deliberata o non) dal loro ambiente originario ad altri, prodotta dagli
spostamenti di popolazione, dalle esplorazioni geografiche, dalle colonizzazioni di altri continenti ecc. (essa riguarda sia piante e animali,
che organismi patogeni);
6. “conservazione”, una pratica propria delle società che vivono in
ecosistemi culturali, volta a preservare dall’estinzione particolari ecosistemi locali, specie o materiale genetico.
L’evidenza storica, anche quando ricavata da metodi di indagine
archeologica, dimostra che la maggior parte degli ecosistemi che popolano la terra non è “naturale”, ma deve essere considerata sub, o
seminaturale, quando non si tratta palesemente di un ecosistema culturale (ad esempio una città, o una monocultura). L’interazione tra
esseri umani ed ecosistemi è avvenuta a partire da epoche storiche
lontanissime, ha preceduto la nascita dell’agricoltura ed ha accompagnato gli spostamenti delle popolazioni attraverso il globo, seppure,
naturalmente, a gradi diversi. Perciò, è questa la conclusione del discorso, l’aggettivo “naturale” va usato solo con estrema cautela ed
opportune specificazioni, e soprattutto va storicizzato e relativizzato.
Sulla critica del concetto di natura come prodotto storico e culturale, si concentra una parte importante della storia ambientale, da un
punto di vista affine a quella che Worster definiva la «storia delle
idee ecologiche». In area statunitense, ad esempio, una rilevanza
enorme ha assunto nel dibattito storiografico il concetto di wilderness, che potrebbe riferirsi a ciò che gli europei definiscono come
“selvatico”, “selvaggio”, o anche “natura incontaminata”. La discussione sull’esistenza e il significato della wilderness nella storia nordamericana ha una lunga tradizione, che risale ad un’opera considerata
tra i classici della environmental history USA, apparsa nel 1967 con il
titolo Wilderness and the American Mind 5.
Il libro presentava la wilderness come un termine ampiamente
ambiguo, nel quale si rispecchiava l’ambivalenza della cultura americana nei confronti della natura. Il termine wilderness non indicava,
secondo l’autore, un luogo, o un aspetto del mondo naturale, quanto
una percezione di esso, fino a somigliare ad uno stato d’animo. La
5. Yale University Press, New Haven-London 1967.
62
2.
NATURA
wilderness era, insomma, un prodotto culturale, e per di più gli europei se l’erano portato dietro dalla loro cultura di provenienza. L’uso
più comune del termine nella lingua inglese era quello riferito a paesaggi deserti, desolati, non abitati e improduttivi: in altre parole, luoghi ai margini della civiltà, dove era facile perdere se stessi e sprofondare nella confusione morale e nella disperazione, che ricordavano
il deserto delle tentazioni di Cristo, abitato da diavoli e bestie selvagge. Tuttavia, già alla fine del Settecento, la percezione della wilderness comincia ad evolvere verso una nuova forma: sono il mito rousseauiano del buon selvaggio, da una parte, e dall’altra il nascente sentimento romantico, a indurre le élite colte, gli artisti e gli intellettuali
della neo-costituita nazione americana a riconsiderare la natura selvaggia del paese. Se la wilderness dei primi coloni e dei puritani era
un territorio sconosciuto, da conquistare e sottomettere, ai primi dell’Ottocento, la nazione riscopre la wilderness come uno dei tratti distintivi del paese, ciò che lo rende grande e nuovo rispetto alla vecchia e consumata Europa. Se dunque la wilderness era patrimonio
storico della cultura americana, essa andava preservata.
Nasceva così un embrionale movimento ambientalista negli USA,
inizialmente fondato su pochi ma autorevoli portavoce, ma destinato
ad evolversi fino a trasformarsi nell’attuale composito universo dell’associazionismo ecologista. Fin dall’inizio, osservava qualche anno fa
William Cronon, il concetto di wilderness si presenta come il migliore
antidoto alla civiltà (intesa come un pericolo per gli stessi esseri umani), e la sua salvaguardia l’unico modo per preservare la terra dalla
distruzione. Henry David Thoureau, tra i padri dell’ecologismo USA,
annunciò che «nella wilderness è la salvezza del mondo» 6.
In questa rielaborazione del concetto, un ruolo importante giocò,
nella cultura nord-americana, la bellezza e grandiosità di scenari naturali come le cascate del Niagara, lo Yosemite, le Adirondacks, o la
Hetch Hetchy Valley in California, un anfiteatro naturale di grande
bellezza che, negli anni dieci del Novecento, fu luogo della prima
battaglia ambientalista (perduta) della storia del paese, contro la sommersione della valle per costruire una grande diga (su questo si veda
il capitolo Ecologia). Le due idee guida di questa inversione di tendenza, individuate da Cronon, furono il “sublime” e la “frontiera”. Il
primo, di origine europea e diffusione transnazionale, era stato uno
dei concetti cardine del romanticismo; la seconda, invece, appartene6. Cit. in W. Cronon, The Trouble with Wilderness; or, Getting back to the
Wrong Nature, in Id. (ed.), Uncommon Ground. Rethinking the Human Place in Nature, Norton & Co., New York 1995, p. 69.
63
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
va alla storia recente degli Stati Uniti, ed era viva nella memoria e
nell’identità collettiva del paese.
La rielaborazione nazionale del sublime passava dunque per la
consacrazione della montagna come luogo dell’estasi e dell’esperienza
ascetica; essa si accompagnava all’idea di un mondo selvaggio e primitivo da sempre associato, nell’esperienza statunitense, alla frontiera,
come luogo in cui si era formata l’identità del paese. E fu precisamente quando, nel 1893, Frederick Jackson Turner dichiarò che la
frontiera era scomparsa 7, che essa divenne immediatamente un’esperienza da preservare e celebrare, mediante l’istituzione dei parchi nazionali. La wilderness era la nipote di queste due “idee” del XIX secolo: ecco perché, continua Cronon, la sua influenza nella cultura, e
nella cultura ambientale, moderna è così forte e, al tempo stesso, insidiosa.
La wilderness era diventata un mito nazionale, il lato oscuro e selvaggio della modernità, attraverso il quale era possibile conservare
l’individualismo libertario delle origini. Il più delle volte, osserva Cronon, i maggiori interpreti di questa nuova sensibilità ambientale erano esponenti delle élite urbane e intellettuali, ed esprimevano una
particolare forma di antimodernismo borghese: essi non avevano mai
vissuto in prima persona l’esperienza della frontiera, ma, forse proprio per questo, potevano desiderare che essa fosse in qualche modo
preservata. Fu così che la wilderness divenne una meta turistica per le
classi agiate in cerca di svago: in questo senso si tratta senz’altro di
un’invenzione, poiché, a differenza dei primi coloni, questi uomini e
donne non andavano nel deserto o sulle montagne come produttori,
ma come consumatori. In questo modo, la wilderness si trovò, paradossalmente, ad impersonare la stessa civiltà che i suoi ammiratori
credevano di fuggire.
Gli agricoltori e i coloni avevano infatti un’esperienza troppo diretta della terra per poter considerare luoghi selvaggi e disabitati
come un ideale. Un altro aspetto illuminante di quell’esperienza storica è il fatto che, negli anni in cui i primi parchi nazionali venivano
creati (tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento), le
ultime tribù indiane “pacificate” venivano rimosse da quegli stessi
luoghi e spedite nelle riserve: in questo modo, i territori che essi prima abitavano e che, lungi dall’essere in uno stato primitivo e selvatico, portavano i segni della loro secolare presenza, potevano essere
marcati da una rinnovata verginità, poco importa quanto ciò corri-
7. Cfr. La frontiera nella storia americana, il Mulino, Bologna 1975.
64
2.
NATURA
spondesse alla loro storia. Le frontiere immaginarie non potevano del
resto correre il rischio di diventare delle frontiere reali, luoghi dello
scontro etnico e del conflitto armato.
La wilderness dunque non era più “naturale” di quanto non lo
fossero le grandi piantagioni di tabacco o le città dell’Est. Eppure
essa è rimasta nella coscienza ambientale del paese come un valore
sacrale, l’antitesi della civilizzazione e dei suoi guasti. Il problema, secondo Cronon, è che essa rappresenta una falsa coscienza ed una
fuga dalle responsabilità, da una più compiuta e difficile consapevolezza di cosa significhi l’esistenza umana e come essa possa dispiegarsi
dentro il mondo naturale senza distruggerlo. In quanto mito ed esperienza ascetica, o puramente ricreativa, la wilderness non ha nulla da
dire all’americano medio sul modo in cui trarre dalla terra il proprio
sostentamento: in altre parole, essa incarna una visione fortemente
dualistica, dicotomica, che tende a separare natura e cultura piuttosto
che ad integrarle. Ed è precisamente questa riproposizione del dualismo tra uomo e natura l’insidia maggiore dell’idea di wilderness,
quella che l’autore ritiene una seria minaccia ad un ambientalismo responsabile e che abbia un senso per il mondo attuale.
La maggior parte dei problemi ecologici del nostro tempo, infatti,
non risiede nella natura incontaminata o nei parchi nazionali, ma nel
mondo in cui la maggior parte delle persone vive, in quel pezzo di
natura, per quanto profondamente trasformata, che esse chiamano
casa. Per risolvere, o almeno affrontare, quei problemi, esse hanno
bisogno di un’etica ambientale che dica più su come usare la natura
che su come non usarla. È per questo motivo che gli storici ambientali hanno cominciato ad affrontare la realtà del mondo antropizzato,
la natura del “giardino dietro casa”, per ritrovare le radici profonde
del loro stesso legame, come uomini e donne del loro tempo, con il
mondo naturale che li nutre, sostiene e ripara.
Gli storici ambientali, dunque, hanno ben presto percepito come
inadeguata una definizione di natura tutta ristretta nel concetto di
wilderness, e, metaforicamente, nelle riserve naturali del paese. Grandi sforzi sono stati allora dedicati alla rielaborazione di quel concetto,
in un ambito più largo, che avesse a che fare con la storia degli uomini e delle donne, dei gruppi sociali, etnici, religiosi, della vita economica e sociale del paese, insomma con la storia americana tout court,
non soltanto quella dei movimenti di opinione e delle scelte politiche.
Recentemente Ted Steinberg ha ricordato come, confrontandosi con
il ruolo della natura nella storia della colonizzazione, dell’agricoltura,
delle città, dell’industrializzazione e delle lotte sociali, gli storici ambientali non possono fare a meno di confrontarsi con il capitalismo,
65
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
come la forza storica più potente e pervasiva, nel suo mutare radicalmente il rapporto tra società e natura, del XIX e del XX secolo 8.
Questo allargamento della prospettiva storica sull’ambiente degli Stati
Uniti, ha comportato anche un mutamento di prospettiva su ciò che
sia da intendere con il termine natura.
Nata negli anni settanta negli USA su sollecitazione del movimento
ecologista, diffusasi da qui in Europa occidentale, la storia ambientale
si pone, innanzitutto, il problema di rintracciare le origini della crisi
ecologica attuale. Nel fare ciò, essa deve fare i conti con i miti fondativi dello stesso pensiero ecologista, che tendono a separare il mondo
naturale dall’umano, riponendo tutto il bene da una parte e il male
dall’altra. In questa prospettiva, la natura è facilmente identificabile
come la pura e semplice vittima del “progresso”. Dunque, la prima
sfida è stata quella di decostruire quel mito, e guardare alla natura
come costruzione sociale e storica. Ma, al di fuori del modo di produzione capitalistico, e al di fuori persino del pensiero cartesiano, esiste di fatto un mondo naturale che non si risolve nel rapporto dicotomico con un dominatore, che funziona secondo proprie dinamiche,
che addirittura appare più ampio, per certi aspetti più forte, del proprio dominatore. È la “natura in sé” su cui insiste Worster, ma è anche l’ecosistema terrestre che gli scienziati hanno cominciato ad individuare fin dai primi decenni del Novecento, composto da innumerevoli ecosistemi locali, ma identificabile come un insieme complesso e
unico. In altre parole, la natura è un sistema (anzi, è il sistema, l’unico che abbia rilevanza per la specie umana), e l’uomo ne fa parte: in
questa sintetica definizione, possiamo riassumere la consapevolezza
emersa da diversi decenni di evoluzione scientifica, e pervenuta fino
alla coscienza sociale delle società moderne.
E poiché gli storici ambientali fanno parte di queste società (oltre
che di quel sistema), alcuni di essi sono giunti alla consapevolezza
che l’alterità tra uomo e natura vada vista secondo una prospettiva
diversa da quella fin qui adottata. Possiamo riassumere i cardini di
questa nuova consapevolezza in tre principi guida:
1. l’essere umano è una specie dominante all’interno di un complesso di specie, animali e vegetali, che popolano un sistema fisico che è
la terra;
2. la natura è ciò che non esiste per opera dell’uomo, ma è regolato
8. Cfr. Down to Earth. Nature, Agency and Power in History, in “American Historical Review”, 2002, 3.
66
2.
NATURA
da leggi proprie, con le quali l’uomo interferisce in un processo di
co-evoluzione;
3. l’interazione tra uomo e natura non è un processo univoco, ma
denso di conflitti e di traiettorie alternative, o ramificazioni, nel corso
del quale vi sono vincitori e vinti (specie viventi, gruppi sociali, culture) senza alcun pre-ordinamento o principio di selezione. (Questa ultima formulazione è mutuata in gran parte dalle teorie scientifiche del
caos, aggiungendo ad esse la riflessione sul ruolo che l’essere umano
occupa all’interno dell’evoluzione naturale.)
Questi tre principi probabilmente hanno il merito di risolvere alcuni problemi teorici che hanno afflitto la ricerca storica in passato:
primo fra tutti quello della dicotomia società-natura, un principio
oramai inaccettabile per la maggior parte degli storici ambientali, ma
anche il suo opposto, cioè la pretesa di poter scrivere una storia natura-centrica, assumendo (come per incanto) il punto di vista della natura 9.
Il secondo principio ci conduce a riconsiderare aspetti della storia
umana che, in una visione dicotomica e “separata”, sono stati a lungo
rimossi: il modo in cui le diverse società si procurano il nutrimento
ed espellono i rifiuti, si riproducono, organizzano il loro ambiente secondo la tecnologia e le rappresentazioni simboliche di cui dispongono: insomma, il carattere materiale della storia umana e, quindi, il suo
dover fare i conti con il funzionamento “naturale” della vita. Co-evoluzione significa, per gli storici, ricostruire come natura e uomo si siano plasmati reciprocamente, trasformandosi l’un l’altro in ambienti
ed epoche diverse, e come in questo processo l’uomo abbia trasformato non solo la natura, ma anche se stesso, diventando qualcosa di
diverso dal punto di partenza.
Questo conduce al terzo principio, che ci offre una visione coevolutiva, liberando l’essere umano dall’illusione di un dominio assoluto sul pianeta, e lo storico dal compito di ricostruire un percorso
teleologico, anche se a teleologia rovesciata (il progresso come regresso dall’Eden terrestre alla distruzione). Ciò non sminuisce l’importanza del fatto che la specie umana sia divenuta di fatto quella
dominante, ma semplicemente mette in guardia dal considerare questo processo come il compimento di una “legge” (storica o naturale
che sia), ed offre una visione più ampia e differenziata delle possibilità storiche.
9. Per una riflessione più approfondita si veda P. P. Poggio, Antropocentrismo
critico. Tra natura e società, in “Ecologia Politica CNS”, 1999, 3 (numero telematico).
67
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
2.2
Natura, capitale, lavoro. Da Marx all’economia ecologica
Nel mentre il rapporto tra naturale e artificiale appariva sfocato e
differenziato, gli storici ambientali scoprivano (ed elaboravano) categorie nuove con cui interpretare quel rapporto: una di queste, probabilmente la più densa di significati storici, è quella di lavoro, inteso in senso fisico come energia spesa per realizzare uno scopo (la sopravvivenza, la riproduzione, la ricchezza, il potere, lo svago o la conoscenza), ed anche in senso metaforico, come base su cui si organizzano la divisione della società in classi, il sistema economico e
quello politico.
Uno degli storici ambientali che ha dato il maggiore contributo
nell’elaborazione di questa categoria è lo statunitense Richard White.
In un saggio con un titolo provocatorio, che suonava grosso modo
come: Sei un ambientalista o lavori per vivere? 10, White sfidava la
percezione comune di cosa significasse avere una sensibilità ambientale, e, più in particolare, affrontava il nodo problematico del rapporto
tra questa e il movimento operaio. Come mai l’ambientalismo sembra
così in opposizione al lavoro? E come mai questo riveste un posto
così marginale nella storiografia ambientale americana? Con queste
domande lo storico dava inizio ad una riflessione sul rapporto tra lavoro e natura, sottolineando come in questo rapporto si trova l’essenza stessa della condizione umana, e quindi la sua comprensione è assolutamente imprescindibile per lo storico ambientale.
Secoli di lavoro umano hanno lasciato segni indelebili sulla natura
del pianeta, fino a formare nella percezione ambientalista attuale l’idea che esso, specie il lavoro manuale, il lavoro fisico pesante, sia associato al degrado ambientale. La natura sembra salva, in altri termini, soltanto se separata dal regno del lavoro. Questo atteggiamento
porta a vedere gli esseri umani come esseri al di fuori della natura, e
ad operare una scelta tra i due poli. Questo dualismo ha origine in
due convinzioni diffuse, e cioè:
1. che il rapporto uomo-natura fosse originariamente uno stato di
grazia (il paradiso terrestre), caduto dal quale l’uomo fu costretto a
lavorare;
2. che il serpente nel giardino fosse la macchina, poiché questa aveva sottratto all’uomo il rapporto diretto con la natura.
10. Cfr. “Are You an Environmentalist or Do You Work for a Living?” Work and
Nature, in Cronon (ed.), Uncommon Ground, cit.
68
2.
NATURA
Per questa ragione una parte dell’ambientalismo originario predicava un ritorno al lavoro agricolo manuale, senza significative alterazioni dell’ambiente fisico o strumenti elaborati. Ma, osservava White,
questo tipo di lavoro non può essere considerato un efficace mezzo
di sopravvivenza per l’umanità: esso somiglia piuttosto a un mito, e
come tale è al di fuori della storia. La visione idilliaca di un’età d’oro
fondata sul lavoro fisico è in realtà arbitraria ed elitaria. Non risulta,
in effetti, che le donne che avevano vissuto nell’America rurale prima
dell’elettrificazione provassero alcuna nostalgia per la durezza e quantità di compiti da svolgere in un mondo non tecnologico, come pompare l’acqua e trasportarla, o fare il bucato a mano in vasche di zinco. Gran parte della tecnologia che oggi viene condannata dagli ecologisti, ad esempio la centrali idroelettriche, in origine fu considerata
portatrice di utopistiche speranze ambientali, come quella che Lewis
Mumford definiva la società Neotecnica, fondata su macchine “organiche” (l’elettricità) ed equilibrio ecologico. Probabilmente, sembra
suggerire l’autore, nel demonizzare le macchine e la tecnologia, gli
ambientalisti hanno mancato il bersaglio, che è invece la proprietà
privata, o meglio l’uso del lavoro come strumento per costruire potere economico e dominazione sociale.
Ma la riflessione sul rapporto tra natura e lavoro nella storia ambientale non si esaurisce nel riconoscere che tra i due esiste una connessione profonda, che va compresa piuttosto che condannata. Una
parte importante del percorso, come ha sostenuto più volte Piero Bevilacqua 11, sta nel criticare l’idea diffusa, nella teoria economica ortodossa, che il lavoro umano sia il fondamento della nozione di valore
economico. Questa idea, infatti, presiede ad un’esclusione della natura dal mondo del valore, una rimozione dell’idea che la natura possieda un valore in sé, non misurabile in termini di prezzo. Non si
tratta di tornare ad una demonizzazione del lavoro, ma di riconoscere
che non tutto il valore delle merci è frutto del lavoro e del capitale,
poiché una parte di esso, quel residuo che nessuna teoria economica
riesce a considerare e misurare, proviene dalla natura, dal lavoro che
essa svolge gratuitamente e secondo leggi proprie. Questo discorso ci
porta al cuore del ragionamento, e cioè ad indagare l’influenza che il
pensiero marxiano, quale corpus teorico più rilevante per l’analisi del
lavoro nella storia e nel sistema economico, ha avuto sulla formazione
del pensiero ecologico in genere, e su quello degli storici ambientali
in specie.
11. Cfr. Il lavoro. Natura e operosità umana, in Id., Demetra e Clio, Donzelli,
Roma 2001.
69
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
L’ecologia di Marx, come suggerisce il sociologo statunitense John
Bellamy Foster in un bel libro apparso qualche anno fa 12, più che
una parte compiuta della riflessione teorica sul capitalismo, è formata
da una serie di intuizioni sparse: lo scarso seguito che esse avrebbero
avuto nel formarsi della tradizione di pensiero marxista sarebbe dovuto, secondo quell’autore, alle vicende politiche delle sinistre europee, più che a ragioni di carattere teorico. Al di là degli aspetti ideologici o politici, comunque, ciò che Marx ebbe modo di dire sulla
natura forma la base di alcuni spunti interpretativi che la maggior
parte degli storici ambientali odierni utilizza, con diversi gradi di consapevolezza o senso critico.
Prima di tutto, il materialismo storico elaborato da Marx non fu
mai una visione rigidamente meccanicistica, poiché esso si basava sull’idea di un’interazione dialettica tra uomo e natura mediata dalla
prassi, cioè dall’azione umana. Ciò che Marx ed Engels rifiutavano
nettamente era una visione spiritualista e teleologica della natura, e
della storia; ciò che essi contribuirono con le loro opere a formare fu,
come insiste Foster, la necessità di unità metodologica tra le scienze
sociali e le scienze naturali, fondata sul metodo dialettico. L’alienazione dell’uomo dal proprio lavoro, in altre parole, si fonda sul riconoscimento di un’alienazione degli esseri umani dalla natura, ed è questa doppia alienazione che richiede di essere spiegata storicamente.
Da qui deriverebbe la costante attenzione di Marx ed Engels verso le
scienze naturali, un fatto che è stato a lungo misconosciuto (o negato) nella tradizione marxiana, ma che appare evidente in seguito alla
“riscoperta” di una serie di scritti ed appunti del filosofo nell’ultimo
decennio 13.
Subito dopo aver discusso la tesi dottorale su Epicuro, il giovane
Marx si dedica alla carriera giornalistica, e scrive un articolo destinato ad esercitare un grande richiamo sui futuri storici ambientali, in
special modo quelli che si confrontano con la storia dei boschi e con
la cosiddetta “tragedia dei beni comuni”. Con il Dibattito sulla legge
contro i ladri di legna, pubblicato sulla “Rheinische Zeitung” nel
1842, Marx entra nel vivo della materia, affilando le armi della sua
capacità analitica sul capitalismo come sistema economico, politico e
ideologico, proprio a partire da una riflessione sull’alienazione dalla
natura che il capitalismo impone ai gruppi sociali marginali.
Attraverso la recinzione delle terre comuni e la proibizione di
12. Cfr. Marx’s Ecology. Materialism and Nature, Monthly Review Press, New
York 2000.
13. Ivi, p. 9.
70
2.
NATURA
procurarsi la “legna morta” (ossia quella caduta spontaneamente dagli alberi) nei boschi dei privati, lo Stato capitalista di fatto realizzava
la trasformazione del valore d’uso in valore di scambio, attribuendo
un prezzo di mercato a ciò che prima era semplicemente il frutto di
una relazione diretta tra uomo e natura. L’alienazione che ne deriva
consisteva esattamente nel negare ai ceti subalterni alcun rapporto diretto con la natura, ossia non mediato dall’istituzione della proprietà
privata 14. In questo scritto giovanile appaiono, come è evidente, alcuni dei punti cardine della riflessione marxiana: il concetto di alienazione, che è relativa al rapporto tra uomo e natura prima ancora che
a quello tra uomo e lavoro, come Marx spiegherà nei Manoscritti economico filosofici del 1844, e l’attenzione alle forme di proprietà della
terra come proprietà dei mezzi di produzione.
L’origine dell’alienazione risiede, secondo Marx, nella trasformazione del lavoro in merce, una conseguenza della trasformazione del
rapporto con la terra, che già gli economisti classici avevano sottolineato come caratteristica del capitalismo nella sua fase emergente,
nell’accezione smithiana di “accumulazione originaria” 15. In questo
processo storico, la terra (e la natura in genere) diventava una merce
di scambio, così come l’essere umano in quanto lavoratore: entrambi
si trovavano alla fine privi di valore in sé, poiché entrambi acquisivano valore solo tramite il denaro.
Quello a cui Marx ed Engels puntavano era una concezione del
materialismo non puramente filosofica, ma radicata nella prassi («I filosofi hanno soltanto interpretato il mondo, finora; il punto, però, è
cambiarlo», scriveva Marx nelle Tesi su Feuerbach): vale a dire che il
punto centrale dell’analisi materialista si spostava dalla natura alla
storia, nel senso che l’alienazione sia umana sia della natura in genere
andava spiegata storicamente, come conseguenza della prassi sociale.
Il materialismo storico si andava quindi precisando come un modo di
considerare la storia umana radicata nella storia naturale attraverso la
produzione: «Ciò che gli individui sono dipende dalle condizioni materiali della produzione». Queste, a loro volta, sono radicate nelle
condizioni geologiche, geografiche ed idrologiche di ciascun luogo, al
di fuori delle quali nessun sistema economico può esistere. Nella visione materialistica della storia assume quindi un grande rilevo la storia della natura, in particolare la geologia evoluzionista e la geografia
di Karl Ritter, che a sua volta influenzò l’opera di uno dei primi
“conservazionisti” statunitensi, George Perkins Marsh. Seguendo
14. Ivi, pp. 66-8.
15. Ivi, p. 74.
71
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
l’impostazione evoluzionista di Ritter, Marx ed Engels osservavano in
L’ideologia tedesca, come una natura incontaminata dall’azione umana
fosse, già allora, estremamente difficile da trovare e da definire.
Emergeva così la riflessione dei due autori sulla capacità di trasformazione della natura dispiegata dall’uomo, e dal capitalismo in particolare, come un tema storico di grande rilevanza 16.
Questa consapevolezza apriva naturalmente la strada ad una concezione “prometeica” del rapporto tra uomo e natura, in cui il primo
è considerato come il più potente, se non l’unico, agente di cambiamento e assoggettamento delle forze naturali. Su questo punto la critica ambientalista ha elaborato l’idea di una fondamentale estraneità
di Marx ed Engels all’ecologia 17. Il problema, tuttavia, è più complesso, e va storicizzato, a partire dal concetto stesso di “ecologico”:
se esso intende un modo di guardare alla natura di tipo romantico,
che rifiuti il “progresso” nel nome di una preservazione di equilibri
ritenuti incontaminati, allora certamente ciò non appartiene all’universo concettuale di Marx ed Engels, poiché presuppone necessariamente una visione dicotomica fra società e natura, ed è inoltre difficilmente realizzabile nella prassi.
La visione ecologica che i due pensatori ebbero della storia umana, come ha osservato anche Piero Bevilacqua 18, è radicata invece in
una profonda consapevolezza del legame inscindibile e storico tra
uomo e natura, un legame espresso in maniera sintetica e assai pregnante dal concetto di metabolismo (Stoffwechsel). Elaborato per la
prima volta da Marx nei Manoscritti economico-filosofici del 1861-63,
e ripreso poi nel primo libro del Capitale, questo termine serviva a
definire il processo lavorativo come un processo che avviene tra
uomo e natura, nel quale l’uomo, per mezzo della propria azione,
media, regola e controlla il metabolismo tra se stesso e la natura 19.
Il concetto di metabolismo come scambio energetico tra natura e
società veniva quindi a completare e radicare nella prassi l’idea sviluppata da Marx già nei Manoscritti del 1844, e cioè il concetto di
unità ontologica tra uomo e natura: «L’uomo vive della natura, cioè
16. Ivi, pp. 117-22.
17. Secondo Foster, Marx sarebbe stato accomunato dai suoi critici ecologisti a
Proudhon e ad altri pensatori radicali della sua epoca come Blanqui e Lasalle: ne
deriva oltretutto un fraintendimento linguistico sul significato del mito di Prometeo,
che per Marx rappresenterebbe la scienza e il materialismo, per Proudhon la tecnologia e la macchina. Ivi, pp. 126 ss.
18. Introduzione a Tra natura e storia. Ambiente, economie, risorse in Italia, Donzelli, Roma 1996.
19. Cfr. Foster, Marx’s Ecology, cit., pp. 141 ss.
72
2.
NATURA
la natura è il suo corpo, ed egli deve mantenere un dialogo continuo
con essa se non vuole perire. Dire che la vita fisica e mentale dell’uomo è legata alla natura significa che la natura è legata a se stessa,
poiché l’uomo è parte della natura» 20. Qualche anno dopo, nei
Grundrisse (1857-58), Marx osservava che, più che l’unità tra uomo e
natura, ciò che andava spiegato storicamente era la separazione tra i
due, cioè tra l’esistenza umana e le condizioni naturali di essa, una
separazione realizzata completamente solo dal sistema capitalistico,
mediante la riduzione del lavoro e della terra in merce 21.
Il modo di produzione capitalistico, secondo Marx, avrebbe introdotto una profonda spaccatura all’interno del rapporto di scambio
energetico ( = metabolismo) tra società e natura, una spaccatura che
Marx analizza su due livelli: la critica dell’agricoltura capitalistica, e
quella del rapporto città/campagna, che diventa critica del rapporto
centro/periferia sul piano internazionale.
Al primo livello, l’analisi marxiana si sviluppò contro due padri
dell’economia politica come Malthus e Ricardo. Il primo aveva elaborato una teoria della popolazione basata sulla critica della crescita demografica, in base al concetto di interesse composto (la popolazione
cresce in un trend geometrico, le risorse solo ad un andamento aritmetico); il secondo, aveva sviluppato il concetto di rendita differenziale: oltre un certo tasso di investimento di capitali e lavoro, la terra
non avrebbe risposto con un accrescimento della sua produttività,
poiché si trattava di una risorsa limitata. Entrambi i pensatori ponevano quindi, implicitamente, il problema dei limiti fisici che ogni sistema economico e sociale doveva considerare. In entrambi i casi, la
critica di Marx si basa su una concezione storica della fertilità, e
quindi della rendita, considerata non come un dato teorico, ma come
prodotto dell’azione combinata di forze naturali ed umane (concimazione, drenaggio, irrigazione ecc.) a diversi livelli di sapere tecnico,
forme di proprietà, investimento.
Nel formare le opinioni di Marx in merito all’agricoltura, fu molto importante l’influsso esercitato dallo scienziato tedesco Justus von
Liebig, padre della chimica agraria contemporanea. La maggior parte
di ciò che gli economisti avevano scritto sulla rendita, osservò Marx
nel Capitale, era basato su una sostanziale ignoranza di ciò che costituisce la fertilità naturale dei suoli. Eppure il declino della fertilità
agricola costituiva ancora il principale motivo di panico per l’intera
20. Ivi, p. 158.
21. Ivi, p. 159.
73
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
società occidentale, europea e nord-americana, sfociando in un’accanita ricerca di sostanze concimanti, prima fra tutte il guano sud-americano, sbarcato per la prima volta in Europa nel 1835 22. Cinque
anni dopo si pubblicava la prima edizione del trattato di Liebig, che
svelava il ruolo di sostanze minerali, come azoto, fosforo, e potassio,
nella crescita delle piante, ed annunciava la sua “legge del minimo”:
la fertilità del suolo era limitata sempre dal nutriente meno abbondante. La drammatica validità di questa legge divenne evidente agli
agricoltori europei quando, dopo le prime applicazioni di concimi
“superfosfati”, si scoprì che il loro effetto tendeva ad esaurirsi in breve tempo.
Dalle opere successive di Liebig, Marx trasse inoltre una maggiore consapevolezza critica di quanto il processo di spoliazione dei suoli fosse connesso con la rottura del circolo organico tra città e campagna, inaugurato dall’era capitalistica. La costruzione dei grandi sistemi di drenaggio dei rifiuti organici, un complesso insieme di opere
pubbliche che coinvolse le città europee e statunitensi a partire dalla
metà dell’Ottocento, implicava l’abbandono della pratica di raccogliere quei rifiuti per restituirli alla terra in forma di concime. La questione della fertilità della terra, in ultima analisi, era una questione di
restituzione al suolo di quegli elementi nutritivi che l’agricoltura prelevava continuamente, e che non potevano essere interamente sostituiti dai fertilizzanti “importati” dall’esterno (chimici o di origine fossile che fossero).
In base a queste osservazioni, Marx derivò una critica dello sfruttamento della terra per mezzo della grande proprietà capitalistica e
della grande industria. Nel terzo volume del Capitale, ragionando sulla genesi della rendita fondiaria, egli osservava come ogni incremento
di produttività nel breve periodo costituisse un passo avanti verso la
distruzione delle fonti stesse della fertilità nel lungo periodo, il suolo
e il lavoratore. In sostanza, il progresso tecnico nell’agricoltura capitalistica si rivelava come un processo di spoliazione, mostrando la tendenza distruttiva del sistema nel momento stesso in cui esso produceva ricchezza, ossia la contraddizione ecologica fondamentale del
modo di produzione capitalistico. Su questo punto, è indubbio che
Marx abbia anticipato il nocciolo della questione della “sostenibilità”
dell’agricoltura contemporanea: il bisogno imprescindibile di input
provenienti dall’esterno (sementi, guano ecc.) dimostrava la dipendenza dell’agricoltura dalla grande industria, e dalle fonti di materia
22. Ivi, p. 150.
74
2.
NATURA
prima ed energia delle colonie, che sostenevano il bilancio energetico
della società capitalistica con la spoliazione dei propri territori 23. Nel
primo libro del Capitale, Marx osservò incisivamente, a questo proposito, come l’Inghilterra avesse indirettamente esportato il suolo dell’Irlanda; nel terzo volume egli introdusse il tema della contraddizione che l’agricoltura era costretta a subire tra il sistema di mercato,
che impone lo scopo del profitto (massimo rendimento al minimo costo e nel minimo tempo), e le necessità biologiche imposte dalla catena delle generazioni: una contraddizione che derivava dall’imposizione della proprietà privata sulla terra.
Gli spunti ecologici forniti dal lavoro di Marx ed Engels non si
esauriscono in questa breve rassegna, e restano in buona parte ancora
un territorio da esplorare per gli storici. Inoltre, non esiste un consenso esplicito tra gli studiosi di scienze sociali sulla possibilità di definire espressamente “ecologici” molti di quegli spunti. La questione,
come si può immaginare, è resa più complessa dall’intervento di elementi di giudizio “esterni”, cioè di tipo ideologico-politico, che non
agevolano la discussione.
Storicamente, nella nascita del movimento ambientalista occidentale, ha influito probabilmente più un filone romantico di critica al
capitalismo che non la tradizione marxista, che in Unione Sovietica,
così come nella maggior parte dei paesi industrializzati, ha insistito di
più sulla crescita economica come forma di liberazione del genere
umano dalla povertà. Tuttavia è indubbio che il pensiero marxiano
abbia esercitato un’enorme influenza sulle scienze sociali, e sulla storiografia, a partire dai decenni centrali del Novecento: per questo tramite, probabilmente, alcuni dei concetti cardine della storia ambientale contemporanea (come vedremo nei prossimi capitoli) hanno trovato un fertile terreno di formazione nelle opere di Marx ed Engels.
La critica ecologica al capitalismo è una forma di pensiero che si
è dispiegata, attraverso vari filoni e discipline, lungo tutta la storia
del capitalismo stesso. In particolare, è stata la teoria economica
classica e neoclassica, nella sua qualità di struttura interpretativa dominante, a ricevere la maggiore quantità di attacchi da parte non
soltanto di economisti “non ortodossi”, ma anche di studiosi di altre
scienze sociali, come l’antropologia, o addirittura delle scienze naturali, come la fisica.
Uno storico economico particolarmente sensibile alle sollecitazioni
dell’antropologia, Karl Polanyi, può essere considerato, dopo Marx, il
23. Ivi, p. 156.
75
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
più autorevole ispiratore della critica ecologica al capitalismo da parte
degli storici ambientali.
Sebbene la sua opera più conosciuta, La grande trasformazione,
edita nel 1944 24, non avesse un dichiarato approccio ecologico, essa
nondimeno fornì alcuni spunti fondamentali per una riflessione sul
rapporto tra capitalismo e natura: scopo del libro era infatti quello di
mettere in discussione l’istituzione del mercato autoregolato, considerandola un’invenzione del XIX secolo, e non un’entità metastorica universale, iscritta nell’ordine naturale delle cose. All’inizio del primo capitolo, Polanyi si spingeva a dichiarare: «Un’istituzione del genere [il
mercato autoregolato] non poteva esistere per un qualunque periodo
di tempo senza annullare la sostanza umana e naturale della società;
essa avrebbe distrutto l’uomo fisicamente e trasformato il suo ambiente in un deserto» 25. Per capire da dove provenisse un sistema
economico dall’influenza così pervasiva sui destini mondiali, l’autore
risaliva quindi alla rivoluzione industriale inglese, fornendone un quadro assai meno positivo e lineare di quello generalmente accreditato
dalla storia economica. La domanda di fondo alla quale era necessario rispondere diventava quindi: «Quale fu il meccanismo attraverso
il quale il vecchio tessuto sociale venne distrutto tentandosi con tanta
poca fortuna una nuova integrazione dell’uomo con la natura?» 26.
Analogamente a quanto Marx aveva suggerito, Polanyi rintracciò
nel processo di recinzione dei campi aperti, avvenuto nel corso di circa tre secoli a partire dall’epoca Tudor, le origini dell’alienazione della popolazione contadina dalla terra, intesa come fonte di sostentamento al di fuori del sistema di mercato (si veda anche il capitolo
Ecologia). Il punto di rilevanza storica era quindi capire come un “libero mercato” della terra e del lavoro, due istituzioni praticamente
sconosciute nel mondo pre-industriale, si fossero affermate sopra ogni
altra fino a dominare completamente il sistema economico ottocentesco, trasformando la natura e l’essere umano in merci. Lavoro e terra,
insieme alla moneta, venivano definite dall’autore «merci fittizie»,
poiché «non sono altro che gli esseri umani stessi, dai quali è costituita ogni società, e l’ambiente naturale nel quale essa esiste. Includerli nel meccanismo del mercato significa subordinare la sostanza
della società stessa alle leggi del mercato» 27. Come risultato, «la na24. Titolo originale The Great Transformation, Holt, Rinehart & Wilson, New
York (trad. it. Einaudi, Torino 1974).
25. Ivi, p. 6.
26. Ivi, p. 45.
27. Ivi, p. 93.
76
2.
NATURA
tura verrebbe ridotta ai suoi elementi, l’ambiente e il paesaggio deturpati, i fiumi inquinati, la sicurezza militare messa a repentaglio e la
capacità di produrre cibo e materie prime, distrutta». Questo passo
contiene alcuni punti fondamentali della riflessione storico-ambientale, primo fra tutti, l’accenno al riduzionismo economico come modo
di guardare alla natura scomponendola nelle sue parti utili a fini produttivi, perdendo di vista l’insieme ecologico. La prospettiva di Polanyi non può essere definita “ambientalista” nel senso che oggi daremmo al termine, ma certamente essa fornisce un importante punto di
partenza, poiché suggerisce l’esistenza di una contraddizione tra natura e mercato in termini sociali ed ecologici insieme.
Altro punto di riferimento importante per la riflessione sul rapporto tra natura, storia e lavoro umano è lo storico tedesco Karl
Wittfogel: nel 1957 usciva in inglese il suo Oriental Despotism: a Study in Total Power 28, che riprendeva il tema marxiano dell’ecologia
dei grandi imperi idraulici dell’Asia, insistendo sul ruolo della natura
come forza profondamente attiva, e potente fattore di organizzazione
del potere nella storia umana 29. La tesi di Wittfogel, più che gli storici, inizialmente affascinò gli antropologi: intorno alla sua ricostruzione dei sistemi irrigui dell’antico Oriente, un nuovo filone di studi
cominciò a coagularsi prendendo i nomi di antropologia ecologica,
ecologia culturale e materialismo culturale. Tutte queste definizioni
sottolineano lo sforzo di mettere in relazione dialettica coppie apparentemente oppositive, che si riconducono in definitiva al binomio
natura/cultura.
Nel 1955 veniva pubblicata la Teoria del cambiamento culturale di
Julian Steward, capofila di quella scuola di antropologi che cominciava a mettere in relazione ecosistemi e culture: ad essa apparterranno
Marshall Sahlin, Clifford Geertz, Andrew Vayda, Roy Rappaport e
Marvin Harris, per citare solo i più noti 30. In Europa, all’intersezione
tra marxismo, strutturalismo ed ecologia, si collocava un antropologo
del calibro di Maurice Godelier, con la sua critica della razionalità
economica, fondata sulle strutture materiali e i sistemi di valori della
società occidentale capitalista, ai quali viene attribuita generalmente
28. Trad. it. Il dispotismo orientale, Vallecchi, Firenze 1968.
29. Si veda in proposito anche il PAR. 4.3.
30. Cfr. in proposito D. Worster, History as Natural History, in Id., The Wealth
of Nature. Environmental History and the Ecological Imagination, Oxford UP, New
York 1993, e D. L. Hardesty, Ecological Anthropology, John Wiley and Sons, New
York 1977.
77
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
una validità universale e metastorica 31. Da una prospettiva di questo
genere, e dagli spunti contenuti in Marx a proposito dell’alienazione
tra uomo e natura, emergeva poi un filone di studi che interessava
storici e scienziati sociali, e che possiamo ricondurre al dibattito sulla
cosiddetta “tragedia dei beni comuni”: un dibattito con il quale gli
storici dell’ambiente hanno interagito ampiamente, confrontandosi
con la gestione di beni collettivi come i pascoli, i boschi, le acque
dolci, i mari, le terre comuni (come vedremo nel capitolo Risorse).
Un altro nodo teorico importante, intorno al quale si sviluppa la
critica ecologica al capitalismo dentro le scienze sociali, riguarda l’entropia: si tratta di un concetto che proviene dalle scienze naturali (la
termodinamica), e che sin dal suo apparire dimostra una carica dirompente per quanti si interrogano sul rapporto tra economia e natura nell’era del capitalismo. La termodinamica è quella parte della fisica che studia gli scambi energetici all’interno di un sistema chiuso.
Nata già nei primi decenni dell’Ottocento, essa ha elaborato quelli
che rimangono tuttora i principi guida per lo studio dei sistemi energetici: il principio di conservazione dell’energia (nulla si crea e nulla
si distrugge, tutto si trasforma), e il principio di entropia (in ogni trasformazione all’interno di un sistema chiuso una parte dell’energia
viene dissipata e non è più recuperabile).
Alla metà degli anni ottanta un economista spagnolo, J. Martinez
Alier, dedicò una lunga ricerca alla riscoperta di quei filoni di pensiero che, già dalla metà dell’Ottocento, avevano applicato la riflessione
sulla termodinamica allo studio del capitalismo, inteso come sistema
ad alta entropia, cioè con una tendenza spiccata alla dissipazione irreversibile di energia e materia. Il libro che ne risultò, intitolato Ecological Economics (Economia ecologica 32), fu destinato ad avere un’enorme risonanza sulla formazione degli storici ambientali contemporanei: attraverso una panoramica sul pensiero economico degli ultimi
due secoli, esso introduceva gli storici alla conoscenza di un filone
non ortodosso della teoria economica, l’economia ecologica, appunto,
e alle categorie interpretative che questa branca marginale dell’economica andava elaborando in antitesi al filone mainstream.
L’economia ecologica era nata, secondo Martinez Alier, fin dai
31. Cfr. L’ideale e il materiale, Editori Riuniti, Roma 1985; cfr. anche Antropologia, storia, marxismo, Guanda, Parma 1970, e Razionalità e irrazionalità nell’economia,
Feltrinelli, Milano 1970.
32. Trad. it. Garzanti, Milano 1991.
78
2.
NATURA
primi vagiti della teoria economica, ma aveva acquisito una coscienza
di sé indubbiamente non prima della seconda metà del Novecento,
grazie all’opera di uno studioso atipico, l’economista rumeno Nicholas Georgescu Roegen, padre della bio-economia. L’importanza di
questo studioso sta appunto nell’aver introdotto all’interno dell’analisi
economica la considerazione dei fattori fisici che influenzano la produzione di merci, attraverso i principi della termodinamica. I punti
salienti della riflessione di Georgescu erano, al tempo stesso, rivoluzionari e comprensibili anche ad un pubblico non esperto di economia.
Nel corso di una conferenza tenuta negli Stati Uniti nel dicembre
1970, pubblicata dalla rivista “The Ecologist” due anni dopo, con il
titolo La legge dell’entropia e il problema economico, lo studioso proclamava: «L’intera storia economica dell’umanità dimostra al di là di
ogni dubbio che anche la natura svolge un ruolo importante nel processo economico, oltre che nella formazione del valore economico. È
tempo, io credo, che accettiamo questo fatto e ne consideriamo le
conseguenze per il problema economico dell’umanità» 33. Non è soltanto l’uomo, dunque, a produrre ricchezza: da un certo punto di vista, anzi, non lo è mai stato, poiché egli non può creare né distruggere materia o energia, ma semplicemente trasformarle: la produzione è
dunque un processo storico di trasformazione della natura da parte
dell’uomo. Ma, in questo processo, non tutto il bilancio è positivo: la
produzione di beni per l’utilità dell’uomo ha un costo, che si esprime
mediante la legge dell’entropia. Al termine di ogni processo di produzione una parte della materia-energia disponibile sul pianeta è irrimediabilmente perduta.
L’importanza di questa affermazione da un punto di vista storico
è enorme: d’ora in avanti non sarà possibile concepire la storia come
un progresso ininterrotto del genere umano verso un maggiore grado
di benessere e sicurezza, ma sarà necessario considerare anche i costi
del progresso, non solo quelli sociali o culturali, ma anche quelli propriamente fisici. Insomma, il sistema economico non è un mondo
astratto, dominato dalle leggi dell’utilità marginale e delle preferenze
individuali, ma un sottoinsieme del più ampio sistema ecologico, governato dalle leggi della trasformazione della materia-energia, che bisogna in qualche modo tenere in conto. Questo, in estrema sintesi,
33. Il passo citato è tratto da N. Georgescu Roegen, Energia e miti economici,
Bollati Boringhieri, Torino 1998 (raccolta di scritti a cura di G. Nebbia), pp. 25-6.
79
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
può essere forse il nocciolo del messaggio di Georgescu Roegen, un
messaggio di estremo interesse per gli storici dell’ambiente.
La critica ecologica al capitalismo si articola dunque, e in parte si
confonde, con la critica alla teoria neo-classica marginalista, che viene
spogliata della sua pretesa oggettività, e rappresentata come la struttura ideologica del sistema. Questa operazione concettuale è in gran
parte un’operazione storica, poiché essa tende a relativizzare e contestualizzare ciò che appare come universale. È in questa ottica che si
muovono, tra gli anni settanta e ottanta, economisti non-ortodossi
come Herman Daly 34, René Passet 35, Jeremy Rifkin 36, autori generalmente ben rappresentati nella biblioteca dello storico ambientale.
Una delle più corpose e argomentate storie del pensiero economico
dal punto di vista ecologico appariva a metà degli anni ottanta in
Germania, con il titolo Natur in der ökonomischen Theorie 37, per
mano dell’economista Hans Immler. Il libro mostrava come «la storia
dell’idea di natura nell’elaborazione del pensiero economico è la vicenda [...] di uno sforzo graduale e costante di esclusione» 38. Questa
consapevolezza, osservava Piero Bevilacqua nel presentare al pubblico
italiano l’opera di Immler, lanciava agli storici dell’ambiente una sfida
senza precedenti: quella cioè, di «rimettere in gioco la natura, ricollocare dentro la storia la sua presenza sinora rimossa» 39, e contribuire
così al cambiamento delle strutture mentali (e delle pratiche) con cui
l’Occidente guarda alla natura e la usa.
Negli anni novanta l’economia ecologica è oramai una branca della teoria economica consapevole di sé e praticata da un gruppo di
studiosi di diversa provenienza, pur restando ancora ai margini sia
34. Di questo autore si veda Lo stato stazionario. L’economia dell’equilibrio biofisico e della crescita morale, Sansoni, Firenze 1981, e il più recente Un’economia per il
bene comune. Il nuovo paradigma economico orientato verso la comunità, l’ambiente e
un futuro ecologicamente sostenibile, Edizioni Red, Milano 1994.
35. Co-fondatore del Gruppo dei Dieci, corrente scientifica all’avanguardia del
pensiero complesso, Passet ha pubblicato nel 1979 un’opera dal titolo L’économique
et le vivant, ri-edita nel 1996, tradotta in italiano con il titolo L’economia e il mondo
vivente, Editori Riuniti, Roma 1997.
36. Attualmente uno dei più noti maître-à-penser del movimento no-global, Rifkin è autore di diverse opere sul capitalismo, tra le quali spicca, per la portata ecologica, Entropia, Baldini & Castoldi, Milano 2000, edito per la prima volta nel 1980 con
il titolo Entropy. Into the Greenhouse World.
37. Westdeutscher Verlag, Opladen 1985.
38. Cfr. P. Bevilacqua, Il lavoro. Naura e operosità umana, in Id., Demetra e Clio,
cit., p. 110.
39. Ivi, p. 107.
80
2.
NATURA
della disciplina che delle politiche economiche 40. Negli stessi anni,
con la fondazione della rivista “Capitalismo, Natura, Socialismo”, assume rilievo internazionale anche un’ecologia politica, e un filone di
pensiero che si definisce “ecomarxismo” 41. All’interno dell’ecologia
politica si muove poi un altro filone interpretativo, denominato “ecofemminismo”, dal titolo di un libro della scienziata indiana Vandana
Shiva 42. Insomma, alla fine degli anni novanta la critica ecologica al
capitalismo è un filone di studi che coinvolge direttamente le scienze
sociali, al quale la storiografia partecipa attivamente.
Un contributo importante alla discussione sul rapporto tra il capitalismo, inteso come paradigma della crescita economica, e la natura,
viene dagli studi, abbastanza recenti, sul rapporto tra economia e natura nel mondo socialista. La crisi ambientale ha largamente coinvolto, in forme talvolta esasperate, i paesi ad economia socialista, a partire dall’Unione Sovietica (ancora una volta rimandiamo al capitolo
Ecologia). Questa consapevolezza storica, che comincia ad emergere a
un decennio circa dal crollo del sistema comunista in Europa, complica certamente il discorso: la crisi ambientale, cioè, non può più essere vista (soltanto) come un portato delle contraddizioni ecologiche
del capitalismo, ma dev’essere attribuita a cause più ampie. Al tempo
stesso, la vicenda ambientale dei paesi comunisti richiede essa stessa
una ricostruzione storica, che spieghi come mai la riflessione ecologica di Marx ed Engels abbia avuto così scarsa considerazione all’interno delle loro politiche economiche.
2.3
Conclusioni
La natura è una categoria sfuggente, il cui significato dipende largamente dal contesto storico e culturale in cui gli uomini e le donne
vivono le loro relazioni con essa. Nel fare la storia dell’ambiente,
dunque, è essenziale interrogarsi sul concetto di natura e sulla sua
40. Una raccolta internazionale di autori, curata da R. Costanza, appariva negli
Stati Uniti con il titolo Ecological Economics, Columbia University Press, New York
1990; in Italia si vedano i lavori di M. Bresso, Per un’economia ecologica, Carocci,
Roma 2002, e Pensiero economico e ambiente, Loescher, Torino 1982, e di R. Molesti,
Economia dell’ambiente. Per una nuova impostazione, IPEM, Pisa 1988; Economia e ecologia, IPEM, Pisa 1995; cfr. anche la raccolta R. Molesti (a cura di), Economia dell’ambiente e bioeconomia, Franco Angeli, Milano 2003.
41. Cfr. J. O’Connor, Natural Causes. Essays in Ecological Marxism, Guilford Publications Inc., New York 1998, e Id., L’ecomarxismo, Datanews, Roma 1989.
42. Cfr. Ecofeminism, Zed Books, London 1993.
81
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
formazione storica: da organismo a macchina, da evoluzione a co-evoluzione, la natura ha assunto insiemi diversi di significati, che rispecchiavano il modo stesso in cui società diverse, e le loro strutture cognitive, erano organizzate. Gli storici ambientali hanno quindi cercato
sia di ricostruire l’evoluzione degli ecosistemi dai primordi della vita
del pianeta, sia di spiegare i diversi significati del concetto di natura
in epoche e culture diverse. In questa ricerca gli strumenti di base
sono stati forniti non soltanto dalle scienze naturali, ma anche dalle
scienze sociali.
L’economia, a sua volta, costituisce un importante campo di riflessione sul rapporto tra natura e sistemi sociali: da una radice comune, il greco oikos (casa), ecologia ed economia sviluppano due
modi di intendere le relazioni tra i gruppi umani e la natura non
umana (l’ambiente fisico che fa da supporto alla vita, le forme di vita
animale e vegetale che sostengono l’economia), ma anche la natura
umana, cioè le caratteristiche proprie dell’essere umano e del suo
comportamento. A causa dell’enorme influenza che il pensiero marxiano ha avuto sulla cultura occidentale degli ultimi centocinquant’anni, l’obiettivo polemico dell’economia ecologica è stato fin dall’inizio il capitalismo, in quanto sistema economico, e ideologia, attualmente dominanti. Ma la storia ambientale, nel confrontarsi con il capitalismo, ha scoperto al tempo stesso l’esistenza di mondi e sistemi
“altri”, le cui trasformazioni ecologiche richiedevano una spiegazione.
Nel prossimo capitolo affronteremo quindi il rapporto che la storiografia ambientale intreccia fin dagli esordi con la storiografia economica, dalle macrostorie del mondo alle singole storie nazionali.
82
3
Economia
3.1
L’Europa e le altre.
Storie economico-ambientali del mondo
Uno dei principali compiti che la storia economica, nella sua versione
più macrostorica e globalistica, si è assunta fin dagli esordi, è stato
quello di spiegare lo sviluppo dell’Occidente in un’ottica di comparazione mondiale, cioè accostandolo all’evoluzione dei sistemi economici non capitalistici, in particolare quelli dell’Asia. Questa scuola macrostorica comparativa ha subito una propria evoluzione interna, che
riguarda in particolare le categorie interpretative con cui i sistemi
sono comparati (economia mondo, commercio internazionale, world
history 1), ma non la domanda di fondo da cui parte l’indagine storiografica, che rimane, sostanzialmente: perché l’Europa? In altre parole,
a che cosa dobbiamo ascrivere l’eccezionalità dello sviluppo economico europeo rispetto al resto del mondo?
Generalmente, questi studi si sono confrontati in modo sporadico
e poco approfondito con il ruolo giocato dai fattori ambientali nei
diversi contesti geografici. In un libro del 1981, intitolato Il miracolo
europeo 2, Eric L. Jones fu uno dei primi a prendere sul serio questo
problema. Per spiegare la crescita economica europea, l’autore riteneva necessario considerare non solo la storia economica ma anche la
geografia storica, nel senso che le caratteristiche dell’ambiente fisico e
della collocazione spaziale di una società ne influenzano l’evoluzione.
Queste considerazioni sono inserite all’interno di un quadro concettuale che mutua dall’economia neoclassica la gran parte delle proprie categorie: lo scopo del libro resta quello di individuare quali
1. Cfr. G. Stokes, The Fates of Human Societies: a Review of Recent Macrohistories, in “American Historical Review”, 2001, 1.
2. il Mulino, Bologna 1984.
83
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
sono i “colpi sparati” dalle società non occidentali che non hanno
centrato il bersaglio ( = la crescita economica); in altre parole, perché
“loro” non sono come “noi”. L’autore fornisce una serie di suggerimenti, definendoli “congetture sull’ambiente e sulla società”, sull’influenza (positiva) che l’ambiente ha avuto nella storia europea, e su
quella (negativa) che ha avuto sulla società asiatica.
I vantaggi dell’Europa sono individuati innanzitutto nell’abbondanza di risorse naturali diversificate (a causa della diversità dei climi), che stimolò il commercio tra i popoli europei fin dall’alto Medioevo, ponendo le basi per lo sviluppo del mercato e del capitalismo; il vero vantaggio comparato dell’Europa fu, tuttavia, la sua collocazione geografica, cioè l’essere protetta dalle invasioni nomadi in
virtù della lontananza e del paesaggio ricco di foreste, poco adatte ai
guerrieri a cavallo. Va aggiunta la posizione dei litorali europei, che
«si trovavano di fonte alcuni dei mari più ricchi ed alcune delle terre
maggiormente sfruttabili e meno difese del mondo» 3.
Il comportamento demografico resta una variabile molto importante: l’Europa avrebbe goduto di livelli di nuzialità e natalità più
bassi, favorevoli ad un miglior tenore di vita ed all’accumulo di capitali. Infine, la tipologia delle calamità naturali: in Europa le epidemie
fecero più danni che i terremoti, quindi i disastri tendevano a distruggere la forza lavoro più che il capitale. Ma le condizioni ambientali da sole non spiegano nulla, secondo l’autore: alla base dello sviluppo europeo ci fu la tecnologia (ad esempio la navigazione d’altomare, o le costruzioni in mattoni, resistenti al fuoco) e, in generale, la
cultura. A proposito delle scoperte geografiche, ad esempio, non fu
l’abbondanza di risorse giunte in Europa da oltreoceano a favorire la
crescita economica, ma la capacità degli europei di metterle a frutto,
insomma, «lo spirito commerciale sensibile e reattivo emerso nell’Europa medievale» 4.
Lo svantaggio asiatico comincia, invece, proprio con le condizioni
ambientali: maggiori rischi di calamità, fluttuazioni agricole più ampie
(dovute alle oscillazioni monsoniche) e, infine, una collocazione geografica che apriva l’Asia orientale alle continue invasioni dei popoli
nomadi. Ciò favorì, secondo Jones, la formazione di enormi imperi
centralizzati, basati sul controllo delle risorse, soprattutto l’acqua, su
grande scala territoriale: una situazione che rese quei sistemi sociali
(in particolare Cina e India) più fragili di fronte alle calamità, e determinò un comportamento demografico teso a massimizzare la cre3. Ivi, pp. 30 ss.
4. Ivi, p. 33.
84
3.
ECONOMIA
scita della popolazione, piuttosto che del reddito. Questo proprio
mentre in Europa il rapporto tra popolazione e terra si andava riducendo grazie allo sfruttamento delle colonie.
Lo sforzo di introdurre i fattori ambientali nella spiegazione dell’evoluzione sociale resta un merito del libro di Jones, che contiene
tuttavia alcune contraddizioni e punti deboli. Ad esempio, l’affermazione relativa allo sviluppo demografico europeo, che sembrerebbe
immune alle crisi di sussistenza, tipiche, al contrario, delle economie
di antico regime. Il superamento dei limiti costantemente posti dalla
disponibilità di risorse in un’economia agricola tradizionale come
quella europea arrivò soltanto nel 1700, con la cosiddetta “rivoluzione agricola”, e assunse un’importanza decisiva solo alla fine del 1800,
con i fertilizzanti chimici. Prima di quella data, le economie europee
erano soggette a frequenti oscillazioni demografiche dovute al meccanismo scarsità-carestia-epidemia.
Insomma, la grande divergenza tra Europa e Asia non comincia,
come Jones assume, nel Medioevo (o ancora prima), ma nell’età contemporanea, con l’industrializzazione e l’imperialismo, che mettono a
disposizione dell’Europa risorse di altre aree geografiche ed altre ere
geologiche (i combustibili fossili). Questa ipotesi è fortemente confermata dal più recente studio di Kenneth Pomeranz, anch’egli storico
economico di professione, e appartenente alla cosiddetta world history, che rovescia la prospettiva della comparazione, guardando allo
sviluppo economico europeo dalla Cina 5. Ovviamente, tutte le storie
possono essere riscritte mille volte, e tutte le spiegazioni rovesciate.
L’interesse del libro di Pomeranz non sta, dal nostro punto di vista, nello spostare in avanti di alcuni secoli la data in cui i due sistemi economici si sono separati: questo non perché si tratti di un
problema senza importanza, ma perché più importante ci sembra il
fatto che l’autore basi gran parte della sua interpretazione sulle differenze ecologiche tra il sistema europeo e quello asiatico. Le due economie vengono comparate non soltanto come sistemi economici, ma
come parte di differenti ecosistemi. Il libro di Pomeranz ha potuto
utilizzare una ricerca sui fattori ambientali in gran parte posteriore a
quello di Jones, e questi studi storici ambientali hanno assunto un’importanza decisiva, tale da rovesciare l’immagine costruita precedentemente.
5. Cfr. The Great Divergence: China, Europe, and the Making of the Modern
World Economy, Princeton University Press, Princeton 2000. Cfr. anche Id., Political
Economy and Ecology on the Eve of Industrialization: Europe, China and the Global
Conjuncture, in “American Historical Review”, 2002, 1.
85
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
In sostanza, Pomeranz mette in discussione l’idea che la Cina abbia affrontato una scarsità maltusiana tale da compromettere la crescita economica, a causa dello squilibrio tra popolazione e risorse,
come sostenuto da Jones. Innanzitutto, la produzione agricola inglese
alla fine del 1700 aveva già raggiunto l’optimum realizzabile con la
tecnologia dell’epoca: un ulteriore aumento della produttività agricola
avrebbe richiesto sistemi agricoli ad alta intensità di lavoro, impedendo così l’industrializzazione. Invece, l’economia britannica, e con essa
quella dell’Europa occidentale, poté evitare questa “trappola” ricorrendo al commercio con il Nuovo Mondo, che fornì un quantitativo
in più di calorie (alimentari e combustibili), il cosiddetto ghost acreage (superficie sostitutiva).
Nello stesso periodo la Cina non sperimentava problemi di questo
tipo, ma, al contrario, un bilancio calorico più favorevole di quello
inglese, e un meno intenso esaurimento del suolo. Per quanto riguarda poi i combustibili, diversi autori hanno messo in luce come in Europa si andasse verificando una forte crisi del legno già da alcuni secoli, mentre la Cina otteneva una maggiore disponibilità di combustibile pro capite grazie a un clima più mite, e a tecniche di risparmio
energetico e riciclaggio. Tuttavia, i prezzi del legno erano in ascesa in
entrambi i casi: se la Cina poté evitare una seria crisi, con conseguenti drammatiche deforestazioni, fino all’inizio del Novecento, ciò fu al
prezzo di un’estrema economizzazione delle risorse, tale da non permettere alcun salto di qualità simile alla rivoluzione industriale europea. Questa fu resa possibile dalla sostituzione del legno con il carbone, una risorsa disponibile in alcune regioni europee grazie alla loro
“buona fortuna” geografica.
Anche l’accresciuto bisogno europeo di fibre tessili non sarebbe
stato sostenuto dalla disponibilità di terra sul continente, e solo il
commercio coloniale, specie con le Americhe, rese possibile il venire
incontro alla domanda delle industrie tessili. In Cina, diversamente, si
verificò una ri-allocazione di risorse interna al paese, nell’ambito di
limiti definiti non da condizioni ecologiche ma istituzionali (la divisione del lavoro interna alle famiglie e la distribuzione della terra, che
scoraggiava la forza lavoro industriale ad emigrare). Soprattutto, la
Cina non beneficò di un’ampia e ricca “periferia”, dalla quale importare prodotti agricoli (cibo, combustibili, fibre tessili) e verso la quale
esportare i propri prodotti industriali. Questa periferia, come sottolinea l’autore, non fu una creazione del libero mercato, questa istituzione che gli europei tradizionalmente hanno considerato tipica della
propria storia, attribuendovi il merito dello sviluppo economico: al
contrario, la periferia testimonia quanto fosse essenziale alla crescita
86
3.
ECONOMIA
economica europea l’esistenza di ampie aree di sfruttamento in cui le
leggi del libero mercato non funzionassero, permettendo la schiavitù
e i monopoli tipici del commercio coloniale.
Quando questi vincoli furono aboliti, tra la fine del XVIII e la metà del XIX secolo, i giochi erano fatti: l’Europa aveva ormai superato
la trappola maltusiana cruciale dell’età pre-industriale, ed aveva innescato il meccanismo irreversibile dell’industrializzazione. In altre parole, senza le risorse delle periferie coloniali e senza i combustibili
fossili, l’Europa avrebbe sperimentato una storia economica completamente diversa: probabilmente, suggerisce Pomeranz, essa avrebbe
potuto soltanto conservare i livelli di vita del XVIII secolo, mediante
un sistema produttivo ad alta intensità di lavoro simile a quello dell’Asia orientale.
Comparare la storia economica europea con quella della Cina ha
significato, in un modo o nell’altro, andare alla ricerca delle particolarità europee, e per spiegare queste è stato necessario chiamare in causa l’ambiente geografico, il che non costituiva un’innovazione particolarmente rivoluzionaria. Ma quando alla geografia si è cominciato ad
accostare la biologia, come strumento per ricercare le forze nascoste
nelle pieghe della storia mondiale, allora l’impatto è stato ben più
decisivo.
Già nei primi anni settanta, quando la storia dell’ambiente era appena agli esordi, uno storico di nome Alfred Crosby pubblicava un
libro rivoluzionario sulla scoperta dell’America, chiamandolo Lo
scambio colombiano. Conseguenze biologiche e culturali del 1492. La
storia del mondo e il predominio europeo potevano essere riletti in
una chiave completamente nuova, che ridimensionasse, fino a farle
scomparire, le vicende militari e politiche, rivelando l’azione svolta da
protagonisti invisibili, ma dotati di un enorme potere di cambiamento: i microrganismi. Le forme della morte e quelle della vita, i fondamenti della storia, dipendevano largamente dall’azione di questi agenti inconsapevoli: da una parte virus e batteri (vaiolo, tifo, influenza
ecc.) che gli europei portarono con sé, come clandestini a bordo, nei
nuovi mondi, e che ne determinarono in larga parte il crollo; dall’altra i geni, un’immensa trasmigrazione di forme di vita vegetali e animali, anch’essa spesso involontaria, da una parte all’altra dell’Atlantico, e da questo ad altri continenti, fino a cambiare completamente il
volto del mondo.
Dal momento che l’uomo, prima di qualsiasi altra cosa, è un’entità biologica – osservava Crosby nell’introduzione – «lo storico, prima
di poter valutare le virtù politiche, la forza economica o il valore culturale di un gruppo umano, deve conoscerne le capacità di sopravvi87
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
venza e di riproduzione e deve sapere in che modo i suoi tentativi di
sopravvivere e di riprodursi abbiano influenzato l’ambiente in generale, e le altre creature viventi in particolare». Il peso della tradizione,
continuava Crosby, aveva impedito agli storici di vedere il vero significato della scoperta dell’America, e persino agli storici economici
era sfuggito «il fatto che i mutamenti di maggior rilievo seguiti ai
viaggi di Colombo sono stati di natura biologica» 6.
E tuttavia ancora una spiegazione va ricercata: come mai le malattie europee ebbero un effetto così devastante sui nativi americani?
Ancora una volta, è la biologia a dare una risposta utile: lo stato di
isolamento in cui il continente aveva vissuto, negli ultimi 10.000 anni
circa, aveva reso il loro sistema immunitario inadatto ad affrontarli.
Insomma, la grande differenza tra gli europei e gli “americani” stava
nell’essersi i primi evoluti in una continua mescolanza di razze, gruppi sanguigni, malattie e culture con popoli di origine asiatica, mentre
i secondi erano rimasti biologicamente “puri” e culturalmente autonomi per migliaia di anni. Questo li rese catastroficamente impreparati all’assalto violento degli europei.
Ma lo scambio colombiano non si limitò ad un’esportazione di
virus, non fu soltanto un affare di morte per milioni di individui:
esso riguardò anche le condizioni in cui la vita continuava, non soltanto in quella parte del mondo, ma, a poco a poco, nell’intero pianeta. La fauna e la flora delle Americhe assunsero un aspetto interamente nuovo con la colonizzazione, che dipendeva in gran parte dalla capacità degli europei di coltivare le proprie piante e allevare i
propri animali: il grano, il cavallo e il bue, il tabacco, il cotone e lo
zucchero, sono soltanto gli esempi più semplici di forme di vita portate nel nuovo mondo dagli europei, che presero gradualmente il
posto delle preesistenti, sconvolgendo interamente una molteplicità
di ecosistemi locali.
Insomma, l’America come oggi la conosciamo non è più quella su
cui sbarcò Colombo, perché i suoi animali e le sue piante sono scomparsi per lasciare il posto a quelli del vecchio mondo. Alcune forme
di vita del nuovo mondo, come la patata, il mais e la manioca, hanno
avuto un ruolo fondamentale nella vita di milioni di persone in Europa, in Africa e in Asia. E tuttavia il bilancio dello scambio colombiano, se favorevole in larga misura agli europei e ad altri popoli non
amerindi (probabilmente l’unica malattia contratta dagli europei nel
nuovo mondo fu la sifilide, a cui essi si adattarono nel corso di alcu-
6. Lo scambio colombiano, Einaudi, Torino 1992, pp.
88
IX-X.
3.
ECONOMIA
ne generazioni), sul piano globale fu sfavorevole alla continuazione
della vita sul pianeta nella complessità delle sue forme.
Il trionfo del modo di vita europeo ha portato infatti ad una semplificazione degli ecosistemi e ad una cospicua riduzione delle specie
viventi, e forma, concludeva Crosby, l’unico «mutamento fisico di vasta portata o di carattere permanente» 7 che il pianeta terra abbia vissuto nel corso degli ultimi 500 milioni di anni. Successivamente, l’autore sviluppò questi studi in un altro libro, elaborando il concetto di
«imperialismo ecologico», per sottolineare come il successo dell’Europa e il trionfo del modo di vita europeo in larghe parti del pianeta
abbiano avuto una buona dose di fortuna «biologica» 8.
L’opera di Crosby ha avuto larghissima eco nella storiografia, non
solo ambientale, e ha prodotto molto seguito. Le implicazioni dell’approccio biologico permettevano di rileggere l’espansione europea
come il più potente fattore di trasformazione ecologica del pianeta, e
di riflettere sulle responsabilità degli europei nel produrre la crisi
ecologica globale dei nostri tempi, e le sue conseguenze sociali. Così,
ad esempio, uno studioso inglese di nome Clive Ponting lanciava nel
1991 una Storia verde del mondo, con lo scopo dichiarato di comprendere le origini della crisi ambientale attuale, assumendo il punto
di vista degli sconfitti.
Prima di arrivare alla storia del predominio europeo, Ponting
presenta un rapido excursus dell’evoluzione umana dal punto di vista
del rapporto con la natura: a partire da quelli che l’autore definisce
«i fondamenti della storia», cioè il ruolo giocato dalle forze telluriche, dalla fotosintesi, dal clima, dalle catene alimentari, dalla struttura geologica e dei suoli, dai cicli biogeochimici nel plasmare le forme
di vita conosciute, il libro ci ricorda come per il 99% della sua storia (quasi due milioni di anni) il genere umano sia vissuto di caccia e
raccolta di prodotti spontanei, secondo un modello demografico caratterizzato da stabilità e adattamento alle condizioni ambientali.
Solo dopo l’invenzione dell’agricoltura (che data a circa 10.000 anni
fa), alcuni gruppi umani cominciarono a trasformare il proprio rapporto con la natura, basandolo sulla domesticazione di specie vegetali e animali, e in questo modo ottennero una lenta, ma continua crescita demografica (da 4 a 5 milioni tra il 10.000 e il 5.000 a.C., poi
raddoppiando ogni millennio, fino a raggiungere i 200 milioni nel
200 d.C.).
7. Ivi, p. 182.
8. Cfr. Imperialismo ecologico. L’espansione biologica dell’Europa, Laterza, BariRoma 1988.
89
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
L’agricoltura rappresentò quindi «il cambiamento più radicale
nella storia dell’umanità» 9, una prima grande transizione demografica
e sociale verso un modello di vita sedentario, con una crescente specializzazione all’interno della comunità (agricoltori, soldati, sacerdoti,
sovrano), la comparsa delle prime forme di proprietà, non ancora sulla terra, ma sul cibo. L’agricoltura consentiva infatti, rispetto alla caccia e raccolta, una produzione alimentare più ampia con una certa
quantità di eccedenze: in connessione con questo fatto, si svilupparono stati e imperi (la Mesopotamia e l’Egitto verso il 3000 a.C., poi la
valle dell’Indo, circa mille anni dopo la Cina e altri duemila anni
dopo gli imperi dell’America centro-meridionale) organizzati sul prelievo del surplus agricolo dai produttori diretti o dai territori dominati. Queste società non furono esenti da gravi crisi ambientali, in qualche caso risoltesi in un totale collasso (ad esempio la civiltà Maya
verso la fine del primo millennio): i problemi principali derivavano
dall’eccessiva deforestazione, con erosione dei suoli, e da un uso scorretto dell’irrigazione, che provocava la salinizzazione delle terre.
Per tutte le migliaia di anni che vanno dall’invenzione dell’agricoltura alla fine del XVIII secolo, comunque, l’umanità risulta impegnata in un’incessante lotta per la sopravvivenza, e la lenta crescita
demografica è contrassegnata da continue oscillazioni al di là del limite di sussistenza, con cali di popolazione anche di vasta portata. L’agricoltura di per sé non era sufficiente a garantire un livello di vita
adeguato, e soprattutto stabile, alla maggior parte della popolazione
mondiale: questo risultato fu ottenuto per primi dagli europei del tardo Settecento, grazie alla loro attitudine al dominio su altre parti del
mondo, da cui ottennero risorse alimentari ed energetiche.
Questa può considerarsi la tesi centrale del libro, che è dedicato
per i due terzi circa a spiegare le forme e le conseguenze dell’espansione europea. In merito ad uno dei problemi storici più rilevanti e
discussi da tutti gli autori di storia economica e di “storie del mondo”, l’autore dichiara apertamente il proprio punto di vista: «se si
interpretano gli avvenimenti in termini di diffusione della cultura europea, di apertura di nuovi territori e costituzione di imperi mondiali,
allora la storia può essere vista come un successo. Se ci si concentra
su quello che accadde ai popoli, alla Terra e all’ambiente in generale,
allora è tutto un altro conto» 10. Per quanto banale possa sembrare
una tale affermazione, essa centra il punto della questione posta dalla
9. Cfr. C. Ponting, Storia verde del mondo, Società Editrice Internazionale, Torino 1992, p. 63.
10. Ivi, p. 134.
90
3.
ECONOMIA
storia dell’ambiente rispetto alle storie convenzionali: rifare i conti,
cioè, dello sviluppo economico di matrice europea, includendo nel
bilancio di quello che può sembrare un successo le perdite ambientali
e sociali inflitte all’ecosistema terrestre nel suo complesso.
La storia del mondo raccontata da Ponting riguarda quindi l’estinzione dell’uro, del bisonte europeo e di quello americano, dell’alca, del falco pescatore, del dodo, del canguro lepre, del piccione migratore; ma anche l’esaurimento dei banchi di pesca del Mare del
Nord e del Caspio, lo sterminio degli zibellini, dei castori, delle foche
e delle balene. La nascita del cosiddetto Terzo Mondo viene considerata come una creazione diretta della spoliazione che gli occidentali
operarono sul resto del mondo, privando i popoli indigeni dei propri
mezzi di sussistenza attraverso la rapina delle loro risorse naturali. In
termini ecologici, «il controllo politico ed economico di una grossa
fetta delle risorse mondiali ha consentito al mondo industrializzato di
vivere oltre i limiti imposti dalla propria base diretta di risorse» 11.
Oltre a ciò, l’influsso dell’espansione europea viene misurato nei termini del suo carico biologico, come indicato da Crosby.
Anche la questione demografica, tema di accese discussioni nell’ambito dell’ecologia politica, viene affrontata esplicitamente da Ponting dal punto di vista dei “poveri”: «Nel complesso nel mondo c’è
cibo a sufficienza per nutrire tutti a un livello adeguato: il problema
sta nella distribuzione diseguale» 12, e nell’inefficienza dell’agricoltura
dei paesi industrializzati, che utilizza un quarto della produzione
mondiale di cereali per alimentare il bestiame da trasformare in carne, piuttosto che farne direttamente cibo per gli esseri umani (gli animali, essendo al vertice della catena trofica, offrono un rendimento
energetico più basso rispetto ai vegetali, cioè hanno bisogno di input
maggiori per produrre una stessa quantità di calorie).
I capitoli finali sono dedicati poi alla nascita e sviluppo della società contemporanea, quella che l’autore definisce la «seconda grande
transizione», ossia il sistema urbano e industriale basato sull’ampio
prelievo di combustibili fossili e risorse minerali. Si tratta di una svolta epocale perché, come tutti gli storici ambientali sottolineano, l’umanità per la prima volta è passata a basare la propria esistenza dall’uso delle risorse rinnovabili a quello delle risorse fossili, cioè non
rinnovabili. Inoltre, tale uso comporta enormi costi in termini di produzione di rifiuti (anche perché esso alimenta la cosiddetta società
dei consumi), smaltimento di scorie, alterazione di habitat naturali e
11. Ivi, p. 248.
12. Ivi, p. 280.
91
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
del clima, danni alla salute degli esseri umani e di altre forme di
vita.
Non sarebbe possibile in queste pagine riassumere la grande
quantità e complessità delle questioni ambientali, né riportare gli innumerevoli casi descritti da Ponting: ciò che è importante sottolineare di questo libro è che esso forma probabilmente il primo tentativo
di riscrivere la storia del mondo con parametri ambientali, provando
a ricostruire l’effetto delle azioni che particolari gruppi umani hanno
avuto sugli ecosistemi, su altri gruppi umani e su se stessi, anche attraverso le condizioni ambientali che i loro discendenti hanno ereditato ed erediteranno ancora in futuro.
Naturalmente, le ragioni per cui furono gli europei ad espandersi
in altri continenti, e non viceversa, trascendono l’aspetto puramente
biologico, e vanno ricercate prevalentemente nella cultura e nella tecnologia: queste, però, sono a loro volta influenzate dalle condizioni
ambientali dei gruppi di appartenenza. Studiare le cause dell’espansione europea, in altre parole, è un compito assai più arduo che studiarne le conseguenze.
Un tentativo elaborato di affrontare questa complessità, raccogliendo l’eredità di Crosby, è quello compiuto non da uno storico di
professione, ma da un biologo evoluzionista di nome Jared Diamond,
in un libro che porta un titolo impegnativo e originale come Armi,
acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni.
Più che impegnarsi in una ricostruzione delle radici storiche delle
questioni ambientali, l’autore si propone di rispondere ad una domanda, apparentemente semplice, postagli da un aborigeno australiano durante uno dei suoi studi sul campo nel 1972: perché gli occidentali hanno tanto “cargo”? In altre parole, perché sono stati loro,
soprattutto negli ultimi cinque secoli, a portare in giro per il mondo
le loro armi, le loro tecnologie e le loro malattie, e non viceversa?
La risposta del Diamond biologo e storico è che «le forti disparità
tra le vicende dei continenti non sono dovute a innate differenze nei
popoli che li abitano, ma alle loro differenze ambientali». Se gli abitanti dell’Australia e dell’Europa si fossero scambiati di posto nel tardo pleistocene, oggi sarebbero gli aborigeni ad occupare le Americhe,
mentre gli europei sarebbero ridotti ad occupare le zone aride dell’Australia 13. Certamente l’autore non sembra temere l’accusa di determinismo che potrebbe venirgli dagli storici di professione: come
dichiara nel prologo, il tempo è maturo per una revisione del pro13. Cfr. Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila
anni, Einaudi, Torino 1998, p. 313.
92
3.
ECONOMIA
blema, cioè di quale sia l’importanza da attribuire all’ambiente nel
determinare le linee generali dello sviluppo umano. Per fare questo,
tuttavia, c’è bisogno dell’aiuto di discipline diverse, apparentemente
lontanissime dallo studio della storia, come la genetica, la biologia
molecolare, la biogeografia, l’ecologia e l’etologia, l’epidemiologia, oltre a quello di discipline più frequentate dagli storici come la linguistica, l’archeologia e la storia delle tecniche.
Sembrerebbe dunque che lo storico ambientale debba essere un
“tuttologo” (o almeno lavorare in équipe con un buon numero di
studiosi): nel caso di Diamond, in effetti è stata proprio la personale
esperienza in alcune di queste discipline (medicina, biologia evolutiva
e linguistica) ad ispirare l’idea dell’opera. E tuttavia la sintesi di questi diversi studi ed approcci, in buona parte sul campo, è una ricostruzione storica, sebbene di lunghissimo periodo, basata su una serie
di esempi paradigmatici, come l’evoluzione ambientale e sociale delle
isole del Pacifico, o la cattura dell’ultimo imperatore Inca da parte di
Pizarro.
Il libro affronta naturalmente i grandi nodi intorno ai quali ruota
la storia dell’umanità, come la nascita e sviluppo diseguale dell’agricoltura, e delle malattie, tra Eurasia e Americhe, dalle quali l’autore
fa dipendere anche l’evoluzione della scrittura e delle tecnologie. Un
ruolo assai importante, nella spiegazione delle differenze tra i popoli,
viene attribuito alla situazione geografica delle aree, al loro maggiore
o minore isolamento, poiché, spiega l’autore, la cultura e la tecnologia evolvono in gran parte mediante l’incontro tra popoli, e il verificarsi o meno di tali incontri ha determinato lo sviluppo diverso delle
società. Ciò che il libro vuole suggerire è l’avvicinamento delle scienze storiche alla conoscenza di tipo scientifico, quello che l’autore
chiama «l’esperimento naturale»: in pratica la comparazione tra due
sistemi in assenza o in presenza di una variabile chiave.
La storia ambientale ha cominciato dunque a dare alcuni contributi importanti, che hanno comportato una profonda revisione della
storia economica mondiale. In alcuni casi, questa revisione ha assunto
la forma di un completo rovesciamento di prospettiva. Come ha osservato recentemente Donald Hughes, tra i fondatori della storia ambientale nel nord America, «il principio organizzativo praticamente di
tutti i testi di storia del mondo attualmente disponibili e usati nei
corsi di storia in Nord America è lo sviluppo» 14. Questi testi non
14. Cfr. D. Hughes, Introduction. Ecological Process in World History, in Id.
(ed.), The Face of the Earth. Environment and World History, M. E. Sharpe, New
York 2000, p. 3.
93
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
discutono della opportunità dello sviluppo, né lo definiscono in termini più precisi, ma si limitano a dare per accettato che esso sia un
bene. La storia che essi raccontano assume perciò spesso i toni di un
racconto del cammino trionfale dell’umanità da un livello di civiltà a
quello successivo.
Utilizzare il concetto di sviluppo economico acriticamente – continua Hughes – ha significato leggere la storia mondiale in modo distorto, impedendo di vedere i rischi, che appaiono invece evidenti
considerando l’esperienza umana dal punto di vista ecologico. Tuttavia gli storici non hanno inventato quel concetto, ma l’hanno trovato
come idea dominante all’interno dell’economia politica e della politica economica. Esso, contesta Hughes, non è l’unico principio organizzatore possibile, e deve essere sostituito dal concetto di «processo
ecologico»: ciò per riaffermare un principio di realtà generalmente
misconosciuto, e cioè che è il sistema economico e sociale ad essere
inserito all’interno di un sistema ecologico, e non viceversa. In altre
parole, conclude l’autore, «la biosfera non può più essere vista come
il palcoscenico su cui si rappresenta la storia umana. Essa è un attore,
anzi, in verità essa fornisce la gran parte del cast» 15.
Un esempio macroscopico di come la storia economica generalmente ignori le “perdite” dello sviluppo è la questione della biodiversità. «Uno dei più grandi errori compiuti dalla moderna civiltà urbana, inclusi gli autori di testi di storia del mondo – scrive ancora
Hughes – è quello di pensare che gli esseri umani esistono ed
agiscono senza alcun riferimento ad altre forme di vita» 16. In realtà
nessuna specie esiste isolata dalle altre, e nemmeno gli esseri umani
potrebbero sopravvivere senza un ecosistema in grado di fornire gli
elementi necessari alla vita. Tuttavia, pochi testi di storia assumono
questo fatto come una parte importante delle loro narrazioni. Tra il
XIX e il XX secolo la distruzione di altre forme di vita aumentò
vertiginosamente a causa del progresso tecnico, dell’espansione economica e di quella demografica: alla fine del Novecento, una serie di
estinzioni si erano verificate in una scala paragonabile solo ad eventi
catastrofici di memoria geologica (ad esempio la grande glaciazione
del Pleistocene).
Ovviamente, il problema della riduzione di biodiversità non concerne soltanto la sfera etica (se gli esseri umani abbiano o meno il
diritto di sterminare altre specie), ma anche quella biologica e sociale:
quali ripercussioni avrà questa formidabile semplificazione della bio15. Ivi, p. 18.
16. Ivi, p. 23.
94
3.
ECONOMIA
sfera sull’evoluzione umana, e quali sta già avendo sulla vita di milioni di persone? Gli storici devono assumersi il compito di contribuire
a dare una risposta a queste domande essenziali, mostrando le conseguenze che in epoche passate, vicine e lontane, l’estinzione di forme
di vita ha prodotto sui diversi ecosistemi e sulle società che ne facevano parte.
Negli ultimi anni la world history di matrice ambientale ha utilizzato una categoria, certamente non nuova, ma analizzata da un
nuovo punto di vista, per la comprensione della storia mondiale: l’impero. Generalmente, il contributo maggiore in questa direzione viene
dalla storiografia dei nuovi mondi diversi dal Nord America (Australia e Sudafrica soprattutto, ma anche America Latina e “Indie orientali”), e da una lunga tradizione britannica di studi “imperiali”, rivisitata in chiave ambientale. Questa storiografia parte dalla constatazione che ecologia ed impero hanno avuto storicamente un rapporto
molto stretto, e si propone di analizzare quel rapporto per comprendere le trasformazioni ecologiche che si sono verificate nell’intero pianeta in conseguenza dell’espansione europea.
Il punto di partenza, quindi, è chiaramente l’imperialismo ecologico di Crosby, che tuttavia viene riformulato mediante uno sguardo
più circostanziato alla diversità dei contesti. Un’agenda di temi da
esplorare in questa prospettiva viene indicata in Ecology and Empire.
Environmental History of Setter Societies, una raccolta di saggi comparativi incentrati sull’esperienza australiana 17. L’Australia, per cominciare, conobbe la colonizzazione nell’era della rivoluzione industriale, una differenza non di poco conto rispetto alle Americhe; l’impero britannico, diversamente da quelli spagnolo, francese od olandese, fu basato molto poco sull’utilizzo di lavoro indigeno, almeno fino
alla conquista dell’India, e in larga parte esso diede vita a vere e proprie colonizzazioni, nel senso di trapianto di popolazione dai paesi di
origine, per dare forma a nuovi insediamenti agricoli 18.
Secondo l’inglese John MacKenzie, autore di uno studio rappresentativo di questo filone “ecologico-imperiale” 19, la storia ambientale comparata ha seguito quattro percorsi principali.
1. Apocalittico: dalla consapevolezza, sorta già nelle élite imperiali, in
particolare britanniche, che qualcosa stava andando storto nella loro
17. T. Griffith, L. Robin (eds.), University of Washington Press, Seattle 1997.
18. Cfr. D. Lowenthal, Empires and Ecologies: Reflections on Environmental Histories, in Ecology and Empire, cit.
19. Cfr. The Empire of Nature. Hunting, Conservation and British Imperialism,
Manchester UP, Manchester 1988.
95
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
capacità di dominare la natura delle colonie (l’ecologia imperiale), i
primi storici ambientali traevano lo spunto per studiare i guasti prodotti dagli europei nel Terzo Mondo. La salinizzazione nei canali
d’irrigazione costruiti dagli inglesi nei delta del Gange e del Nilo, l’espansione mondiale delle monocolture di origine esotica, la peste bovina in Africa, sono esempi dei temi principali di questa storiografia,
il cui epigone è la Storia verde del mondo di Ponting: un’immagine
drammatica e contro-progressiva della storia mondiale, basata su un
bilancio ecologicamente negativo dell’esperienza imperiale.
2. Neo-whig: come antidoto a questa visione catastrofista, una parte
della storia ambientale ha sviluppato poi una visione post-moderna,
neo-liberale, tendente a privilegiare la sensibilità ambientale europea,
prodotta dalle sue élite più illuminate. Un esempio classico è l’opera
di Keith Thomas, L’uomo e la natura (si veda il capitolo Storia), ma
soprattutto quella dell’inglese Richard Grove, intitolata appunto
Green Imperialism 20, che fa nascere l’ecologia moderna non negli
Stati Uniti del primo Novecento, o degli anni sessanta, ma nell’esperienza coloniale del Sette-Ottocento, quindi non al centro del mondo
occidentale ma nelle sue periferie (l’impero), da una feconda cooperazione tra intellettuali e rappresentanti dell’élite di diverse realtà coloniali (inglesi, scozzesi, francesi e tedeschi). Questo approccio sopravaluta probabilmente il potere delle idee ecologiche, dando per scontato che esse venissero immediatamente recepite nelle politiche coloniali.
3. Lunga-durata: entrambi i precedenti filoni sono incentrati sull’impero come momento centrale della storia del mondo, al di fuori del
quale nulla di rilevante sembra esistere. Un terzo filone si è sviluppato quindi sul presupposto che l’età imperiale fosse soltanto l’epilogo
di una più lunga storia di interazione tra uomini e ambienti, in cui un
ruolo importante giocavano le caratteristiche ecologiche di differenti
latitudini, climi, sistemi sociali. La conoscenza indigena della natura e
i modi di produzione locali testimoniavano l’esistenza di cicli ecologici assai più ampi di quelli prodotti dagli imperi, e il problema diventava quello di capire l’interazione tra i problemi ambientali delle
società pre-coloniali e quelli prodotti dagli europei. I popoli indigeni
venivano così emancipati dall’immagine tradizionale, che li voleva depositari di una felice integrazione con la natura, ingenuamente incapaci di dominarla per trarne ricchezza: un’immagine che aveva a suo
20. Cfr. Green Imperialism. Colonial Expansion, Tropical Island Edens and the
Origins of Environmentalism, 1600-1860, Cambridge University Press, Cambridge
1995.
96
3.
ECONOMIA
tempo legittimato il dominio dell’uomo bianco, concepito come guida
e civilizzatore.
4. Culturalista integrato: una critica dell’ecologia imperiale, collocata
all’interno dei contesti socio-politici e razziali delle diverse realtà coloniali. Questo approccio considera la natura come una costruzione
ideologica e politica, poiché la conoscenza del passato si attua attraverso le fonti disponibili, che sono a loro volta un prodotto culturale.
L’opera che senz’altro ha fatto scuola in questo senso è Paesaggio e
memoria di Simon Schama, che per la verità si occupa ben poco di
imperi: la sua trasposizione nel contesto coloniale ha dato vita a letture critiche delle politiche ambientali in contesti non europei, ad
esempio le riserve forestali e di caccia in Sudafrica e in India, o il
conservazionismo in Australia, ispirate alla segregazione razziale, e attuate nel contesto di una “nazionalizzazione” coloniale della natura 21.
Dunque, la storia ambientale ha contribuito a rileggere la storia
del mondo reinterpretando il rapporto tra l’Europa e gli altri continenti: in gran parte essa si è concentrata sull’età del colonialismo e
dell’imperialismo, perché questo è sembrato il contesto più rilevante
per studiare l’interazione tra sistemi ecologici ed economici diversi, in
larga misura rimasti estranei, o sporadicamente in contatto, prima
dell’era moderna. È necessario, però, a questo punto, ritornare per
un attimo alla domanda iniziale di questo capitolo, quella a cui la storia economica ha dato tanta importanza, e che ha suscitato tanti studi
e dibattiti: perché l’Europa? Quali sono, insomma, le particolarità
dell’identità storica europea rispetto al resto del mondo? E qual è il
ruolo che la natura ha giocato in questa identità?
Molti degli autori presi in considerazione finora (da Jones e Pomeranz a Crosby e Diamond) hanno avanzato delle risposte a questo
interrogativo, ma in genere lo studio dei fattori ecologici si è concentrato sugli altri continenti, quasi come se l’Europa avesse troppa storia, troppa cultura, per dare importanza alla sua natura. Una riflessione propriamente storico-ambientale sull’Europa tuttavia esiste, ed è il
frutto di una sedimentazione di studi provenienti da diversi approcci
disciplinari, che si coagulava per la prima volta in due libri esplicitamente di storia ambientale, pubblicati nei primi anni novanta. The
Silent Countdown. Essays in European Environmental History, pubblicato a Berlino nel 1990 22, rappresentava il primo incontro ufficiale
21. Cfr. J. MacKenzie, Empire and the Ecological Apocalypse: the Historiography
of the Imperial Environment, in Ecology and Empire, cit.
22. Springer-Verlag.
97
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
degli storici ambientali europei, in un volume collettaneo, e multidisciplinare, curato dall’inglese Peter Brimblecombe e dallo svizzero
Christian Pfister. Il libro metteva insieme storici e scienziati naturali,
e affrontava una serie di questioni di taglio globale, come il problema
energetico, l’industrializzazione e l’inquinamento, la nascita della coscienza ambientale, declinandole all’interno di case studies nazionali o
locali (il carbone inglese, l’ecologia di una comunità alpina, le foreste
ungheresi, l’agricoltura in un cantone svizzero, o di una comunità rurale in Finlandia), dando conto del grado raggiunto dagli studi di taglio ambientale nella storiografia europea.
Nello stesso anno, nasceva un’altra opera collettanea, pubblicata
questa volta in Italia, con il titolo Il declino degli elementi. Ambiente
naturale e rigenerazione delle risorse nell’Europa moderna 23, curata da
Alberto Caracciolo e Gabriella Bonacchi, che traduceva parte dei saggi già pubblicati nel precedente volume, aggiungendovene altri (sulla
questione etico-religiosa dentro la crisi ambientale, sull’ecologia del
mondo antico, sull’agricoltura, sulle risorse idriche, sull’inquinamento
atmosferico, sulla crisi del legno, sui terremoti e sull’ecologia valliva
in Piemonte). Entrambi i libri, che nascono dallo stesso humus culturale (sono le prime espressioni di una tendenza storico-ambientale europea), si preoccupano di ri-definire temi e approcci della storia
d’Europa, collocandoli all’interno della questione ecologica dell’età
contemporanea, e in questo senso vanno considerati come i semi di
un futuro sviluppo della storiografia ambientale in Europa.
Tuttavia, essi si preoccupano molto meno, se non per niente, di
definire lo spazio europeo come luogo di un’identità ambientale e
culturale, insomma, di rintracciare le origini di una diversità della storia europea rispetto a quella di altri continenti, e di spiegare i destini
del mondo in base ad essa. Questo problema che, come abbiamo visto, appare più pressante per gli storici economici del mondo, sembra
non appartenere alle prime storie ambientali europee. Eppure, più di
recente, Robert Delort e Fraçois Walter hanno provato a dare una
risposta a questa domanda nella loro Storia dell’ambiente europeo, la
prima opera di sintesi storico-ambientale su questo pezzo di mondo
(e finora anche l’unica).
Gli autori definiscono l’oggetto del loro studio a partire dai caratteri originari: quelli del territorio (geografia e geologia, orografia e
idrografia), ma anche quelli dell’uomo (linguistica, antropologia),
sforzandosi di dare un’immagine co-evolutiva della storia europea
23. il Mulino, Bologna 1990.
98
3.
ECONOMIA
nelle sue componenti umane e non umane. La prima parte del libro
ricostruisce il concetto di natura come si veniva a formare nelle diverse epoche della civiltà europea (dando per accertata una sostanziale comunità di valori culturali tra i diversi popoli, basata sull’accettazione universale della logica aristotelica e della tradizione giudeo-cristiana). In sintesi, è l’idea di natura propria dell’homo europeo, a definirne in larga misura l’identità storica e il rapporto con il resto del
mondo, ed è l’ambiente naturale ad aver plasmato quella idea: collocata a cavallo del 45o parallelo, in un clima generalmente temperato,
in cui la ricchezza della vita vegetale e animale non è paragonabile a
quella dei climi tropicali ed equatoriali, l’Europa offriva ai suoi abitanti una natura che richiedeva duro lavoro. Tuttavia, osservano gli
autori, si trattava di «una lotta dura, certo, ma non disperata: un finale vittorioso, pronosticabile fin dall’inizio e conquistato progressivamente, rafforzava definitivamente il sentimento di dominio sulla natura, la predominanza della forza grazie alla mediazione tecnica, la serena convinzione che una simile azione fosse esemplare e che dovesse
esercitarsi su tutto il pianeta e, perché no, anche altrove, nel sistema
solare e nelle galassie» 24.
Una visione di questo tipo ha certo il fascino delle spiegazioni
semplici, ma va pure considerato il fatto che l’Europa non è l’unico
continente a trovarsi nella fascia dei climi temperati: essa va quindi
integrata con le altre spiegazioni, ad esempio la contaminazione biologica a cui le specie europee (uomini, piante e animali, virus e geni)
furono sottoposte a partire dalla fine dell’ultima glaciazione (Crosby),
producendo un bioma estremamente complesso e più “forte” rispetto
ad altri; oppure il carattere peninsulare del continente, che incoraggiava la navigazione, quindi l’esplorazione di altre terre, il commercio, la contaminazione culturale (Jones). Il libro, inoltre, non dà alcun
peso al rapporto tra l’Europa e il resto del mondo a partire dall’era
delle scoperte geografiche, escludendo così un capitolo importante
per leggere l’evoluzione degli ecosistemi europei, e quella degli altri
continenti. L’Europa è stata forse il continente meno isolato del mondo, e questa caratteristica dev’essere considerata la base per una riflessione sulla sua storia e anche sulla sua identità, biologica, fisica e
culturale insieme.
Le scale temporali per questo tipo di analisi possono essere varie:
spesso si sceglie per tempi lunghissimi, ma non necessariamente: quasi tutti gli autori individuano in tempi più o meno recenti (dalla rivo-
24. Cfr. Storia dell’ambiente europeo, Dedalo, Bari 2002, p. 47.
99
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
luzione industriale in poi), un netto cambiamento di scala nella capacità umana di trasformare l’ambiente. Delort e Walter chiamano questo fenomeno «l’antropizzazione del contesto ambientale». Questo è
anche l’approccio di un libro di sintesi come quello di John McNeill,
intitolato Qualcosa di nuovo sotto il sole. Storia dell’ambiente nel XX
secolo 25, che fornisce un chiaro esempio di ciò, spiegando come sia
possibile, e proficuo, fare una storia ambientale dell’età contemporanea, spiegare i fenomeni e le trasformazioni che ci riguardano più da
vicino, senza dover necessariamente ricorrere ai 13.000 anni di Diamond o alla deriva dei continenti.
C’è una cesura importante, che separa il XX secolo dalla lunga
storia che l’ha preceduto, e che si può riassumere, secondo l’autore,
in una serie di innovazioni nel rapporto dell’umanità con il suo ambiente naturale. Energia a buon mercato, acqua abbondante ed economica, clima stabile: queste sono state le caratteristiche inedite dell’età contemporanea. Ultima, ma non meno importante, la caratteristica degli uomini di questo secolo è stata il considerare queste condizioni particolari come perpetue, non soggette a variazioni importanti
nel tempo, il che è in sostanza un vero e proprio azzardo culturale.
Nel XX secolo l’uomo ha cominciato a giocare a dadi con il pianeta senza conoscere bene tutte le regole del gioco. Alla lunga, sostiene
l’autore, questo sarà ciò che segnerà di più il XX secolo, più delle
guerre mondiali, dell’alfabetizzazione di massa, della democrazia, del
comunismo ecc. La peculiarità del XX secolo, per McNeill ma anche
per molti altri storici ambientali 26 è una questione essenzialmente di
scala e di intensità: le differenze quantitative diventano qualitative,
trasformando ad esempio fenomeni locali in fenomeni globali, come
l’inquinamento delle città. In altri termini, si manifestano effetti non
lineari dei mutamenti ecologici: quando si supera una certa soglia si
verifica una svolta in seguito ad un aumento puramente quantitativo.
Il fulcro del ragionamento per l’età contemporanea non può che
ruotare intorno ai cambiamenti tecnici, primo fra tutto quello energetico. Prima della rivoluzione industriale la maggior parte dell’energia
utilizzata dall’uomo era di origine endosomatica, cioè proveniva dall’alimentazione e dalla forza muscolare umana e animale. Dopo la
macchina a vapore, il rapporto si è invertito decisamente a favore
dell’energia esosomatica, e a partire dalla fine del 1800 i combustibili
25. Einaudi, Torino 2002.
26. In Italia, ad esempio, si veda P. Bevilacqua, Il secolo planetario. Tempi e
scansioni per una storia dell’ambiente, in “Parolechiave”, 1996, 12.
100
3.
ECONOMIA
fossili presero il sopravvento sulla biomassa. Le conseguenze più importanti furono due: l’inquinamento e le disuguaglianze economiche.
McNeill propone di classificare le più importanti innovazioni tecniche e ambientali dell’età contemporanea in tre grappoli di innovazioni (combinazioni simultanee di innovazioni in ambito tecnologico,
organizzativo e sociale):
1. prima fase dell’industrializzazione: i grappoli sono connessi agli
opifici tessili e all’energia idraulica;
2. seconda metà del 1800, con i grappoli connessi a carbone, ferro,
acciaio, ferrovie (il grappolo delle città a carbone);
3. dagli anni venti e trenta in poi, con uno slancio dopo la seconda
guerra mondiale, il grappolo è connesso a: catena di montaggio, petrolio, elettricità, automobile, chimica, plastica e fertilizzanti (il grappolo delle città a motore).
Il libro affronta e descrive quindi, basandosi sull’ormai ricca letteratura esistente, i cambiamenti relativi a ciascuno di questi grappoli
tecnologici, concludendo che il XX secolo sia stato fuori dall’ordinario
in fatto di cambiamenti ambientali e di azione dell’uomo in questo
senso. Questa peculiarità ecologica è una conseguenza non calcolata
di scelte e di modelli di carattere sociale, politico, economico, culturale.
McNeill sembra esprimere un’idea esplicitamente moderata, che
suggerisce come, in fondo, la lettura ambientale dei fenomeni è soltanto una delle tante possibili, e la sua soluzione è una questione di
volontà politica. Si può condividere o meno una tale impostazione,
che ha senz’altro il merito di apparire ben poco “catastrofista”, o dettata da motivazioni di tipo ideologico. Va notato, tuttavia, come in
questa ricostruzione vi sia un assente importante, e questo sia il capitalismo: al contrario, ci sembra che un libro sul XX secolo, che voglia
spiegare le grandi trasformazioni ambientali del presente, non può
non prendere in considerazione il più potente fattore di queste trasformazioni, che lo consideri o meno un “demone”.
3.2
Non solo capitalismo. Mercato, natura e storia
Commercializzazione senza capitalismo: questa sintetica definizione
spiega, secondo alcuni autori, la storia ambientale, oltre che economica e sociale, di ampie aree del mondo, interessate o meno che fossero
dalla conquista europea. La tradizione di studi marxisti sul commercio internazionale, nella versione classica della teoria della dipendenza, comincia a venire integrata da analisi sulle trasformazioni ecologi101
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
che in diverse aree, che spesso rivelano l’esistenza di fattori di stress e
cambiamento diversi dal sistema capitalistico.
Con un libro sulla Cina del Sud dalla prima età moderna alla fine
dell’impero Quing (1911) 27, Robert Marks dimostrava, ad esempio,
come un’ampia deforestazione e la perdita di biodiversità fossero fenomeni sperimentati dalla parte meridionale del paese, indipendentemente dall’incontro dell’economia cinese con gli europei, secondo
traiettorie proprie, legate al sistema ecologico-economico della tarda
età imperiale. Tigri, riso, seta e limo (questo il titolo dell’opera) sono
i quattro filoni di indagine sui quali si innesta una storia economica e
ambientale della macro-regione chiamata Lingnan, un’area di estensione simile a quella della Francia attuale, con una forte identità geografica, essendo separata dal Nord del paese da un’estesa catena
montuosa (il nome stesso Lingnan significa “a sud delle montagne”),
e delimitata dal Mar Cinese Meridionale.
La Cina, esordisce l’autore, ha assunto talvolta la fisionomia di
un mondo “altro”, che per lungo tempo appare non soggetto alla
principale forza di trasformazione ambientale che opera in Europa e
nelle sue colonie, il capitalismo. In questa immagine, secondo l’autore, sono contenuti alcuni stereotipi, o almeno alcuni assunti impliciti
che andrebbero messi alla prova dei fatti. Primo fra tutti, l’idea di
un’agricoltura cinese come esempio di sostenibilità: la storia ricostruita da Marks, al contrario, mostra come a partire dal XVIII secolo
il Lingnan sperimenti un incremento di popolazione continuo assai
simile a quello verificatosi in Europa, ossia non interrotto più da crisi di sussistenza, e si chiede come questo incremento sostanziale abbia potuto sostenersi data la quantità limitata di terra disponibile. La
risposta a questa domanda appare assai simile a quella che uno storico ambientale dell’Occidente avrebbe potuto dare: la crescita della
popolazione in Lingnan avviene a scapito delle foreste, e l’espansione
dell’insediamento umano va di pari passo con lo sterminio di altre
forme di vita (tra le quali la tigre), ossia con una sostanziale perdita
di biodiversità.
Come questo accade forma la materia di una densa e articolata
ricostruzione, ma ciò che conta in primo luogo è il fatto che la Cina
del Sud non costituisce un’eccezione rispetto al modello dominante:
fin dall’inizio del proprio insediamento nell’area, il ceppo cinese Han
pratica un’intensa manipolazione dell’ambiente fisico a scopi agricoli,
e instaura una complessa rete di istituzioni (città, mercati, granai) allo
27. Cfr. R. Marks, Tigers, Rice, Silk and Silt. Environment and Economy in Late
Imperial South China, Cambridge University Press, Cambridge 1996.
102
3.
ECONOMIA
scopo di gestire la produzione di cibo; ma è soprattutto dalla prima
metà del Settecento che la spinta demografica e quella del mercato
(in particolare il commercio d’oltremare) conducono ad una crescente
specializzazione delle colture, alla scomparsa di larghe fasce di foresta
e all’insostenibilità del sistema economico nel suo complesso, sempre
più dipendente da sostanziali input di energia dall’esterno.
L’interesse principale del libro di Marks sta nell’essere un esempio riuscito di integrazione tra l’approccio economico e quello ambientale, frutto di una serie di incontri che l’autore definisce casuali:
ad esempio, la documentazione su “pioggia e grano”, che si ritrova
all’interno delle serie sui prezzi del riso nel XVIII secolo, che porterà
l’autore a interrogarsi sul ruolo che ebbe la “piccola età glaciale”
(dall’alto Medioevo fino ai primi decenni dell’Ottocento) nell’andamento dell’agricoltura. Oppure le numerose cronache di scontri tra il
ceppo Han e le popolazioni originarie del Lingnan, che lo inducono
a confrontarsi con i classici della storiografia ambientale USA sull’incontro/scontro tra coloni e indiani 28.
Ma l’incontro casuale più significativo è senza dubbio quello con
la tigre: dai rapporti sugli attacchi dell’animale ai villaggi emergeva
l’esistenza di un conflitto tra due forme di vita all’interno di uno stesso ecosistema, e questo fatto offriva una prospettiva nuova su tutta la
storia. Cosa significavano quegli attacchi? Come mai essi erano concentrati in un certo lasso di tempo, piuttosto che verificarsi in tutto
l’arco cronologico? Queste domande portarono l’autore, come egli
stesso dichiara, nel vivo della storia ambientale.
Entrambi ai vertici della catena alimentare, uomini e tigri avevano
ampiamente convissuto nell’ambiente subtropicale del Lingnan fino a
quando questo era rimasto più o meno in uno stato semi o sub-naturale, mantenendo una larga copertura forestale. L’ambiente naturale
della tigre è la foresta, anzi una grande quantità di foresta (tra i 20 e
i 100 kmq per sostentare un solo maschio adulto), nella quale essa
trova le sue prede “naturali”: nel caso del Lingnan le principali erano
i cervi. Al di fuori della foresta, la tigre non è semplicemente in grado di vivere.
Accade però che ad un certo punto della storia del Lingnan, grosso modo nella prima metà del Settecento, il rapporto tra popolazione
e terra è diventato troppo basso per il fabbisogno alimentare (e commerciale), e vaste aree (circa 25.000 kmq) vengono diboscate per ve28. Cfr. W. Cronon, La terra trasformata. Indiani e coloni nell’ecosistema americano, Ed. dell’Arco, Milano 1992, C. Merchant, Ecological Revolution. Nature, Gender
and Science in New England, University of North Carolina Press, Chapel Hill 1989.
103
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
nire messe a coltura. È in questa fase che gli attacchi delle tigri diventano un fatto frequente e pericoloso. Quando, ai primi dell’Ottocento, della copertura forestale del Lingnan rimane ben poco, la tigre
ha subito quello che gli ecologi chiamano un processo di estinzione
mediante eliminazione fisica dell’ambiente naturale (attualmente la regione ne conta pochi esemplari posti sotto la protezione dell’UNESCO).
Quella raccontata da Marks non è, quindi, soltanto la storia “ambientale” delle istituzioni economiche della Cina meridionale, ma anche qualcosa che potremmo chiamare la scoperta della complessità:
un percorso intellettuale che conduce uno storico dell’economia interessato inizialmente ai trend agricoli a scoprire come questi siano collegati alla scomparsa della tigre, e come entrambi i fenomeni siano
collegati alle variazioni climatiche, al mercato della seta, dell’oppio e
del cotone, alle politiche economiche della dinastia Quing e ad altre
cose ancora, in una catena di relazioni che non sono causali e unidirezionali, ma ramificate e complesse.
La storia ecologica del Lingnan è, fondamentalmente, una storia
del successo ottenuto dalla specie umana su altre specie per la sopravvivenza in un dato ambiente. Il libro si conclude, in effetti, con il
richiamo all’estinzione della tigre e la scomparsa di altre forme di vita
(l’elefante nero, una varietà locale di bufalo, la civetta, e un gran numero di erbe e piante locali) dall’ambiente naturale del Lingnan, ma,
questo è il punto forse più inquietante, lascia il lettore con la sensazione che il dramma del sostentamento di milioni di persone e la difesa dalle variazioni climatiche siano stati problemi ben più importanti, almeno per la specie umana, e che la loro soluzione, benché parziale, abbia valso la perdita di qualche varietà di piante ed animali.
Come l’autore stesso ricorda, riferendosi alle strategie di incendio
boschivo praticate dai cinesi, la tigre in fondo è pericolosa, e soprattutto è in competizione con l’uomo per la sopravvivenza. Forse, la
storia avrebbe potuto essere più convincente se l’autore avesse approfondito l’aspetto economico del danno ambientale prodotto in secoli
di trasformazioni dell’ecosistema, come la dipendenza da fonti energetiche esterne, o quello sociale, come la trasformazione dei rapporti
di classe nelle campagne, sul quale invece il libro non dice nulla. Al
contrario, tutto un filone importante della storia ambientale ha mostrato, come abbiamo visto, la forte connessione esistente tra modi di
uso della natura e rapporti sociali, tra forme del dominio dell’uomo
sulla natura e dell’uomo sull’altro uomo (e sulla donna).
Ancora sulla revisione dell’analisi marxiana della storia mondiale,
un contributo strettamente legato a quello di Marks viene dall’altra
104
3.
ECONOMIA
parte del Pacifico, con gli studi sull’America Latina di Elinor Melville, autrice di uno dei primi lavori sulle conseguenze ambientali della
conquista del Messico 29. Riferendosi esplicitamente a Marks, l’autrice
sostiene che non tanto la categoria di “sistema capitalistico”, quanto
quella più generale di “mercato” dovrebbe venire usata dagli storici
ambientali per capire le trasformazioni ecologiche negli ultimi 500
anni.
Come già Braudel aveva sottolineato 30, le due cose non sono
equivalenti, poiché sono esistite storicamente diverse forme di economia di mercato: sebbene sia l’America Latina che la Cina meridionale
conoscessero una crescente commercializzazione durante l’età moderna, essa non fu accompagnata dalla divisione internazionale del lavoro che caratterizzò il periodo successivo. In termini ecologici, spiega
Melville, ciò significa che specie indigene, sia umane che vegetali (e i
loro ibridi), continuarono a prevalere nell’ambiente dell’America spagnola, fino a quando, nel XIX secolo, la “frontiera” della colonizzazione si spostò dai centri originari del dominio iberico (Messico e Perù)
alle periferie delle regioni atlantiche scarsamente popolate.
La percezione del rapporto con la natura nella storia della conquista e colonizzazione tende a venire divisa in due filoni: uno di essi,
ispirandosi a Carolyn Merchant e al suo concetto di “rivoluzione ecologica”, sottolinea la violenza dell’impatto e il crollo demografico degli antichi imperi; l’altro, rifacendosi invece a Braudel, descrive le relazioni ambientali in termini di cicli di riproduzione, partendo dalla
constatazione che l’era coloniale fu un periodo di stagnazione, e di
continui riaggiustamenti tra popolazione e risorse, più che di cambiamento drammatico. Questo appartiene piuttosto all’era dell’indipendenza, quando l’ambiente dell’America Latina fu sottoposto ad enormi stress, primo fra tutti l’esplosione demografica, e, soprattutto, l’integrazione delle sue economie nel sistema internazionale di divisione
del lavoro.
Se ad accomunare la prospettiva di Marks e quella di Melville è la
scelta di collocare il commercio internazionale all’interno di un più
ampio trend storico ed ecologico, un’ottica simile sembra appartenere
anche alla storia ambientale dell’Africa, che comincia ad innestarsi su
una lunga tradizione di studi, da sempre attenta al ruolo del contesto
ambientale nella storia del continente. Con Green Land, Brown Land,
29. Si tratta di A Plague of Sheep: Environmental Consequences of the Conquest
of Mexico, Cambridge UP, Cambridge 1994. Ne riparleremo nel capitolo Risorse.
30. Cfr. Capitalismo e civiltà materiale, Einaudi, Torino 1977.
105
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
Black Land 31, James McCann tentava l’ardua strada di sintetizzare in
grandi linee la storia ambientale dell’Africa tra Otto e Novecento. Il
volume prendeva in considerazione anche alcune caratteristiche di
lunghissimo periodo, come i cambiamenti climatici e della copertura
vegetale o i mutamenti genetici riguardanti specie animali, vegetali e
virus, o ancora l’azione di un elemento insieme naturale e antropogenico come il fuoco, cercando di far interagire la storia dei diversi
paesaggi africani con quella dei suoi popoli. A dispetto dello stereotipo culturale che vuole gli africani alle prese con una natura troppo
forte per essere addomesticata, il paesaggio africano attuale è quasi
totalmente antropogenico. Probabilmente l’unico fattore naturale sul
quale gli umani non hanno potuto esercitare alcun influsso è il clima,
che con le sue variazioni sembra aver dettato le condizioni per l’esistenza delle specie umana e di quelle non umane, lasciando a queste
però ampi margini di interazione e adattamento reciproco.
La storia del clima aiuta a ricostruire la storia di alcuni dei principali regni dell’Africa occidentale (Ghana, Mali), meridionale (Zimbabwe) e orientale (Etiopia). Uno strumento concettuale di base è la
suddivisione del territorio non tanto per linee geo-politiche, quanto
per fasce pluviometriche: le principali risultano, per l’Africa occidentale, la fascia con precipitazioni annue tra 100 e 400 millimetri (il
Sahel, il regno di Songhay), quella tra 400 e 1.500 (la savana, con il
regno del Ghana), e quella tra 1.000 e 1.500 (un misto di savana e
bosco, con il regno del Mali), al di sotto della quale c’è la foresta
pluviale.
L’isoieta dei 1.000 millimetri di precipitazioni annue è particolarmente importante per i suoi effetti sull’insediamento, poiché essa delimita l’habitat della mosca tse-tse, formando una barriera al di sotto
della quale i potenziali invasori (uomini e animali) non si spingono.
La rilevanza storica, e non puramente geografica, di queste fasce climatiche, è nel loro movimento plurisecolare. Sebbene siamo abituati
a pensare l’ambiente naturale come qualcosa di immobile, esso non lo
è realmente: nei periodi di minore aridità, la frontiera delle terre coltivate si muoveva verso Nord, invadendo fasce dell’attuale Sahel, e
spingendo le sue popolazioni a controllare i territori a Nord mediante
le rotte commerciali trans-sahariane. Al tempo stesso, il dominio della
malaria si estendeva verso Nord, fornendo uno schermo protettivo
alle popolazioni del Sud dalle incursioni dei guerrieri a cavallo e dei
commercianti di schiavi.
31. Ohio University Press, Athens 2003.
106
3.
ECONOMIA
Un secondo livello di fenomeni che hanno influito sulla natura del
continente dall’esterno è il commercio internazionale. Anche in questo
caso, tuttavia, il determinismo è fuori luogo: secoli di storia e le vicende di diversi regni africani mostrano, afferma con forza MaCann,
come le popolazioni, così come quelle degli ex imperi latinoamericani,
seppero interagire con questo fattore, acquisendo una certa capacità
di controllo su di esso, promuovendone alcuni aspetti a proprio vantaggio, utilizzandolo come strumento di controllo sulla natura, inserendolo, insomma, all’interno delle proprie strategie di sopravvivenza
e sviluppo.
L’interazione tra i fattori ambientali e il commercio internazionale
è assai esplicativa nel caso del Ghana. Situato nella foresta guineana
settentrionale, questo Stato fornisce un esempio assai interessante della capacità delle popolazioni locali di sfruttare l’ambiente per stabilire
un’economia diversificata e una società complessa, con un lungo
trend di crescita demografica durato fino alla metà dell’Ottocento. La
chiave di volta di questo successo sta nel cuore stesso della foresta,
non tanto in qualità di fornitrice di proteine (pesce, selvaggina, frutti
selvatici), quanto nella sua riconversione a suolo agricolo per mezzo
di un complesso sistema di debbio e di selezione delle essenze arboree meglio adatte alla fornitura di cibo.
Questo sistema, a partire dal XVI secolo, fu integrato dall’inserimento nel commercio internazionale di oro e schiavi, che fece confluire verso il Ghana, mediante le navi dei portoghesi, forza lavoro
coatta, necessaria ad un’agricoltura ad alta intensità di lavoro come
quella della foresta, e nuovi semi provenienti dall’America meridionale che trovarono un ambiente largamente favorevole. Mais, manioca,
cocco e fagioli, portati dalle navi portoghesi, aggiunsero alla dieta
ghanese quella dotazione di carboidrati che deficitava nell’ambiente
della foresta, sia pure largamente coltivata. L’introduzione di questi
elementi nutritivi, ma soprattutto del mais, nella rotazione agricola,
ebbe effetti esplosivi sulla crescita della popolazione, e soprattutto
contribuì a mantenere il sistema sostenibile mediante la preservazione
di biodiversità.
Tra il 1700 e il 1823 fioriva nella regione l’impero di Asante, al
centro di un elaborato network di province, Stati tributari e clienti
europei; la capitale Kumasi (20.000 abitanti nel 1823, 500.000 ai primi del 1900) era circondata da terre coltivate, orti e boschi sacri, riserve di materiale genetico per l’agricoltura e la medicina.
Ma il commercio internazionale, che segnò la chiave di volta per
il successo del sistema mediante l’introduzione del mais, fu anche un
fattore importante nel suo declino. Alla metà dell’Ottocento facevano
107
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
la loro comparsa nella regione altri tipi di coltivazioni esogene, dall’alto potenziale commerciale: il cacao prima, la palma da cocco poi,
usata soprattutto per ricavarne olio per la domanda delle industrie
europee. Questo primo cambiamento non fu rivoluzionario nei suoi
effetti, poiché la popolazione riuscì a gestire l’introduzione dei nuovi
venuti nel contesto del sistema di agricoltura forestale già praticato
da secoli. Esso tuttavia introdusse anche un’importante novità, ossia
la piantagione in regime di monocoltura, con conseguente declino
della biodiversità.
Alla metà del XX secolo una malattia del cacao distruggeva gran
parte delle piantagioni, inducendo la popolazione a reintrodurre la
coltivazione del mais, a tornare, cioè, ad una coltivazione non solo
commerciale, utilizzabile anche per il sostentamento. Ma questo ulteriore cambiamento era difficilmente sotto il controllo locale: i nuovi
campi di mais furono di fatto consentiti dalle politiche di sviluppo
della Banca mondiale, che finanziò la riconversione fornendo i semi
modificati della rivoluzione verde, nonché i fertilizzanti e i diserbanti
indispensabili per il loro uso. Da quel momento, collocato negli anni
1990, il sistema alimentare del Ghana è divenuto interamente dipendente dal mercato lo suo stesso approvvigionamento di semi e per gli
input indispensabili alle rese agricole.
3.3
Prometeo da rivisitare: per una storia ecologica
della rivoluzione industriale
«Sono passati più di cento anni da quando Arnold Toynbee tenne
per la prima volta le sue famose lezioni sulla rivoluzione industriale –
scriveva nel 1986 Ted Steinberg, all’epoca brillante promessa della
storia ambientale statunitense. Da allora, gli storici hanno lavorato
duro per studiare le dinamiche del cambiamento industriale» 32. Essi
hanno mostrato il ruolo della tecnologia e dell’innovazione, le conseguenze sociali e culturali, ci hanno dato un quadro abbastanza accurato dell’eccezionale ondata di crescita della produzione industriale.
Si ha la sensazione, continuava l’articolo, che non ci sia molto ancora
da scoprire sull’argomento, per lo meno non molto di significativo.
In realtà, la ricerca sulla rivoluzione industriale non si è fermata.
In questo senso, Steinberg si sbagliava. Il lavoro degli storici ha pro32. Cfr. An Ecological Perspective on the Origins of Industrialization, in “Environmental Review”, 1986, 4. Si veda anche S. Barca, Il capitale naturale. Acque e rivoluzione industriale in valle del Liri, in “Memoria e ricerca”, 2004, 15.
108
3.
ECONOMIA
ceduto non soltanto all’acquisizione di dati macro e micro (rielaborazioni del prodotto nazionale lordo o ricostruzione di casi locali), ma
anche alla rielaborazione di dati già acquisiti, e formulazione di nuove categorie interpretative. E tuttavia, su un aspetto Steinberg aveva
visto giusto, e le sue osservazioni sono in parte valide tuttora, specie
per la storiografia italiana: «Nonostante questa grande attenzione
scientifica, c’è una dimensione sfuggita all’osservazione. La trasformazione dell’ambiente, forse la manifestazione più visibile del cambiamento industriale, non ha costituito un punto focale per la ricerca
storica. La rivoluzione industriale ha ri-plasmato il paesaggio terrestre, alterando le fondamenta di una società basata sull’agricoltura e
ponendola sulla strada dello sviluppo economico moderno. La relazione del genere umano con il mondo naturale ne è stata profondamente sconvolta. [...] La rivoluzione industriale è stata parte di una
gigantesca ristrutturazione ecologica, un nuovo e significativo capitolo
nella storia dell’ambiente terrestre» 33. Qualcosa di nuovo e di significativo c’era ancora da scoprire, dunque, qualcosa che riguardava la
relazione della sfera economica con quella naturale, ossia con il mondo materiale e con i flussi di energia che sostengono ogni forma di
produzione.
Da allora la storia ambientale ha fatto grandi passi avanti, ma
anch’essa, in realtà, ha lasciato un vuoto significativo in questo campo. Se si esclude il contributo importante dato proprio da Steinberg
con un bel libro sulla rivoluzione industriale nel New England, intitolato Nature Incorporated. Industrialization and the Waters of New
England 34, che resta, a distanza di dodici anni, un insuperato punto
di riferimento per quanti vogliano guardare all’aspetto ecologico dell’industrializzazione, ben pochi sono i tentativi fatti in questo senso.
Di certo, gli storici ambientali hanno guardato al fenomeno sotto
molti aspetti, riservandogli un posto di primo piano nelle trasformazioni ecologiche dell’età contemporanea.
Diversi studi sono stati dedicati all’inquinamento industriale, ad
esempio, o alle trasformazioni del paesaggio, all’uso delle materie prime e delle fonti di energia, o ancora al mutamento delle condizioni
di salute dei lavoratori, alla nascita della società dei consumi, tutti fenomeni legati alla produzione di merci nel sistema industriale. Manca
ancora una visione ecologica d’insieme della rivoluzione industriale,
che consideri le merci come nient’altro che natura trasformata, e l’im-
33. Cfr. An Ecological Perspective, cit. (trad. degli autori).
34. Cambridge University Press, Cambridge 1991.
109
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
presa come il soggetto che organizza e opera questa trasformazione in
un contesto ambientale definito.
In compenso, la storiografia economica si è rivelata piuttosto restia ad acquisire i risultati di queste diverse interpretazioni, in ogni
caso ad interagire con esse. I due approcci hanno proceduto, in altri
termini, separati e in qualche caso in aperta ostilità, come del resto è
suggerito dall’attuale compartimentazione dei saperi e delle discipline
accademiche.
Le domande a cui gli storici possono cercare di rispondere, riguardo alla rivoluzione industriale, variano certamente con il variare
dei punti di vista. Se consideriamo che la rivoluzione industriale fu,
in generale, una profonda, e irreversibile, trasformazione del metabolismo tra società e natura, tra popolazione e risorse, tra produzione di
merci e riproduzione naturale, allora la domanda rilevante diventa:
cosa significò dal punto di vista ecologico, complessivo, l’industrializzazione? Posto che la produzione di merci è un processo in cui
parti di natura, tra cui le risorse energetiche, vengono trasformate da
uno stato fisico ad un altro, come si è storicamente realizzata questa
trasformazione? Che cosa l’ha alimentata materialmente? Come si
sono trasformate, nel corso di questo processo, la sfera naturale e
quella sociale?
Uno dei temi su cui la storiografia ambientale si è interrogata
maggiormente, in rapporto all’industrializzazione, è senz’altro quello
dell’energia. Si tratta di un tema noto e discusso da tempo anche all’interno della storia economica, generalmente connesso con la storia
delle tecniche, anche in prospettive di lunghissima durata. Fin dai
primi anni ottanta, un filone di studi tedeschi su tecnologia e fonti
energetiche nella rivoluzione industriale, si arricchiva di contributi
che tenevano esplicitamente conto della questione ambientale.
In particolare, Rolf Peter Sieferle pubblicava nel 1982 un libro intitolato The Subterranean Forest. Energy Systems and the Industrial
Revolution 35, in cui si poneva esplicitamente l’accento sul grande
cambiamento che l’uso dei combustibili fossili aveva significato per la
società europea moderna, ossia un superamento dei limiti delle risorse solari (il legno) ma anche una dipendenza da fonti di energia non
rinnovabili, con il rischio di un collasso dell’intero sistema. L’anno
successivo Joachim Radkau, autore di diversi saggi su questi temi e di
un volume sulla storia della tecnica in Germania, proponeva la tesi
35. Cfr. Der unteridische Wald. Energiekrise und Industrielle Revolution (trad. inglese The Subterranean Forest. Energy Systems and the Industrial Revolution, Cambridge 2001).
110
3.
ECONOMIA
che la “scoperta” del carbon fossile avesse interrotto un processo sociale attraverso il quale le economie europee cercavano le forme di
una più efficiente utilizzazione delle fonti rinnovabili (legno, acqua,
animali ecc.). In altre parole, la possibilità di attingere alle riserve fossili avrebbe sostituito una cultura del risparmio energetico con una
all’insegno dello spreco 36.
Il tentativo forse più completo, a tutt’oggi, di fare una storia dell’energia insieme a quella dell’evoluzione sociale ed economica, è
quello dei francesi J. C. Debeir, J. P. Déleage e D. Hémery, autori di
una Storia dell’energia. Dal fuoco al nucleare 37, edita in Italia nel
1987. Con un approccio ecologico in senso scientifico, il libro dichiara fin dalle prime pagine l’intento di affrontare la questione energia
in chiave sistemica: lungi dal voler riservare all’energia il ruolo di fattore chiave della storia, gli autori spiegano come l’insieme delle attività umane possa essere compreso solo dall’interazione delle tre sfere,
«quella della produzione, quella della formazione sociale e quella della biosfera» 38. Insomma, economia, società e natura come parti di un
“sistema”. Per compiere questo tipo di analisi, gli autori definiscono
il sistema energetico come insieme di caratteristiche tecniche (fonti,
convertitori e rendimenti) e «strutture sociali di appropriazione e di
gestione di questi convertitori» 39: in altre parole, il sistema energetico non è una componente “neutra” della storia, qualcosa di puramente tecnico, indipendente dalle strutture sociali; al contrario, esso
nasce e si forma all’interno di un sistema sociale, ne rispecchia il
modo di produzione e contribuisce alla sua evoluzione in modo dialettico.
All’interno di un sistema energetico assume quindi grande importanza la rendita energetica, ossia le forme di appropriazione dei surplus generati dalla tecnologia e dal lavoro. Viene così recuperato uno
dei concetti cardine dell’economia politica classica, oscurato dal ruolo
che il profitto, associato con l’attività imprenditoriale, ha rivestito nelle analisi degli economisti successivamente. La rendita si riferisce più
direttamente al godimento di un beneficio derivante dall’appropriazione di una risorsa naturale. Pur non essendo la storia un prodotto
diretto delle forme di energia disponibili di volta in volta alle diverse
società (gli autori rifiutano nettamente un tale tipo di determinismo
36. Sul dibattito tra questi due autori si veda S. Neri Serneri, Storia, ambiente e
società industriale. Rassegna di studi tedeschi, in “Società e Storia”, 1990, 50.
37. Edizioni del Sole 24 Ore, Milano.
38. Cfr. Storia dell’energia, cit., p. 23.
39. Ivi, p. 27.
111
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
energetico), «l’energia tuttavia è presente lungo tutta la catena delle
cause e degli effetti da cui procede il divenire dei gruppi umani».
È possibile quindi leggere, dentro la storia complessiva delle società, quella della lotta per l’appropriazione delle rendite energetiche,
come forma di controllo su un aspetto chiave del sistema sociale. Il
quinto capitolo di questa storia dell’energia, dedicato alla rivoluzione
industriale, fornisce un esempio chiave di quanto detto: la rivoluzione, infatti, è insieme un fatto tecnico (il passaggio al sistema di fabbrica e alle macchine mosse da fonti di energia inanimate), e sociale
(il passaggio della rendita energetica dai proprietari fondiari ai capitalisti, cioè coloro che detengono il capitale fisso e il denaro necessario
alle innovazioni).
Su un piano diverso, attinente al dialogo della storia economica
con quella delle questioni ecologiche, si colloca un testo divenuto ormai classico sulla rivoluzione industriale, considerata dal punto di vista energetico, quello dell’inglese E. Wrigley 40. Entrando nel vivo
della secolare diatriba che impegna gli storici economici nella ricerca
delle cause della rivoluzione industriale, l’autore afferma che esse
vanno cercate innanzitutto nella disponibilità delle fonti energetiche
di origine fossile, e nello sviluppo di una tecnologia appropriata al
loro impiego.
La sostanza del cambiamento che ne derivò, per l’intera economia
occidentale, sta nel passaggio dall’energia solare a quella fossile, del
quale l’autore enfatizza gli aspetti positivi, essenzialmente la “liberazione” dai cicli di rinnovamento delle fonti solari, e dall’eterna competizione per l’uso della terra, che non riveste più il ruolo di risorsa
chiave nelle economie industrializzate. È solo grazie a questi cambiamenti che l’Inghilterra del XVIII secolo poté svincolarsi dalla cosiddetta trappola maltusiana, ed accedere a una disponibilità energetica
sconosciuta ad altre civiltà e ad altre età storiche.
Il libro non si preoccupa di discutere sulle conseguenze indesiderate di questo cambiamento, sui suoi effetti sull’ecosistema a livello
prima locale e poi planetario. Esso ha comunque l’indiscutibile merito di sottolineare una questione centrale della storia economica contemporanea, la sua dipendenza dall’approvvigionamento di combustibili di origine fossile, la cui caratteristica principale non è soltanto
l’essere indipendenti dal ciclo solare e dall’agricoltura, ma anche
quella di non essere rinnovabili in un lasso di tempo utile.
40. La rivoluzione industriale in Inghilterra. Continuità, caso e cambiamento, il
Mulino, Bologna 1992.
112
3.
ECONOMIA
Con approccio simile, ma meglio centrato sugli aspetti ecologici
della rivoluzione industriale, lo storico inglese William Clapp pubblicava nel 1994 una Environmental History of Britain since the Industrial Revolution 41: sebbene il titolo lasciasse pensarlo, non siamo in
presenza di una rilettura della storia nazionale inglese, ma, più semplicemente, di una lettura ecologica della rivoluzione industriale.
Questo significa riconsiderare la crescita industriale in un’ottica maltusiana, in senso lato, ossia utilizzando il concetto di interesse composto per calcolarne non soltanto i benefici, ma anche i rischi. Il fatto
che il reverendo Malthus fosse stato smentito nei suoi calcoli dall’andamento dei fatti non chiude, per Clapp come per molti storici ambientali, il discorso sul problema della crescita: le previsioni di Malthus non furono esatte semplicemente perché egli non poteva prevedere l’avvento dei combustibili fossili, ma questo sposta soltanto in
avanti nel tempo il dilemma dell’esaurimento delle risorse sulle quali
la vita umana si basa.
Il libro è diviso in due parti, che affrontano due aspetti distinti
dell’ecologia industriale: la prima riguarda l’inquinamento, quindi le
ricadute sull’ambiente fisico, e sopratutto sulla salute umana, dei processi di manipolazione industriale; la seconda affronta invece il discorso su materie prime e fonti energetiche in chiave maltusiana. La
sezione sull’inquinamento ha il merito di ricordare un aspetto della
rivoluzione industriale sul quale generalmente non si soffermano i testi di storia economica: eppure quella fu davvero “l’età dei fumi e
degli odori”, se si considera che alla fine dell’Ottocento la città di
Londra perdeva annualmente un sesto della luce solare di cui avrebbe goduto in natura 42.
L’autore ricostruisce un’importante storia di successo, quella del
graduale abbattimento delle soglie di emissione su scala locale: in
questo caso, l’abbassamento della soglia di rischio fu dovuto non tanto alle preoccupazioni per la salute o ad una nascente sensibilità ambientale, quanto piuttosto al progresso tecnico registrato nelle caldaie
e nei processi di trasformazione chimica, ad accorgimenti tecnici
come l’innalzamento dell’altezza delle ciminiere, ma anche alla necessità di risparmiare combustibile e materie prime in tempi di ristrettezza. Tuttavia, all’abbattimento dell’inquinamento su scala locale ha
corrisposto, nel lungo periodo, un suo trasferimento su scala globale,
poiché esso riguarda ormai l’atmosfera terrestre (il cosiddetto effetto
serra). In ogni caso, la chiave per capire come mai la popolazione
41. Longman Group, London-New York 1994.
42. Ivi, p. 14.
113
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
inglese sia potuta crescere quattro volte rispetto ai tempi di Malthus
senza incorrere in una scarsità assoluta di terra o nei rendimenti decrescenti annunciati da Ricardo, sta nel commercio internazionale, in
virtù del quale la popolazione britannica ha potuto utilizzare terra,
quindi risorse alimentari e minerali, altrui.
Nella seconda parte del libro, intitolata L’economia prodiga – e la
sua riforma?, il discorso passa alla questione materia/energia: diversamente da molti testi di storia economica, che enfatizzano la conquista
dell’energia da parte delle società industrializzate mediante l’uso dei
combustibili fossili, Clapp introduce questa parte dell’esposizione
considerando l’energia come «l’unica tra le risorse economiche che,
una volta usata, è persa per sempre». Ecco finalmente un riconoscimento del principio dell’entropia alla base di un ragionamento sulla
rivoluzione industriale. L’osservazione si riferisce infatti, implicitamente, all’energia fossile, non a quella del legno, del vento, o dell’acqua,
che sono rinnovabili ma quantitativamente insufficienti a sostenere un
processo di industrializzazione. In effetti, fin dai primi decenni dell’Ottocento, la società più industrializzata del mondo, e cioè quella
inglese, cominciava a preoccuparsi di quanto sarebbero durate le sue
riserve di carbone: ancora una volta, però, come nel caso di Malthus,
il calcolo delle riserve energetiche si rivelava insoddisfacente.
Nel 1865 l’economista W. S. Jevons, stimando una crescita del
consumo di carbone al 3,5% annuo, prevedeva che le riserve inglesi
si sarebbero esaurite in cent’anni: i suoi calcoli non furono in grado
di dare un’esatta previsione del futuro, perché altri fattori, che nemmeno Jevons poteva prevedere, sarebbero intervenuti a mutare il quadro. Primo fra questi va considerato il progresso tecnico, ossia la capacità di utilizzare le risorse in modo più efficiente, e quella di utilizzare risorse prima sconosciute o sotto-utilizzate: in questo ambito
vanno inseriti quindi l’introduzione, all’interno dell’offerta di energia
per la popolazione inglese, dell’energia idroelettrica, del petrolio, dell’energia nucleare e del metano, che diventano rilevanti a partire dalla
seconda metà del Novecento, prima ancora che i cento anni di riserva carbonifera previsti da Jevons giungessero al termine.
Dunque il progresso tecnico è la risposta ai problemi energetici?
Certamente no, se consideriamo la questione in termini assoluti e non
relativi. Si tratta, ovviamente, di un problema di scala temporale: il
progresso tecnico rende possibile la sostituzione delle fonti energetiche divenute più costose (cioè più scarse), e sposta in avanti la curva
dei rendimenti decrescenti, cioè rinvia il problema dell’esaurimento in
un futuro pressoché impossibile (ora lo si capisce meglio) da prevedere. E tuttavia la relazione tra progresso tecnico e sistema economi114
3.
ECONOMIA
co è perversa, piuttosto che virtuosa: rendendo disponibili più risorse
a prezzo più basso, il progresso tecnico incentiva infatti i consumi, e
la crescita di popolazione e produzione insieme. Fino a quando le
risorse rese disponibili dal progresso tecnico saranno superiori alla
domanda complessiva del sistema economico, il gioco continuerà: agli
economisti in genere, in effetti, non interessa l’analisi dei sistemi nel
lungo periodo, ma quella del mercato all’interno di un arco temporale limitato tutt’al più ad una generazione.
Un approccio diverso è quello offerto dal contributo di due autori italiani, Alberto Caracciolo e Roberta Morelli, con La cattura dell’energia. L’economia europea dalla protostoria al mondo moderno, edito
nel 1996. La storia dell’umanità, e in particolare dei gruppi europei,
viene letta come la storia delle diverse forme in cui la società si appropria dell’energia disponibile sul pianeta, attraverso le innovazioni
tecniche ( = convertitori).
Al centro del mondo non c’è l’uomo, dichiarano in apertura gli
autori, ma il mondo medesimo, con le leggi fisiche e biologiche che
regolano il funzionamento del principio guida, ossia l’energia e la materia di cui esso è composto. «Ecco perché, in ultima analisi, non c’è
storia se non è descritta e considerata anche come storia dell’energia» 43: riconoscere l’esistenza di quel principio guida all’interno della
storia è stata un’acquisizione recente e contrastata all’interno della
storia economica, che si oppone generalmente a un tale tipo di determinismo geo-fisico.
La storia europea come raccontata in questo libro riguarda invece
la successione delle filiere energetiche, dall’agricoltura irrigua, affiancata dalla schiavitù e dalla domesticazione del cavallo, nelle società
antiche, alla rivoluzione del mulino e della ruota idraulica nell’alto
Medioevo 44 (che alcuni autori definiscono la prima vera rivoluzione
industriale), ai lenti ma costanti progressi dell’agricoltura medievale
europea (prosciugamenti, orticoltura e alberi da frutto, allevamento,
aratro pesante trainato da buoi, irrigazione), fino allo sviluppo delle
tecniche di navigazione d’alto bordo che consentono all’Europa di
uscire dai propri confini non soltanto fisici, ma anche energetici e
biologici, per sostenere una crescita demografica ed economica senza
precedenti nella storia dell’umanità. È quella che gli autori chiamano
la “vigilia”, cioè la tecnica europea alle soglie della rivoluzione industriale, che ne forma la premessa, ma anche i limiti da superare: que43. Cfr. La cattura dell’energia. L’economia europea dalla protostoria al mondo
moderno, Carocci, Roma 1996, p. 13.
44. Cfr. P. Malanima, Economia preindustriale, Mondadori, Milano 1995.
115
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
sti limiti sono quelli dell’energia solare, e la rivoluzione industriale
appare, da questo punto di vista, come la più netta cesura della
storia.
Infine, un più recente filone di studi ambientali sulla rivoluzione
industriale si è incentrato sull’aspetto del paesaggio: in un numero
monografico di “Histoire, économie, société” dedicato ad ambiente e
sviluppo economico, due autori francesi analizzano la nascita e l’evoluzione del paesaggio in Gran Bretagna 45 come sotto-prodotto della
rivoluzione industriale: la tendenza alla concentrazione degli opifici e
all’urbanizzazione delle campagne, e l’impatto ambientale dell’uso, e
dell’estrazione, del carbone e di altri minerali sono i temi principali
affrontati dagli autori: temi che trovano un’esemplificazione classica
nella storia delle Midlands occidentali, culla dell’industria siderurgica
moderna, con il suo distretto minerario chiamato, significativamente,
Black Country.
3.4
Nature e nazioni
Dopo decenni di ricerca storiografica, gli storici ambientali ne sanno
forse abbastanza da porsi un obiettivo ambizioso: riscrivere le storie
nazionali. Tradizionalmente centrata sui processi politico-istituzionali
e sociali, questa storiografia generalmente ignora, o sottorappresenta,
il ruolo giocato dalla natura. È già da qualche anno, in realtà, che
monografie nazionali di storia ambientale appaiono in diverse parti
del pianeta: ma cosa vuol dire riscrivere la storia nazionale dal punto
di vista ambientale?
Un esempio assai interessante di questo approccio è una storia
della Danimarca in età moderna, intitolata The Danish Revolution.
An Ecohistorical Interpretation, 1500-1800, edita nel 1994 46. L’autore,
Thorkild Kjærgaard, interpreta l’evoluzione sociale del paese alla luce
della sfida posta, alla fine del XVI secolo, da una profonda crisi ecologica. Dal modo in cui la nazione sarebbe uscita da quella crisi, e dal
tipo di soluzioni adottate, sarebbe scaturito un paese completamente
nuovo, sul piano dell’aspetto fisico, ma anche di quello culturale, sociale e politico. L’insieme di questi cambiamenti, radicati nel rapporto tra popolazione e terra, è quello che Kjærgaard definisce la “rivo45. Cfr. F. Crouzet, Naissance du paysage industriel, e I. Lescent-Giles, La naissance du paysage industriel en Grande-Bretagne: l’exemple des West Midlands, in “Histoire, économie, société”, 1997, 3.
46. Cambridge University Press, Cambridge.
116
3.
ECONOMIA
luzione danese”: il suo fulcro sta infatti in due processi paralleli, che
mutarono l’uso della terra e la quantità di risorse disponibile per la
nazione, in un lasso temporale relativamente ristretto, l’ultimo quarto
del XVIII secolo.
Il primo di questi potrebbe essere definito “bonifica”, nel senso
di rendere buone per l’agricoltura le dune sabbiose del litorale e le
aree paludose, soggette ad inondazione periodica. L’autore preferisce
chiamare questo processo “rivoluzione verde”, poiché esso non riguardò soltanto la messa a coltura di terreni prima improduttivi, ma
una completa ristrutturazione di quegli stessi terreni, mediante l’introduzione di fertilizzanti azotati: la marna, le alghe marine, ma soprattutto il trifoglio. Si potrebbe dire che, nella sua sostanza, la rivoluzione verde in Danimarca fu in realtà la rivoluzione del trifoglio. La
sua introduzione sistematica, infatti, non soltanto rese fertili i terreni
sabbiosi e garantì la sostenibilità nel lungo periodo della messa a coltura di nuove terre, ma soprattutto ebbe ripercussioni in un ampio
spettro di altri settori: il trifoglio entrò a far parte della rotazione
continua, eliminando quindi le aree a maggese e le praterie; il pascolo
brado fu sostituito con la stabulazione, e l’allevamento aumentò di un
terzo tra il 1770 e il 1805; scomparve gradualmente la suddivisione
delle terre comuni in campi aperti, sostituita dall’azienda agricola di
medie dimensioni con impiego di lavoro salariato; furono ridotti, ma
senza scomparire, altri tipi di piante azoto-fissatrici, come fagioli e piselli, a causa della maggiore produttività del trifoglio; soprattutto, la
produzione di grano duplicò, e il paese uscì dalla crisi demografica
dei decenni precedenti.
Il secondo processo di trasformazione, all’interno della rivoluzione danese, è quindi quello che Kjærgaard chiama la “rivoluzione dell’energia e delle materie prime”. Questa fu attuata secondo due percorsi: il primo comportò il fare economia di queste risorse scarse sostituendole, laddove possibile, con altre; il secondo riguardò un nuovo modo di concepire le foreste, come coltivazioni e non più come
vegetazione spontanea, e di gestirle come risorse economiche. Non va
dimenticato, tuttavia, il fatto che questa rivoluzione energetica e di
materie prime non può essere compresa in un contesto limitato al
paese: il ferro che sostituì il legno veniva infatti dalla Svezia, e da
questa passava in Inghilterra, dove a sua volta il carbone fossile aveva
sostituito il legno come combustibile usato per fondere il minerale. Si
trattava dunque di una rivoluzione ecologica di carattere transnazionale, poiché di fatto, attraverso le importazioni di ferro, e quelle di
carbon fossile, la Danimarca attingeva alle riserve energetiche di altri
paesi.
117
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
Le ripercussioni di queste due rivoluzioni, quella dell’agricoltura e
quella di energia e materie prime, furono ben lungi dal restare confinate nelle campagne, mutandone il paesaggio. Esse intaccarono profondamente la struttura sociale e politica, le condizioni di vita e di
lavoro, le malattie e i virus. Prima di tutto il lavoro: il prezzo della
rivoluzione agricola e di quella energetica fu un enorme aumento del
carico di lavoro, nel numero di ore e nel numero di giorni di lavoro
annui.
Ciò si spiega con il fatto che gran parte del lavoro agricolo divenne una questione di strappare il terreno alla sabbia e all’acqua; di
concimarlo attentamente con materiali non sempre disponibili in loco
e facili da maneggiare (ad esempio la marna); di sostituire il riposo
periodico dei campi (il maggese) e la vegetazione spontanea (la foresta di querce) con coltivazioni vere e proprie come il trifoglio, che
andava seminato e raccolto nei tempo giusti, e la faggeta; di accudire
un maggior numero di capi di bestiame; di costruire e mantenere chilometri di recinzioni tra un campo e l’altro, e di canalizzazioni per
evitare il re-impaludamento delle aree costiere. Questo mentre la
scarsità di legno costringeva la popolazione a costruire le case in mattoni e a riscaldarle con stufe in ferro, alimentate con il coke di importazione: il risultato fu un generale raffreddamento delle abitazioni,
e la diffusione della tubercolosi come male endemico, che sostituiva
le precedenti peste, malaria e vaiolo. Solo l’ultimo flagello deve la sua
scomparsa alla scienza medica: gli altri due, sono legati alla rivoluzione verde, che allontanò i ratti dalle abitazioni costruite in mattoni, e
favorì il trasferimento dell’anofele dagli esseri umani al bestiame, disponibile in grande quantità dopo l’introduzione del trifoglio.
Per quanto riguarda infine la struttura sociale e politica, la sorprendente conclusione avanzata dall’autore è che fu la rivoluzione
ecologica a produrre la fine dei commons e il rafforzamento della proprietà privata nelle campagne danesi, e non il contrario. Il drenaggio
delle aree costiere, la bonifica delle dune sabbiose, l’introduzione del
trifoglio furono realizzati, infatti, dallo sforzo cooperativo dei villaggi,
spesso con l’incoraggiamento o la coercizione da parte del signore locale, ma non da individui proprietari di singoli fondi, di estensione
oltretutto limitata.
Nei primi anni novanta veniva pubblicato in Italia un lavoro dello
stesso tipo: con il titolo Tra natura e storia. Ambiente, economie, risorse in Italia, Piero Bevilacqua proponeva una rilettura della storia
del paese negli ultimi duecento anni incentrata sul rapporto tra evoluzione socio-economica e ambiente naturale. Sebbene la storiografia
italiana sia abbastanza ricca di studi di carattere storico-geografico,
118
3.
ECONOMIA
soprattutto nel campo della storia agraria (dalla quale lo stesso Bevilacqua proviene), per la prima volta la costruzione dello Stato nazionale viene interpretata esplicitamente sul piano della co-evoluzione
tra ecosistemi e sistemi produttivi, plasmata dal lavoro.
La chiave interpretativa avanzata dall’autore nelle prime pagine
del libro è infatti il concetto di natura cooperante, che recupera la
forza produttiva della natura sottostante qualsiasi tipo di sistema economico, criticando una visione riduttiva delle risorse come materia
inerte, che solo il lavoro umano può trasformare in ricchezza. Primo
compito dello storico è quindi riconoscere l’esistenza di questo fattore “altro” rispetto all’azione umana, la realtà naturale «non vincolata
ai rapporti sociali vigenti, di valore collettivo e di portata universale» 47. Ma lo storico dell’ambiente deve andare oltre, poiché «il rapporto degli uomini con le risorse non si limita a produrre beni e merci: esso costituisce in realtà il centro dello svolgimento storico e perciò coinvolge l’insieme delle relazioni sociali, le culture delle popolazioni, le regolazioni del diritto, la politica» 48.
La natura offre quindi allo storico un punto di vista complessivo
sulla società, come mostra l’evoluzione di due ecosistemi caratteristici
del paesaggio italiano: quello delle acque, con l’agricoltura irrigua e le
risaie della Valle Padana, le maremme dell’Italia centrale, i torrenti
del Mezzogiorno; e quello degli alberi, e le colture miste che tanta
parte hanno avuto nel plasmare il paesaggio e l’economia italiana,
come il gelso, o l’ulivo maritato alla vite.
Il tema albero viene seguito attraverso due piste fondamentali,
quella ecologica e quella economica, che l’autore fa interagire nella
ricostruzione delle storie e dei paesaggi. Al primo livello, Bevilacqua
descrive il clima, il terreno (condizioni geopedologiche), le caratteristiche genetiche delle piante. Alcuni alberi potevano vegetare praticamente solo in condizioni ambientali presenti nel Sud Italia e/o in altre ristrette aree mediterranee (è il caso dell’olivo e degli agrumi), e
in questo modo si creò una situazione di quasi monopolio: dunque
dal livello ecologico passiamo a quello economico. Al secondo livello,
l’albero rappresenta un elemento del paesaggio che testimonia uno
stato più avanzato di relazioni tra uomo e ambiente.
L’uomo che pianta alberi è un uomo più libero dai bisogni primari, meno schiavo dei tempi stretti dei cicli annuali delle culture (ha
più tempo per aspettare). Innanzitutto, l’albero muta il paesaggio
47. Cfr. P. Bevilacqua, Tra natura e storia. Ambiente, economia, risorse in Italia,
Donzelli, Roma 1996, p. 11.
48. Ibid.
119
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
agrario, ma non solo in superficie: i muri a secco che spezzano il continuum campo-macchia segnano anche l’affermazione di un diverso
modo di possedere e di usare la terra. In secondo luogo, le caratteristiche ecologiche vengono messe a frutto per la produzione di merci
altamente specialistiche, come nel caso dell’olivo e degli agrumi.
L’espansione e la contrazione di specie vegetali sono collegate a
congiunture economico-politiche: le guerre napoleoniche e la contrazione dell’esportazione dell’olio; la politica fiscale del regno di Napoli
e la crisi del gelso; la guerra doganale con la Francia e la fine della
viticoltura. Ma al tempo stesso alcune contrazioni e crisi economiche
sono collegate a eventi ecologici: la crisi dell’olivo agli squilibri ecologici dei parassiti (mosca olearia); la crisi della viticoltura alla diffusione della fillossera; la pebrina alla fine della gelsicoltura a metà del
1800.
Ma non solo gli ecosistemi e la loro interrelazione con l’attività
umana sono in discussione nel libro di Bevilacqua: altrettanto spazio
viene dato infatti ad altri due aspetti del rapporto uomo-ambiente
nella storia d’Italia, relativi al ruolo delle catastrofi (terremoti e dissesto idrogeologico in primis), e a quello delle politiche ambientali, che
nella storia di questo paese hanno riguardato soprattutto le bonifiche
di zone paludose e la lotta alla malaria. Nel campo delle bonifiche, il
punto centrale del discorso riguarda la riflessione sul rapporto tra
bene pubblico e interesse individuale, e il campo di questa indagine è
il Vallo di Diano tra la fine del 1700 e l’unità d’Italia. Nella concezione ottocentesca della bonifica, l’interesse generale veniva individuato
in due finalità, che dovevano essere complementari tra loro: la salute
delle popolazioni, e la messa a coltura di terre improduttive.
Questa definizione di interesse pubblico limitava quindi il pieno
godimento della proprietà individuale sulle terre paludose, assoggettandole a vincoli di miglioramento. Il problema è che la bonifica scatena conflitti. Gli esempi sono tanti: i pastori contro le limitazioni al
pascolo sugli argini; le donne contro le restrizioni all’uso del fiume
per “fare il bucato”; i proprietari rivieraschi contro la regolazione
delle derivazioni irrigue. Si trattava di dover accettare vincoli all’agire
sociale che fino a ieri non erano mai stati imposti. Il paradosso di
questa storia fu che un imprenditore privato, al quale era stata affidata la manutenzione dell’area bonificata, si trovava a rappresentare gli
interessi generali contro una maggioranza che riusciva ad esprimere
solo la somma disordinata di interessi particolari.
Una matrice importante del composito panorama della storia ambientale italiana (si veda il PAR. 1.4) viene dalla storia economica.
Un’integrazione tra lo studio delle dinamiche del mercato (prezzi,
120
3.
ECONOMIA
moneta, redditi) e quelle dell’ecosistema (terra, lavoro, energia e risorse) è quella seguita, ad esempio, da Paolo Malanima, tra gli storici
dell’economia italiana che più di altri ha provato a misurarsi con l’eredità di una personalità d’eccezione come Carlo Maria Cipolla.
In un’ottica di lungo periodo, talvolta lunghissimo, come i mille
anni di storia rappresentati nel recente L’economia italiana.
900-1900 49, questo autore interpreta il sistema economico italiano
alla luce del rapporto tra popolazione e risorse, con attenzione quindi
alle dinamiche maltusiane, che del resto formano la chiave più adatta
per leggere i problemi delle economie preindustriali 50. Nella storia
dell’economia italiana Malanima individua una doppia tendenza di
lungo periodo: da una parte, una crescita di tipo estensivo, legata alla
messa a coltura di suoli vergini e a coltivazioni più labour intensive,
non a investimenti di capitale o progressi tecnici; dall’altra, le ricorrenze periodiche della peste (quella del 1348, che colpì l’intera Europa, e quelle della prima metà del 1600), come principale fattore di
riequilibrio tra popolazione e terra.
La chiave di volta per comprendere questa doppia tendenza è il
fatto che essa si dispiega in un’economia pre-industriale, in cui la crescita economica e quella demografica sono legate all’agricoltura, non
all’industria. Soprattutto, si tratta di una tendenza che va oltre la storia comune a tutta l’economia europea in età moderna, poiché l’Italia,
a differenza dell’Inghilterra e di altri paesi europei, era priva di carbone fossile. La crescita riguardava quindi il paese nel suo insieme,
non i redditi pro capite.
Con la seconda metà del Settecento, la peste può dirsi scomparsa
come fattore di riequilibrio tra popolazione e terra, dunque, l’economia italiana deve trovare una strada alternativa, e questa è rappresentata da una generale riconversione agricola, nella quale un ruolo
di primo piano riveste il Nuovo Mondo: mais e patate, ma anche riso
e gelso, costituiscono le nuove forme di sfruttamento della terra, poiché consentono alte rese agricole, e così alimentano più popolazione.
Ma, ancora una volta, è il prodotto aggregato a crescere, non quello
pro capite: al 1860 la popolazione è raddoppiata, i seminativi si sono
estesi, il bosco si è dimezzato, dando luogo ad una crisi energetica da
cui il paese non possiede vie d’uscita, data la mancanza di altri combustibili. Ciò che distingue l’Italia moderna dalla Danimarca, dunque,
49. il Mulino, Bologna 2003.
50. Dello stesso autore si veda anche Risorse, popolazione, redditi, in P. Ciocca,
G. Toniolo (a cura di), Storia economica d’Italia, Laterza, Bari-Roma 1998, e La fine
del primato. Crisi e riconversione nell’Italia del Seicento, Mondadori, Milano 1998.
121
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
è principalmente l’assenza di quella che Kijaergaard chiama la rivoluzione dell’energia e delle materie prime, e che fu possibile perché la
Danimarca era ecologicamente integrata in un ecosistema più ampio,
comprendente le riserve di ferro svedese e di carbone inglese. In conclusione, la vera crescita dell’economia italiana, in termini di reddito,
dovrà aspettare l’era dell’elettricità e del petrolio.
Questo tipo di interpretazione “maltusiana” dell’economia italiana
costituisce un notevole contributo alla comprensione della storia dei
sistemi economici nazionali come parte di ecosistemi, spesso più ampi
dei confini della nazione. Alla storia ambientale resta tuttavia il compito di tracciare una storia d’Italia fondata non soltanto sul bilancio
energetico della sua economia, ma anche sul modo in cui l’ecosistema
ha interagito con la cultura, le istituzioni sociali, le forme della proprietà, e i rapporti sociali nelle diverse parti del paese.
Negli Stati Uniti, sono diverse ormai le storie nazionali scritte dal
punto di vista ambientale: alla fine degli anni novanta, compariva Nature’s Nation, di John Opie 51, un testo universitario da utilizzare per
i corsi di storia americana, il che sottolinea come la storia dell’ambiente abbia conseguito uno dei suoi obiettivi, quello di proporsi
come lettura alternativa delle vicende nazionali, e non come sotto-disciplina a se stante. Il libro incorpora alcuni decenni di lavoro storiografico sull’ambiente negli Stati Uniti, dedicando largo spazio alle foreste, al West, alle politiche dell’acqua, alla nascita del conservazionismo, tutti temi cari alla storiografia USA, di origine turneriana (su F. J.
Turner, si veda il capitolo Storia).
Quattro anni dopo, altri due rappresentanti di rilievo della storia
ambientale americana, Carolyn Merchant e Ted Steinberg, compiono
un’operazione simile: la Columbia Guide to American Environmental
History 52, di Carolyn Merchant, inserita in una prestigiosa collana di
testi per la divulgazione e la didattica, appare davvero come la consacrazione della environmental history USA nel novero delle discipline
accademiche, a circa trent’anni dalla sua nascita.
Un lavoro altrettanto ambizioso è quello condotto da Ted Steinberg in Down to Earth. Nature’s Role in American History. «Questo
libro cercherà di cambiare il modo in cui voi pensate alla storia americana – dichiara l’autore nelle prime pagine – riconsiderando temi
familiari, come la colonizzazione, la rivoluzione industriale, la schiavitù, la guerra civile, il consumismo, ed altri meno familiari come la
51. Cfr. Nature’s Nation. An Environmental History of the United States, Harcourt Brace College Pub., Forth Worth (TX) 1998.
52. University of Columbia Press, Chichester (NY) 2002.
122
3.
ECONOMIA
piccola glaciazione, il letame di cavallo, i porcili, i fast food, il prato
all’inglese, le autostrade e i rifiuti» 53. Fare la storia “dalla terra in
su” (from the ground up) significa, innanzitutto, riconsiderare i punti
di svolta importanti della storia americana: il primo, relativo all’arrivo
degli europei, è quando due continenti isolati per milioni di anni entrano improvvisamente in contatto, provocando una rivoluzione ecologica contrassegnata, tra le altre cose, da malattie, freddo, fame, ratti, erbe selvatiche e lupi.
Ci vollero almeno duecento anni perché i nuovi venuti riuscissero
ad “addomesticare” l’ambiente, adattandolo al sistema di vita europeo. La svolta successiva arrivò alla fine del Settecento, quando Thomas Jefferson ridisegnò il rapporto della gente con la terra, inventando la cosiddetta “griglia”: un sistema di ripartizione dell’intero territorio nazionale in lotti da 160 acri, considerati la base della sussistenza familiare e della democrazia, il cui principale effetto sociale fu
quello di trasformare la terra in una merce vendibile sul mercato. La
terza svolta venne circa cento anni dopo, con la nascita della produzione di massa, che ebbe una ripercussione ecologica di grande portata: un radicale distacco fisico della produzione dal consumo, un’alienazione totale della gente comune dal mondo naturale, da cui proviene e in cui finisce ogni forma di materia e di energia. Dietro queste tre grandi svolte, Steinberg vede l’azione di una pluralità di forze
storiche, sociali e naturali, la più importante delle quali è la trasformazione della natura in merce.
Il libro procede dunque descrivendo le implicazioni ecologiche e
sociali di queste grandi svolte. Uno dei suoi grandi meriti è quello di
svelare l’esistenza di forze ed eventi misconosciuti nella storia americana: la grande glaciazione del Pleistocene, per esempio, che produsse l’estinzione di ogni specie di mammifero addomesticabile, ad eccezione del lama; l’orogenesi Laramide, che formò le Montagne Rocciose, trasformando le grandi pianure da immenso mare interno in area
forestale e prateria, destinata a diventare la più grande riserva granaria del paese; lo stesso fenomeno arricchì il sottosuolo di una serie di
minerali relativamente vicini alla superficie, pronti per essere estratti,
senza i quali non sarebbe esistita nessuna corsa all’oro, e gli Stati
Uniti non sarebbero diventati la prima potenza industriale al mondo
alla fine del XIX secolo.
Ma non soltanto di clima e rocce si tratta: altre forze di enorme
portata storica e ambientale sono di origine sociale, come la specia53. Cfr. Down to Earth. Nature’s Role in American History, Oxford
York-Oxford 2002, p. IX.
123
UP,
New
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
lizzazione agricola, ossia la nascita delle monocolture legate allo sviluppo dei mercati e dei trasporti (cotone al Sud, grano nel Midwest,
frutta nell’Ovest), che resero intere regioni dipendenti dalle fluttuazioni dei prezzi e del clima, oltre che dai parassiti e dall’industria chimica. Si tratta di un processo storico fondamentale, poiché esso distrusse la capacità di auto-sostentamento delle comunità, preparando
la strada a una crescita economica insostenibile.
Ovviamente, le implicazioni ecologiche più incisive sono quelle
prodotte nella storia recente: un esempio poco noto è quello della
moda (o meglio l’obbligo sociale) del prato all’inglese, che seguì il
boom dell’edilizia suburbana dagli anni quaranta in poi. Milioni di
americani furono convinti dell’opportunità di coltivare qualcosa che
dimostrò subito una scarsa adattabilità agli ecosistemi locali, richiedendo crescenti quantità di additivi chimici, mezzi meccanici e acqua;
qualcosa, per di più, che non aveva alcuno scopo alimentare o energetico, ma serviva semplicemente a rafforzare la dipendenza dell’americano medio da mezzi artificiali e costosi, portando la sua alienazione
dal rapporto diretto con la natura fin dentro il suo giardino.
Lo scopo principale del libro è quello di «penetrare le forze mistificanti che agiscono nella nostra cultura economica» 54: dal momento che la cultura economica degli Stati Uniti è, di fatto, quella del
mondo attuale, la portata di un discorso come questo esula dai limiti
di una storia nazionale, e riguarda, dalla gomma della foresta amazzonica usata da Ford, fino alle attuali politiche di sviluppo della Banca
mondiale nel Sud-Est asiatico, l’intero pianeta.
Un modo originale di considerare la storia nazionale, come intreccio tra storia dell’ambiente e storia della coesistenza tra gruppi umani, etnie, religioni e nazionalità diverse, è stato sperimentato da Alon
Tal per Israele, in un libro intitolato Pollution in a Promised Land.
An Environmental History of Israel 55. L’ambiente naturale della Palestina, terra santa per alcuni, terra promessa per altri, terra contesa
per tutti, si rivela un sorprendente campo di analisi per comprendere
la centralità della natura nella storia umana, anche nei tempi convulsi
delle rivoluzioni politiche e delle guerre. La costruzione dello Stato
sionista si intrecciò infatti fin dall’inizio con la costruzione di un ambiente fisico completamente nuovo, in cui gli ebrei immigrati dispiegarono tutta la capacità di trasformazione della tecnologia (e dei capitali) occidentale per radicare i propri sistemi agricoli, una struttura di
54. Ibid.
55. University of California Press, Berkeley 2002.
124
3.
ECONOMIA
vita urbana-industriale e una rete di infrastrutture di base (acquedotti, strade, ferrovie, elettrificazione).
La redenzione della terra promessa venne così a identificarsi con
la sua bonifica, in senso lato, ossia con la trasformazione di vaste
zone umide (la valle dello Jezreel) in aree ad agricoltura intensiva, o
la ri-forestazione di praterie utilizzate dalle tribù nomadi dei beduini
per il pascolo. Tutte queste trasformazioni richiesero un controllo politico e militare del territorio, e scatenarono conflitti basati sulle diverse idee sulla natura che i vari gruppi etnici (arabi israeliani, palestinesi dei “territori”, beduini ed ebrei) ereditavano e rielaboravano
nel corso di questa storia. In queste diversità, tuttavia, sussiste un elemento comune che riveste un’importanza centrale nel plasmare il
conflitto ambientale e lo stesso ambiente fisico della nazione: la demografia. Tutti i gruppi che compongono il variegato Stato israeliano,
infatti, perseguono tutt’ora una politica di crescita demografica intesa
come strumento per acquisire peso politico, potere o autonomia, con
importanti ripercussioni sul piano ambientale. Si tratta di un classico
caso di dilemma del prigioniero, come osserva l’autore: fino a quando
questo comportamento demografico verrà incoraggiato, tra gli ebrei
come tra gli arabi, «entrambi i gruppi, e la terra che essi dichiarano
di amare, saranno perdenti» 56.
3.5
Conclusioni
L’incontro tra la storia ambientale e la storia economica ha prodotto,
negli ultimi vent’anni circa, un fecondo filone di studi che ha contribuito alla parziale revisione di alcune interpretazioni, tanto della
versione neo-classica e istituzionalista, quanto della tradizione marxiana. Una parte importante del dibattito ha riguardato le cause e le
conseguenze del predominio europeo, o meglio della “occidentalizzazione” del mondo. Oltre alla geografia storica, è stata soprattutto la
biologia evoluzionista a fornire le categorie chiave per reinterpretare
la storia mondiale; più in generale, la storia ambientale del mondo ha
dialogato con le scienze sociali e le scienze naturali, nel tentativo di
ricostruire tanto il ruolo delle forze naturali (clima, geologia) nel plasmare la storia dei popoli, quanto il peso da attribuire ai sistemi sociali e all’azione umana nel trasformare l’ambiente.
Ma nel confrontarsi con la storia economica del mondo, la storia
56. Cfr. Tal, Pollution in a Promised Land, cit., p. 365.
125
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
ambientale ha anche riconsiderato le proprie stesse categorie e interpretazioni: la riflessione sull’impero, ad esempio, o l’idea di frontiera, o ancora l’ecologia dei popoli non-europei e dei sistemi non capitalistici, sono i principali spunti maturati in un allargamento delle
ricerche dall’area nord-americana alle altre neo-Europe (Australia,
Sudafrica, India, America Latina), e ai pezzi di mondo non interessati dal colonialismo (l’America precolombiana, la Cina imperiale).
L’Europa è il principale punto di riferimento della comparazione
tra aree mondiali: che si legga il suo ruolo alla luce dell’imperialismo,
o del commercio internazionale, o che se ne ridimensioni la rilevanza
alla luce dei cambiamenti di lungo periodo avvenuti in aree non interessate dalla presenza europea, un punto rimane essenziale per la
comprensione della storia del mondo, cioè il fatto che l’Europa è stato probabilmente l’unico continente ad evolversi in una continua e
dialettica relazione con altre aree del pianeta, in un rapporto di scambio biologico (patrimonio genetico di uomini, piante e animali) e culturale (tecniche, lingue, religioni). Non è possibile dunque comprendere nemmeno la storia e l’identità europea al di fuori di questo rapporto con il mondo.
La disparità di reddito tra il Nord e il Sud del mondo viene generalmente percepita come un frutto dello scatto che, con la rivoluzione
industriale, fece balzare l’Europa, e con essa gli Stati Uniti, ad un
livello incomparabilmente superiore a quello di tutti gli altri paesi. È
importante tuttavia sottolineare due cose, a proposito di rivoluzione
industriale:
1. che essa ebbe molto a che fare con la natura, poiché senza le riserve di combustibili fossili non sarebbe stato possibile alcun salto
nel rapporto tra popolazione e risorse disponibili;
2. che essa ebbe a che fare con l’espansione dell’Europa oltremare,
poiché per quasi tre secoli essa poté trarre risorse, direttamente e indirettamente, dalla terra di altri continenti, riversarvi popolazione in
eccesso, estrarre metalli preziosi e alimentare i propri commerci.
126
4
Risorse
4.1
Risorse/società/culture
È ormai da tempo che storici, filosofi, antropologi ed economisti
stanno riflettendo sulla categoria di risorsa. Secondo il noto modello
interpretativo proposto da Carolyn Merchant 1 fu la rivoluzione
scientifica baconiana a segnare una rottura epocale nel modo di concepire la natura: essa cessava di essere un tutto vivente e veniva sezionata, frammentata in tante parti prive di vita per poter essere conosciuta e dominata. Tra le molte eredità che la rivoluzione scientifica
lasciava alla società industriale c’era, dunque, anche questa rilettura
della natura che costituiva il prerequisito culturale necessario per
l’appropriazione e la messa a profitto dell’intero mondo naturale.
La scienziata indiana Vandana Shiva ha scritto che con la rivoluzione industriale la natura è diventata un insieme di risorse alle quali
la tecnologia e il capitale danno valore 2. Secondo questa visione, la
trasformazione da natura a risorsa implica, in genere, una forte spinta
riduzionistica, con la conseguente incapacità a cogliere il legame tra il
tutto e la parte e conduce ad una svalutazione del potere creativo
della natura, assunta come materia inerte e, per giunta, senza valore
proprio. Sono in molti coloro che segnalano in questo passaggio la
fine della radice originaria del termine risorsa: essa non rievoca più
qualcosa di vivo e di potente, capace di re surgere, di rigenerarsi, ma
solo la nozione di mezzo, strumento, espediente al quale l’uomo può
dare valore con il suo sapere e la sua tecnologia, conformemente ai
suoi bisogni. Con molta chiarezza gli economisti definiscono risorsa
1. C. Merchant, La morte della natura, Garzanti, Milano 1988 (ed. or. The Death
of Nature: Women, Ecology and Scientific Revolution, Harper&Row, San Francisco
1980).
2. V. Shiva, Terra Madre. Sopravvivere allo sviluppo, UTET, Torino 2002, p. 6.
127
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
quella parte dello stock naturale che le tecniche e la situazione economica consente di lavorare. Insomma, potremmo dire che in quest’ottica le risorse esisterebbero solo grazie alle tecniche che consentono di sfruttarle 3.
Spesso si è lamentato il carattere fortemente antropocentrico di
questo tipo di argomentazioni, che subordinano l’intero ecosistema
all’uomo, ai suoi bisogni e alla sue tecnologie. D’altronde, la storia
come disciplina è spesso accusata di proporre una visione fortemente
antropocentrica; e la storia ambientale sarebbe, ovviamente, l’antidoto
per questa patologia. Forse è possibile una storia dell’ambiente lontana dagli uomini, che metta al centro unicamente dati ecologici e soggetti non umani, anche se per la verità sembra un’operazione alquanto complessa (dove trovare questi spazi incontaminati?) e di dubbia
valenza epistemologica (perché mai modificano un bosco milioni di
specie animali, vegetali, microrganismi, fattori geofisici e non anche
l’uomo?).
Ad ogni modo la nostra proposta di storia ambientale rimane antropocentrica, ma di un antropocentrismo critico; più che escludere o
ignorare l’uomo ci sembra utile tentare di capire le interazioni dinamiche tra le società e gli ecosistemi. I modi di uso della natura sono
correlati, ovviamente, ai livelli tecnologici e ai saperi delle società utilizzatrici, ma anche alle loro culture e alle forme complessive della
produzione e redistribuzione della ricchezza; senza, tuttavia, dimenticare, in un approccio storico-ambientale, l’importanza dei limiti e
delle opportunità naturali.
In qualche modo lo storico dell’ambiente compie una mediazione,
recuperando l’antica radice surgere senza per questo ignorare la potenza del lavoro umano come elemento modificatore: la storia dell’uso delle risorse è proprio la storia della cooperazione, e/o dello scontro, tra la forza creatrice della natura e la forza trasformatrice dell’uomo. Misurarsi con l’uso delle risorse significa analizzare le relazioni
storiche tra culture, tecnologie e natura; dunque, si tratta evidentemente di un notevole ampliamento dei temi di ricerca, ma non solo
di questo. Boschi, acque interne e mari, animali diventano oggetto
della analisi storica ma, come sostiene Martinez Alier 4, essi non devono costringere la storia ambientale dentro un campo stretto (si
veda il capitolo Storia); non sono essi l’oggetto della storia ambienta3. J. P. Raison, Risorse, in Enciclopedia, vol. 1, Einaudi, Torino 1981, p. 139.
4. Cfr. Temas de historia económico-ecológica, in “AYER”, 1993, 11, numero monografico su Historia y ecologia a cura di M. Gonzales de Molina e J. Martinez Alier,
p. 19.
128
4.
RISORSE
le, ma solo i laboratori di analisi, i percorsi di ricerca attraverso i
quali deve emergere un nuovo approccio ecologico alla storia economico-sociale. La compatibilità tra i sistemi di produzione e lo sfondo
ecologico che li sostiene, le differenze ecologiche tra le molteplici attività produttive, la domanda delle generazioni future e la valutazione
delle esternalità, la nozione di metabolismo come scambio di energia
e materia (sia come input energetici che come output di scarto del
sistema) costituiscono – secondo Martinez Alier – i punti nodali, le
domande fondamentali per guardare alla storia delle risorse da un
punto di vista innovativo.
È con questa premessa che vanno letti i percorsi che proponiamo
in questa parte del volume, senza alcuna pretesa di fare un inventario
esaustivo dei possibili temi di ricerca. Non stupisca di trovare tra boschi, fiumi e conigli anche città, industrie o disastri: se uso delle risorse significa modi di produzione, organizzazione sociale del lavoro,
saperi e culture della natura, se vogliamo interrogarci sul metabolismo tra società ed ecosistemi, se le azioni della natura dipendono anche dalle scelte degli uomini allora scopriremo che la produzione industriale o l’urbanizzazione hanno a che fare con la natura molto più
di quanto certe coppie oppositive (campagna vs. città, natura vs. industria) non lascino comprendere.
4.2
Suolo & vegetazione
Non è stata la storia ambientale a scoprire la terra. In realtà dovremmo metterci d’accordo su cosa intendiamo per “terra”; il Dust Bowl,
ad esempio, ci ha insegnato il confine sottile che esiste tra la polvere
maledetta sollevata dal vento e il suolo benedetto oggetto del nostro
lavoro. La Terra, poi, quella con la maiuscola, evoca ancora un altro
universo di significati e di problemi: la geologia e il clima, ad esempio, sono anch’essi un campo di indagine della storia ambientale, ma
certo non esclusivo di questa disciplina. Non è possibile dare conto
di tutti questi aspetti, dunque ci soffermeremo solo sull’apporto dato
dalla storia ambientale alla storia dell’agricoltura.
Da sempre la storia si è confrontata con le questioni inerenti all’agricoltura, che rappresenta tutt’oggi, in piena civiltà industriale e
post-industriale, la base materiale della nostra sopravvivenza. Se è
vero che per la produzione industriale il legame tra merci e natura è
nascosto, fino quasi a sparire nella coscienza tanto dei lavoratori che
dei consumatori, paradossalmente lo stesso può dirsi per l’agricoltura:
sarebbe davvero difficile percepire una relazione immediata tra i pro129
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
dotti esposti nei grandi magazzini e i cicli bio-geo-chimici che, in
buona parte, li hanno generati.
La rottura dei ritmi stagionali e la sempre più marcata indipendenza del prodotto dalle condizioni climatiche o dal suolo (dovuta
all’uso di pesticidi, fertilizzanti sintetici, irrigazione, macchinari ecc.)
contribuiscono ad esasperare questa frattura tra lavoro della natura e
lavoro agricolo. Ecco, dunque, uno dei compiti precipui della storia
ambientale: tentare di rimettere insieme lavoro e natura. Questo è
uno dei contributi originali che la storia ambientale ha dato e può
dare alla storia dell’agricoltura. Considerare la natura come un partner cooperante – per usare l’efficace definizione di Piero Bevilacqua –
implica alcune conseguenze:
1. uscire dalla visione progressiva dei calcoli sulla produttività dell’agricoltura;
2. proporre una visione meno frammentata, che collochi l’agricoltura
dentro i flussi complessivi di materia e di energia di una società;
3. analizzare in modo meno teleologico e ideologico le forme sociali
(e le tecniche) della produzione, mettendole in relazione con le caratteristiche ecologiche
Spesso gli storici, ed ovviamente gli economisti, si sono concentrati sul calcolo della yield ratio, ossia sui tassi di rendimento delle
economie agricole, intesi come rapporto tra seme e raccolto. I limiti
di questa proposta sono essenzialmente due: mancano tanto gli input
propri dell’ecosistema (clima, giacitura dei suoli, qualità del terreno
ecc.), che sono necessariamente diversi a seconda delle aree geografiche, quanto quelli introdotti dall’esterno (fertilizzanti, diserbanti, coadiuvanti ecc.).
Le ricadute di questo tipo di approccio sono estremamente deformanti: la progressiva, incessante crescita della produttività agricola
nel XIX e soprattutto nel XX secolo riserva non poche sorprese per
coloro che provino a prendere in considerazione l’esponenziale immissione nel sistema agricolo di input energetici esterni; in altri termini l’aumento di raccolto andrebbe valutato al netto delle spese, intese
non solo come capitali ma soprattutto come energia. È questa la scoperta che fanno, ad esempio, i lettori di Raccolto fatale, di Andrew
Kimbrell 5: l’efficienza dell’agricoltura capitalistica viene fortemente
ridimensionata se lo storico si emancipa dalle serie statistiche rassicu5. Fatal harvest. The tragedy of industrial agriculture, San Rafael, Island Press
(CA) 2002; dobbiamo la conoscenza di questo volume ad una recensione di Piero Bevilacqua in corso di pubblicazione su “I frutti di Demetra. Bollettino di storia e ambiente”, 2004, 1.
130
4.
RISORSE
ranti, che celebrano la crescita dei raccolti, e prova a ragionare in
termini di bilancio energetico, ossia di calcolo metabolico tra l’energia immessa e quella prodotta dai sistemi agrari analizzati. Si tratta di
ricerche complesse che spesso necessitano di équipe di lavoro dove
siano presenti competenze disciplinari diverse; inoltre esse sembrano
piuttosto refrattarie a generalizzazioni tipo “resa media per ettaro medio di seme di qualità media”, preferendo una scala di analisi più definita per caratteristiche ambientali.
Se il bilancio energetico porta a riconsiderare gli input, una visione olistica colloca la terra, intesa come luogo di produzione e riproduzione di merci, all’interno di un più vasto sistema metabolico, ossia
come lo spazio per flussi di energia e materia in entrata, ma anche in
uscita. Per la storia ambientale non è sufficiente calcolare il rapporto
tra la quantità di concimi chimici impiegati e i raccolti ottenuti; resta
infatti da chiedersi che fine facciano quei composti di sintesi, in che
modo entrino in relazione con i cicli biochimici, perché, come insegna una delle leggi facili dell’ecologia di Barry Commoner, «tutto
deve finire da qualche parte».
Si calcola che circa la metà dei fertilizzanti utilizzati in agricoltura
finiscano nelle acque, siano esse superficiali o sotterranee: il legame
con la storia dell’inquinamento è evidente, se si pensi all’eutrofizzazione dell’Adriatico, che raccoglie i rifiuti del vasto sistema agro-zootecnico della pianura Padana 6, a quella del Mar Baltico, nel 1988
soffocato da un’esplosione biologica algale, o alla vicenda esemplare
del lago Erie, studiata da Commoner negli anni settanta 7.
Tuttavia, interrogarsi sulla destinazione finale dei fertilizzanti chimici e, più in generale, degli additivi impiegati in agricoltura, non
esaurisce la questione relativa al rapporto metabolico della campagna
con la società nel suo complesso. I concimi chimici dopo, quelli fossili prima (il guano peruviano), rispondevano, infatti, e rispondono tutt’oggi, alla domanda di fondo di tutta l’attività agricola: contrastare
l’impoverimento progressivo dei suoli dovuto proprio allo sforzo produttivo; in altri termini, la terra, nutrendo i vegetali, perde buona
6. J. R. McNeill, Qualcosa di nuovo sotto il sole. Storia dell’ambiente nel XX secolo, Einaudi, Torino 2002, p. 174; per una ricostruzione di più lungo periodo si veda
D. Molin, E. Guidoboni, A. Lodovisi, Mucilage and the Phenomena of Algae in the
History of the Adriatic: Periodization and the Anthropic Context (17th-20th centuries)
in R. A. Vollenweider, R. Marchetti, R. Viviani (eds.), Marine Coastal Eutrophication,
Elsevier, Amsterdam-Londra-NewYork-Tokyo 1992.
7. B. Commoner, Il cerchio da chiudere. La natura, l’uomo e la tecnologia, Garzanti, Milano 1972, pp. 83-97.
131
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
parte delle sue sostanze nutritive ed occorre restituirle almeno parte
di quanto le sottraiamo attraverso il raccolto.
Da questo punto di vista gli storici ambientali non devono cadere
in un passatismo di maniera che trasformi in bello e buono tutto ciò
che è arcaico: l’emancipazione dell’agricoltura dalle carestie periodiche, l’aumento lordo di produzione, l’alleggerimento del duro lavoro
dei campi attraverso il progresso scientifico e tecnologico, non sono
certo un male, anche se forse un approccio storico-ambientale può
sollevare qualche dubbio sull’universalità dei benefici di una tale rivoluzione. Vandana Shiva, ad esempio, ha ricostruito la «violenza della
rivoluzione verde» (agricoltura tecnologicamente e scientificamente
avanzata ad alta intensità di capitali e, in genere, a bassa intensità di
lavoro), mostrando i legami tra le politiche colonialiste e/o imperialiste e la delegittimazione e annullamento di forme diverse, tradizionali, di agricoltura, da sempre in grado di assicurare la sopravvivenza
alle popolazione locali 8.
La vicenda dei concimi va dunque collocata all’interno della lotta
secolare dell’uomo contro l’impoverimento della terra, cominciata
molto prima dell’era della chimica. I riposi periodici, gli avvicendamenti colturali, le tecniche agrarie (aratura, sarchiatura, irrigazione
ecc.) fanno parte di un bagaglio di saperi e di conoscenze tecniche
che viene da lontano. Anche su questo la storia ambientale ha detto
molto.
Citiamo, a titolo di esempio, il saggio di Thorkild Kjærgaard sull’importanza del trifoglio nell’agricoltura europea del XIX secolo 9: fu
anche, o forse soprattutto, grazie a questa pianta azotofissatrice che la
produttività dell’agricoltura europea tra la metà del Settecento e la
fine dell’Ottocento aumentò di oltre il 170%. Dunque ben prima dei
composti di sintesi l’agricoltura ha cercato di reintegrare la terra dei
suoi nutrienti attraverso l’impiego di concimi naturali. Il letame, le
deiezioni umane, i rifiuti cittadini, alcuni tipi di scarti industriali,
come il pellame, hanno costituito per secoli la ricchezza delle campagne. In chiave metabolica, l’opzione per i concimi, di origine fossile o
sintetica, va interpretata come la fine di un circolo virtuoso che colle8. Si tratta di temi ricorrenti in molte delle opere di Vandana Shiva; in particolare si vedano: Monoculture della mente, Bollati Boringhieri, Torino 1995; The Violence
of Green Revolution. Third World Agriculture, Ecology and Politics, Zed Books, London 1992.
9. T. Kjærgaard, A Plant that Changed the World: the Rise and Fall of Lover
1000-2000, in “Landscape Research”, 2003, 1, 28, numero monografico dedicato a
The Native, Naturalized and Exotic Plant and Animals in Human History, ed. by M.
Hall.
132
4.
RISORSE
gava città e campagna: l’agricoltura smetteva di svolgere un ruolo di
riciclo dei materiali di scarto e, nel contempo, la città perdeva consapevolezza dei suoi flussi in uscita, puntando semplicemente ad allontanarli da sé il più possibile. L’efficienza di questi sistemi tradizionali
di reintegrazione della fertilità non va, ovviamente, sopravvalutata;
come, d’altronde, non vanno dimenticati i forti limiti economici, ecologici, sociali di un uso dissennato della chimica in agricoltura 10.
Più in generale si pone il problema dell’efficacia delle tecniche e
dei modi di produzione che storicamente hanno organizzato le relazioni tra uomini e terra. In particolare, gli storici ambientali, sull’esempio delle ricerche dell’antropologia ecologica, hanno sottolineato
la razionalità di molti sistemi tradizionali di attivazione delle risorse.
Basti pensare ai molti studi di storia ambientale che hanno rovesciato
la consueta lettura critica delle tecniche tradizionali, empiriche, di attivazione delle risorse forestali: spesso la questione non era tra tecniche razionali e irrazionali, tra pratiche buone e cattive, tra produttività e improduttività, ma tra modi diversi di intendere le risorse e il
loro uso, per cui se un bosco diventava una miniera di legname pregiato, di conseguenza tutte le altre forme di uso (caccia, raccolta,
agricoltura taglia e brucia, pascolo ecc.) venivano o criminalizzate o,
almeno, delegittimate come arretrate, irrazionali, non moderne. Ma
sui boschi in generale torneremo diffusamente più avanti.
Una delle tecniche di uso, meglio di attivazione della risorsa, che
la storia dell’ambiente ha contribuito a spiegare in un ottica nuova è
senz’altro il fuoco. Secondo Stephen Pyne, autore di ben sei volumi
sulla storia del fuoco, va superata l’idea che gli incendi antropogenici
siano necessariamente un’espressione dell’abuso dell’uomo contro la
natura 11. Piuttosto il fuoco ha permesso all’uomo di utilizzare e/o
riutilizzare materiali e spazi altrimenti fuori dalla portata della sua attrezzatura tecnologica, anche se si tratta di uno strumento potente in
grado di incidere non solo su singole specie ma su interi ecosistemi.
Pyne, giustamente, mette in relazione il fuoco e i sistemi di potere: si può dire che la lotta per il controllo del fuoco è stata in buona
sostanza lotta per il potere. Basti pensare all’imposizione della pirofobia eurocentrica nei paesi colonizzati (primo fra tutti l’Australia) o
10. F. Chaboussou, Santé de cultures, Une révolution agronomique, Flammarion,
Paris 1985. Anche per questo libro siamo debitori ad una recensione di Piero Bevilacqua (Francis Chaboussou: come gli antiparassitari nutrono i parassiti, in “I frutti di
Demetra. Bollettino di Storia e Ambiente”, 2003, 0.
11. Cfr. per tutti Fire. A Brief History, University of Washington Press, Seattle
2001.
133
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
alla proibizione dei fuochi forestali nella silvicoltura di stato dell’era
protezionistica americana (primo ventennio del Novecento): pratiche
secolari di controllo allo stesso tempo del fuoco e della vegetazione
venivano criminalizzate, come venivano scambiati per naturali paesaggi fortemente plasmati dall’azione, soprattutto pirofila, dell’uomo. E i
risultati, in termini di passaggio dagli incendi domestici, cioè controllati, alle grandi conflagrazioni, sono esemplificati in modo molto suggestivo da Pyne nel suo libro sui grandi incendi forestali negli Stati
Uniti del 1910 12.
Anche nel caso del fuoco emerge il duplice nesso che lega le tecniche (o i modi di attivazione) da una parte ai sistemi naturali e dall’altra a quelli sociali. Su questo piano, la storia ambientale ha affrontato in particolare la questione del rapporto tra sostenibilità, usi e
forme proprietarie. Parlare di terra, e dei modi di usarla, significa necessariamente parlare delle forme proprietarie che hanno regolato il
possesso e l’accesso alle risorse naturali. La storia ambientale si è innestata su una ricca tradizione di studi sulla proprietà che trova il
suo punto di partenza teorico nel dibattito sulla common property, riproposto con grande efficacia in un celebre articolo di Garret Hardin, pubblicato nel 1968 13.
La tragedia dei beni comuni, questo il titolo altamente eloquente
dell’articolo di Hardin, può essere così sintetizzata: in presenza di
forme comuni di possesso, le risorse naturali vengono sfruttate fino al
loro esaurimento, dal momento che nessun attore ha un personale incentivo a conservare; la tutela delle risorse ambientali passa quindi
per l’incorporazione del mondo naturale all’interno del sistema sociale, attraverso l’appropriazione privata delle risorse o l’imposizione di
rigide norme dall’alto. La critica che è stata mossa al modello di Hardin attiene fondamentalmente alla definizione stessa di common property: nei casi storici, empiricamente ricostruiti da studiosi delle più
varie discipline, solo molto raramente si assiste ad un regime di accesso aperto alle risorse, come quello descritto da Hardin, mentre più
spesso i commons sono stati caratterizzati da norme di uso e filtri di
accesso. Insomma, beni comuni non ha significato sempre e necessariamente beni di nessuno o di tutti, condannati al sovrasfruttamento,
ma più spesso sono stati beni “posseduti” da gruppi di individui o
famiglie, in cui l’uso e l’accesso erano regolati e ristretti da norme,
più o meno precise.
12. S. J. Pyne, Year of the Fires: the Story of the Great Fires of 1910, Viking,
New York 2001.
13. The Tragedy of the Commons, in “Sciences”, 1968, 162.
134
4.
RISORSE
Dal momento che il cardine della tragedia dei beni comuni è la
presunta insostenibilità ecologica di un modello proprietario, che, in
realtà, è più spesso un modello di accesso alle risorse che non di diritti proprietari in senso stretto, è evidente l’interesse che questa questione ha suscitato tra gli storici ambientali. È anche grazie alle loro
ricerche che sono emerse le caratteristiche concrete dei modi di funzionare dei commons, in genere piuttosto lontani dal modello astratto
che li condurrebbe alla tragedia; in particolare una recente raccolta di
studi sul Nord Europa ha evidenziato l’universale diffusione di meccanismi di esclusione (i beneficiari chiudono l’accesso alle risorse comuni in base a molteplici variabili, come la residenza, la nascita, il
pagamento di una qualche tassa ecc.) e di misure di sanzione-punizione per i trasgressori delle norme che regolano l’uso delle risorse 14.
Anche in Italia la storia ambientale ha contribuito a rianimare il
dibattito storiografico sulla common property, avviato nel nostro paese
dai giuristi a metà degli anni settanta con un importante volume di
Paolo Grossi, intitolato proprio Un altro modo di possedere 15. In particolare un articolo pubblicato nel 1997 da Gabriella Corona 16 apriva
l’Italia al dibattito nord-americano sulla common property nel duplice
sforzo di suggerire nuovi approcci e di rileggere con nuove domande
una ricca produzione di studi di storia della proprietà e dell’agricoltura. È evidente che in chiave storica risulta fondamentale cogliere sia
la rottura dell’universo comunitario e le sue implicazioni ambientali,
sia le continuità, a volte insospettate, che conducono le forme comuni
di proprietà fino ai nostri giorni, e non solo nei paesi periferici del
mercato globale.
Talvolta gli storici ambientali sono stati accusati di dare un’immagine edenica dei commons: uomini e risorse naturali in perfetta armonia prima dell’arrivo di un agente esterno disturbatore, in genere la
proprietà privata, il capitalismo, l’economia di mercato. È possibile
che qualcuno sia caduto in questo tipo di retorica, tuttavia è opportuno considerare che per certo in tanti sono caduti nella trappola opposta (celebratori senza troppi dubbi della proprietà privata). Tuttavia non è questo il contributo che la storia ambientale vuole mettere
in campo; più che difendere i commons e negare a tutti i costi le cat-
14. Cfr. M. De Moor, L. Shaw-Taylor, P. Warde, The Management of Common
Land in North West Europe, c. 1500-1850, Turnhout, Brepols 2002.
15. “Un altro modo di possedere”. L’emersione di forme alternative di proprietà
alla coscienza giuridica postunitaria, Giuffrè, Milano 1997.
16. G. Corona, Diritto e natura: la fine di un millennio, in “Meridiana. Rivista di
Storia e Scienze Sociali”, 1997, 28.
135
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
tive performance che spesso hanno prodotto, si tende a superare una
logica teorica tutta astratta, per tentare di capirne i modi del funzionamento o del fallimento; scoprendo che non necessariamente esso è
dipeso dall’assenza di diritti proprietari individuali.
Gran parte del lavoro su questi temi ha riguardato soprattutto i
boschi, uno degli ambiti di ricerca più frequentati dagli storici ambientali. Nei boschi, infatti, più che altrove si è manifestata la pluralità delle forme di accesso e dei diritti di uso; una pluralità giuridica
strettamente connessa alla molteplicità ecologica della foresta, che appare davvero come common pool resource, ovvero come un insieme di
risorse a gestione collettiva. La storia ambientale dei boschi ha restituito questa molteplicità di usi: pascolo, raccolta di frutti e legname, caccia, carbonizzazione, ma anche regimazione delle acque, stabilizzazione dei pendii, difesa delle sorgive e forziere di biodiversità.
Dai primi studi sulle legislazioni forestali, la storia ambientale dei boschi è andata verso l’analisi delle forme di uso della risorsa, tentando
di valutarne, non sempre con successo, gli impatti in termini di sostenibilità. Il contributo più interessante resta, a nostro avviso, proprio la ricchezza di approcci che la storia ambientale dei boschi ha
offerto: R. P. Sieferle con il suo The Subterranean Forest 17 ha rappresentato un modello di studio del bosco soprattutto in chiave storico-economica, analizzando il rapporto tra boschi e consumi energetici
nel passaggio tra economie a base solare ed economie a base fossile;
studi come quello di R. Guha 18 mostrano, invece, come il bosco sia
un ottimo campo d’indagine per un approccio basato sulla genderclass-race analysis, ovvero sulla ricostruzione dei conflitti tra usi e visioni antagoniste degli spazi forestali (soprattutto comunità locali contro poteri e amministrazioni coloniali); quanto poi le foreste siano
sempre state non solo complessi sistemi ecologici e socio-economici,
ma anche paesaggi della mente, rappresentazioni culturali, lo rivelano
ricerche come quelle di Nancy Langston 19, su cui torneremo nel capitolo Ecologia, e Simon Schama 20.
17. The Subterranean Forest. Energy Systems and the Industrial Revolution, White
Horse, Cambridge 2001.
18. R. Guha, M. Gadgil, State Forestry and Social Conflict in British India, in
“Past and Present”, 1989, 123; R. Guha, The Unquiet Woods. Ecological Change and
Peasant Resistance in the Himalaya, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 2000 (1a edizione 1989).
19. Forest Dreams, Forest Nightmares. The Paradox of Old Growth in the Inland
West, University Press of Washington, Seattle-London 1995.
20. Paesaggio e memoria, Arnoldo Mondadori, Milano 1997.
136
4.
RISORSE
4.3
Acque
Tra le risorse del pianeta l’acqua è senz’altro la più importante, poiché alla sua presenza è legata quella della vita stessa. L’acqua è una
risorsa rinnovabile, il cui ciclo idrologico dipende dall’azione solare:
questo non significa però che essa non sia esauribile. Come avviene
per tutte le risorse solari, un uso intensivo che non rispetti i tempi e i
modi della rigenerazione naturale può compromettere la capacità di
riproduzione della risorsa idrica.
Ci sono molti modi per fare la storia delle acque. I grandi fiumi
possono assumere una rilevanza storica fondamentale per lo studio
delle civiltà che sorgono lungo il loro corso; i laghi formano riserve
di energia biologia essenziale per le comunità che insistono sul loro
territorio; le risorse idriche in genere (corsi d’acqua, lagune, mari)
sono storicamente al centro di varie forme di sfruttamento economico
da parte dell’uomo, come fonti di energia meccanica, per l’irrigazione, la pesca, l’allevamento, la navigazione, per l’approvvigionamento
domestico di città e villaggi, e infine per lo smaltimento di rifiuti.
Non va dimenticato, inoltre, che l’acqua non è soltanto una risorsa di
base per la vita in tutte le sue forme, ma in qualche caso essa diventa
anche una minaccia per la vita stessa, sotto forma di alluvioni, inondazioni, innalzamento del livello marino.
Oltre che sfruttarne le qualità, gli esseri umani hanno da sempre
anche combattuto contro gli eccessi di acqua, e la forma più significativa di questa lotta ha preso il nome di “bonifica”. Si tratta di un
termine ambiguo: esso intende un “miglioramento” del regime dei
suoli dal punto di vista della produzione alimentare e dell’igiene, poiché il prosciugamento rende possibile coltivare terre prima paludose
e al tempo stesso combatte il diffondersi della malaria. Ma la bonifica
sottintende un giudizio qualitativo su ciò che esiste prima di essa: il
“male” è rappresentato da altre forme di vita e di produzione, compatibili con l’umidità: dalla fauna acquatica (uccelli, pesci, animali selvatici) alla coltivazione del riso, alla vegetazione spontanea (canne,
giunchi, alghe) e perfino ad alcune attività produttive che sfruttano
l’acqua stagnante, come la macerazione di fibre tessili naturali (canapa e lino). La cultura ambientale degli ultimi decenni ha trasformato
le paludi, prima ritenute terre perdute, in “zone umide”, protette per
la salvaguardia della biodiversità. Tuttavia la storia dell’insediamento
umano negli ultimi duecento anni circa è stata in larga parte una storia di bonifiche, cioè di lotta degli uomini contro l’acqua.
Probabilmente, comunque, l’aspetto più importante dell’acqua,
137
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
dal punto di vista ecologico, è la sua interdipendenza con tutti gli
altri elementi dell’ecosistema: come fonti di energia biologica le acque
entrano infatti nel bilancio energetico delle comunità biotiche, umane, vegetali e animali, che insistono su un territorio; in forma di energia cinetica, poi, esse interferiscono con la conformazione stessa del
territorio (assetto idro-geologico, composizione dei suoli, morfologia
delle rocce e dei minerali) in cui si svolge la vita delle diverse comunità.
Si tratta di una caratteristica piuttosto complessa da analizzare,
che richiederebbe allo storico di padroneggiare metodi e fonti attinenti alle scienze naturali: una strada che è stata intrapresa raramente
dagli stessi storici ambientali, diversamente da quanto è accaduto nel
caso della storia forestale. Tuttavia, la storia ambientale ha mostrato
la capacità di affrontare il tema dell’acqua secondo percorsi propri,
allargando lo spettro delle variabili considerate dalla storia economica, sociale, urbana, nel tentativo di fondere i risultati di ciascuna di
queste in una visione il più possibile organica, o meglio “ambientale”.
Il miglior punto di partenza per la storia ambientale della acque
è probabilmente un libro di Donald Worster intitolato Rivers of Empire. Water, Aridity and the American West 21. Il lavoro partiva da
un dichiarato intento teorico, quello di riferirsi alla nota tesi di
Wittfogel (Oriental Despotism. A Comparative Study of Total Power,
1957) sullo spettro sociale della dominazione visto attraverso la costruzione di grandi sistemi irrigui a controllo fortemente centralizzato, una tesi costruita originariamente per le società idrauliche dell’antico Oriente, ma che l’autore ritiene valida, nelle sue linee generali, anche per una società moderna e politicamente democratica
come quella statunitense.
Nella storia dell’umanità, sostiene Worster, ci sono stati essenzialmente tre modi di controllo delle acque: quello della sussistenza locale, in cui le comunità si organizzavano per trarre dalle risorse idriche
la possibilità di vita in un territorio; quello dello Stato agrario, e cioè
il caso dell’Egitto faraonico, della Mesopotamia, dell’India e della
Cina in età antica; e infine quello dello stato capitalistico, analizzato
nella tipologia statunitense, ma con estese diramazioni in tutti i paesi
industrializzati, e nei territori politicamente dominati da questi nell’era del colonialismo (ancora Egitto e India, Australia).
Worster adottava quindi il concetto chiave di hydraulic society per
21. Oxford University Press, Oxford 1985.
138
4.
RISORSE
significare la creazione, in un territorio per sua natura arido e scarsamente popolato, di un sistema sociale basato sulla gestione e il controllo delle risorse idriche in una scala tecnologica di enorme portata,
in grado di ridisegnare completamente gli assetti insediativi, produttivi e politici. Esaminando le trasformazioni avvenute nella Great Valley e in tutta la California tra il 1850 e il 1910, l’autore sottolinea
come queste costituiscano uno degli episodi più spettacolari e rivelatori nella storia degli interi Stati Uniti, ossia della capacità di un sistema umano di interpretare i caratteri ambientali come una sfida e
di rispondervi con un largo dispiego di mezzi, fino a ottenere il risultato di trasformare un’area essenzialmente desertica in uno degli
Stati economicamente più potenti del pianeta, grazie alla sua agricoltura irrigua ad alto potenziale di mercato e ad un sistema urbano fortemente concentrato.
Il punto di partenza per una riflessione storica sull’acqua come
risorsa è riconoscere la funzione energetica chiave che i sistemi idrici
hanno avuto nel plasmare i sistemi economici e sociali. Questo tipo
di analisi, per l’età contemporanea e per la società industriale, è al
centro del libro dello statunitense Richard White The Organic Machine 22. Per White considerare il fiume come un sistema energetico
non significa concentrarsi unicamente sulle 12 dighe e centrali idroelettriche che ne hanno modificato la struttura nel corso all’incirca
dell’ultimo secolo: la carrying capacity del Columbia e dei suoi affluenti va letta infatti all’interno di un complesso interscambio tra la
natura e gli esseri umani attraverso l’energia, intesa nel senso fisico di
capacità di compiere lavoro e produrre calore. Il lavoro viene sottratto così, e questa risulta l’intuizione metodologicamente più interessante, alla sfera propriamente umana, e viene a costituire una categoria applicabile parimenti alla natura, che produce le calorie essenziali
alla vita umana e animale, fornisce gli elementi chimici di base per
l’equilibrio dell’habitat, sposta nello spazio uomini e cose, rende possibile il ciclo della riproduzione del salmone. Oltre a ciò, la natura è
anche un sistema fisico che chiede agli esseri umani di compiere un
certo lavoro per adattarsi all’ambiente, con forme di intensità diverse
a seconda dell’intensità dell’insediamento umano.
Il prezzo dello sviluppo industriale è bene illustrato nel libro, che
si sofferma in particolare sulle conseguenze che un processo di generale “rifacimento” del fiume ha avuto sull’insieme delle risorse e degli
22. The Organic Machine. The Remaking of the Columbia River, Hill and Wang,
New York 1995.
139
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
equilibri ambientali: la produzione di energia elettrica, divenuta a
partire dalla fine del XIX secolo l’attività dominante, costituisce in
realtà una scelta politica, energeticamente non “efficiente”, compiuta
nella logica del sostegno all’investimento di capitali e al consumo; lo
stesso discorso viene condotto sull’inefficienza dell’uso delle acque
nella centrale nucleare di Hanford, in termini di perdite connesse con
tale uso sul piano della bio-sostenibilità in tutto il bacino del Columbia, e generalmente non contabilizzate. Il lavoro di White chiama in
causa riflessioni che si riallacciano a filoni importanti del pensiero
economico non ortodosso degli ultimi 150 anni, a partire dalle prime
acquisizioni sul rapporto tra contabilità energetica ed economica legate alla scoperta della seconda legge della termodinamica. E alla riflessione sull’energia solare come fonte principale della capacità di lavoro, umano e non umano, sulla terra.
Il rapporto tra acque e industrializzazione è anche al centro di
Nature Incorporated. Industrialization and the Waters of New England,
di Theodore Steinberg (1991) 23, che affronta in chiave ambientale la
storia del distretto tessile nella valle del Merrimack, tra le città di Lowell e Lawrence, culla dell’industrializzazione negli Stati Uniti 24. Il
capitalismo non è soltanto un sistema produttivo e sociale, ma anche
un insieme di relazioni ambientali, che coinvolgono il rapporto tra
tecnologia e risorse, fonte di crescita economica e mutamenti sociali,
che a loro volta partono da una nuova consapevolezza del rapporto
tra sistemi umani e naturali. Da qui il titolo dell’opera, che vuole significare il pieno inserimento della natura all’interno della più significativa delle istituzioni economiche del capitalismo, la corporation (società per azioni), espressa fisicamente dalla cotton-mill collocata lungo
il corso del fiume.
Le risorse idriche sono quindi considerate nel libro come la risorsa base intorno alla quale ruota l’intero sistema economico della
valle del Merrimack, nel quale le fabbriche, nuove arrivate negli anni
trenta del XIX secolo, affrontano e vincono il conflitto con i precedenti modi della produzione nell’area (pesca, agricoltura, e commercio fluviale), e costruiscono un nuovo sistema socio-ambientale. L’acqua diventa il cuore del sistema economico, ed il controllo sempre
maggiore su di essa è il segnale più evidente del processo di trasfor23. University of Massachusetts Press, Amherst 1994 (1a edizione Cambridge
University Press, Cambridge, England-New York 1991).
24. Cfr. anche T. Steinberg, Dam Breaking in the 19th Century Merrimack Valley:
Water, Social Conflict, and the Waltham-Lowell Mills, in “Journal of Social History”,
1990, 1.
140
4.
RISORSE
mazione industriale, un processo incentrato, secondo Steinberg, sulla
lotta per il dominio della natura.
Ma l’acqua, come si diceva all’inizio, è anche una risorsa esauribile. Uno degli esempi storici in cui questo dato di fatto appare più
chiaro è quello dell’Ogallala, ricostruito da John Opie 25. Si tratta di
una storia interessante perché, in questo caso, la storia dell’acqua è
quella di una risorsa sotterranea, (una delle falde acquifere più importanti del pianeta situata tra il Texas e il Sud Dakota), simile più
ad un giacimento di petrolio che ad un fiume. L’Ogallala infatti si è
formato nel corso di 25.000 anni mediante la percolazione di acqua
di superficie attraverso il suolo ghiaioso delle High Plains. Essa non
dipende quindi dall’azione solare, ma è una riserva soggetta ad esaurimento pressoché completo, poiché i tempi della sua ricostituzione
sono troppo superiori a quelli della vita sociale.
A partire dagli anni del Dust Bowl, l’acqua sotterranea cominciò
a venire prelevata a velocità sempre maggiore grazie alle pompe meccaniche: essa sembrò una manna per gli agricoltori assetati del Midwest, ma col passare del tempo l’estrazione divenne sempre più difficile e costosa. L’acqua si stava già esaurendo nei primi anni settanta,
e attualmente se n’è andata la metà di quella raggiungibile: la fine
assoluta della risorsa è prevista entro i prossimi vent’anni.
In Italia, una storia ambientale delle risorse idriche sta cominciando a prendere piede da alcuni anni: nell’intento di liberare l’approccio dai condizionamenti della storia agraria, di quella delle bonifiche
e in genere da un taglio esclusivamente economicista, diversi autori
hanno tentato di porre l’accento sull’aspetto propriamente ecologico:
il fiume, il lago, il tratto di costa, la zona umida diventano cioè il
centro dell’analisi, e la narrazione storica affronta esplicitamente il
problema della loro conservazione, ossia del grado di sostenibilità dei
sistemi economico-sociali che ruotano intorno alla risorsa.
L’Italia è un paese piuttosto povero di risorse minerarie, ma ricco
di acque. La storia d’Italia deve dunque confrontarsi, in un’ottica ambientale, con questa caratteristica dell’ambiente fisico. Soprattutto,
l’acqua ha costituito una risorsa importante per l’agricoltura, dando
vita a sistemi produttivi elaborati, e talvolta assai evoluti, che hanno
fatto la storia di intere regioni. Fu Piero Bevilacqua, in un saggio intitolato Le rivoluzioni dell’acqua 26, a lanciare una lettura della storia
agraria italiana centrata sulle risorse idriche: la risicoltura della pianu25. Ogallala. Water for a Dry Land, University of Nebraska Press, Lincoln 1993.
26. In P. Bevilacqua (a cura di), Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, vol. I, Marsilio, Venezia 1989.
141
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
ra padana, ad esempio, o l’orticoltura intensiva di alcune aree del
Mezzogiorno, ma specialmente l’agricoltura irrigua e il sistema di canali del lombardo-veneto, emergevano come forme di appropriazione
della risorsa intorno a cui si dipanavano sistemi produttivi e sociali,
saperi scientifici ed empirici, conflitti tra gruppi di utenti e modi di
uso, che hanno avuto un’importanza centrale nella formazione dell’Italia moderna.
Oltre ad essere un’importante fonte di energia biologica (agricoltura, pesca), l’acqua è stata una fonte importantissima di energia meccanica, in un paese privo di carbone ed altri combustibili fossili rilevanti. La storia dell’industria in questo paese è strettamente legata a
quella dei suoi corsi d’acqua, che sono serviti fin dagli albori dell’industrializzazione per muovere le ruote e le turbine idrauliche, permettendo la meccanizzazione delle industrie, il passaggio dal putting
out (lavorazioni manuali svolte a domicilio dai contadini e organizzate
da un mercante) al factory system, ossia al sistema di fabbrica.
In realtà l’acqua è stata la risorsa energetica di base per l’industria
per tutto l’Ottocento, e anche oltre, sotto forma di energia elettrica:
fino agli anni sessanta del Novecento, l’Italia ha soddisfatto la domanda interna di energia soprattutto grazie alle riserve idriche accumulate in grandi bacini di ritenuta, le dighe, che hanno trasformato il
paesaggio e portato grandi cambiamenti nella vita sociale, economica
e culturale di campagne e città. Una storia ambientale delle opere
idrauliche, che hanno avuto tanta parte nello sviluppo economico italiano, e nel trasformare radicalmente la vita di interi ecosistemi, insieme a quella delle popolazioni che vi abitavano, attende ancora di essere scritta.
Fiumi e laghi, ma anche mari; la storia ambientale si è occupata
ancora piuttosto poco della grande pianura salata e i motivi sono
comprensibili: lo spazio marino è stato molto meno segnato dalla presenza antropica e di conseguenza anche le fonti storiche sono molto
meno ricche. Inoltre il rapporto con le storie nazionali è molto meno
cogente per il mare di quanto non lo sia per i fiumi o i laghi, sebbene
anche in quei casi, spesso, i limiti delle frontiere politiche risultino
decisamente troppo stretti.
I pochi esperimenti di storia ambientale marittima si sono concentrati essenzialmente sulla pesca e solo in minima parte sull’inquinamento. La pesca è senz’altro un buon laboratorio di ricerca:
un’attività economica fortemente e direttamente correlata all’ecosistema che utilizza, caratterizzata da culture e pratiche sociali specifiche, che mostrano i legami tra natura e cultura. È così che Arthur
142
4.
RISORSE
McEvoy, nel suo The Fisherman’s problem 27, affronta la grande crisi
dell’industria delle sardine nella California degli anni settanta del
Novecento. Il libro di McEvoy è spesso citato tra i classici dell’environmental history: il suo punto di forza è la combinazione di approcci diversi che consente di tenere insieme ecologia, economia,
culture e rapporti sociali.
McEvoy rifiuta spiegazioni monocausali e sceglie di ricostruire la
storia della pesca in California considerando tanto i fattori “naturali”
in senso stretto (i cambiamenti climatici, ad esempio), quanto quelli
economici e culturali (il ruolo del mercato e delle diversità etniche tra
gruppi di pescatori). Se i pescatori di McEvoy non appaiono come
un universo immobile e omogeneo (cambiamenti tecnologici e diversità etniche), anche gli altri attori della storia appaiono vari e multiformi: la ricostruzione delle conoscenze scientifiche sull’ecosistema
marino e sulle popolazioni ittiche diventa un’occasione per mostrare
quanto le scienze siano sempre una costruzione sociale, legate alle
prospettive politiche e alle istanze economiche dei contesti che le
hanno generate. Scienziati, burocrati, decision makers e pescatori interagiscono nella storia raccontata da McEvoy e non solo tra loro,
come corpi separati, ma anche al loro interno, svelando antagonismi e
alleanze trasversali.
Un gruppo consistente di ricerche sulla storia della pesca ha affrontato la questione della tragedy of the commons; la proposta interpretativa non è molto diversa da quella già segnalata nel paragrafo
precedente: nei casi empirici il modello astratto di Hardin va corretto
e anche per il mare, ovviamente per quanto riguarda le aree costiere,
sono esistite norme comunitarie e pratiche di territorialità, ossia di
esclusione ai diritti di uso, volte a regolamentare l’accesso alle risorse
comuni. Proprio in questa direzione vanno alcuni dei rari contributi
maturati in ambito italiano sulla storia della pesca che ricostruiscono
il modo di funzionare di un regime di common property marittima in
alcune aree costiere dell’Italia meridionale 28.
27. The Fisherman’s Problem. Ecology and Law in the California Fischeries
1850-1980, Cambridge University Press, Cambridge, England-New York 1986.
28. M. Armiero, La risorsa invisibile. Pescatori, stato e comunità nell’Ottocento
meridionale: il caso di Taranto, in P. Bevilacqua, G. Corona (a cura di), Ambiente e
risorse nel Mezzogiorno contemporaneo, Meridiana Libri, Corigliano Calabro 2000; Id.,
La risorsa contesa: norme, conflitti, tecnologie tra i pescatori meridionali, in “Meridiana.
Rivista di Storia e Scienze Sociali”, 1998, 31.
143
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
4.4
Animali
Alcuni ritengono che la storia ambientale debba superare il connaturato antropocentrismo della scienza storica. In quest’ottica andrebbe
letto il recupero di nuovi temi di ricerca, come le acque, i boschi, gli
animali, fino ad oggi poco frequentati dagli storici. Tuttavia una tale
rivoluzione copernicana non sembra essersi realizzata: l’essere umano,
le sue culture, le sue economie, le sue istituzioni, rimangono al centro
dell’analisi storica ambientale, recuperandone il rapporto dialettico
con la natura. D’altronde non occorre una rivoluzione copernicana,
che sposti il fuoco dall’uomo alla natura, per interessarsi di animali o,
come abbiamo mostrato, di acque o alberi. Infatti, se è la relazione,
più della separatezza, la cifra caratterizzante dell’approccio storico
ambientale, gli animali, insieme all’agroecosistema, occupano uno degli spazi nei quali sono più evidenti l’interazione e lo scambio tra
uomo – meglio tra gruppi umani – e natura.
Spesso le ricostruzioni storiche che prendono in esame gli animali
sono scandite da tempi lunghissimi, ma la cosa ormai non dovrebbe
stupirci: sappiamo bene quanto il tempo lungo abbia dominato prepotentemente la storia dell’ambiente. Non stiamo parlando solo dell’archeozoologia o della paleontologia, che in senso stretto si occupano della storia degli animali e della loro evoluzione a partire dai loro
più lontani antenati, servendosi di fonti fossili; più in generale è la
storia della domesticazione che affonda le sue origini nella preistoria
e che conduce il ricercatore su piste antichissime e su archi temporali
estremamente dilatati.
È la strada percorsa da storici come Daimond e Crosby, che, tuttavia, sanno far interagire queste antiche premesse con le vicende più
recenti, riuscendo a mettere in relazione i tempi lunghi delle pratiche
di domesticazione con i tempi brevi delle scoperte geografiche e delle
conquiste coloniali. L’estinzione dei grandi mammiferi americani, le
caratteristiche genetiche ed etologiche di quelli africani, la diffusa
presenza in Eurasia degli animali a più semplice domesticazione (pecora, capra, bue, maiale, cavallo) costituiscono le premesse fondamentali per comprendere le performance delle diverse società, soprattutto nei momenti di incontro-scontro tra mondi a lungo separati.
La scoperta e poi l’invasione delle Americhe costituiscono un ottimo laboratorio di analisi per verificare la portata della domesticazione
animale e le sue ricadute nel medio e breve periodo. Nell’incontro tra
europei e americani, come ha mostrato Crosby, la lunga frequentazione con gli animali domestici aveva sostanzialmente un duplice effetto:
144
4.
RISORSE
rendeva gli invasori più potenti in termini di energia disponibile
(pensate all’impatto del cavallo da guerra); esponeva i nativi ad una
serie di agenti patogeni fino ad allora sconosciuti, legati alla stretta
convivenza con gli animali, propria del Vecchio Continente.
Certo resta da chiedersi perché da una parte e dall’altra dell’oceano la domesticazione degli animali sia stata così diversa. Diamond ha
spiegato che non si è trattato dell’effetto di una diversa attitudine culturale nei confronti degli animali, smentendo una vulgata pseudoecologista secondo la quale nativi americani o africani sarebbero stati
contrari e/o culturalmente incompatibili con la domesticazione, spinti
da credenze religiose più in armonia con la natura.
Piuttosto, sono state le caratteristiche genetiche ed etologiche degli animali diffusi nei continenti extraeuropei a rendere impossibile la
domesticazione; animali troppo paurosi, capaci di farsi del male da
soli nel tentativo di fuggire (le gazzelle, ad esempio); animali pericolosi e nervosi, in grado di mettere in pericolo l’allevatore (l’orso, che
pure gli ainu allevano fino all’età di un anno, per poi ucciderlo e cibarsene, il bufalo cafro africano, ma anche le zebre); animali a lento
tasso di crescita (ad esempio i gorilla e gli elefanti) o difficilmente
riproducibili in cattività (i ghepardi, pure considerati preziosi per la
loro velocità, o la vigogna andina); animali con una rigida territorialità o con una scarsa attitudine alla vita di branco (antilopi e cervidi,
ad eccezione delle renne) o con abitudini alimentari complesse (a
esempio il koala): a queste condizioni la domesticazione degli animali
era pressoché impossibile a prescindere dalle attitudini più o meno
religiose ed ecologiche delle popolazioni.
Nel tempo medio e breve della conquista, il lunghissimo processo
della domesticazione aveva degli effetti immediati e non solo nelle relazioni tra gruppi umani (il successo degli invasori sui nativi), ma anche tra specie animali (come del resto per quel che riguarda la flora).
Crosby ha sostenuto che l’imperialismo ecologico europeo ha portato
alla creazione di una serie di Neo Europe: insomma più che adattarsi
al Nuovo Mondo, i coloni avrebbero preferito ricreare gli ecosistemi
di origine, pur, ovviamente, adattandoli alle nuove condizioni.
Come i bianchi, anche i loro animali sciamavano nei nuovi territori immuni dalle inedite malattie che si portavano dietro: a distruggere
gran parte della fauna locale concorsero, dunque, una pluralità di fattori che andavano dalla caccia indiscriminata, alle patologie degli animali allogeni, alla trasformazione complessiva degli habitat naturali.
L’esempio più lampante è probabilmente quello del bisonte americano, sia per il forte potere evocativo di quella vicenda (i pellerossa,
il West, la wilderness vs. la civiltà ecc.), sia per la pregnanza della sua
145
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
presenza fino all’arrivo dell’uomo bianco, ed infine per la discreta
mole di ricerche storiche che si sono accumulate su questo tema,
come dimostra da ultimo l’ottimo lavoro di Andrew Isenberg, The
Destruction of the Bison. A lungo si è creduto che un popolo di circa
70 milioni di bisonti popolasse le grandi pianure americane fino all’arrivo dell’uomo bianco, ed anche se i calcoli di Isenberg ridimensionano notevolmente la cosa, portando i bisonti intorno ai 30 milioni, ugualmente siamo in presenza di un ecosistema straordinariamente
connotato dalla presenza di una specie animale in così grandi proporzioni.
La tesi di Isenberg sulla quasi estinzione del bisonte rigetta spiegazioni monocausali: ecologia, economia e cultura si intrecciano nel
suo libro, e in quella vicenda, senza fare sconti e semplificazioni. «La
distruzione del bisonte non fu soltanto il risultato dell’agire umano,
ma piuttosto la conseguenza delle interazioni tra le società umane e le
dinamiche ambientali» 29: con questo Isenberg non vuole affatto sminuire le responsabilità dell’uomo bianco, ma, piuttosto collocare la
caccia indiscriminata non solo all’interno della guerra contro i nativi
americani, ma nel più vasto contesto dell’espansione di un’economia
capitalistica-industriale, che vedeva il comparto conciario, ed anche
altri settori, assorbire una mole sempre maggiore di bisonti quali materie prime delle loro produzioni.
La trasformazione dell’intero sistema economico e culturale delle
grandi pianure investì, peraltro, anche le società indiane, che divennero completamente dipendenti dalla caccia al bisonte, abbandonando
quel network di usi e di risorse che avevano assicurato la loro sopravvivenza. Insomma l’immagine dell’indiano a cavallo lanciato all’inseguimento dei bisonti è molto meno “naturale” di quello che si
possa pensare: le tribù nomadi di cacciatori a cavallo costituivano la
risposta ecologica e sociale all’invasione europea delle pianure, collocando, ovviamente su posizioni subalterne, la cultura indiana all’interno del più vasto sistema economico che i bianchi stavano imponendo.
Il bufalo e l’indiano dovevano essere sostituiti rispettivamente dalla
vacche e dai pionieri bianchi.
Sulla diffusione dei bovini nelle grandi pianure si è soffermato Jeremy Rifkin nel suo Ecocidio 30: come Isenberg colloca i bisonti dentro la produzione industriale, così Rifkin ricostruisce il sistema bovi29. A. C. Isenberg, The Destruction of the Bison, University Press of Cambridge,
Cambridge, England-New York 2000, p. 30.
30. Cfr. Ecocidio. Ascesa e caduta della cultura della carne, Arnaldo Mondadori,
Milano 2001.
146
4.
RISORSE
no del Middle West come un vasto complesso ecologico-economico
in grado di segnare in profondità la società e la natura americane. La
storia delle vacche longhorn texane, è connessa alle vicende dell’espansione della ferrovia nella Frontiera, alle innovazioni tecnologiche
nella refrigerazione e preparazione della carne, all’organizzazione
scientifica del lavoro nata nei mattatoi di Chicago prima che nelle
fabbriche di Ford, alle grandi speculazioni del capitale finanziario inglese e poi dei cartelli statunitensi della carne, che cancellarono dalle
terre dell’Ovest ogni traccia di proprietà comune e di usi collettivi
delle risorse.
Rifkin parla di sistema bovino proprio per evidenziare il carattere
sistemico del suo funzionamento e della sua capacità di condizionare
aspetti diversi, dalla cultura all’economia, dalle strutture giuridiche
agli ecosistemi. Per far posto alle vacche, ad esempio, è stata stravolta
la copertura vegetale dell’intera America Latina e non solo negli anni
immediatamente successivi alla scoperta: dal 1960 alla fine del secolo
più del 25% delle foreste dell’America centrale è stato abbattuto per
far posto ai pascoli. Rifkin tenta di valutare l’impatto del complesso
bovino sugli ecosistemi, in termini di erosione del suolo, di consumo
di acqua e di risorse alimentari (oggi il 70% dei cereali prodotti negli
USA è usato come cibo per gli animali), di distruzione delle specie
autoctone (sia per la trasmissione di patologie alla fauna selvatica sia
per la sistematica opera di annientamento dei cosiddetti animali nocivi, concorrenti o predatori dei bovini d’allevamento).
Lo studio del complesso bovino, come pure dell’intero sistema
zootecnico, apre, dunque, delle finestre anche sulla fauna selvatica,
decisamente meno indagata dagli storici. Un corollario della domesticazione è stato, infatti, la caccia spietata ai cosiddetti nocivi, ossia
agli animali selvatici che minavano il capitale accumulato nei recinti o
nelle stalle.
Worster ha ricostruito la scomparsa del lupo dalle praterie americane (da 2 milioni di esemplari prima dell’arrivo dei bianchi all’estinzione nel 1929) e la guerra senza quartiere contro il suo successore, il
coyote: tra il 1915 e il 1947 ne furono eliminati circa 2 milioni. Questa crociata, tuttavia, non si basava solo su motivazioni strettamente
economiche, ma, come spiega Worster, aveva un forte sostrato culturale: in natura c’erano animali buoni e animali cattivi e l’uomo doveva intervenire per aiutare i primi e distruggere i secondi, in modo da
riportare l’armonia primordiale. Inutile dire che più dell’armonia,
questo tipo di interventi creò ecosistemi fortemente squilibrati, come
nel caso dell’Arizona dei primi del Novecento, dove si passò da 4.000
147
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
a 100.000 cervi in meno di vent’anni: mentre molti animali morivano
di fame, fu necessario, in questo come in molti altri casi, che l’uomo
assumesse il ruolo dei predatori con prelievi (ossia battute di caccia)
massicci e programmati. Né, d’altra parte, lo squilibrio fu solo di natura ecologica: la grande industria ovina dell’Ovest, dilatatasi a dismisura sotto la protezione letterale delle armi del governo, se si salvò
dai coyote e dagli altri predatori naturali, non sopravvisse alla crisi
del settore dopo la seconda guerra mondiale, trascinando nella bancarotta tutto il mondo che ruotava intorno ad essa.
La novità dell’esperienza americana fu soprattutto il diretto coinvolgimento dell’apparato statale nella crociata contro i nocivi, attraverso la partecipazione diretta allo sterminio del Bureau of the Biological Survey del ministero dell’Agricoltura 31; tuttavia, da sempre i
poteri pubblici avevano, sia pure indirettamente, sostenuto questa
pratica. In un pionieristico volume sulla storia degli animali lo storico
francese Robert Delort ricordava, ad esempio, le taglie e i premi assegnati per l’eliminazione del lupo, un nemico storico dell’uomo e del
sistema zootecnico antropogenico 32. Se il lupo, grazie anche al peso
che ha avuto nell’immaginario collettivo, ha attirato almeno un po’
l’interesse dei ricercatori, le cose sono andare diversamente per un
altro animale, che pure ha profondamente segnato la storia e l’ecologia: il topo. Mentre Delort e Walter ricostruiscono l’affermazione in
Europa del topo grigio, il surmulotto, sul topo nero a partire dai primi del Settecento 33, John McNeill ne descrive il potere distruttivo
sulla fauna autoctona nel caso di ecosistemi estremamente fragili,
come quelli delle isole del Pacifico, dove gli uccelli erano assolutamente impreparati all’arrivo di questo predatore che fece facilmente
strage delle loro uova 34; d’altronde l’impatto devastante della bioinvasione dei ratti può ben valutarsi se si pensa ai 32 milioni di topi
uccisi nel 1917 in una sola area dell’Australia del Sud 35. Ovviamente,
31. Tutta questa parte è tratta da D. Worster, Storia delle idee ecologiche, il Mulino, Bologna 1994, cap. XIII.
32. R. Delort, L’uomo e gli animali dall’età della pietra a oggi, Laterza, RomaBari 1990, pp. 267-99.
33. R. Delort, F. Walter, Storia dell’ambiente europeo, Dedalo, Bari 2002, pp.
182-3.
34. J. McNeill, Of Rats and Men. A Synoptic Environmental History of the Island
Pacific, in J. D. Hughes, M. E. Sharpe (eds.), The Face of the Earth. Environment and
World History, Armonk, New York 2000, p. 95.
35. C. Ponting, Storia verde del mondo, Società Editrice Internazionale, Torino
1992, p. 192.
148
4.
RISORSE
quella dei topi è una storia direttamente legata alle grandi ondate epidemiche, sulle quali ci soffermeremo nel capitolo seguente.
Dai bovini ai ratti, passando per i predatori: davvero sembrano
pochi gli studi su animali più lontani dall’uomo. Da questo punto di
vista sono soprattutto le ricerche sulla caccia a restituire alla storia
almeno un po’ delle interazioni tra alcune di queste specie e le società umane. La storia della caccia non è, necessariamente, storia ambientale, ma spesso è stata storia delle norme e delle legislazioni di
caccia (specie per l’età medievale) o dei trattati sull’argomento o, in
modo particolarmente felice, storia sociale degli usi delle risorse e del
conflitto di classe che ne generava 36.
Mentre Clive Ponting ha mostrato soprattutto il legame esistente
tra la caccia e il sistema economico e sociale capitalistico (la fine del
piccione migratore sfruttato su scala industriale per rifornire di cibo
le città della East Coast o l’esaurimento dei castori ad Ovest del Mississippi per l’industria delle pellicce) 37, John MacKenzie ha esaminato le relazioni tra imperialismo britannico e caccia ai grandi animali
selvatici in Africa e in India 38. La sua ricerca rivela la quantità di
informazioni sulle dinamiche popolazionali dei grandi selvatici che è
possibile ricavare dai diari dei cacciatori dell’età vittoriana. Egli non
si sofferma solo sul legame tra mercato internazionale e andamento
della caccia, anche se ricorda il peso della richiesta di avorio (dalla
gioielleria alle palle da biliardo, ai pianoforti) nelle vicende degli elefanti, ma tenta di ricostruire anche il clima culturale, l’ethos della caccia alla grande selvaggina esotica.
La distruzione della fauna locale andò di pari passo con il crescente interesse per la storia naturale (molti animali uccisi finirono ad
arricchire collezioni e musei naturalistici), mentre si acuiva, secondo
MacKenzie, lo iato tra la compassione romantica per gli animali da
compagnia e la spietata efferatezza della caccia ai selvatici. D’altronde
nei contesti coloniali, essa poteva essere ben giustificata dalla pericolosità delle belve cacciate: negli ultimi cinquanta anni dell’ottocento si
calcolava che almeno 1.600 persone perdessero la vita ogni anno uccise dalle tigri; il che giustificava la politica di eliminazione sistemati-
36. Sulla legge contro i bracconieri inglesi e sul conflitto che ne generò si veda
l’opera magistrale di E. Thompson, Whigs e cacciatori, sulla quale, comunque, torneremo più nel dettaglio nel capitolo Ecologia, a proposito dei conflitti.
37. Ponting, Storia verde del mondo, cit., pp. 189, 202.
38. The Empire of Nature. Hunting, Conservation and British Imperialism, University Press of Manchester, Manchester 1988.
149
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
ca portata avanti dalle compagnie ferroviarie impegnate tanto in Africa che in Asia.
Tuttavia, nell’ipotesi di MacKenzie, fu proprio a partire dalla caccia che nacquero le prime esperienze di protezionismo ai primi del
XX secolo, con la creazione delle riserve come aree destinate al ripopolamento delle specie in pericolo. Un modello, quello delle riserve,
legato almeno in parte a quello dei parchi, che ci porta a parlare non
più di animali, ma di nuovo degli uomini e delle loro idee sulla natura, come vedremo nel capitolo Ecologia.
4.5
Città e industria
Dagli ultimi decenni del XX secolo, il mondo in cui la maggior parte
delle persone vivono, e lavorano, è quello delle città, che talvolta assumono le dimensioni di giganteschi organismi artificiali. Ma è proprio così? La natura è davvero scomparsa dalla vita di milioni di persone, abituate a pensare che il loro cibo proviene dai supermercati, e
che i loro rifiuti scompaiano come per magia, inghiottiti dalle macchine? Questa domanda forma la base per un filone di studi della
storia ambientale, che si confronta con le implicazioni ecologiche dell’urbanizzazione e dell’industrializzazione, elaborando strumenti interpretativi propri, che la distinguono dalla storia urbana tout court, da
quella delle infrastrutture e da quella dell’industria.
Intere categorie analitiche sono nate così dalla storia ambientale
urbana, e dal suo rapporto con l’ecologia: la definizione di “città sanitaria”, il concetto di metabolismo città-natura, la categoria di sostenibilità urbana e quella di “giustizia ambientale”. A queste se ne
potrebbero aggiungere altre, di tipo trasversale, come quelle suggerite
da McNeill nella sua storia dell’ambiente nel Novecento: il grappolo
della città a vapore e quello della città a motore, che legano il mondo
urbano con quello del paradigma tecnologico dominante (cfr. il capitolo Economia).
Da una comune percezione della città come un pezzo di natura
trasformato in artefatto, e tuttavia profondamente legato al mondo fisico che lo sostiene, così come un organismo vivente è legato al proprio ambiente, gli storici ambientali urbani hanno concentrato i loro
studi in due direzioni complementari: la prima è quella che tende a
ricostruire la storia del metabolismo città-natura, i flussi di risorse che
passano attraverso il corpo della città, uscendone trasformati in merci
e rifiuti, per tornare a disperdersi nell’ambiente. Questo filone si è
arricchito delle riflessioni dell’ecologia urbana, che definiscono la cit150
4.
RISORSE
tà come un sistema dissipativo ad alta entropia 39. L’altra direzione
d’indagine è quella che si interessa prevalentemente dell’inquinamento urbano, generalmente legato all’industrializzazione. Anche questo
filone si arricchisce, recentemente, del contributo proveniente dall’ecologia politica, elaborando una riflessione sui conflitti e movimenti
ecologisti come lotte per la giustizia ambientale.
Tra i primi a disegnare una grande città come un ambiente fisico,
socialmente e culturalmente mediato, lo statunitense William Cronon
lanciò nel 1991 la sua storia di Chicago e del “grande West” 40 come
una sfida alla comune percezione di cosa sia una metropoli e cosa
faccia parte della sua storia. Come l’autore dichiarava fin dalle prime
pagine, non si poteva comprendere la storia di Chicago senza includervi il suo particolare legame con la vasta regione situata ad Ovest
della città; il problema, dunque, era ricostruire l’essenza di quel rapporto, e cioè le vicende di un’economia metropolitana in fase di
espansione, capace di creare legami elaborati e sempre più stretti con
tutto il territorio circostante. Il modo in cui quel paesaggio, quel territorio furono trasformati dalla città anticipava, piuttosto, molti dei
problemi ambientali del presente: deforestazione su grande scala, minaccia all’estinzione di specie, sfruttamento insostenibile di risorse naturali, distruzione di vasti habitat.
Dopotutto fu in quel periodo, tra Otto e Novecento, che la gran
parte del mondo in cui gli “americani” tuttora vivono fu “creato”: le
grandi città come l’agricoltura meccanizzata, il sistema di trasporti
che tiene insieme la nazione e le istituzioni di mercato che definiscono le relazioni tra gli esseri umani e tra essi e l’ambiente. In altre
parole, il XIX secolo vedeva la creazione di un’economia integrata negli Stati Uniti, un sistema economico che allacciava inestricabilmente
città e campagna al mercato internazionale, e che avrebbe alterato
per sempre la relazione tra gli esseri umani e l’ambiente del Nord
America.
Da questo punto di vista, il modo migliore per raccontare insieme
queste due storie è quello di mettere al centro una categoria di fenomeni che ha la capacità di tenere insieme economia ed ecologia: il
flusso di merci. Di conseguenza, il libro parla di grano, legname, carne, ed altri beni materiali che formano la sostanza del rapporto tra
39. Riprendo questa definizione da G. Corona, La sostenibilità urbana a Napoli.
Caratteri strutturali e dinamiche storiche, in “Meridiana. Rivista di Storia e Scienze Sociali”, 2001, 42.
40. Cfr. Nature’s Metropolis. Chicago and the Great West, Norton & Co., New
York 1991.
151
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
Chicago e il grande West, nella convinzione che poche istituzioni
hanno, più del mercato, il potere di coinvolgere comunità umane ed
ecosistemi insieme.
La riflessione sul metabolismo città-natura è stata più di recente
integrata con quella sulla categoria di sostenibilità urbana. Una studiosa italiana, Gabriella Corona, ha mostrato l’utilità e l’importanza
di questo percorso di analisi, lavorando sulla storia di Napoli in età
contemporanea. In due saggi pubblicati a distanza di pochi anni 41,
l’autrice traccia una pista di indagine originale e feconda, che va dal
riconoscimento del ruolo giocato dalle risorse naturali nella costruzione storica della città, a una riflessione sull’insostenibilità del modello
urbanistico prevalso nella seconda metà del Novecento, con un occhio attento alle possibilità aperte con l’attuale fase di ridisegno dei
piani urbanistici.
Dietro le trasformazioni, pure macroscopiche, del paesaggio e della città di Napoli, vive una storia seminascosta di trasformazioni del
rapporto tra società e natura, che contiene il passaggio delle risorse
da bene collettivo e patrimonio cittadino a bene commerciale, alla
stregua di qualsiasi altro. Ed è proprio in questa trasformazione,
niente affatto marginale, che va ricercata probabilmente l’origine dei
guasti ambientali della città, divenuti evidenti negli ultimi decenni del
Novecento, e la rottura dell’equilibrio ecologico tra essa e il suo territorio.
La sostenibilità, infatti, come suggerisce Corona nel suo saggio introduttivo ad una raccolta di lavori su Napoli 42, è strettamente legata
ad un’accezione delle risorse naturali come commons, ossia beni comuni, la sola che possa garantirne la riproducibilità. Una volta assicurata una gestione privatistica, o meglio affaristica, delle risorse naturali e del territorio, l’espansione urbana procederà lungo direttrici di
tipo altamente dissipativo, compromettendo seriamente gli equilibri
ambientali e la vita stessa dei suoi abitanti.
Ma la sostenibilità, per quanto categoria figlia del nostro tempo, è
un concetto che si presta a venire indagato in epoche e contesti diversi, poiché esso ha una valenza euristica molto ampia: un libro
come quello di Piero Bevilacqua su Venezia 43, rende molto convincente questo approccio, mostrando come il segreto di quel successo,
la sopravvivenza stessa di Venezia come città lagunare, sia stato se41. Cfr. Risorse nella città, in Bevilacqua, Corona (a cura di), Ambiente e risorse,
cit., e La sostenibilità urbana a Napoli, cit.
42. Cfr. La sostenibilità urbana a Napoli, cit.
43. Venezia e le acque. Una metafora planetaria, Donzelli, Roma 1995.
152
4.
RISORSE
gnato da «lo sforzo quotidiano di assoggettamento – e insieme di
coinvolgimento e di cooperazione – degli interessi privati e individuali al bene pubblico delle acque e della città».
In altre parole, la sostenibilità di Venezia, nel lungo corso della
sua storia, è collocata nella capacità tecnica, politica e sociale non
tanto di dominare la natura, quanto semmai di non dominarla, cioè
di trovare forme di coesistenza e di equilibrio tra il contesto urbano e
quello ambientale. La forma in cui storicamente si concretizzava questa capacità era la regolazione statale, con le sue magistrature sulle
acque, sorte fin dal XIII secolo, appunto per impedire che le acque
interne divenissero oggetto di appropriazione privata, a rischio dell’integrità fisica del territorio.
La storia di Venezia non è quindi quella di una comunità che vive
in una condizione di armonia metastorica con il suo ambiente: al contrario, essa è densa di conflitti tra gruppi sociali, fazioni politiche e
teorie scientifiche, ma soprattutto fra gruppi di utenti delle sue risorse naturali (pescatori, agricoltori, naviganti, armatori). Ciò che garantisce la sostenibilità di questo complesso intreccio di interessi nel
cuore di un ecosistema altamente instabile è la prevalenza, all’interno
di quel gioco di forze, dell’interesse collettivo, interpretato come la
salvaguardia del delicato equilibrio tra acqua e terra.
A cavallo tra i due filoni, quello della città come ecosistema, e
quello incentrato su scarti, rifiuti ed emissioni inquinanti, si colloca
un altro studioso italiano di eco-storia urbana, Ercole Sori. Con due
libri 44 decisamente innovativi nel panorama degli studi urbani, e anche ambientali, italiani, Sori affronta le trasformazioni della città in
età moderna e contemporanea in chiave ecosistemica, proponendo
veri e propri modelli di interrelazione tra le componenti chiave dell’ecosistema urbano, ossia i flussi di risorse (idriche, alimentari ed energetiche, materiali) in entrata e in uscita.
Più in generale, la storia dei rifiuti, che l’autore definisce come «il
rovescio della produzione», si configura come una rivisitazione del
flusso della produzione in chiave ambientale. La prospettiva proposta
dall’autore è quella di riconsiderare il consumo come un atto di produzione di rifiuti, e non come fase finale del processo produttivo.
Questa prospettiva è storicamente fondata: nella città “pre-industriale
e paleotecnica”, che forma la gran parte della storia raccontata da
44. Il rovescio della produzione. I rifiuti in età pre-industriale e paleotecnica, il
Mulino, Bologna 1999; La città e i rifiuti. Ecologia urbana dal Medioevo al primo Novecento, il Mulino, Bologna 2001.
153
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
Sori, la tipologia dei rifiuti (rifiuti al consumo e alla produzione, deiezioni, spoglie) evidenzia un predominio delle forme di inquinamento
biologico, e ciò che l’autore chiama il «ciclo degli elementi e bilancio
dei materiali» è segnato dal cerchio organico tra città e campagna e
dal riciclaggio.
La rottura storica di questo cerchio organico, o meglio biologico,
tra città e campagna, costituisce un importante campo d’indagine della storia ambientale. Per tutto l’Ottocento Parigi, New York, Napoli,
Edinburgo 45, come del resto la maggior parte delle città contemporanee, avevano sviluppato un sistema di trattamento dei rifiuti biologici (deiezioni umane ed animali, materia fecale, scarti di produzione)
mediante il riciclo e la produzione di fertilizzanti per l’agricoltura.
Alla fine del 1800, le città inaugurarono un rapporto del tutto nuovo
con l’ambiente: grandi quantità di acqua furono portate in città da
fonti lontane, e, una volte usate, scaricate in fiume, lago o in mare
(criterio allontanamento e diluizione). Questo processo, che Martin
Melosi ha chiamato la costruzione della città sanitaria, ruppe il cerchio organico.
A partire dagli anni trenta del Novecento, il ciclo dell’acqua e
quello dell’azoto hanno conosciuto nella gran parte delle città una
modificazione sostanziale e definitiva: l’adduzione di grandi quantità
di acqua in città, l’impermeabilizzazione dei suoli e l’espansione edilizia e demografica comportano l’espulsione delle acque reflue, e la
loro dispersione nell’ambiente. Questo significa anche che la città diventa produttrice netta di azoto a scapito dell’ecosistema circostante
e a danno del proprio stesso metabolismo.
La storia dell’inquinamento urbano-industriale, e del conflitto ambientale, comincia a coniugarsi, in Europa e in Italia, come un settore
di studi ben rappresentato. Un primo quadro d’insieme viene offerto
in un volume edito nel 2002, che definisce l’inquinamento come “il
demone moderno” 46: il libro presenta alcune linee interpretative ge-
45. Cfr. S. Barles, L’invention des eaux usées: l’assainissement de Paris, de la fin
de l’Ancien Régime à la seconde guerre mondiale, in C. Bernhardt, G. Massard-Guilbaud (éds.), Le démon moderne. La pollution dans les sociétés urbaines et industrielles
d’Europe, Presses Universitaires Blaise-Pascal, Clermont-Ferrand 2002; T. Steinberg,
Down to Earth. Nature’Role in American History, Oxford UP, New York 2002; P.
Tino, Campania Felice? Territorio e agricoltura prima della “grande trasformazione”,
Meridiana Libri, Catanzaro 1997; C. Hamlin, Environmental Sensibility in Edinburgh,
1839-1840: the “Fetid Irrigation” Controversy, in “Journal of Urban History”, 1994, 3.
46. Bernhardt, Massard-Guilbaud, Le démon moderne, cit.
154
4.
RISORSE
nerali (la nascita dell’idea di inquinamento e di rischio ambientale, la
percezione della questione forestale, le istituzioni e gli attori nella gestione dei rifiuti), e raccoglie casi di studio sull’inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo in alcune città europee tra Otto e Novecento.
A partire dalla fine dell’Ottocento, inquinamento e disordine sociale furono spesso percepiti come le due facce di una stessa medaglia, il portato della modernità prodotta dal secolo dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione. Come tali, essi furono affrontati insieme,
tanto dai conservatori come dai riformatori: l’utopia igienista della
fine del secolo, diffusa in tutta Europa e negli Stati Uniti, rappresentava infatti l’idea che fosse possibile sradicare i mali sociali (povertà, malattia, devianza) lavorando per il miglioramento delle condizioni igieniche delle città (acquedotti e fognature, risanamento dei
suoli, edilizia popolare). Da quel punto di partenza, la lotta all’inquinamento ha poi subito molteplici trasformazioni, camminando di pari
passo con l’evoluzione delle forme di inquinamento (dal carbone al
petrolio e al nucleare, dalla soda ai pesticidi, dalle deiezioni biologiche alla plastica), ma anche con l’evoluzione sociale (dalla legislazione
sulle industrie insalubri all’ecologia politica).
Il punto di vista dei riformatori, e dei costruttori di infrastrutture
urbane a fine Ottocento era incentrato sul problema igienico, ma non
sull’aspetto ecologico delle relazioni tra città e ambiente. Come hanno dimostrato, ad esempio, Martin Melosi per la storia di Houston, e
Simone Neri Serneri per quella delle città italiane, la mancata percezione del problema ecologico rese le politiche anti-inquinamento inefficaci per larga parte del XX secolo.
Houston, che sorge su un’immensa falda acquifera, ha cominciato
alla fine dell’Ottocento a prelevare le acque per i bisogni della città
dal sottosuolo: ma con la grande espansione urbana durante il boom
del petrolio, che ha trasformato la città in metropoli da due milioni
di abitanti nel secondo dopoguerra, la pressione esercitata su questa
risorsa è diventata insostenibile. Il risultato è stata una subsidenza del
suolo che oscilla tra i trenta centimetri e i tre metri di profondità, e
un enorme aggravamento del problema delle alluvioni. Houston infatti soffre di un regime di precipitazioni a carattere torrenziale, ed è
sempre stata soggetta ad allagamenti: ma, con l’eccessiva sottrazione
di acqua dal sottosuolo, questo ha subito un processo di ricompattazione che ne ha diminuito la capacità di assorbimento, insomma è
diventato più impermeabile, e ciò proprio mentre la cementificazione
in superficie sottraeva spazi al verde, col risultato che la città andava
155
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
perdendo progressivamente la sua capacità naturale di assorbire parte
delle acque piovane 47.
Un aspetto diverso di questo problema, la rimozione della dimensione ecologica dell’urbanizzazione, è quello sottolineato da Simone
Neri Serneri per le città industriali italiane nello stesso lasso di tempo: in questo caso, la preoccupazione di allontanare le deiezioni e le
emissioni inquinanti dalla città, riversandole nei fiumi, si scontrava
con le limitate capacità di assorbimento dell’ecosistema, con il risultato di intasare e saturare i corsi d’acqua, senza peraltro ottenere un
effettivo disinquinamento. Anche qui il punto critico del sistema è
collocato in una fase di espansione, quella del boom degli anni sessanta, in cui la crescita (il cosiddetto miracolo economico) si rivelava
non sostenuta dalla sfera ecologica, con evidenti scompensi e perdite
di patrimonio collettivo 48.
È proprio a questo punto, nell’intersezione tra la storia delle città
come ecosistemi e quella dell’inquinamento industriale che la maggior
parte di esse ha sofferto negli ultimi due secoli, che la storia ambientale urbana incontra quella dei movimenti ecologisti e dei conflitti sociali per la giustizia ambientale.
4.6
Disastri
Paradossalmente i disastri sembrano poco rappresentati nella storia
ambientale. Qualcuno ha spiegato questa “stranezza”, attribuendola
alle deboli tracce che i disastri hanno lasciato nei paesaggi 49. È ovvio, infatti, che le ricostruzioni cancellino, almeno generalmente, le
testimonianze del disastro; e non si tratta solo delle ferite materiali
(palazzi distrutti, strade interrotte, argini demoliti, foreste bruciate
ecc.), ma anche della memoria dell’evento: le società sembrano non
ricordare le grandi calamità del passato, specie quando esse hanno
dimostrato la loro vulnerabilità e, in qualche misura, il loro fallimento. Non è, dunque, la mancanza di tracce evidenti l’unica ragione di
questa amnesia del disastro.
Piero Bevilacqua, ad esempio, collega lo scarso interesse degli storici, almeno italiani, per i terremoti tanto al rifiuto del determinismo
47. Cfr. M. Melosi, Sanitary Services and Decision Making in Houston,
1876-1945, in “Journal of Urban History”, 1994, 3.
48. Cfr. Water Pollution in Italy: the Failure of the Hygienic Approach,
1890s-1960s, in Bernhardt, Massard-Guilbaud (éds.), Le démon moderne, cit.
49. J. K. Mitchell, Crucibles of Hazard: Mega-Cities and Disasters in Transition,
United Nations University Press, New York 1999.
156
4.
RISORSE
quanto all’impossibilità di includere quell’evento all’interno del paradigma del processo storico come progresso: il terremoto come metafora di un processo oscuro, sotterraneo, mostrerebbe gli uomini vittime microscopiche della natura e della sua forza incontrollata 50.
Ma come mai persino la storia ambientale è così poco incline a
raccontare i disastri? Probabilmente nello sforzo di restituire ordinarietà al rapporto tra gruppi umani e natura, gli storici si sono concentrati sugli elementi di “continuità” e hanno inizialmente tralasciato i
grandi eventi traumatici. Non è la catastrofe l’unico spazio dell’interazione tra società ed ecosistemi; come pure non è l’azione eccezionalmente dannosa il solo modo nel quale gli uomini hanno condizionato
pesantemente la natura: ci sembrano queste le principali preoccupazioni che portavano gli storici ambientali a scegliere di misurarsi soprattutto con i mille errori, con le tante pratiche di uso delle risorse
che in modo cumulativo possono condurre anche a grandi cambiamenti ecologici.
Il rifiuto per l’evenemenziale, che liberava la storia sociale dalle
battaglie, dai grandi personaggi e dai trattati, ha portato anche la storia ambientale lontano dagli eventi traumatici ed atipici, per misurarsi
con i cambiamenti “quotidiani”. Tuttavia, è la dicotomia tra straordinario e ordinario, tra grande catastrofe e piccolo danno cumulativo
che appare insufficiente a spiegare le dinamiche dei cambiamenti ecologici e delle loro relazioni con il sistema economico-sociale. Ad
esempio, la discussione tra disastri naturali e non naturali sembra
piuttosto obsoleta e certamente non risolutiva per la comprensione
dei fenomeni analizzati: è ovvio che un terremoto, un’eruzione o un
uragano sono cose diverse dagli incidenti industriali o dalle conseguenze ecologiche delle guerre (molto più complicata, come vedremo,
la questione del fuoco o delle epidemie); ma, come dimostrano ormai
tante ricerche, il confine tra natura e cultura, nella sua accezione più
ampia, anche in questo caso è estremamente esile e mobile.
Come ha scritto di recente la storica francese Geneviève MassardGuilbaud, studiosi delle più diverse discipline sono ormai d’accordo
nel ritenere gli eventi catastrofici sempre in qualche misura costruzioni culturali e socio-economiche 51. La storicità della catastrofe si mi-
50. P. Bevilacqua, Tra natura e storia. Ambiente, economie, risorse in Italia, Donzelli, Roma 1996, pp. 78-81.
51. G. Massard-Guilbaud, Introduction: the Urban Catastrophe: Challenge to the
Social, Economic and Cultural Order of the City, in G. Massard-Guilbaud, H. L. Platt,
D. Schott (eds.), Cities and Catastrophes – Villes et Catastrophes, Peter Lang GmbH,
Frankfurt am Main 2002, p. 10.
157
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
sura, inoltre, dalla percezione che le società hanno di essa: cosa è una
catastrofe, cosa debba considerarsi tale non è un dato metastorico,
ma interagisce profondamente con i cambiamenti avvenuti nei sistemi
tecnologici, nell’organizzazione sociale e nella cultura popolare 52.
In altri termini, ciò che era un disastro all’interno di un dato contesto tecnologico e culturale può essere ridimensionato di molto se
collocato in una diversa situazione (con nuove risorse scientifiche,
nuovi strumenti tecnologici, minore densità di popolazione, diversa
organizzazione dello spazio e degli usi della natura ecc.). Oltre all’impatto materiale, cambia, ovviamente, anche la percezione e l’interpretazione dell’evento catastrofico: Massard-Guilbaud ricostruisce il passaggio da un’idea religiosa-superstiziosa della catastrofe (punizione di
Dio/presagio di altro) ad un’idea “scientifica”, che trasformava i colpevoli in vittime innocenti e la natura da strumento di Dio ad agente
cieca della sfortuna.
Ted Steinberg sostiene che questa bipolare interpretazione del disastro come atto di Dio o prodotto della natura in realtà abbia opacizzato la questione più rilevante, ossia la responsabilità degli uomini
in questi eventi calamitosi. Un esempio nostrano di questo discorso
retorico sulla catastrofe ineluttabile è stato proposto di recente da
Marco Paolini nella sua pièce teatrale sul Vajont 53. Paolini mostra
come i giornali dell’epoca non solo accreditassero l’idea di una calamità “naturale”, ovvero senza colpevoli, ma anzi si lanciassero in una
vera e propria campagna stampa contro coloro che invocavano la necessità di accertare le responsabilità dell’immane tragedia.
La nozione di responsabilità, peraltro, è evidentemente più ampia
di una ossessiva ricerca delle cause prime: essa mette in gioco atteggiamenti, scelte, strategie che interagiscono con l’evento catastrofico
al di là della sua origine. Acts of God di Steinberg 54 va proprio in
questa direzione: ricostruendo il terremoto di Charleston, South Carolina, del 1886 o le alluvioni nel triangolo tra Mississippi e Missouri,
Steinberg intreccia il conflitto etnico e le disuguaglianze sociali con
gli eventi naturali. La reazione della comunità nera al terremoto, fortemente connotata da elementi religiosi, viene stigmatizzata dall’élite
bianca in nome di un ritorno alla normalità, ossia al lavoro e alle normali relazioni di subordinazione tra i due gruppi etnici, che il terremoto e lo stato permanente di preghiera stavano mettendo in discus52. Ibid.
53. Vajont 9 ottobre 1’63. Orazione civile, Einaudi, Torino 1999.
54. Cfr. T. Steinberg, Acts of God. The Unnatural History of Natural Disaster in
America, Oxford University Press, Oxford-New York 2000.
158
4.
RISORSE
sione. Ancora più evidente è lo scontro tra agricoltori bianchi e proletariato nero nel caso delle alluvioni, laddove condizioni abitative diverse (roulotte/case) ed esigenze diverse (le alluvioni che fertilizzavano i campi) mettevano in stridente conflitto i due gruppi etnico-sociali.
Nei lavori di Mike Davis, questi elementi di analisi, di ascendenza
marxiana, risultano, se possibile, ancora più espliciti. Davis mostra,
infatti, la possibilità di ricercare le responsabilità umane anche dentro
eventi che ci sembrerebbero estremamente lontani dal nostro controllo, come i fatti climatici o i terremoti. In Olocausti tardovittoriani Davis non si confronta con il problema, pure di estrema rilevanza, dell’antropizzazione del clima, ossia di quanto esso sia frutto delle attività umane; d’altra parte l’oscillazione climatica del Pacifico, il cosiddetto ENSO, meglio conosciuto come “El Niño”, oggetto del suo studio, sembra davvero poco connesso alle attività umane.
Ciò che interessa l’autore, è la stringente relazione tra dinamiche
climatiche ed economiche: se la siccità portava con sé irrimediabilmente una forte diminuzione dei raccolti, la carestia era piuttosto l’esito di strategie politiche deliberate. È il caso della carestia di Madras
negli anni settanta dell’Ottocento che si tramutava in un’immane catastrofe umanitaria soprattutto per la scelta del governo coloniale inglese di sposare una rigida osservanza liberista, proibendo forme di
aiuto che mettessero in pericolo l’automatismo del mercato come allocatore di risorse e stabilizzatore dei prezzi. In Brasile, poi, oltre al
rifiuto di politiche pubbliche contro le carestie, ed anzi al dispiegarsi
di sanguinose repressioni dei movimenti spontanei di auto-aiuto (tipo
l’esperienza millenaristica della città di Canudos 55) Davis sottolinea i
nessi tra siccità, deforestazione e monocultura del cotone per la regione del Nordeste.
È evidente che un approccio gender-class-race analysis riesce a fornire nuovi elementi di riflessione all’interno del paradigma del disastro naturale, altrimenti schiacciato dalla consueta dicotomia tra uomo
e natura (in questo caso nella domanda “di chi è la colpa?”). Già a
proposito dei boschi abbiamo evidenziato come la storia degli incendi
sia legata ai rapporti di potere che storicamente hanno strutturato le
gerarchie degli usi e dei saperi forestali: la scomparsa dei fuochi domestici, la loro delegittimazione e la conseguente diffusione delle
grandi conflagrazioni non appaiono come il frutto di sbagliate politi-
55. La città Canudos era stata fondata sulle rovine di un’antica fazenda dal beato
Conselheiro, ma venne rasa al suolo dalle truppe regolari brasiliane.
159
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
che forestali, ma piuttosto come parte integrante di un conflitto per il
controllo della natura e della corretta interpretazione di questa, particolarmente evidente nelle esperienze dei regimi coloniali.
Il nesso rapporti sociali-controllo delle risorse-politiche pubbliche
si fa ancora più evidente nelle storie di incendi urbani e periurbani:
se per Los Angeles sono evidenti le conseguenze della speculazione
immobiliare che stipa gli immigrati in casermoni fatiscenti e senza le
minime misure di sicurezza, a Malibù le fiamme arrivano a lambire le
grandi ville dell’élite, ma non siamo in presenza di un’equanime distribuzione di dolore ad opera della natura. Infatti, i costi di una scelta abitativa elitaria estremamente rischiosa, come quella di costruire i
nuovi complessi residenziali fin dentro il chaparral californiano, ottimo combustibile naturale, vengono socializzati concentrando il massimo dei contributi pubblici in questo settore, mentre vengono lasciati
senza sostegno i quartieri popolari colpiti da incendi 56.
Non molto diversa la situazione descritta da Harold Platt per le
alluvioni di Manchester della seconda metà dell’Ottocento 57: anche
qui la storia del disastro incrocia le tematiche dell’environmental
justice, poiché le autorità cittadine rifiutarono di intervenire pure in
presenza di alluvioni reiterate dal momento che esse colpivano solo i
quartieri operai lasciando indenne la parte bene della città (su questo
si veda il capitolo Ecologia); inoltre, essendo danni causati in massima
parte dagli usi industriali delle acque, intervenire per regolamentare
sembrava un affronto alla libertà d’impresa.
Il legame tra giustizia ambientale, disastri e conflitti si rivela
un’ottima chiave di lettura per comprendere le catastrofi industriali:
per esse indicare come colpevole l’uomo in quanto specie è davvero
troppo poco. Tuttavia, in primo luogo colpisce la scarsa presenza di
ricerche storiche su questi temi. Sul disastro di Bhopal (India, 1984),
l’esplosione di una fabbrica di pesticidi della multinazionale Union
Carbide in cui morirono almeno 20.000 persone, il lavoro più completo è probabilmente Mezzanotte e cinque a Bhopal 58, opera di due
giornalisti e non di storici di professione; e lo stesso può dirsi per
56. Cfr. M. Davis, Geografie della paura. Los Angeles: l’immaginario collettivo del
disastro, Feltrinelli, Milano 1999.
57. “The Hardest Worked River”. The Manchester Floods and the Industrialization
of Nature”, in G. Massard-Guilbaud, D. Schott (eds.), Cities and Catastrophes. Coping
with Emergency in European History, Peter Lang, Frankfurt am Main 2002.
58. D. Lapierre, J. Moro, Mezzanotte e cinque a Bhopal, Arnaldo Mondadori
Editore, Milano 2001.
160
4.
RISORSE
alcuni casi italiani, pure di rilevanza internazionale, come Seveso 59 e
Porto Marghera 60.
L’assenza di ricerche storiche non ha significato, tuttavia, l’assoluta mancanza di studi sull’argomento: meritano una citazione in particolare le ricerche di Laura Conti sulla contaminazione da diossina a
Seveso 61, proseguite poi da Virginio Bettini 62. In questi casi, come
sempre, un buon lavoro di storia ambientale dei disastri, oltre a implicare un’attenta analisi dei soggetti sociali coinvolti e delle loro relazioni reciproche, non può prescindere dalla ricerca sulle percezioni
dell’evento, attraverso tre livelli distinti e comunicanti: la comunicazione e rappresentazione ufficiale dell’evento (giornali e saperi scientifici); l’interpretazione e il vissuto quotidiano; l’intervento politico. A
proposito del caso Icmesa di Seveso, Virginio Bettini distingueva tra
ecologia di potere ed ecologia di classe, raccontando del comitato
scientifico popolare organizzato in sostegno delle popolazioni colpite
dalla diossina e delle diverse letture dell’evento date da questo e dagli
altri soggetti scientifici coinvolti (in primo luogo gli esperti della fabbrica) 63.
In campo bellico, sia esso di produzione industriale che di operazioni sul campo, problemi come questi sono ovviamente enormemente amplificati: se non impossibile, è davvero difficile fare ricerca su
argomenti fortemente segnati dalla segretezza militare e, spesso, dalla
mistificazione politica. Come valutare i danni alla salute e all’ambiente di armamenti e agenti chimici dei quali, per ovvie ragioni militari,
si sa poco o niente?
È questa la tesi di molti dei saggi raccolti da Massimo Zucchetti
nel suo volume Guerra infinita, Guerra ecologica 64, dove si denunciano le difficoltà per i ricercatori di acquisire elementi attendibili di valutazione in questo campo. Ciò non toglie che dai pionieristici studi
del 1976 del SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute)
59. La direttiva europea sull’inquinamento industriale viene chiamata appunto la
direttiva Seveso; sul disastro si veda: J. Giliberto, La guerra dell’ambiente. Chi, come,
perché, Laterza, Roma-Bari 2003.
60. G. Bettin (a cura di), Petrolkimiko. Le voci e le storie di un crimine di pace,
Baldini & Castoldi, Milano 1998.
61. Visto da Seveso: l’evento straordinario e l’ordinaria amministrazione, Feltrinelli, Milano 1977; Una lepre con la faccia da bambina, Editori Riuniti, Roma 1978.
62. Ecologia di potere, ecologia di classe nel caso Icmesa, introduzione a B. Commoner, V. Bettini, Ecologia e lotte sociali. Ambiente, popolazione, inquinamento, Feltrinelli, Milano 1976.
63. Ivi, p. 8.
64. M. Zucchetti (a cura di), Guerra infinita, guerra ecologica. I danni delle nuove
guerre all’uomo e all’ambiente, Jaca Book, Milano 2003.
161
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
sulle conseguenze ecologiche della guerra in Vietnam 65, sono stati
fatti sforzi in questa direzione, sebbene quel lavoro rimanga in qualche modo esemplare e ancora piuttosto isolato nel panorama delle ricerche di storia ambientale.
Più di recente alcuni case studies, raccolti nel volume di Zucchetti, sulla Juguslavia, sull’Iraq (riferiti alla prima guerra del Golfo) e
sull’Afghanistan hanno ripreso quel tipo di analisi, concentrandosi
sull’impiego di armi estremamente pericolose, come l’agente Orange
per il Vietnam, ovvero una miscela di acido triclofenossiacetico e di
acido diclofenossiacetico contenente anche tracce di diossina, e i
proiettili all’uranio impoverito nelle più recenti guerre in Medio
Oriente e nei Balcani.
Tuttavia, vale la pena di ricordare anche l’inquinamento da armi
ed operazioni belliche più tradizionali: i bombardamenti delle raffinerie in Iugoslavia, come quella di Panćevo 66, o dei pozzi petroliferi
nel Golfo Persico, hanno causato enormi danni tanto alla salute umana quanto agli equilibri ecosistemici, disperdendo nell’atmosfera e,
soprattutto nei fiumi e nei mari, enormi quantità di sostanze nocive.
Ovviamente, un altro discorso sarebbe affrontare la questione del rischio atomico tanto di pace che di guerra: la riflessione storiografica
sulla catastrofe nucleare, peraltro, almeno in Italia, potrebbe essere
presa come uno dei punti di partenza della nostra storia dell’ambiente. Basti pensare, ad esempio, al percorso intellettuale di uno storico
come Luigi Cortesi che, partendo dalla riflessione sull’atomica 67, è
approdato ad una storia dell’ambiente come critica radicale all’attuale
sistema economico 68.
Come per il nucleare bellico, anche per quello civile sembrano
più diffuse ricerche sui movimenti e le culture antagoniste (di cui daremo conto nel capitolo Ecologia) o sulle politiche nazionali e internazionali di regolamentazione; ciò non toglie che esista una bibliografia relativa alla storia degli accordi per la limitazione delle armi
nucleari, tuttavia poco centrata sulle questioni ambientali.
Sono ancora poche, ad esempio, le storie degli incidenti che hanno coinvolto il nucleare civile: sia John McNeill 69 che Donald Hu-
65. Ecological Consequences of the Second Indochina War, Almqvist & Wiksell
International, Stockholm 1976.
66. Zucchetti (a cura di), Guerra infinita, guerra ecologica, cit.
67. Storia e catastrofe. Considerazioni sul rischio nucleare, Liguori, Napoli 1984.
68. La cultura storica e la sfida dei rischi globali, Odradek, Roma 2002 (supplemento della rivista “Giano. Pace, ambiente, problemi globali”).
69. McNeill, Qualcosa di nuovo sotto il sole, cit., pp. 396-9.
162
4.
RISORSE
ghes 70 dedicano un paragrafo delle loro storie ambientali del mondo
all’incidente di Chernobyl (per la verità in McNeill c’è una più vasta
panoramica del nucleare civile e della sua storia). Il 26 aprile del
1986 esplodeva per un errore umano il cuore del reattore della centrale nucleare sovietica; l’esplosione disperdeva 50 tonnellate di combustibile nucleare nell’atmosfera come particelle disperse, oltre a 70
tonnellate di altro combustibile e 700 tonnellate di grafite radioattiva.
Le radiazioni sprigionate ammonterebbero a circa 90 milioni di curie:
per avere un idea delle conseguenze del disastro sull’ecosistema,
quanto a contaminazione di piante, animali, acque e suoli, e sulla salute umana, si pensi che si tratterebbe di una potenza di centinaia di
volte superiore alle atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki.
Tanto Hughes che McNeill ricostruiscono anche i modi in cui il regime sovietico reagì alla catastrofe sia in termini di propaganda, ovvero
di trasmissione delle informazioni, sia in termini di politiche di intervento nelle zone investite dalla catastrofe.
Collegando la questione dei disastri a quella della giustizia ambientale e dei conflitti ecologico-sociali (di cui parleremo più diffusamente
nel capitolo Ecologia) è possibile, dunque, superare una visione quasi
aneddotica dell’evento calamitoso. Tuttavia, è possibile anche un approccio diverso alla storia dei disastri, lontano tanto dall’aneddotica
quanto dalla gender-class-race analysis. Forse mai come in questo campo, la storia ha potuto sperimentare da vicino la possibilità di dare un
contributo concreto alla soluzione dei problemi e alla prevenzione del
rischio. Un approccio di tipo seriale e cartografico mira, infatti, alla
ricostruzione delle serie storiche degli eventi calamitosi, siano essi terremoti, frane o alluvioni, fornendo uno strumento per le politiche
urbanistiche e di risk management delle aree interessate.
L’esperienza spagnola di Maria Del Carmen Llasatt, che vede il
lavoro di meteorologi e storici su regimi pluviometrici, bacini fluviali
e inondazioni 71, e quella italiana di Emanuela Guidoboni sui terremoti 72, dimostrano che proprio sul campo dei disastri la tante volte
70. D. Hughes, An Environmental History of the World. Humankind’s Changing
Role in the Community of Life, Routledge, London-New York 2001, pp. 193-9.
71. M. Del Carmen Llasat, M. Barriendos, The Use of Historical Information in
Flood Risk Assessment. Application to the Tern Basin (XIV-XX), paper presentato alla
conferenza internazionale “Views from the South. Environmental stories from the Mediterranean World (19th-200th Centuries)”, Naples 12-13 September 2003.
72. Tra le sue molte pubblicazioni su questi temi: E. Boschi, E. Guidoboni (a
cura di), Catania, terremoti e lave: dal mondo antico alla fine del Novecento, Compositori, Bologna 2001; Terremoti prima del Mille in Italia e nell’area mediterranea, Storia,
archeologia, sismologia, Bologna 1989.
163
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
invocata multidisciplinarietà sta trovando le sue esperienze più riuscite. In particolare le ricerche della Guidoboni e del suo gruppo offrono un modello importante anche a livello internazionale di ricerca
seriale sulla sismicità italiana, che richiede una grande varietà di competenze nel tentativo non solo di localizzare e censire i terremoti italiani, ma anche di valutarne l’impatto, l’epicentro, oltre, ovviamente,
alla veridicità della notizia e alla vera natura dell’evento descritto. Le
banche dati sulla sismicità in Italia, come quelle sul dissesto idrogeologico, costituiscono fino ad oggi i migliori esperimenti di ricerca interdisciplinare e di applicazione dell’analisi storica alla prevenzione
del rischio.
All’interno del vastissimo filone di ricerche sui disastri, meritano
di essere ricordati gli studi sulle epidemie, particolarmente numerosi.
In questo caso la difficoltà maggiore sta nel comprendere sotto una
stessa etichetta esperienze storiografiche molto diverse, spesso indipendenti e/o precedenti all’emersione della storia ambientale. Da
sempre la storia della demografia e la storia della medicina si sono
confrontate con le grandi pandemie come pure con l’evoluzione più
generale delle patologie e del loro impatto sulle popolazioni.
Forse la novità più interessante di un approccio environmental history sta nell’aver tentato di superare la semplice relazione tra la singola malattia, o meglio ondata epidemica, e la società che ne era investita; lo sforzo di storici come Alfred Crosby, William H. McNeill 73,
Jared Diamond è stato guardare all’intero sistema, ecologico, economico e culturale, valutando la patologia non solo come fattore esterno, disturbativo, ma anche come fattore interno, frutto di determinati
assetti biologico-genetici ed economico-sociali. Allevamento e ampia
disponibilità di animali domesticabili, gruppi sanguigni, tassi di endogamia e isolamento delle popolazioni, dispersione o accentramento
della residenza, condizioni climatiche: sono questi alcuni dei fattori
da tenere in considerazione nelle vicende legate alla diffusione degli
agenti patogeni.
4.7
Conclusioni
La categoria di risorsa si è rivelata uno dei più potenti strumenti analitici per fare storia dell’ambiente, poiché essa implica l’interazione,
piuttosto che la separazione, tra uomo e natura. Il termine evoca for73. La peste nella storia. Epidemie, morbi e contagio dall’antichità all’età contemporanea, Einaudi, Torino 1981.
164
4.
RISORSE
temente la compenetrazione tra la sfera economica e quella ecologica,
ricordando agli storici come ogni sistema di produzione e distribuzione, e quindi ogni sistema di valori e di organizzazione del potere, siano strettamente collegati all’ecosistema di cui fanno parte. La storia
dell’ambiente considera le risorse come parti di un sistema ecologico,
oltre che di quello economico: questo approccio consente di svelare
alcune caratteristiche del sistema economico che altrimenti resterebbero nascoste, ad esempio l’inefficienza energetica dell’agricoltura industrializzata, o il profondo legame metabolico che unisce il mondo
urbano e industriale alla natura che lo sostiene, o ancora il supporto
dato dalle specie animali domesticate alla dominazione europea nel
nuovo mondo.
Ma il tema delle risorse implica anche una riflessione sulle istituzioni sociali che ne regolano l’accesso e l’uso, quindi sulle forme storiche della proprietà. Rispetto all’interpretazione corrente, generalmente sposata dagli economisti neoclassici, che vede i beni comuni
soggetti al sovrasfruttamento e all’esaurimento, la storia ambientale
ha fornito un importante contributo di revisione, dimostrando come
il termine commons non definisca le risorse libere, res nullius, ma
quelle appartenenti ad una comunità, che le gestisce secondo forme
di diritto consuetudinario e di regolazione informale. Il fatto che questo “altro modo di possedere” sia stato in diversi casi storici più sostenibile rispetto all’appropriazione privata delle risorse è un’acquisizione della storia ambientale, oltre che dell’ecologia politica, che impone una profonda revisione dell’ipotesi tragedy of the commons.
165
5
Ecologia
5.1
L’ecologia come scienza
Osservando la sterminata produzione storiografica nord-americana
sull’ambiente, salta agli occhi la grande rilevanza della storia delle
idee ecologiche. Uno dei primi studi di storia ambientale era il volume di Nash sull’idea di wilderness nella cultura americana 1; d’altronde lo stesso Donald Worster ha iniziato la sua carriera di storico ambientale con una storia delle idee ecologiche e le sue ultime
ricerche sono dedicate a due grandi padri dell’ambientalismo americano, John Wesley Powell 2 e John Muir. Tuttavia, Worster ha sempre avuto ben chiari i limiti e i rischi di una storia dell’ambiente
concentrata essenzialmente su una storia dell’ecologia, magari con i
suoi antecedenti e corollari: già nel 1985 sottolineava, ad esempio,
l’esigenza di analizzare la transizione da saperi vernacolari, empirici,
alla codificazione e professionalizzazione delle scienze della natura e
della sua gestione 3.
La ricerca storica potrebbe svelare quanto la retorica su una
scienza imparziale e utile al benessere generale sia mistificante: «spesso le professionalità ambientali sono state più dipendenti dalle strutture di potere e dai valori culturali di quanto noi non abbiamo compreso, diventando in molti casi un potente strumento nelle mani dei
1. R. Nash, Wilderness and the American Mind, Yale University Press, New Haven-London 1967.
2. A River Running West. The Life of John Wesley Powell, Oxford University
Press, Oxford-New York 2001.
3. D. Worster, World without Borders: the Internationalising of Environmental
History, in K. E. Bailes (ed.), Environmental History: Critical Issues in Comparative
Perspective, UP of America, Lanham 1985, p. 664.
167
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
poteri imperiali» 4. La distinzione tra una scienza arcadica e una
scienza imperiale è il nocciolo dell’ipotesi interpretativa della sua Storia delle idee ecologiche 5: ad una scienza olistica della natura, fatta
per comprendere il luogo in cui si vive (il modello è la Natural History of Selborne di Gilbert White del 1789), si è passati ad una
scienza meccanicistica e orientata dalle necessità economico-politiche
di ottimizzare lo sfruttamento delle risorse naturali di vasti imperi (il
simbolo della nuova scienza imperiale è Bacone, come ha sostenuto
anche Carolyn Merchant).
Da questo punto di vista la tesi di Worster si trova in grande sintonia con le ipotesi interpretative di studiosi come Vandana Shiva o
di storici come Guha e Gadgil: l’affermazione delle scienze ecologiche imperiali, intese come “monoculture della mente”, avrebbe annullato qualunque legittimazione ai saperi alternativi, locali, che in
modo diverso avevano sovrinteso alla gestione delle risorse naturali
(su questo ci siamo soffermati nel capitolo Natura).
Ovviamente non sono mancate le critiche a questo tipo di impostazione, provenienti soprattutto da quegli studiosi che hanno individuato nell’imperialismo britannico le radici delle politiche e dei saperi ecologici. Per Anker 6, Barton 7, Grove 8 era all’interno dell’imperialismo britannico che si poteva trovare l’origine dell’ecologia come
scienza della natura: i problemi di ambienti nuovi, spesso con emergenze legate alle rapide trasformazioni ecologiche dovute alle economie coloniali (ad esempio la questione del “disseccamento” per il ciclo diboscamento – grandi piantagioni – impoverimento del terreno e
siccità) costringeva a interrogarsi sulla natura e sulle sue leggi. Come
ha sottolineato John MacKenzie, questi studi hanno senz’altro liberato le ricerche sulle origini dell’ambientalismo, scientifico e politico, da
un eccesso di nazionalismo nord-americano, con il suo consueto rosario di padri fondatori (George Perkins Marsh, John Muir, Henry David Thoreau), ricostruendo genealogie più antiche e, soprattutto, più
4. Ivi, p. 666.
5. il Mulino, Bologna 1994.
6. P. Anker, Imperial Ecology. Environmental Order in the British Empire,
1895-1945, Harvard University Press, Cambridge (MA)-London 2001.
7. G. A. Barton, Empire Forestry and the Origins of Environmentalism, Cambridge University Press, Cambridge-New York 2002.
8. R. Grove, Green Imperialism: Colonial Expansion, Tropical Island Edens and
the Origin of Environmentalism, 1600-1860, Cambridge University Press, CambridgeNew York 1995.
168
5.
ECOLOGIA
eccentriche, in grado di spostare l’analisi dal centro, le metropoli del
Nord, alla periferia, le realtà coloniali del Sud 9.
Tuttavia, all’interno del paradigma dell’ecologia imperiale esistono
ipotesi piuttosto diverse. Per Barton la selvicoltura imperiale britannica è stata la matrice delle politiche e dei saperi ambientali; non c’è
spazio nella sua ricostruzione per i conflitti generati da quella scienza
e dalla gestione economica che la sosteneva; anzi vi è una critica radicale a quella storiografia ambientale che avrebbe idealizzato la comunità forestale di villaggio come depositaria di un uso sostenibile delle
risorse.
Per Anker, invece, la dicotomia scienza arcadica-scienza imperiale
sarebbe senza senso nell’ambito dell’ecologia britannica, dal momento
che entrambe sarebbero animate da un forte sentimento anti-urbano
e di fuga dall’industrialismo; mentre gli sembra centrale la distinzione
tra un’ecologia meccanicistica del Nord (ovvero della scuola londinese e di Oxford) e un’ecologia olistica del Sud (maturata nelle università sudafricane da Smuts). Peraltro il libro di Anker, minuzioso e
documentato nel ricostruire il dibattito accademico, ci aiuta a non cadere in anacronismi: se oggi ci sembra che il meccanicismo sia la parte conservativa della scienza, contro l’olismo di chi propone una visione meno disciplinare e rigida della natura, le cose erano esattamente rovesciate tra la fine dell’Ottocento e la seconda guerra mondiale, come testimonia il dibattito tra l’organicista Smuts e il meccanicista e socialista Hogben.
Il più equilibrato è senz’altro Richard Grove, interessato a ricostruire l’emersione di una scienza della natura nell’ambiente periferico dell’impero britannico, ed in particolare in quel microcosmo che
furono le isole dell’Oceano Indiano, senza tralasciare lo scambio tra
culture locali e imperiali. Certo sembra poco sviluppato nel suo libro
l’elemento della depredazione delle risorse e della sua organizzazione
industriale, ma, probabilmente, il suo termine ad quem (1860) non lo
ha condotto nel pieno di quella seconda rivoluzione industriale che
avrebbe rappresentato una svolta in questo senso.
Ciò che appare interessante in queste storie dell’ecologia, al di là
del dibattito sulla genesi della disciplina e sul ruolo dell’impero britannico, è il rapporto stringente tra storia ambientale, sociale e culturale. Worster, probabilmente, è lo storico che in modo più riuscito
9. J. MacKenzie, Empire and the Ecological Apocalypse: the Historiography of the
Imperial Environment, in T. Griffths, L. Robin (eds.), Ecology and Empire. Environmental History of Settler Societies, University of Washington Press, Seattle 1997, p.
221.
169
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
tiene insieme questi diversi approcci: la sua storia delle idee ecologiche è una storia sociale delle culture ambientali; i modi di vedere la
natura intersecano i modi di usarla e di amministrarla; per questo la
sua è storia non solo di alcune grandi figure dell’ecologia ma anche
delle strutture che hanno storicamente professionalizzato i saperi della natura (servizi forestali, corpo degli ingegneri, dipartimenti ministeriali per la fauna selvatica o per la protezione del suolo).
Nella ricostruzione di Worster, come d’altronde in quelle di Richard Grove o di Keith Thomas (già citata a lungo nel CAP. 1), saperi
scientifici e idee generali sulla natura convivono, senza soluzione di
continuità.
Diversamente, altri studi di storia dell’ecologia si sono concentrati
sulla genesi e l’evoluzione della disciplina, in senso più marcatamente
scientifico-disciplinare. Due storici francesi, Pascal Acot e Jean-Paul
Deléage, hanno lavorato, ciascuno autonomamente, in questa direzione. I loro due libri, pubblicati ad appena tre anni di distanza l’uno
dall’altro, hanno lo stesso titolo, Storia dell’ecologia 10, e seguono in
gran parte la stessa traccia: ricostruiscono le vicende dell’ecologia
come disciplina a partire dai precursori lontani (Aristotele), passando
per la fitogeografia, l’evoluzionismo darwiniano, fino all’ecologia dei
sistemi e del climax e alle teorie di Gaia.
Ciò non significa che i presupposti o le conclusioni siano simili: se
Acot minimizza il ruolo di Darwin nell’emersione dell’ecologia, Deléage, invece, sostiene la centralità del pensiero darwiniano, non tanto
nel merito delle tesi sostenute, quanto piuttosto nell’avere introdotto
una concezione dinamica della natura, in cui è il tempo che lega l’umanità alle altre specie, e gli organismi viventi al loro ambiente. Per
Deléage la storia dell’ecologia si pone all’intersezione tra scienze umane e scienze della natura, costretta a misurarsi, dunque, con problemi
diversi: tanto con questioni prettamente sociali e culturali, come il
ruolo giocato dai fattori istituzionali e politici, il dominio della tradizione nord-americana o i conflitti intorno all’uso delle risorse; quanto
con temi più squisitamente scientifici, come l’eterogeneità e la mancanza di formulazioni esatte che stendono un’ombra di ambiguità sulle pretese di comprensione oggettiva dei fattori ambientali.
Tanto Deléage (di più) quanto Acot (di meno) includono, comunque, nella loro storia dell’ecologia altri elementi di analisi, per così
dire esterni all’evoluzione della disciplina in quanto scienza. Insomma
10. P. Acot, Storia dell’ecologia, Lucarini Editore, Roma 1989 (edizione francese
del 1988); J.-P. Deléage, Storia dell’ecologia. Una scienza dell’uomo e della natura,
CUEN, Napoli 1994 (edizione francese del 1991).
170
5.
ECOLOGIA
i loro laboratori hanno finestre, più o meno grandi, sul mondo esterno: per Acot, ad esempio, la vicenda della fillossera, ossia della malattia della vite che a fine Ottocento investiva i vigneti americani ed
europei, fu una buona occasione per la crescita dell’ecologia negli
Stati Uniti, dimostrando i legami tra elementi economici, ecologici e
politici (dalla fillossera sarebbero nati gli entomologi di Stato, almeno
nel sistema americano).
La storiografia ambientale italiana non si è misurata più di tanto
con questi temi: probabilmente la sua filiazione dalla storia economica, la debolezza dell’ecologia nostrana e, d’altra parte, una certa difficoltà a ragionare su ambiti di ricerca sopranazionali non hanno incoraggiato la ricerca in questa direzione. Ovviamente ciò non significa
che la storia italiana della scienza non abbia prodotto ottimi studi
sulle vicende delle diverse discipline; anzi siamo convinti che sarebbe
necessaria una maggiore conoscenza di questa mole di lavori, senz’altro utilissimi per gli storici ambientali.
Sono stati gli storici dell’agricoltura e dei boschi a mostrare la fecondità di ricerche sui saperi scientifici specialistici, anche prima dell’emersione di un’organica storiografia ambientale italiana: si pensi,
ad esempio alla storia delle scienze agrarie di Antonio Saltini 11, ai
lavori di Mauro Ambrosoli 12 sull’agronomia scientifica ed empirica,
alla cospicua, anche se ancora frammentata, storia della selvicoltura
italiana, opera di numerosi ricercatori 13.
Da ricerche fortemente focalizzate sull’evoluzione delle discipline,
basate in sostanza sui trattati scientifici, si è passati, spesso, ad un’analisi più di contesto, con l’ambizione di ricostruire la genesi e il sostrato culturale, sociale ed economico di alcune innovazioni scientifiche e tecnologiche. E se è opportuno chiedersi in questo campo la
reale diffusione delle innovazioni scientifiche, ovvero, trovato un trattato prescrittivo di selvicoltura, interrogarsi su quanti realmente lo
abbiano letto e adoperato, resta anche da chiedersi più in generale
come nasca e a cosa risponda l’innovazione e in quale rapporto dia11. Storia delle scienze agrarie, Edagricola, Bologna 1987.
12. Scienziati, contadini e proprietari: botanica e agricoltura nell’Europa occidentale,1350-1850, Einaudi, Torino 1992.
13. M. Armiero, “Coltivare la foresta”. La selvicoltura nell’Abruzzo preunitario, in
“Proposte e Ricerche”, 1997, 38; R. Sansa, La trattatistica selvicolturale del XIX secolo:
indicazioni e polemiche sull’uso ideale del bosco, in “Rivista di Storia dell’Agricoltura”,
1997, 1; P. Piussi, A. Zanzi Sulli, Selvicoltura e storia forestale, in “Annali dell’Accademia Italiana di Scienze Forestali”, 1997; per una visione di insieme si vedano i saggi
dedicati alla selvicoltura nei 3 volumi della Storia dell’agricoltura italiana, promossa
dall’Accademia dei Georgofili di Firenze, Polistampa, Firenze 2002.
171
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
lettico sia con i modi di uso, ossia di produzione e riproduzione della
risorsa: su questi temi la storiografia forestale italiana ha dato un contributo notevole 14.
Più di recente, all’interno della storiografia ambientale italiana è
stato Piero Bevilacqua a cimentarsi con le vicende dell’agronomia e
della zootecnia. In La mucca è savia 15 egli racconta come l’agricoltura
europea e nord-americana siano diventate consumatrici di grandi
quantità di input energetici esterni perdendo la loro capacità di autorigenerazione. Il volume è ricco di ricerche, dati, riferimenti bibliografici che ci ricostruiscono l’altra faccia dell’affermazione del capitalismo nel settore primario. Una mole di informazioni che Bevilacqua
recupera grazie ad una precisa opzione epistemologica e di metodo: il
rifiuto di appiattirsi sulla scienza ufficiale e il riconoscimento di cittadinanza a quei segmenti più eterodossi dei saperi di cui si è persa, in
genere, finanche la memoria.
Nel libro di Bevilacqua trovano posto, dunque, la biodinamica di
Pfeiffer e Podolinsky, l’antroposofia di Steiner, la permagricoltura di
Fukuoka. Citando un libro di Chaboussou 16, l’autore parla di un regime di «doppia verità» nella scienza contemporanea: «Da un lato gli
economisti agrari che continuano a contare le rese, gli incrementi
produttivi, la diffusione dei concimi chimici, la dimensione ottimale
delle aziende [...]. Dall’altro gli scienziati inascoltati che provano i
guasti crescenti di una macchina produttiva impegnata a muovere
guerra a tutto ciò che è vita» 17. Insieme alla riscoperta dei saperi
“deboli”, il volume propone anche una panoramica sull’evoluzione e
gli itinerari della scienza “forte”.
Sulla zootecnia contemporanea, ad esempio, Bevilacqua mescola
insieme giudizi di valore, ma anche considerazioni di opportunità
economica: talune sperimentazioni e opzioni produttive sembrano
davvero sconfinare nella crudeltà, ma non è questo l’unico argomento
a supportare le tesi dell’autore. I prezzi in termini di sicurezza alimentare, di inquinamento, di costi di produzione sono altissimi: Tay14. Si vedano: i due numeri monografici dedicati al bosco dei “Quaderni storici”
(1982, 49; 1986, 62); quelli sullo stesso argomento di “Storia Urbana” (1994, 69;
1996, 76-77) e le ricerche di Mauro Agnoletti, Marco Armiero, Furio Bianco, Antonio
Lazzarini, Diego Moreno, Pietro Piussi, Renato Sansa, Pietro Tino (si veda la bibliografia).
15. La mucca è savia. Ragioni storiche della crisi alimentare europea, Donzelli,
Roma 2002.
16. F. Chaboussou, Santé de cultures. Une révolution agronomique, Flammarion,
Paris 1985.
17. Bevilacqua, La mucca è savia, cit., pp. 106-7.
172
5.
ECOLOGIA
lor nel pollaio – come si intitola felicemente un paragrafo del volume – ha significato, infatti, la trasformazione delle stalle e degli altri
luoghi di allevamento in ospedali per la produzione di carne, dove la
medicina e la chimica hanno «trasformato l’innaturalità e l’infermità
della clausura totale degli animali nella normalità di un’attività produttiva su larga scala» 18.
5.2
L’ambientalismo
Non è facile distinguere le storie dell’ecologia da quelle dell’ambientalismo. Come sostiene Deléage, infatti, nell’ecologia si confondono,
spesso, scienza e ideologia, anche se questa complicata convivenza è
tipica, in fin dei conti, di tutte le scienze. L’ecologia sarebbe, dunque,
una categoria politica che rimanderebbe tanto ad opzioni partitiche e
a forme organizzate del consenso, quanto a ideologie e a sistemi di
valori: questa, almeno, la tesi di Anna Bramwell, in un discusso volume della fine degli anni ottanta 19.
Partendo da questa interpretazione, la Bramwell propone una storia dell’ecologia, intesa non tanto come scienza, quanto soprattutto
come un insieme di orientamenti culturali e politici, per arrivare a
individuare una radice conservatrice dell’ambientalismo politico. La
storica americana individua una linea, che dalla reazione romantica
degli anni venti del Novecento in Germania porterebbe all’ambientalismo contemporaneo, passando prima per una visione utopico-comunitaria, poi per un rifiuto dell’economia di mercato e del capitalismo.
Anche in Inghilterra sarebbero i movimenti della destra filofascista
alle origini di gran parte dell’ambientalismo, lasciando in eredità ai
verdi uno spiccato anticapitalismo, una tendenza all’individualismo
anarchico e allo spiritualismo.
In realtà, le tesi della Bramwell sembrano piuttosto forzate: non
perché non vi possa essere una radice conservatrice o, per essere più
chiari, di destra, ma perché esse sembrano non tenere conto degli altri innumerevoli ceppi da cui nasce la cultura ecologica (si pensi, ad
esempio, all’apporto del marxismo di cui abbiamo discusso nel capitolo Natura). Inoltre, non mancano alcuni elementi contraddittori,
come la presunta tendenza anarco-individualista dell’ambientalismo e
la prassi politica dei movimenti ecologisti, piuttosto inclini a regole e
18. Ivi, p. XV.
19. A. Bramwell, Ecology in the 20th Century a History, Yale University Press,
New Haven-London 1989, p. 39.
173
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
burocrazie che assicurino sistemi di controllo sulle risorse e sui loro
usi. Infine, non si può sottovalutare la frattura che alla fine degli anni
sessanta, e ancora di più nel decennio successivo, condusse il conservazionismo su posizioni diverse da quelle delle origini, diremmo verso
un’ecologia politica di stampo progressista; e se è vero che l’anticapitalismo e il comunitarismo venivano da lontano, non si può dire lo
stesso per le questioni di giustizia ambientale o per le esigenze di redistribuzione della ricchezza e delle risorse.
Certo la Bramwell ha avuto il merito di suggerire nuove piste di
ricerca che connettano le esperienze dei regimi totalitari e le loro culture con le politiche ambientali. In Italia il rapporto tra fascismo e
natura è stato oggetto delle ricerche di Andrea Saba: questo autore,
tuttavia, pur ragionando sull’ideologia fascista (il ruralismo, il mito
della campagna ecc.), ha giustamente concentrato la sua analisi sulle
concrete politiche “verdi” del regime, mettendo in relazione legislazioni, saperi scientifici e burocrazie. È il caso, soprattutto, della politica forestale e dei parchi naturali, dove Saba individua una debolezza del personale tecnico e un eccesso di burocratizzazione 20.
Più in generale, dunque, si tratta di analizzare il rapporto tra
scienza, ideologie e culture, forme organizzative, strutture partitiche
e/o associazioni. È possibile individuare almeno tre grandi temi di ricerca negli studi sull’ambientalismo: la diffusione di una sensibilità
verso il mondo naturale, le biografie di ambientalisti o proto-ambientalisti, la storia dell’associazionismo; ciò non toglie che alcune ricerche, probabilmente le migliori, abbiano cercato di affrontare trasversalmente tutti e tre questi campi di indagine. Di conseguenza anche
gli approcci, le fonti e le metodologie sono piuttosto diversi.
Per lo studio dell’evoluzione della sensibilità ambientale, gli storici hanno fatto spesso ricorso alle fonti letterarie: è il caso di Keith
Thomas, ma anche di molti altri autori, come Simon Schama 21 o Leo
Marx. Quest’ultimo pubblicò la prima edizione di La macchina nel
giardino. Tecnologia e ideale pastorale in America nel 1964 22: si trattava, dunque, di uno dei primi studi storici dedicati al rapporto tra
cultura e paesaggio negli Stati Uniti. Partendo dall’immagine dell’America come terra vergine, come luogo per un nuovo inizio, Marx
20. A. F. Saba, Cultura, natura, riciclaggio. Il fascismo e l’ambiente dal movimento
ruralista alle necessità autarchiche, in A. F. Saba, E. H. Meyer (a cura di), Storia ambientale. Una nuova frontiera storiografica, Teti editore, Milano 2001.
21. Paesaggio e memoria, Arnoldo Mondadori, Milano 1997.
22. The Machine in the Garden. Technology and the Pastoral Ideal in America,
Oxford University Press, Oxford 1964 (trad. it. Edizioni Lavoro, Roma 1987).
174
5.
ECOLOGIA
ricostruisce l’evoluzione dell’ideale pastorale nella cultura letteraria
americana e il suo conflitto con la realtà di un paese in rapida industrializzazione. In che modo gli americani hanno gestito l’irruzione
della macchina nel loro giardino? Ovvero come hanno fatto i conti
con una natura e un paesaggio che cambiava davanti ai loro occhi,
perdendo gran parte dell’innocenza che essi avevano visto nelle origini? La cultura americana diede una pluralità di risposte a questi quesiti: si va, infatti, dall’adesione entusiasta al macchinismo, al pessimismo e alla critica; tuttavia, il contributo più interessante fu il tentativo di coniugare l’ideale pastorale e il progresso industriale, mitizzando un paesaggio intermedio nel quale, proprio attraverso la macchina, si sarebbe realizzato il modello armonico, tanto naturale che sociale.
Quella di Marx non è certo una storia dell’ambiente o del paesaggio americano e nemmeno dell’ambientalismo inteso come movimento di difesa della natura; piuttosto la sua è una storia delle rappresentazioni di quella natura e dei loro significati simbolici. L’idea
dell’America come Eden o come inferno, l’idea del progresso come
rottura dell’equilibrio o come completamento di esso sono gli universi di significati che Leo Marx esplora, dimostrando come fossero
meno antinomici di quanto si sia portati a ritenere 23. Insomma, per
Marx lo stesso ideale bucolico poteva sostenere il modello di democrazia contadina alla Jefferson, con un’America di piccoli proprietari
che traevano sostentamento dalla loro terra, e la proposta macchinista
e industrialista.
Per i suoi promotori, infatti, le macchine e la loro energia erano
parte integrante del paesaggio americano, ne erano frutto almeno
quanto i prodotti della terra. Se l’ideale era il giardino, la macchina
diventava lo strumento per realizzarlo, trasformando ciò che altrimenti sarebbe stata solo una terra desolata. Il modello pastorale servì,
dunque, agli americani per trasformare «la rivoluzione industriale in
un viaggio in treno verso la natura» 24.
Altri storici hanno proseguito sulla strada indicata da Leo Marx.
Nancy Langston, ad esempio, ha ricostruito le relazioni esistenti tra le
rappresentazioni culturali delle Blue Mountains nel West degli Stati
23. Per inciso, Leo Marx è professore di storia americana al MIT di Boston: una
dimostrazione evidente, dunque, sia del peso della storia (e in particolare di quella
ambientale) negli USA, sia della maggiore compenetrazione tra saperi nei curricula degli studenti americani.
24. Ivi, p. 195.
175
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
Uniti e le strategie di controllo ed uso di quelle risorse forestali 25.
Langston insiste molto sul fraintendimento dei pionieri che confusero
un ambiente fortemente modellato dall’azione dei nativi americani
(soprattutto attraverso il fuoco) con un paesaggio incontaminato, vergine. Questa incomprensione culturale ha avuto non poche ricadute
nella concreta gestione di quegli ambienti: da una parte si è cercato
di “proteggere” le foreste, impedendo le consuete attività di prelievo
e di gestione effettuate dalle tribù indigene, dall’altra, l’integrazione
delle Blue Mountains nell’economia di mercato attraverso la caccia
prima e la corsa all’oro poi avrebbe trasformato radicalmente le foreste, certo molto più di quanto non facessero i fuochi indiani.
La storia delle Blue Mountains dimostra, secondo Nancy Langston, che i cambiamenti nel paesaggio non sono mai solo ecologici,
ma sempre strettamente connessi con le culture che hanno determinato quei cambiamenti; praticamente si tratta di ricostruire le “complesse metafore” utilizzate dai diversi gruppi per mediare le relazioni tra
loro e la natura. E la foresta si rivela ancora una volta un ottimo laboratorio di indagine: spazio naturale per eccellenza eppure così contiguo agli spazi artificiali, si presenta come un ambito di confine anche nel discorso e nelle rappresentazioni culturali.
Una ricerca pionieristica di Bruno Vecchio, geografo formatosi
alla scuola di Lucio Gambi, pubblicata nel 1974, mostrava la percezione del bosco nella cultura italiana tra la fine del Settecento e i primi dell’Ottocento 26. Il volume di Bruno Vecchio ricostruiva l’emersione di una sensibilità nuova nei confronti della natura: il bosco cessava di essere terra selvatica e inutile, da dissodare, per diventare oggetto di una politica di conservazione e tutela. Gli scritti di economisti, geografi e scienziati naturali, forestali e agronomi, giuristi, sono
analizzati in relazione alle politiche che nei vari Stati italiani preunitari, come del resto in tutt’Europa, stavano organizzando la gestione
degli spazi forestali. Il libro di Vecchio offre, dunque, una panoramica sulla cultura forestale italiana, ma non solo su questo: certo ci
sono tante strane convinzioni sui boschi e il loro rapporto con il clima, i caratteri delle popolazioni, la malaria o i terremoti, ma emerge
anche chiaramente la capacità di cogliere i nessi sistemici che legano
la copertura forestale ad altri fenomeni naturali (in particolare il legame diboscamento-dissesto idrogeologico-inondazioni).
25. Forest Dreams, Forest Nightmares. The Paradox of Old Growth in the Inland
West, Washington University Press, Seattle-London 1995.
26. B. Vecchio, Il bosco e gli scrittori italiani del Settecento e dell’età napoleonica,
Einaudi, Torino 1974.
176
5.
ECOLOGIA
Anche Joachim Radkau si è soffermato sul rapporto tra nascita
della selvicoltura scientifica e sviluppo di una generica opinione pubblica ambientalista nella Germania del XIX secolo 27: egli insiste sulla
strana coincidenza in questa fase tra preoccupazioni economiche e
preoccupazioni conservazioniste, che smentirebbe all’origine l’attuale
antagonismo tra i due corni del dilemma (economia contro ecologia).
I forestali tedeschi si preoccupavano di assicurare una lunga capacità
riproduttiva ai loro boschi, in modo tale che il soddisfacimento dei
bisogni presenti non mettesse in pericolo i rifornimenti di legname
per le generazioni future; da questo punto di vista essi erano decisamente ambientalisti, nell’accezione più moderna del termine sostenibilità.
Eppure queste preoccupazioni potevano convivere con una decisa
opzione per il laissez faire e per un’illimitata fiducia nel buon esito
della gestione privata delle risorse forestali, come, ad esempio nel
caso di Wilhelm Pfeil, uno dei padri della selvicoltura prussiana 28.
Per questo Radkau suggerisce agli storici ambientali di non concentrarsi solo sulle idee di natura, ma anche sugli atteggiamenti concreti
e sulle conseguenze di quelle idee, ricordando, poi, che le relazioni
tra uomini e natura hanno avuto a che fare più con le abitudini di
tutti i giorni che con le formulazioni teoriche.
L’ambientalismo, tuttavia, è un campo interessante di studi proprio perché si presenta come uno degli spazi di contaminazione tra
idee ed esperienze, uno dei luoghi critici per verificare l’impatto delle
teorie e delle metafore di cui storicamente i gruppi sociali o etnici si
sono serviti per comprendere, interpretare, governare gli ecosistemi.
In genere è sull’ambientalismo americano che si sono concentrate
le ricerche storiche: l’origine dei parchi nazionali è, come è noto,
nord-americana, sono americani i più noti padri fondatori dell’ambientalismo (G. P. Marsh, D. Thoreau, J. Muir, R. Carson, B. Commoner). Spesso, le storie dell’ambientalismo americano sono state, in
gran parte, storie di questi personaggi: R. F. Nash, ad esempio, nel
suo The Rights of Nature 29, si soffermava su alcuni protagonisti dell’ambientalismo americano, senza tralasciare, tuttavia, anche delle fi-
27. J. Radkau, The Wordy Worship of Nature and the Tacit Feeling for Nature in
the History of German Forestry, in M. Teich, R. Poter, B. Gustafsson (eds.), Nature
and Society in Historical Context, Cambridge University Press, Cambridge-New York
1997.
28. Ivi, pp. 232-3.
29. The Rights of Nature. A History of Environmental Ethics, Wisconsin University Press, Madison 1989.
177
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
gure minori, ma pure interessanti per il loro lavoro associativo, come
Henry Bergh e George T. Angell, fondatori della società americana di
prevenzione delle crudeltà contro gli animali.
Alcune questioni sono centrali nella storia del conservazionismo
americano: il tema della frontiera, e, dunque, della wilderness e della
dialettica domestico-selvatico, limitato-illimitato, e quello dell’efficienza, ovvero di una gestione razionale delle risorse naturali 30. Trasformare il deserto, addomesticare il selvaggio West non erano in contraddizione con il culto della natura incontaminata che si sarebbe tradotto in una precoce politica di parchi naturali, ovvero in una visione
separata della natura.
Accanto all’idea dei santuari della natura, conviveva nella cultura
americana una tensione all’efficienza, che si sarebbe incarnata nel
conservazionismo del presidente Theodore Roosevelt e di Gifford
Pinchot, fondatore del Servizio Forestale degli Stati Uniti. Conservare, in questa versione, voleva dire essenzialmente mettere a frutto,
non sprecare, usare assicurandone la riproduzione; ma, ad esempio,
poteva voler dire eliminare i cosiddetti nocivi, ovvero tutti gli animali
che in un modo o nell’altro erano sgraditi all’uomo e alle sue attività.
E d’altra parte anche il sistema dei parchi naturali si traduceva sempre di più in un’opzione per un uso ricreativo-turistico della natura,
tutto sommato in sintonia con la generale tendenza all’efficienza produttiva di quella cultura ambientalista.
Ted Steinberg ha proposto una lettura classista ed etnica della politica dei parchi della Progressive Era: esaminando la vicenda dello
Yellowstone, Steinberg dimostra l’esistenza di una pluralità di usi delle risorse del parco da parte degli indiani e della working class bianca, che vennero criminalizzati dal servizio forestale al fine di promuovere un solo uso della natura, quello turistico-ricreativo 31.
È questa la chiave di lettura adottata da Karl Jacoby nel suo volume Crimes against Nature 32: partendo da una ricerca sull’ambientalismo e le politiche conservazioniste USA, Jacoby si è imbattuto in un
ricco materiale d’archivio su bracconieri, ladri di legname, incendiari,
scegliendo alla fine di concentrare la sua attenzione proprio sul con30. C. R. Koppes, Efficienza, equità, estetica: il movimento americano per la difesa
dell’ambiente, in D. Worster (a cura di), I confini della terra. Problemi e prospettive di
storia dell’ambiente, Franco Angeli, Milano 1991.
31. T. Steinberg, Down to Earth. Nature, Agency and Power in History, in “American Historical Review”, 2002, 3, vol. 107, pp. 814-9.
32. Crimes against Nature. Squatters, Poachers, Thieves, and the Hidden History
of American Conservation, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 2003.
178
5.
ECOLOGIA
flitto. Il volume di Jacoby mostra, dunque, come sia difficile ed arbitrario tenere distinte culture ambientaliste, politiche conservazioniste
e conflitti e, al contrario, quanto la ricerca storica debba sforzarsi di
considerare tutti questi aspetti; da questo punto di vista Crimes
against Nature rappresenta anche una sfida metodologica: avvicinare
la storia ambientale e quella sociale, perché, come scrive l’autore,
«abbiamo bisogno di una storia sociale che si confronti e sia adeguata
a comprendere la vita rurale e le relazioni ecologiche che l’hanno modellata e sostenuta. E al tempo stesso abbiamo bisogno di una storia
ambientale che tenga conto delle differenze sociali e della distribuzione del potere dentro le società umane» 33.
Tuttavia, l’approccio indicato da Steinberg e sperimentato da Jacoby è poco praticato dagli studi di storia dell’ambientalismo, almeno
per i paesi occidentali (diversamente dalle ricerche maturate nei paesi
del Sud del mondo, spesso caratterizzate, come vedremo nel prossimo paragrafo, dal conflitto tra ambientalismo imperialista e pratiche
locali). Se, però, la storiografia americana ha a lungo lavorato sulla
cultura ambientalista, non può dirsi lo stesso per altre realtà nazionali. Da questo punto di vista, spesso si tratta di ricostruire percorsi
ideali, biografie, vicende associative o politiche pubbliche che restano
in buona parte ancora sconosciute.
È questo il caso del movimento e, più in generale, della cultura
ambientalista italiana: Giorgio Nebbia ha più volte denunciato un rischio di invisibilità per il nostro ecologismo, ponendo anzitutto e giustamente un problema di fonti, tanto più se si intende dare conto
non solo delle grandi associazioni ma anche del diffuso micro-associazionismo che ha caratterizzato una stagione di lotte ambientali 34.
Solo di recente la storiografia ambientale italiana, così segnata dalla
sua matrice storico-economica e agraria (cfr. il CAP. 1), si è confrontata con la cultura ambientale e le sue vicende organizzative.
Luigi Piccioni 35 e James Sievert 36 hanno ricostruito la storia del
movimento ambientalista italiano: Piccioni si è soffermato soprattutto
sul primo movimento per la protezione della natura, mentre Sieviert
si è spinto oltre il secondo dopoguerra. Tanto Piccioni che Sievert
33. Ivi, pp. XVI-XVII (trad. degli autori).
34. Su questo tema Giorgio Nebbia ha scritto in più occasioni; si veda da ultimo
Per un archivio storico-scientifico dell’ambiente, in “I frutti di Demetra. Bollettino di
Storia e Ambiente”, 2003, 0.
35. Il volto amato della patria. Il primo movimento per la protezione della natura
in Italia 1880-1934, Università di Camerino, Camerino 1999.
36. The Origins of Nature Conservation in Italy, Peter Lang AG, Bern 2000.
179
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
inseriscono la storia dell’ambientalismo italiano dentro la storia e i caratteri nazionali (Piccioni propone anche un’impostazione di tipo
comparativo almeno su scala europea): l’Italia delle cento città, l’Italia
delle Alpi e degli Appennini, l’Italia delle dighe che sostituiscono il
carbone, l’Italia delle memorie patrie che trasformano in monumenti
pezzi di natura (come nel caso della pineta di Ravenna).
I protagonisti delle storie narrate dai due autori in gran parte si
sovrappongono: associazioni (il Touring Club, il Club Alpino, la Pro
Montibus), personaggi (Erminio Sipari, Giovanni Rosadi, Lino Vaccari), ma anche battaglie (quella per le querce secolari intorno al lago
di Nemi) e legislazioni. Le vicende dell’ambientalismo si intrecciano,
dunque, opportunamente con quelle delle burocrazie statali e con le
politiche. Piccioni, inoltre, mostra bene come quell’ambientalismo
non fosse affatto univoco e omogeneo, ma conservasse molte diversità
e sfumature (il filone naturalistico-scientifico; artistico-patriottico; turistico-modernizzatore), a volte anche in conflitto tra loro.
Fuori dall’Europa e dal nord America le storie dell’ambientalismo
si confondono soprattutto con la storia dell’imperialismo e con quella
dei conflitti ambientali, di cui parleremo nel prossimo paragrafo. Il
caso dell’ambientalismo indiano è senza dubbio esemplare: in quel
contesto, i movimenti e le culture ecologiche non solo si associano,
ma spesso sono sorte proprio in stretto rapporto con esperienze di
lotta. Ad ogni modo, la rilevanza di alcune figure dell’ambientalismo
indiano contemporaneo, che spesso hanno dato anche un contributo
importante per lo studio della storia ambientale dell’India, ci impone
di darne brevemente conto.
Semplificando, potremmo dire che nel caso indiano, come del resto in molti altri contesti extraoccidentali, le questioni sul tappeto siano essenzialmente due: da un parte il rapporto con la tradizione culturale autoctona (essenzialmente con la tradizione religiosa induista e
con Gandhi), dall’altra le relazioni con le culture e i movimenti ambientalisti occidentali.
Diane M. Jones 37 ha ricostruito le radici gandhiane dell’ambientalismo indiano. La visione unitaria della vita, di ascendenza induista,
l’ascetismo, soprattutto inteso come autoregolamentazione dei consumi, la critica radicale allo sfruttamento, opera della società urbana ed
industriale, il rifiuto del modo di sviluppo occidentale, basato sull’industrializzazione e le macchine costituiscono, a suo parere, l’eredità
37. The Greening of Gandhi. Gandhian Thought and the Environmental Movement in India, in J. D. Hughes, M. E. Sharpe (eds.), The Face of the Earth. Environment and World History, Armonk, New York 2000.
180
5.
ECOLOGIA
ideale che il pensiero di Gandhi ha trasmesso al movimento ecologico
indiano. La Jones non nasconde, tuttavia, il fallimento politico dell’utopia gandhiana di una società basata sull’autosussistenza; ciò non toglie che il discorso sulla sussistenza, il rifiuto dell’economia di mercato, la proposta di un modello di sviluppo alternativo a quello occidentale rimangano le parole d’ordine di gran parte dei movimenti
ambientalisti.
Inoltre il confronto tra tradizione autoctona ed ecologismo occidentale non si misura solo sull’autorità e la presa dei padri fondatori:
se per l’ambientalismo occidentale, specie per quello nord-americano,
la questione è tra usare o preservare, per quello indiano, come in genere per quelli del Sud del mondo, la domanda è mal posta; piuttosto si tratta di scegliere come usare le risorse e a vantaggio di chi (per
essere chiari: economie capitalistiche-industriali contro economie tradizionali di sussistenza) 38. Visto dall’India, tanta parte del conservazionismo occidentale, quello rivolto essenzialmente alla creazione di
aree protette da destinare alla fruizione turistica e/o estetica, potrebbe essere semplicemente un altro aspetto della nostra cultura consumista, un altro modo per consumare la natura.
Un discorso a parte ci sembra quello sull’ambientalismo nell’Unione Sovietica, sul quale peraltro è possibile utilizzare le preziose ricerche di Douglas R. Weiner 39. Oggetto dei suoi lavori è l’ambientalismo scientifico. Sono essenzialmente gli scienziati del VOOP (Società
panrussa per la protezione della natura) e del MOIP (Società moscovita dei naturalisti) i protagonisti di gran parte dello studio di Weiner;
la domanda di fondo è come e perché l’ecologia scientifica sia sopravvissuta al totalitarismo sovietico. Per Weiner la questione resta
sostanzialmente aperta, anche se gli sembra che il linguaggio degli
scienziati sovietici fosse così lontano dalla politica da non giustificare
un intervento repressivo. Ciò non toglie che durante lo stalinismo il
movimento ecologista abbia subito un grave attacco: esso era visto
come una forza borghese e tecnocratica di opposizione al partito; una
forza concorrente ad esso nel fissare limiti ed obiettivi per la trasformazione e l’uso della natura 40. Nell’era post-stalinista, la definizione
degli ambientalisti come eccentrici (data da Nikita Chruščëv) potreb-
38. Ivi, p. 171.
39. Il volto nuovo del movimento ambientalista sovietico, in Worster (a cura di), I
confini della terra, cit.; A Little Corner of Freedom: Russian Nature Protection from
Stalin to Gorbachev, University of California Press, Berkeley-London 1999.
40. Il volto nuovo del movimento ambientalista sovietico, cit., p. 216.
181
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
be spiegare una certa accondiscendenza verso di loro, non avvertiti
come un pericolo per il regime.
È evidente che il caso sovietico presenta delle caratteristiche peculiari: studiando l’ambientalismo russo, Weiner non può fare a
meno di interrogarsi su quanto esso sia stato libero di esprimere le
sue opinioni, su quanto abbia rappresentato un’opposizione al regime, su quanto la sua stessa organizzazione interna sia stata condizionata dalla pervasività del sistema politico. L’ambientalismo sovietico
non fu, secondo Weiner, un’isola staccata dal resto della società: i
suoi esponenti, soprattutto gli accademici, non furono dissidenti né si
fecero portatori di un attacco frontale al regime, ma, forse proprio
per questo, riuscirono a rappresentare un’identità sociale alternativa,
spesso ripiegata su posizioni difensive (come nel caso della battaglia
per la sopravvivenza delle aree protette sotto il loro diretto controllo), talvolta all’attacco, come ad esempio contro i grandi progetti di
manipolazione dell’ambiente (le grandi dighe o la messa a coltura
delle terre vergini della Siberia) voluti dal partito.
5.3
I conflitti ecologici
Il conflitto è un ottimo laboratorio di analisi per comprendere le trasformazioni ecologiche e le loro relazioni con i mutamenti sociali ed
economici. Nel conflitto, infatti, sembra che tutto diventi più chiaro:
gli elementi dinamici, gli interessi in campo, i rapporti di potere e le
alleanze, i saperi e le diverse opzioni tecnologiche, finanche le convinzioni culturali e religiose prendono forma e si definiscono proprio nel
momento del confronto-scontro. Senza contare, poi, che per gli storici il conflitto è una miniera d’oro, dal momento che esso, in genere,
si rivela un catalizzatore di memoria, un luogo privilegiato per la sedimentazione di testimonianze e documenti.
La ribellione violenta o lo sciopero pacifico, le petizioni alle autorità o la causa giudiziaria, le mille forme di resistenza o i gesti eclatanti: spesso queste forme di conflittualità hanno lasciato una traccia,
più o meno marcata, nella memoria, che può diventare una fonte preziosa per il lavoro degli storici. In assenza di conflitto, ad esempio, è
molto più difficile individuare i modi di usare le risorse naturali dei
gruppi sociali o etnici subalterni: le fonti normative (leggi) o prescrittive (trattati) ci racconterebbero, infatti, solo una faccia della medaglia, tacendo o manipolando le tesi dissenzienti e le loro concrete applicazioni. Non si tratta, peraltro, di un problema specifico della storia ambientale, ma di una questione più generale che investe tutti gli
182
5.
ECOLOGIA
studiosi impegnati a raccontare la storia dei senza storia, ovvero di
quei gruppi sociali o di quelle popolazioni che hanno lasciato poche
testimonianze scritte. Nel conflitto, talvolta, è sopravvissuta la loro
voce, magari sotto forma di testimonianza processuale, di petizione,
di descrizione da parte delle autorità, anche se si tratta, come d’altronde per tutte le fonti, di una rielaborazione di quella voce, frutto
di diverse mediazioni culturali (insomma chi parla, chi scrive, chi riceve la scrittura ed infine chi la utilizza, non sono, ovviamente, mezzi
neutrali).
Ci sono stati alcuni conflitti in campo ambientale di particolare
importanza sia dal punto di vista fattuale che simbolico: la resistenza
alle recinzioni nell’Inghilterra tra età moderna e contemporanea, il
movimento Chipko in India, le proteste contro il nucleare in Germania sono, probabilmente, tra i casi più significativi e forse meglio conosciuti. Come è evidente da questa scelta, abbiamo deciso di concentrare la nostra attenzione su alcune tipologie di conflitti ambientali; non terremo in considerazione, invece, altre forme di conflitto,
come quello tra Stati nella sottoscrizione di accordi internazionali in
materia di ambiente o le guerre vere e proprie per il controllo delle
risorse naturali. Questo, ovviamente, non perché siano meno importanti, ma essenzialmente per la scarsa sedimentazione di studi storici
su questi temi.
Gli studi sulle enclosures, in Inghilterra e non solo, non coincidono affatto con l’emersione della storiografia ambientale: piuttosto,
quello delle recinzioni è un tema classico della storiografia economico-sociale, che dimostra la fertilità dello scambio tra approcci differenti. Il paradigma di riferimento è La grande trasformazione di Karl
Polanyi 41: secondo la sua nota interpretazione le recinzioni furono la
rivoluzione del ricco contro il povero, attraverso la quale si trasformò
in merce un pezzo di natura, la terra (su questo si veda anche il capitolo Natura); essa cessava di essere parte di quella che lo storico inglese E. P. Thompson avrebbe chiamato economia morale, ovvero di
un sistema extramercato di sussistenza e relazioni tra uomini e tra uomini e natura, per diventare, invece, come proprietà privata, parte di
un modo di produzione che lasciava sia gli uni (gli uomini) che l’altra
(la natura) privi della copertura delle preesistenti istituzioni culturali 42.
In altri termini, le recinzioni posero fine ad un regime collettivo
41. Einaudi, Torino 1974.
42. Ivi, pp. 94-5.
183
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
di uso della terra, sanzionando la vittoria della proprietà privata.
Sono stati soprattutto storici marxisti come Thompson e Eric Hobsbawm a lavorare sulle forme di resistenza e sui conflitti generati dalla grande trasformazione capitalistica, senza limitare, tuttavia, la loro
analisi alla sola working class, industriale ed urbana. Ed i boschi, ancora una volta, si sono rivelati una buona cartina di tornasole per cogliere ed interpretare le trasformazioni e le resistenze ad esse.
In particolare Thompson ha ricostruito la vicenda del Black Act
del 1723 43: si trattava di una legge molto dura contro il bracconaggio
(e non solo, ma anche contro il pascolo abusivo, i furti di legname,
gli incendi boschivi ecc.), al punto da prevedere la pena capitale per
una certa tipologia di reato che potesse ricondurre i colpevoli al più
vasto fenomeno dei Blacks, ovvero dei bracconieri dal volto annerito.
Cosa fossero di preciso i Blacks, poi, è un altro discorso, dal momento che non è chiaro quanto realmente si fosse in presenza di un
movimento organizzato, magari addirittura collegato al movimento
giacobita 44 e con un capo unico, o piuttosto se non si trattasse di
tanti fenomeni separati di resistenza alla legge e alla privatizzazione
delle risorse forestali, sui quali, anche strumentalmente, si creò il mito
di un unico movimento semi-insurrezionale. Thompson così li definisce: «Sono abitanti della foresta che, armi alla mano, applicavano alla
lettera quei diritti ai quali la gente del luogo si era abituata e che
opponevano resistenza alla costruzione di parchi privati, considerati
vere e proprie usurpazioni ai danni della loro terra coltivata, delle
loro riserve di materiali combustibili e dei loro pascoli» 45.
Dal punto di vista dell’environmental history, la storia dei Blacks
mostra innanzitutto l’esistenza di una vasta gamma di diritti consuetudinari nei boschi inglesi (non solo cacciare, ma raccogliere legna e
frutti selvatici, portare animali al pascolo ecc.) che il nuovo regime
proprietario voleva eliminare, svelandone la vitalità e la capacità di
resistenza. È evidente che Thompson abbia insistito soprattutto sugli
elementi sociali e culturali, più che su quelli ecologici: la nozione di
economia morale, intesa come una consolidata visione tradizionale
degli obblighi e delle norme sociali e delle corrette funzioni economiche delle rispettive parti all’interno della comunità e nel loro insie-
43. Whigs e cacciatori. Potenti e ribelli nell’Inghilterra del XVIII secolo, Ponte alle
Grazie, Firenze 1989.
44. Si trattava dei sostenitori, in buona parte cattolici, dei diritti di Giacomo II
Stuart e dei suoi eredi dopo la rivoluzione inglese del 1688.
45. Whigs e cacciatori, cit., p. 70.
184
5.
ECOLOGIA
me 46, è il paesaggio socio-culturale nel quale si inseriscono questi fenomeni di resistenza. In queste ricerche, tuttavia, emerge il rapporto
esistente tra quella economia morale e il contesto ecologico in cui è
inserita: Thompson, ad esempio, parla di un insieme di usanze forestali che costituivano la base materiale di sopravvivenza per molte comunità e, al tempo stesso, cementavano la struttura sociale, le relazioni di vicinato, come dimostrato dall’ampia solidarietà/complicità intorno ai colpevoli di reati forestali.
Non è un caso che, proprio riprendendo Thompson, Karl Jacoby
parli nel suo già citato Crimes against Nature di ecologia morale, per
svelare l’esistenza di un punto di vista popolare sulla natura che spesso ha criticato le politiche conservazioniste ufficiali, solo raramente le
ha influenzate, e che può offrire una visione alternativa, dal basso,
dell’ecologia e dei tanti modi di vedere e di usare le risorse 47.
La storia di Jakoby è, in effetti, storia di conflitti: egli ricostruisce
le vicende di alcuni parchi nazionali americani e dell’ampia opposizione maturata contro di essi nelle comunità locali. Nel caso dell’Adirondacks Park, come in quello dello Yellowstone, emergono sostanzialmente due visioni della natura: da una parte il tentativo protezionista delle élite e la loro opzione turistico-ricreativa, dall’altra quella
della working class bianca e dei nativi americani, che, invece, da sempre usavano quelle risorse. Alla fine del XIX secolo l’arrivo dell’esercito nello Yellowstone per tenere a freno i troppi che premevano sui
confini del parco dimostrava in maniera evidente una situazione più
generale: con grande efficacia Jacoby intitola un capitolo Fort Yellowstone, proprio per dare il senso di cittadella assediata in cui si trovava
l’intero sistema dei parchi.
Come per le foreste inglesi di Thompson, anche sull’altra sponda
dell’Atlantico era forte il consenso sociale intorno alle pratiche illegali
di prelievo di risorse naturali, che la nuova normativa aveva trasformato in crimini. È questo il quadro che emerge anche nei pochi casi
italiani che sono stati oggetto di studio. Qui il conflitto ambientale si
è innestato, per lo più, nella fitta maglia della conflittualità rurale,
concentrandosi soprattutto sulla questione della proprietà della terra
e degli usi civici, ovvero dell’accesso ad essa e alle sue risorse.
Nella temperie del 1860, in provincia di Chieti, il bosco Ragno di
proprietà del marchese D’Avalos diventava teatro di un acceso scontro tra modi diversi di intendere il possesso, l’uso e la conservazione
46. E. P. Thompson, L’economia morale delle classi popolari inglesi nel secolo
in Id., Società patrizia cultura plebea, Einaudi, Torino 1981, p. 60.
47. Crimes against Nature, cit., p. 3.
XVIII,
185
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
delle risorse forestali. Da una parte, il proprietario che, a caccia di
maggiori profitti, appaltava il taglio a sezioni (il bosco era diviso in
lotti, ciascuno sottoposto ad un turno di taglio, in modo tale che si
assicurasse la riproduzione degli alberi), dall’altra la comunità di
Scerni, da sempre titolare di diritti di uso su quelle risorse forestali.
La ribellione di Scerni può essere considerata esemplare di una vasta
gamma di pratiche di resistenza che furono messe in atto nelle foreste
italiane lungo tutto il XIX secolo. Suppliche alle autorità (soprattutto
al re), occupazioni abusive, minacce e scontro violento, ostracismo
dalla comunità e riappropriazione simbolica di spazi e risorse: queste
erano le forme più frequenti in cui la conflittualità si manifestava, tutte più o meno presenti nel caso del bosco Ragno. Come pure è presente una diffusa solidarietà con i protagonisti della protesta in nome
di una legittimazione delle loro azioni e richieste, sancita in modo
simbolico dalla spasmodica ricerca di “carte antiche” che ne dimostrino la fondatezza 48.
Non diversa la situazione delle campagne venete e friulane descritta da Piero Brunello 49: nel corso del 1800, nel giro di una o due
generazioni, scomparivano i beni comunali e i diritti consuetudinari;
pratiche consolidate nel vecchio modo di produzione venivano criminalizzate. Brunello, tuttavia, racconta come contadini ostinati e testardi difesero i loro diritti con la solita gamma di mobilitazione e di
protesta. Certo in un approccio di storia ambientale sarebbe decisivo
capire se e in che misura i diversi modi di usare le risorse fossero
sostenibili: insomma bisognerebbe capire se i boschi abruzzesi o veneti se la passassero meglio in un regime di usi consuetudinari o piuttosto con l’affermazione di nuove forme di uso e di possesso; tuttavia
non è facile rispondere a questa domanda, e ciò che emerge con
maggiore chiarezza è proprio l’estrema varietà dei punti di vista e,
dunque, delle opinioni in materia (per alcuni gli utilisti erano dei barbari devastatori di boschi, per altri erano i capitalisti, gli appaltatori a
distruggere per profitto le superfici alberate). Inoltre il conflitto ricolloca la categoria di sostenibilità dentro il contesto non solo ecologico, ma anche sociale ed economico, spingendo ad esaminarla anche
48. M. Armiero, Ambienti in bilico. Natura ed eventi rivoluzionari nel Mezzogiorno del 1860, in P. Macry (a cura di), Quando lo Stato crolla, Liguori, Napoli 2003; M.
Armiero, W. Palmieri, Boschi e rivoluzioni nel Mezzogiorno. La gestione, gli usi e le
strategie di tutela nelle congiunture di crisi di regime (1799-1860), in A. Lazzarini (a
cura di), Processi di diboscamento montano e politiche territoriale. Alpi e Appennini dal
Settecento al Duemila, Franco Angeli, Milano 2002.
49. Ribelli, questuanti e banditi. Proteste contadine in Veneto e Friuli 1814-1866,
Marsilio, Venezia 1981.
186
5.
ECOLOGIA
in relazione alla distribuzione dei benefici e dei costi (sostenibile per
chi? A prezzo di cosa?).
Nel caso americano, come del resto in quasi tutti i contesti extraeuropei, al conflitto propriamente sociale si aggiunge quello di natura etnico-culturale: il ruolo, cioè, delle popolazioni “indigene” e i
loro modi di usare la natura. In particolare l’attenzione si è concentrata sui nativi americani, diventati, spesso, in una vulgata ambientalista, il prototipo di una società sostenibile.
Non è possibile ripercorrere il dibattito storiografico e antropologico su questi temi, né l’uso commerciale che se ne è fatto (si pensi
alla new age); sul piano dei conflitti, di cui ci stiamo occupando, è
evidente che le popolazioni native americane siano state spesso portatrici di interessi diversi. Donald L. Fixico, ad esempio, ricostruisce
alcune storie di conflitti tra tribù e governo, per lo più federale, avvenute negli anni ottanta del Novecento, sebbene sulla scorta di trattati
e concessioni chiusi almeno cento anni prima 50. Si va dai diritti di
pesca dei Chippewa nei Grandi Laghi al possesso del legname delle
foreste nei territori dei Klamath, per finire alla questione delle risorse
minerarie e al loro sfruttamento nelle riserve.
Se l’ipotesi di Fixico è che questi conflitti mostrino la divaricazione tra i valori del capitalismo americano e quelli tradizionali della nazione indiana, sebbene per la questione delle riserve minerarie lo
scontro è interno alle stesse comunità 51, Richard White, invece, propone una lettura piuttosto diversa 52. Gli indiani non sono titolari di
un presunto ambientalismo originario e la loro cultura religioso-simbolica non necessariamente comporta la difesa della natura e un rapporto armonico con essa: White fa l’esempio della caccia, dove la mediazione culturale con la preda implica una serie di rituali che non
escludono affatto un prelievo eccessivo, anzi possono incrementarlo
(come ad esempio la credenza nelle quattro vite del cervo) mentre
l’attribuzione di una volontà antropomorfa agli animali può legittimare strategie di ritorsione in presenza di un loro comportamento aggressivo contro membri della tribù (White cita il caso della guerra
dichiarata dai Potawatomi agli orsi della Green Bay quando uno di
50. The Invasion of Indian Country in the 20th Century. American Capitalism and
Tribal Natural Resources, Colorado University Press, Niwot 1998.
51. Ivi, pp. 143-58.
52. Environmentalism and Indian People, in J. K. Conway, K. Kenistan, L. Marx
(eds.), Humanistic Studies of the Environment. Earth, Air, Fire, Water, UP of Massachussets, Amherst 1999.
187
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
loro uccise un giovane della tribù) 53. Ciò non toglie che siano esistite
norme non scritte, pratiche simboliche e riti che abbiano potuto contribuire al benessere degli altri esseri viventi, o, in altri termini, ad un
migliore equilibrio tra uomo e natura, anche se forse, più delle convinzioni religiose, ha potuto lo scarso peso demografico degli indiani,
mentre resta aperta la questione dell’impatto tecnologico delle diverse
civiltà dal momento che, secondo White, esso poteva essere consistente su scala locale anche in presenza di un apparato tecnologico
primitivo 54.
Come è noto, è stata la nazione indiana a soccombere nello scontro con la civiltà bianca, ma non sono mancati singoli casi di conflitto, in cui gli esiti hanno dato ragione ai nativi americani. Andrew
H. Fisher racconta, ad esempio, l’handshake agreement del 1932 tra il
servizio forestale e gli Yakama 55, che metteva ordine nella competizione tra le pecore degli allevatori bianchi e i cavalli degli indiani:
l’arrivo di un nuovo supervisore nella burocrazia forestale, J. R. Bruckart, particolarmente sensibile alle richieste indiane, consente una soluzione apparentemente favorevole alle loro esigenze, con 2.800 acri
di terra riservati agli Yakama sia pure solo nella stagione dei mirtilli.
In realtà, l’handshake agreement dimostra, secondo Fisher, la capacità
di resistenza degli indiani, la loro abilità nell’adottare linguaggi e forme del conflitto estranee alla loro cultura (la via processuale), ma anche la radicata incomprensione e ostilità maturata nelle burocrazie forestali nei loro confronti; mentre la presunta vittoria andrebbe messa
in relazione a due elementi: la contemporanea liberazione di altre terre per i bianchi e la scoperta del “valore turistico” degli indiani.
Il movimento Chipko può essere considerato come un caso esemplare dell’ecologismo dei poveri di cui hanno parlato Juan Martinez
Alier e Ramachandra Guha: un movimento basato essenzialmente sulla nozione di giustizia ambientale, attento alla sostenibilità intergenerazionale, più diffuso nei paesi del Sud del mondo che non nelle società ricche del Nord. Non che in questa parte del mondo l’Environmental Justice Movement sia assente; Martin Melosi ha ricostruito
53. Ivi, pp. 128-9.
54. R. White, Land Use, Environment, and Social Change. The Shaping of Island
County, Washington, University of Washington Press, Seattle-London 1992, in particolare il CAP. v.
55. The 1932 Handshake Agreement: Yakama Indian Treaty Rights and Forest
Service Policy in the Pacific Northwest, in “Western Historical Quarterly”, 1997, 2,
vol. 28.
188
5.
ECOLOGIA
la storia del movimento negli Stati Uniti a partire dalla fine degli anni
settanta del Novecento 56.
Secondo Melosi esso affonda le sue radici non tanto nell’ambientalismo classico conservazionista, ma piuttosto nel movimento per i
diritti civili maturato nella comunità afro-americana. Invece della tradizionale immagine wasp (bianca, anglosassone e protestante) dell’ambientalismo, l’Environmental Justice Movement ne propone un’altra
faccia: la gente di colore sarebbe portatrice di una visione più complessa, in grado di mettere insieme bisogni sociali, questioni razziali e
problemi ecologici. Il punto fondamentale è l’esistenza di una politica
ambientale razzista che vede le minoranze etniche, afro-americani, ma
anche latini e nativi, destinatarie delle più alte concentrazioni di rischi ambientali, in termini di insediamenti industriali e di siti di stoccaggio: insomma la nota sindrome Not In My Backyard (NIMBY: non
nel mio giardino, ovvero la difesa della propria realtà locale, senza
preoccuparsi del resto) si tradurrebbe nella consapevole strategia razzista del Place in Black’s Backyard (PIBBY: metti ciò che ti disturba
nel giardino del nero).
Melosi ricostruisce alcune battaglie del movimento americano per
la giustizia ambientale, come quella della Warren County, una contea
del Nord Carolina a maggioranza afro-americana, contro una discarica di PCB (polidifenil-cloruro), risoltasi nel 1982 con una clamorosa
sconfitta. Complessivamente, secondo Melosi, l’Environmental Justice
Movement ha forzato i gruppi ambientalisti, i governi, l’opinione
pubblica a considerare l’importanza delle variabili classe e razza nelle
questioni e, soprattutto, nelle politiche ecologiche. E, ovviamente, la
questione trascende le dinamiche etniche e sociali interne ai singoli
Stati, investendo nel complesso le relazioni tra il Nord e il Sud del
pianeta.
Probabilmente sono noti i termini del confronto tra un ambientalismo che propone la conservazione della natura e una riduzione dell’inquinamento e la posizione di molti paesi in via di sviluppo, che
temono di pagare un prezzo troppo alto alla tardiva coscienza ecologica dei paesi industrializzati. L’ambientalismo dei poveri prova a coniugare la conservazione della natura, lo sviluppo umano delle comunità, una più equa distribuzione planetaria delle ricchezze e delle
opportunità.
Martinez Alier propone un inventario di alcuni dei più noti casi
56. Equity, Eco-racism, and the Environmental Justice Movement, in J. D. Hughes, M. E. Sharpe (eds.), The Face of the Earth. Environment and World History,
Armonk, New York 2000.
189
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
di questo tipo di conflitto ambientale: il movimento dei seringueros
(lavoratori del caucciù) nello Stato di Acre in Brasile, che con il suo
leader Chico Mendez si è battuto alla fine degli anni ottanta contro la
deforestazione operata dalle grandi imprese forestali e zootecniche;
gli Ogoni e gli altri popoli del delta del Niger che hanno combattuto
contro una multinazionale del petrolio; il movimento Chipko, appunto, che tra gli anni settanta ed ottanta ha difeso in India le foreste
contro il loro uso capitalistico-industriale 57. Secondo Ramachandra
Guha il Chipko è senz’altro il movimento ecologico più noto nel
mondo: esso ha assunto un ruolo quasi mitico nella coscienza degli
ambientalisti occidentali, rappresentando l’alternativa culturale ai valori della nostra civiltà (induismo, e più in generale altre religioni,
contro tradizione giudaico-cristiana; donne contro uomini; “indigeni”
contro popoli sviluppati e industrializzati) 58. Come tutti i miti, anche
il Chipko è stato piuttosto deformato, adattato in qualche modo ai
bisogni dei suoi creatori: Guha ricorda, ad esempio, che non si è trattato inizialmente di un movimento di donne, meno che mai “tribali”,
e che le sue forme di protesta e di azione non erano per niente tradizionali, smentendo così alcuni luoghi comuni molto diffusi tra gli occidentali. Ciò non toglie forza al mito, nella misura in cui quel movimento rappresenta un altro ambientalismo, in grado di coniugare,
come dicevamo, difesa dell’ambiente e giustizia sociale in nome di un
diverso modello di sviluppo.
La ricerca di Guha è una delle più complete storie del movimento
Chipko: giustamente esso è collocato all’interno di una più lunga tradizione di resistenza e rivolte popolari per la difesa degli usi consuetudinari delle risorse forestali. Tuttavia, mentre esse sono per lo più
collocate all’interno del regime coloniale britannico, il Chipko risale
agli anni settanta del Novecento, ovvero nell’India indipendente e
democratica.
Una serie di disastri ambientali (alluvioni e frane) accaduti nella
Alakananda Valley nel 1970 segnarono, scrive Guha, un punto di
svolta nella storia ecologica della regione 59: nella coscienza popolare
cominciava ad apparire evidente il legame tra deforestazione e dissesto idrogeologico. Erano le grandi imprese forestali a consumare un
57. J. Martinez Alier, Conflitti ecologici e movimenti di resistenza, in “Capitalismo
Natura Socialismo”, 2002, 3, fasc. 43.
58. R. Guha, The Unquiet Woods. Ecological Change and Peasant Resistance in
the Himalaya, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 2000 (1a
ed. 1989), p. 199.
59. Ivi, p. 156.
190
5.
ECOLOGIA
gran numero di alberi: nel 1973 il dipartimento per le foreste rifiutava di dare ad una cooperativa locale alcuni lotti di foresta da dissodare, mentre ne attribuiva ampie porzioni ad una impresa. Da lì cominciava la resistenza dei Chipko alla deforestazione, con la pratica
di abbracciare gli alberi per impedire che fossero abbattuti. Il movimento Chipko non fu, comunque, un’esperienza univoca e omogenea:
Guha riconosce almeno due linee distinte al suo interno, riconducibili ai suoi leader più famosi Bahuguna e Bhatt, il primo più ascetico e
profetico, profondamente radicato nella tradizione gandhiana, il secondo meno religioso, più democratico, con un misto di cultura indiana e socialismo occidentale.
Il movimento Chipko fu attivo tra il 1973 e il 1981; secondo Guha ha avuto esiti incerti: si ottenne il divieto del taglio al di sopra dei
mille metri d’altitudine in alcune zone, e più in generale esso ottenne
ampi riconoscimenti a livello degli apparati governativi e della selvicoltura ufficiale, al punto che molti degli attivisti furono impegnati in
attività di educazione ambientale, di riforestazione ecc.; molte delle
sue parole d’ordine sono diventate d’uso comune anche tra quelli che
un tempo erano i loro avversari; senz’altro il successo maggiore è stato raggiunto in termini di opinione pubblica internazionale, con quella mitizzazione del movimento di cui abbiamo già parlato. Eppure a
livello locale molti sostengono che il Chipko non sia riuscito a realizzare i suoi obiettivi, anzi all’indomani del Forest Conservation Act del
1980 si sarebbe realizzata una maggiore centralizzazione nella gestione delle foreste indiane, mentre un’ondata conservazionista avrebbe
portato ad un’ampia politica di parchi nazionali, con il suo bagaglio
di proibizioni ed esclusioni per le popolazioni locali dall’uso delle risorse forestali 60.
Nei paesi ricchi, tralasciando i conflitti per la difesa delle proprietà comuni e degli usi civici, le battaglie ambientaliste sono state in
genere di altro segno: qui a lungo i movimenti ecologici si sono concentrati su posizioni conservazioniste, battendosi per la difesa di spazi, specie, paesaggi messi in pericolo dalle trasformazioni economiche.
Infatti, se i parchi nazionali sono stati spesso l’arena del conflitto tra
modi diversi di usare e concepire la natura (vedi Jacoby), non dobbiamo dimenticare che essi stessi sono stati il frutto di battaglie del
movimento conservazionista. Far vincere l’idea che una foresta o un
pezzo qualunque di natura potessero non essere messi a coltura,
60. Ivi, pp. 202-3.
191
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
sfruttati per la produzione di legname o cementificati non è stato facile.
Luigi Piccioni ha raccontato molti momenti di questa battaglia
per la conservazione della natura in Italia, come la già citata legge per
la salvaguardia della pineta di Ravenna 61 e la lotta per la costituzione
del parco nazionale d’Abruzzo e, soprattutto, per la sua protezione
dai ripetuti assalti delle imprese idroelettriche e dei costruttori 62. Potremmo sintetizzare questo tipo di conflitto come conservazionismo
contro profitto, ma le cose furono un po’ più complesse. Innanzitutto, molti parchi nazionali sono stati costituiti o si sono rivelati come
ottime occasioni di sviluppo economico, portatori di reddito per le
comunità interessate, inoltre il conflitto è stato talvolta interno allo
stesso ambientalismo, come nel caso della Hetch Hetchy Valley nella
Sierra Nevada 63. Qui ai primi del Novecento l’ambientalismo utilitarista di Pinchot, il capo del servizio forestale degli Stati Uniti, si scontrò con il preservazionismo filosofico-estetico di John Muir: materia
del contendere la costruzione di una grande diga nella valle che rifornisse d’acqua la città di San Francisco, messa a dura prova dal terremoto e dall’incendio del 1906. E in quell’occasione, come in molte
altre, fu la posizione più intransigente, ovvero quella di Muir, che difendeva la bellezza della valle da allagare, a soccombere.
Cinquanta anni dopo, nel 1963, la vittoria nella battaglia contro la
Echo Park Dam nel Dinosaur National Monument costituì secondo
Nash la rivincita del movimento ambientalista dopo la sconfitta della
Sierra Nevada 64, anche se Steinberg ricorda che il prezzo pagato per
la protezione della Valle dei Dinosauri fu l’accettazione da parte degli
ambientalisti di un’altra diga sul Colorado (Glen Canyon Dam), che
semplicemente spostava un’opera rischiosa e di grande impatto altrove 65.
D’altra parte era proprio negli anni sessanta e settanta del Novecento che il movimento ambientalista andava assumendo nuove caratteristiche e rinnovati apparati concettuali. In particolare era il pensiero marxista che contaminava l’ambientalismo, spostandolo dalle
61. Il volto amato della patria, cit., p. ???
62. La natura come posta in gioco. La dialettica tutela ambientale-sviluppo turistico
nella storia della “regione dei parchi”, in M. Costantini, C. Felice (a cura di), Storia
d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. L’Abruzzo, Einaudi, Torino 2000.
63. Steinberg, Down to Earth. Nature’s Role in American History, Oxford University Press, New York-Oxford 2002, p. 139.
64. Nash, Wilderness and the American Mind, cit., p. 200.
65. T. Steinberg, Down to Earth, cit., pp. 243-4.
192
5.
ECOLOGIA
tradizionali posizioni del conservazionismo ad una nuova ecologia
politica.
Carolyn Merchant ha messo in rilievo quanto la categoria di dominio, centrale nell’analisi della scuola di Francoforte, abbia rivoluzionato l’ecologismo contemporaneo, ricordando il nesso stabilito dal
filosofo Herbert Marcuse tra guerra alla natura, guerra imperialista in
Vietnam e asservimento della vita nel suo complesso al capitale 66.
Il conflitto ambientale iniziava, così, a coinvolgere anche nei paesi
ricchi i temi della giustizia ambientale, spesso incrociandosi con le
lotte per il diritto alla salute nelle fabbriche e nei quartieri operai, o
con battaglie più generali, come quelle ecopacifiste. Non che si trattasse in assoluto di una novità: Guido De Luigi, Edgar Meyer e Andrea Saba hanno ricostruito le lotte avvenute nella Val Lagarina, in
provincia di Trento, negli anni trenta del Novecento 67. Qui erano i
valligiani, prima gli agricoltori e gli allevatori, poi soprattutto le donne, a battersi contro l’inquinamento da acido fluoridrico prodotto
dalla Società italiana dell’alluminio (SIDA); i sintomi passarono rapidamente da vegetali e animali, agli uomini, soprattutto bambini, che si
ammalarono di fluorosi. In pieno regime fascista, le donne di Chizzola, uno dei centri più colpiti, riuscirono per due volte ad ottenere la
chiusura della fabbrica per ammodernamento, ma alla lunga furono
sconfitte e tutta la vicenda messa a tacere con l’opzione per una duplice strategia: repressiva, con l’apertura di una caserma dei carabinieri all’interno della fabbrica, e paternalistica, con le colonie estive
per i bambini della valle. La presenza delle donne, già registrata nel
movimento Chipko, è spesso spiegata nei termini di una differenza di
genere, che le vedrebbe biologicamente più sensibili ai temi della
conservazione della vita, per la loro funzione nel processo di riproduzione della specie.
La centralità del ruolo delle donne è riscontrabile anche nella lotta contro il nucleare in Germania della metà degli anni settanta, uno
dei casi più noti di conflitto ambientale nei paesi occidentali, assurto
in qualche modo a mito nella memoria del movimento ecologista. Alcuni tratti di quella protesta diventarono infatti caratteristici delle forme del conflitto ambientale: la costituzione di comitati locali, il boicottaggio, una grande attenzione ai mass media, la pratica dell’occu66. C. Merchant, Introduction, in Ead. (ed.), Ecology, Humanities Press, Atlantic
Highlands 1994, pp. 1-5.
67. Nasce una coscienza ambientale? La Società Italiana dell’Alluminio e l’inquinamento della Val Lagarina (1928-1938), in “Società e Storia”, 1995, 67.
193
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
pazione non violenta di siti strategici, la richiesta di un maggiore decentramento nelle scelte riguardanti le comunità e i loro ambienti.
Analizzando il ruolo delle donne all’interno del movimento nell’area
di Wyhl e Baden, Jens Ivo Engels 68 ha raccontato l’altra faccia del
conflitto, quella interna, fatta di tensioni generazionali (giovani e altri), di genere (tra donne e uomini), ideologiche-culturali (tra i giovani studenti comunisti di città e i “locali”).
Fu soprattutto su questo piano che il ruolo delle donne si rivelò
essenziale, riuscendo a svolgere una funzione di cerniera e di mediazione, spesso proprio utilizzando ruoli e funzioni tradizionali e stereotipate: la donna madre che si occupa dei giovani cucinando e procurando il cibo costituì un ponte tra le comunità e i giovani occupanti che venivano dall’esterno. Per Engels le donne di Wyhl ebbero
un atteggiamento disorientante per gli uomini, assumendo ruoli che
trasgredivano e confermavano la loro tradizionale collocazione nella
società locale (procurare il cibo ma pure essere in prima fila nei cortei a difesa dell’incolumità dei loro uomini: per i poliziotti maschi era
più problematico colpire una donna).
In questa immagine del conflitto ambientale dall’interno del movimento, Engels si sofferma anche sugli aspetti più materiali e minuti,
come la difficoltà per le donne di conciliare la partecipazione politica
e le attività domestiche (in particolare la cura dei figli) e la necessità
di recuperare un gap culturale che le teneva materialmente in condizioni di inferiorità (ad esempio, quasi nessuna di loro possedeva la
patente di guida).
5.4
Conclusioni
L’ecologia è una scienza, un insieme di idee e percezioni della natura,
una forma di espressione del conflitto sociale. Questi tre modi di declinare il termine ecologia non hanno proceduto separati nel corso
della storia, ma più spesso si sono intrecciati, plasmandosi l’un l’altro.
Fare la storia dell’ecologia significa dunque mettere in relazione tutti
questi livelli tra loro: innanzitutto svelare il carattere sociale e ideolo-
68. Gender Roles and German anti-nuclear Protest. The Women of Wyhl, in C.
Bernhardt, G. Massard-Guilbaud (éds.), Le démon moderne. La pollution dans les sociétés urbaines et industrielles d’Europe, Presses Universitaires Blaise-Pascal, ClermontFerrand 2002.
194
5.
ECOLOGIA
gico dell’ecologia scientifica, simile in ciò a tutte le altre scienze, e
provare a ricostruire le ecologie alternative a quella dominante, popolari o colte. Ricostruire poi la radice e l’impatto sociale delle diverse
forme di ambientalismo, inteso come rappresentazione culturale della
natura, indagandone gli aspetti razziali, etnici, di classe o di genere.
Utilizzare, infine, il conflitto ecologico come un laboratorio di analisi
empirica sui modi in cui gruppi diversi si sono confrontati tra loro e
con le rispettive esperienze della natura.
195
Epilogo
Abbiamo disegnato questa introduzione alla storia dell’ambiente
come una sorta di mappa per orientarsi in un nuovo campo di ricerche. Le mappe, si sa, perché funzionino vanno aggiornate: cambiano,
infatti, i viaggiatori, i viaggi, i luoghi e i redattori; cambiano i mezzi
di locomozione, le destinazioni, gli scopi del viaggio, cambiano continuamente gli spazi che si attraversano. Certo l’illusione che la mappa
blocchi il divenire, che fermi una volta per tutte lo scorrere delle cose
è forte: tuttavia uno storico sa bene quanto qualunque spazio e tanto
più ogni sua rappresentazione siano sempre un prodotto sociale, da
collocare nel contesto che lo ha prodotto.
Anche questa nostra mappa della storia dell’ambiente è, dunque,
provvisoria: tenta di dare conto della vicenda della storia ambientale
così come essa si è sviluppata fino ad oggi. Mentre scrivevamo, l’oggetto del nostro lavoro ci sfuggiva tra le mani, dando vita a temi,
questioni, contributi scientifici di cui noi non potevamo dare conto.
Per fortuna, però, non ci spettava il compito di celebrare una disciplina affermata ma magari un po’ sclerotizzata: l’indeterminatezza
della storia ambientale non è in funzione solo della sua, vera o presunta, giovinezza; piuttosto è una caratteristica fondante di questo
campo di studi, geneticamente predisposto alle contaminazioni.
Al di là delle molteplici provenienze geografiche e disciplinari,
delle lingue, delle appartenenze ideologiche, culturali e razziali degli
storici ambientali, una profonda convinzione li accomuna tutti: che
sia impossibile capire davvero una qualsiasi storia di un qualsiasi pezzo di mondo senza considerare anche la sua “ecologia”, ossia le complesse relazioni materiali, energetiche e simboliche, che legano i protagonisti di quella storia gli uni agli altri e tutti ad un insieme più
ampio che è il loro ambiente. Insomma, essi sono convinti che sia
impossibile fare la storia senza la natura.
Questa comune percezione ha subito inoltre una sua evoluzione
interna, che ha portato gli storici dalla wilderness e dalle foreste alle
197
LA STORIA DELL ’ AMBIENTE
metropoli industriali, dalle province dell’impero britannico a quelle
dell’economia mondiale nel XX secolo, dalla storia intellettuale e politica a quella sociale, di classe, razza e genere. È proprio questa capacità di dialogare con altri saperi e di dilatare il campo dell’osservazione che ha consentito agli storici ambientali di vedere ciò che appariva
sepolto sotto le strutture artificiali del mondo contemporaneo, o relegato in un altrove lontano nello spazio e nel tempo.
All’inizio di questo libro abbiamo parlato del ritorno della natura
nella storia, ma forse questa immagine andrebbe un po’ corretta. La
natura non se n’è mai andata, ovviamente. È sempre stata qui. Forse
questa è la più importante scoperta della storia ambientale.
198
Riferimenti bibliografici *
La storia dell’ambiente non si esaurisce certo nella breve esposizione fatta in
questo libro. Esiste una ormai vastissima letteratura, che ha già dato vita a
numerose esposizioni di sintesi, alcune delle quali sono state richiamate nel
testo. Nel selezionare le opere di cui dare conto abbiamo scelto di dare uno
spazio maggiore a quelle non tradotte in italiano, o non disponibili facilmente al pubblico italiano. Le opere monografiche sono più rappresentate rispetto ad articoli o saggi brevi, sebbene alcuni di questi siano stati utilizzati per
il loro valore innovativo o per l’assenza di opere più approfondite sull’argomento. Tuttavia, l’esistenza di alcune riviste specializzate di ormai lunga tradizione, e il numero di convegni e incontri internazionali sul tema che si
sono accumulati negli ultimi anni, hanno prodotto una grande quantità di
materiale storiografico, per consultare il quale esistono anche utili risorse di
rete, alle quali rimandiamo i lettori. Fra queste, segnaliamo in particolare la
bibliografia curata dalla European Society for Environmental History, disponibile al sito www.eseh.org. Quelle che seguono sono ulteriori indicazioni
bibliografiche, che escludono le riviste specializzate, come la statunitense
“Environmental History” o l’europea “Environment and History”, le riviste
telematiche “Ecologia Politica CNS” e “Altronovecento”, e “I frutti di Demetra. Bollettino di storia e ambiente”: nell’impossibilità di citare tutti gli articoli pubblicati, rimandiamo i lettori alla consultazione diretta.
AGNOLETTI M.,
Segherie e foreste nel Trentino, dal Medioevo ai giorni nostri,
Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina, San Michele all’Adige
1998.
ID. (cura di), Storia e risorse forestali, Accademia italiana di scienze forestali,
Firenze 2001.
AGNOLETTI M., ANDERSON S., Forest History: International Studies on Socioeconomic and Forest, CABI Publishing, Wallingford 2000.
ANDERS SANDBERG L. (ed.), Trouble in the Woods. Forest Policy and Social
Conflict in Nova Scotia and New Brunswick, Acadiensis Press, Fredericton 1992.
* Le opere citate nelle note a pie’ di pagina non compaiono in questo elenco.
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