Gli studi di Nuto Revelli sui combattenti della guerra fascista

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Gli studi di Nuto Revelli sui combattenti della guerra fascista
Gli studi di Nuto Revelli sui combattenti della guerra fascista
La produzione letteraria e storiografica di Nuto Revelli ha attraversato varie fasi: quella ini­
ziale della stesura di diari o memorie immediatamente posteriori agli avvenimenti bellici ',
con la pubblicazione per le edizioni Panfilo di Cuneo nel 1946 della parte sulla campagna di
Russia col titolo Mai tardi (mai tardi a prendere posizione, a impegnarsi contro il nazifa­
scismo); la fase poi di sistemazione delle esperienze di guerra vissuta, che ha portato nel 1962
al volume La guerra dei poveri (Einaudi, Torino), il quale raccoglie le memorie di Russia e
i diari partigiani in un tessuto narrativo continuo, arricchito da vari documenti; e infine la
terza fase di ricerca sistematica delle testimonianze di combattenti della seconda guerra mon­
diale, che ha dato i due volumi di cui ci occupiamo adesso: La strada del davai (Einaudi,
Torino 1966) e L ’ultimo fronte. Lettere di soldati caduti o dispersi nella seconda guerra mon­
diale (Einaudi, Torino 1971). Dietro a questa attività c’è una dichiarata esigenza morale di
pagare il debito che Revelli sente di avere nei confronti dei suoi alpini di Russia e dei
combattenti in genere. « La colpa peggiore del fascismo — egli scrive — non è di aver tra­
dito la generazione del littorio, di aver tradito noi che gridammo Viva la guerra, viva il duce.
È di aver tradito questi poveri cristi, a cui la guerra era caduta sulle spalle come un’epi­
demia » (La guerra dei poveri, cit., pp. 34-35). La sua attività è quindi rivolta a rendere giu­
stizia alla massa dei soldati, ai « poveri cristi » travolti da una guerra che non compren­
devano; e lo strumento scelto, dopo la sua testimonianza diretta, è la ricerca paziente del
materiale documentario su quello che i soldati sapevano e sentivano. L ’esigenza etica che
muove Revelli si traduce così, sul piano politico-storiografico, in un’indagine sul consenso di
massa nella seconda guerra mondiale.
Si tratta di un settore di studi che in Italia è quasi completamente trascurato. Dinanzi alla
prima guerra mondiale l’interventismo di destra e di sinistra ha imposto (e il ventennio fa­
scista ha consolidato) una visione semplicistica dell’atteggiamento delle masse, soffocando
ogni spunto critico e imponendo un trionfalismo nazionalista; manca perciò una memoriali­
stica autenticamente democratica e critica (Lussu è un’eccezione isolata), mancano addirittura
ricerche storiche che incrinino i tabù propagandistici. Lo scalpore suscitato una quindicina di
anni fa dal film di Monicelli La grande guerra, che dava una descrizione macchiettistica, ma1
1
Ricordiamo che Nuto Revelli, nato a Cuneo nel 1919, partecipò alla campagna di Russia
come sottotenente degli alpini in servizio effettivo, riportando due medaglie d’argento e una
promozione per merito di guerra. Dopo T8 settembre 1943 fu tra i primi organizzatori della
Resistenza nel Cuneese; nel 1944 comandò la brigata G L “Carlo Rosselli” distinguendosi
come trascinatore di uomini e freddo capitano in battaglia. Non riprese il servizio effettivo
nell’esercito dopo la fine della guerra.
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meno retorica del consueto del comportamento dei soldati, e la difficoltà di Rosi nel trovare
i giusti toni nel suo recente Uomini contro testimoniano l ’impaccio della cultura italiana di­
nanzi ai miti della grande guerra; e i volumi di Mario Isnenghi e Alberto Monticone, che
per primi e con una ricca base documentaria hanno messo in dubbio la versione ufficiale e
tradizionale del grande slancio patriottico dei fanti italiani sull’Isonzo e sul Piave, non hanno
per il momento suscitato un generale rinnovamento degli studi sulla prima guerra mondiale2.
La situazione è naturalmente assai diversa per la seconda guerra mondiale: la pubblicistica
e la storiografia parlano apertamente di guerra sbagliata, anche da un punto di vista patriot­
tico, e ammettono che gli italiani non la vollero, ma la subirono. La memorialistica, testimo­
nianza sicura dell’atteggiamento della classe dirigente e degli ufficiali, è molto indicativa: pre­
dominano gli accenti critici o addirittura disfattistici oppure quelli intimistici, mancano total­
mente (o suonano pura esercitazione retorica fatta a tavolino) i toni guerrieri e un patriot­
tismo che vada al di là della ripetizione degli slogan della propaganda fascista. G li studi
sulla memorialistica sono però assai rari e generalmente riluttanti a coglierne le implicazioni
politiche; e la storiografia in genere sulla guerra italiana resta troppo in superficie perché
denuncia le responsabilità del governo e degli stati maggiori, ma si ferma ai consueti luoghi
comuni sul valore sfortunato quando passa a parlare del comportamento dei soldati. Il rin­
novamento in corso degli studi storici sul fascismo e la seconda guerra mondiale insiste pre­
valentemente sugli elementi di debolezza e di crisi dello stato fascista: la sorda ostilità delle
masse operaie, l ’arretratezza delle strutture economiche resa evidente dal confronto bellico, il
progressivo distacco della borghesia dal regime. Si tratta di una scelta storiografica con la
quale concordiamo, che ha però il rischio di non sottolineare abbastanza che malgrado questi
elementi di debolezza lo stato e l ’esercito conservavano una capacità di repressione e di con­
tenimento delle proteste popolari messa temporaneamente in crisi dalle sconfitte militari, dal
collasso del 1943 e dalla Resistenza, ma riaffermata e consolidata dai governi badogliani e
'degasperiani. La disponibilità critica di tanta parte della produzione sulla seconda guerra
mondiale non si spinge fino a toccare il problema della continuità del consenso dei soldati,
come se la loro obbedienza passiva fosse un fatto naturale e scontato.
Queste considerazioni fanno risaltare l ’importanza storiografica e politica delle ricerche di
Revelli sull’atteggiamento dei soldati verso la guerra, le uniche che non si fermano alla
memorialistica e alla pubblicistica, valide solo per lo studio della classe dirigente, ma si pro­
pongono di ricostruire l ’orientamento e le esperienze dei soldati semplici. Queste ricerche sono
contraddistinte da due fattori: una delimitazione geografica (le valli del Cuneese) e l ’impiego
di tecniche nuove (nuove per la storiografia italiana, s’intende), come il ricorso alle interviste
e l ’utilizzazione delle lettere dei soldati. La delimitazione dell’area di indagine ha permesso
una ricerca capillare e garantito una notevole omogeneità delle testimonianze; non ne viene
ridotto il valore generale delle conclusioni di Revelli perché nel materiale raccolto non hanno
spazio elementi particolaristici o campanilistici (se si esclude il mito degli alpini, che però
trova rispondenza in tutte le zone montuose dell’Italia settentrionale). Ciò non significa che
ricerche analoghe non siano necessarie per altre zone: sarebbe interessante poter confrontare
il comportamento di soldati provenienti dalle campagne socialiste o dalle periferie operaie
con quello dei contadini dell’Alto Cuneese, zona tradizionalmente conservatrice malgrado
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M. I snenghi, I vinti di Caporetto nella letteratura di guerra, Marsilio, Padova 1967, e
Il mito della grande guerra da Marinetti e Malaparte, Laterza, Bari 1970; E. F orcella-A.
M onticone, Plotone d ’esecuzione. I processi della prima guerra mondiale, Laterza, Bari, 1968,
e A. M onticone, Italiani in uniforme., Laterza, Bari, 1972.
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l ’estrema povertà della popolazione. In questo ambiente si è mosso Revelli, favorito dalla
persistenza di una rete di relazioni nate durante la guerra partigiana, ma soprattutto mosso
dalla solidarietà e dall’amore per i caduti ed i reduci dimenticati e spremuti e dalla tenacia
e dalla rabbia antifascista che nel 1943 lo portarono in prima fila nella Resistenza armata.
Ed ha testardamente cercato di dare la parte di protagonista ai soldati che mai lo avrebbero
chiesto, facendo parlare i reduci sulla loro esperienza con lunghi sfoghi registrati stenogra­
ficamente e ascoltando i morti attraverso le loro lettere degli anni di guerra, pietosamente
conservate dai familiari e ora riprodotte con gli errori di lingua, le ingenuità e gli slogan
propagandistici. Per la prima volta nella storiografia italiana della seconda guerra mondiale,
non sono gli ufficiali l ’oggetto del lavoro, ma i soldati visti senza folclore e buoni sentimenti
e ricuperati in tutta la loro dignità di uomini.
Il primo risultato di queste ricerche è la loro stessa esistenza, l’indicazione cioè della pos­
sibilità di trovare e organizzare materiale documentario sugli orientamenti dei soldati, sol che
ci sia la volontà politica di farlo. Non a caso Revelli inquadra le lettere dei caduti in una
breve storia delle valli cuneesi, che ne sottolinea l ’estrema povertà attraverso i vari regimi,
ieri come oggi, e l’arretratezza politica e culturale della popolazione: l ’accettazione rassegnata
della guerra è il frutto di precise scelte politiche dei governi liberali, fascisti e democristiani
e la rivendicazione del ruolo dei soldati è anche rivendicazione del ruolo dei contadini poveri
nella vita del Cuneese. Le ricerche di Revelli non interessano solo la storia della guerra,
ma sono un capitolo della storia delle classi subalterne italiane, del mondo contadino in parti­
colare; e la ricerca dei condizionamenti che spingono gli alpini a morire in una guerra che
non è la loro, non a caso sempre evitata dalla storiografia ufficiale, va inserita nell’analisi
politica della situazione di soggezione dei contadini della fascia alpina.
Il secondo risultato delle ricerche di Revelli è la documentazione dell’estraneità dei soldati
alla guerra e nel medesimo tempo della loro obbedienza passiva e rassegnata. Non sono
temi nuovi (basti ricordare i lavori di Isnenghi per la prima guerra mondiale), ma nuova è
l ’ampiezza e l’autenticità irrefutabile della documentazione. Nelle loro lettere i soldati parlano
soprattutto del mondo che hanno dovuto abbandonare, dei familiari e del lavoro quotidiano,
si interessano dei progressi dei figli, dell’andamento delle semine e della salute degli animali,
cercano disperatamente di recuperare un’interezza di uomini riportandosi all’unico ambiente
di cui capiscono i valori e la dimensione collettiva. Non riescono invece a integrarsi real­
mente nell’ambiente militare, di cui non parlano mai, se non per dire la fame e le sofferenze
che li tormentano. Gli unici accenni alla vita sotto le armi sono legati ai ricordi di casa:
l’incontro con un parente o un compaesano, un raffronto tra la terra straniera che calpestano
e quella cuneese, un giudizio che rivela ancora e solo l’occhio del contadino piemontese.
Nessun interesse per le nuove conquiste e le nuove terre (se si. esclude appunto quanto ricorda
la casa), nulla di meno che generico sui nemici e invece un interesse commosso e partecipe
per la popolazione russa, quando i soldati si accorgono che si tratta di contadini poveri e
umani, con cui si stabiliscono automaticamente rapporti che ricordano quelli della vita cu­
neese. In queste lettere non mancano dichiarazioni di fede nel duce e nella vittoria, accenni
sprezzanti al nemico e tipici slogan fascisti: ma si tratta sempre di elementi estranei al
discorso vero, significativamente espressi in italiano corretto anche nelle lettere scritte par­
zialmente in dialetto o in un italiano approssimativo. La propaganda fascista e militare rimane
cioè in superficie, viene assorbita ma non diventa parte del mondo dei soldati, la fiducia ri­
tuale in Mussolini non significa fiducia nel colonnello o nel capitano, la guerra continua
a restare irrimediabilmente estranea. Solo lo spirito di corpo degli alpini appare radicato
nell’animo dei soldati e non a caso, perché si tratta di un valore familiare sin dal mondo
civile, inserito nell’educazione e nella vita delle popolazioni montanare.
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La guerra è estranea, ma viene accettata senza ribellione. Le lettere dei soldati, anche le più
sconsolate, non rivelano una volontà di rivolta; gli alpini imprecano contro il destino, si la­
mentano della loro sorte, ma non mettono in dubbio di doverla accettare, come si accetta
un disastro naturale. Le testimonianze orali dei reduci sono ancor più significative, perché
non esprimono odio o rancore verso le autorità militari e politiche dell’Italia fascista, respon­
sabili di tanti lutti, come in fondo non attaccano neppure i russi, malgrado il trattamento
riservato ai prigionieri. L ’incapacità di un giudizio politico, di una ricerca delle cause che
vada oltre l’accettazione del destino, è una eloquente dimostrazione della forza e della pro­
fondità del condizionamento ideologico prima, durante e dopo una guerra che può essere di­
scussa solo all’interno della classe dirigente, prendendo in considerazione il dissenso degli
ufficiali, ma deve continuare ad essere accettata dalle masse come qualcosa di inevitabile.
Il terzo e più parziale risultato del lavoro di Revelli è una prima individuazione degli ele­
menti che intervengono a creare il consenso dei combattenti (e più in genere dei contadini)
cuneesi. Dall’insieme del materiale raccolto e dalla lucida introduzione a L ’ultimo fronte
emerge il ruolo pesantemente negativo delTincultura e dell’isolamento delle valli cuneesi, an­
cora dominate da un’educazione religiosa arretrata e oppressiva, che si pone di fatto come
unico tramite con il più vasto mondo. L ’orizzonte del soldato cuneese è straordinariamente
limitato: l ’importanza enorme e assorbente che ha per lui il piccolo ambiente tradizionale,
la famiglia e la sua terra, si configura come una scelta obbligata per la mancanza degli stru­
menti culturali elementari necessari a comprendere una realtà diversa. La docilità, la capa­
cità di sopportazione, lo stesso valore del soldato cuneese si rivelano il frutto di una limi­
tazione della sua esperienza umana operata da una società che sulle montagne cuneesi ha
saputo perpetuare condizioni di sfruttamento e di emarginazione, entrate in crisi soltanto in
questi ultimi anni. Perfettamente organico a questa società si rivela il mito degli alpini,
l ’esaltazione di uno spirito di corpo che isola il montanaro dai contatti con il mondo esterno
e lo rinchiude in un ambiente familiare, che ripete i valori di sottomissione e di sacrificio
della sua vita quotidiana. I battaglioni alpini in marcia nella sterminata pianura russa con
i loro muli e un’attrezzatura da montagna sono un microcosmo chiuso e conosciuto, che
impedisce al soldato di confrontarsi realmente con l ’esterno fino al momento in cui, nella
disastrosa ritirata, si ritroverà solo e indifeso.
Certo, su questo punto dal lavoro di Revelli potrebbe partire una ricerca organica sugli
strumenti di condizionamento ideologico di una società contadina in guerra e un’analisi spe­
cifica sul mito degli alpini, che tanta parte ha avuto nella vita delle regioni montuose setten­
trionali. A noi interessa però indicare anche un’altra prospettiva, l ’individuazione cioè delle
conseguenze che per la classe dirigente italiana e per la sua politica imperialistica aveva il
condizionamento dei soldati all’obbedienza passiva, assai più rispondente alle esigenze di un
potere di classe che a quelle della guerra moderna. Sarebbe da verificare fino a che punto
le sconfitte italiane abbiano origine nell’incapacità dei comandi e nell’insufficienza dei mezzi
e non anche nella non-collaborazione delle truppe, capaci di morire ma non di inserirsi real­
mente in una guerra di aggressione. Questa ricerca comporta il rischio di una revisione del
mito ormai consacrato del valore degli alpini in Russia e in Grecia, del loro eroico sacri­
ficio per una causa non sentita; il rischio di dover rinunciare a degli eroi per trovare degli
uomini capaci di fuggire come di tentare un ultimo assalto con la forza della disperazione,
uomini sopraffatti dagli avvenimenti e incapaci di riconoscersi in una struttura gerarchica
estranea. C ’è da chiedersi se una revisione del mito consacrato non possa portare alla distru­
zione di un anello di quella catena di oppressione e condizionamento che ha portato gli
alpini a morire in Russia e oggi ancora pesa sui superstiti e sui figli.
Giorgio Rochat