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NOTA A CORTE DI CASSAZIONE – SECONDA SEZIONE PENALE
SENTENZA 18 novembre 2015, n. 45711
Introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi.
Analisi del reato e rapporti con il delitto di ricettazione: concorso di reati o rapporto di
specialita’?
A cura di ANNALISA IMPARATO
Il rapporto tra il reato di commercio di prodotti con segni falsi ex art.474, comma 2 c.p. ed il reato
di ricettazione di cui all’art.648 c.p. è l’oggetto trattato da questa recente sentenza della Suprema
Corte, che ha ripercorso l’orientamento ormai consolidato.
Nonostante il pensiero della giurisprudenza di legittimità sia ormai pacificamente diretto verso il
concorso di reati, la dottrina ed una parte minoritaria della giurisprudenza ancora ne discute,
ravvisandovi un rapporto di specialità.
Il reato di commercio di prodotti con segni falsi è preveduto dal comma 2 dell’art. 474 c.p. ed è
inserito tra i delitti contro la fede pubblica. Il bene giuridico protetto è appunto la fede pubblica, che
nell’accezione soggettiva va interpretata come il sentimento di fiducia che la collettività ripone in
oggetti, documenti o simboli. Invero, la stessa nozione di fede pubblica appare indeterminata
all’interprete, il quale, per ancorare la nozione ad una lettura univoca e determinata, ne ha proposto
una accezione oggettiva, quale stato di certezza che riguarda alcuni oggetti o simboli sulla cui
veridicità può farsi affidamento al fine di rendere sicuro il traffico giuridico ed economico. Emerge
pertanto un portato di plurioffensività del reato in esame (e di tutti i reati contro la fede pubblica in
generale), essendo tutelati non solo l’interesse pubblico alla genuinità e veridicità materiale ed
ideologica, ma anche l’interesse del privato nella cui sfera incide la falsità.
Quanto alla collocazione sistematica va precisato che l’art. 474 è inserito nel titolo relativo alle
falsità in sigilli o strumenti o segni di autenticazione, certificazione o riconoscimento. Elemento
qualificante è appunto la falsità, il falso inteso come imitatio veri, ciò che non è vero ed è in grado
di indurre in inganno.
Prima della riforma attuata nel 2009, la giurisprudenza e dottrina individuavano la fede pubblica
come bene giuridico tutelato dall’art. 474 c.p., al pari degli altri delitti contenuti nel medesimo capo.
Si sosteneva, con riferimento ai marchi, la tesi della tutela della fiducia dei consumatori in quei
mezzi simbolici di pubblico riconoscimento che caratterizzano i prodotti industriali e le opere
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dell’ingegno nella loro circolazione, a protezione dell’interesse dei consumatori alla distinzione
della fonte di provenienza dei prodotti posti sul mercato: “I reati di cui agli artt. 473 e 474 sono
reati contro la fede pubblica, diretti a tutelare quei mezzi simbolici o reali di pubblico
riconoscimento che servono a contraddistinguere e garantire la circolazione dei prodotti
industriali; per la loro sussistenza occorre che vi sia la contraffazione (riproduzione integrale, in
tutta la sua configurazione emblematica e denominativa) di un marchio o la sua alterazione
(imitazione fraudolenta o falsificazione parziale, in modo che esso possa confondersi con quello
originario).” (Corte di Cassazione Penale n. 1217 del 13.02.1973).
Con la riforma del 2009, date le rilevanti modifiche operate sulla configurazione dei delitti previsti
nell’art. 474 c.p., la dottrina propone una struttura del delitto in chiave monoffensiva, incentrato
sulla proprietà industriale o in ogni caso sull’economia pubblica, intesa sia come tutela dei
consumatori o come tutela del patrimonio di impresa.
La condotta penalmente rilevante è, nel primo comma, l’introduzione al fine di trarre profitto di
prodotti con marchi o segni distintivi alterati; mentre al secondo comma è la detenzione ai fini della
vendita o della circolazione latamente intesa, permanendo il fine di profitto.
Oggetto materiale del reato è il marchio o altro segno distintivo. Presupposto fondamentale del
fatto di reato descritto dal legislatore è la registrazione del marchio nelle forme stabilite dalla legge:
occorre che siano state osservate le norme interne e convenzionali poste a protezione della proprietà
intellettuale od industriale.
In buona sostanza, secondo un orientamento giurisprudenziale prevalente, la tutela penale di cui
all’art. 473 (e all’art. 474) c.p. deve ritenersi limitata ai soli marchi registrati. È vietata, dunque,
una interpretazione analogica in malam partem tesa ad ampliare l’area penalmente rilevante dei
reati artt.473 e 474 ai marchi non registrati: “Ai fini della configurabilità dei delitti di contraffazione
o alterazione di segni distintivi di opere dell’ingegno o di prodotti industriali, non è necessario che
il segno distintivo di cui si assume la falsità sia stato depositato, registrato o brevettato nelle forme
di legge, ma è sufficiente la presentazione della relativa domanda, con la descrizione dei modelli di
cui si rivendica l’esclusiva, in quanto essa rende formalmente conoscibile il modello e possibile la
sua illecita riproduzione”. (Corte di Cassazione Penale n. 9752 del 3.3.2009; Corte di Cassazione
Penale. N.2527 del 12.04.2012).
Quanto alla condotta penalmente rilevante va precisato che trattasi di condotta ontologicamente e
cronologicamente separata dall’attività di contraffazione e alterazione ex sè rilevante ai sensi
dell’art. 473 c.p.
Infatti, lo stesso legislatore, con la clausola di riserva “fuori dai casi di concorso nei reati dell’art.
473 c.p. “, sancisce che solo chi non è concorso nella contraffazione può rispondere
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dell’introduzione nel territorio dello Stato o nella messa in commercio, escludendo il concorso tra i
due reati. La falsificazione dei segni distintivi è caratterizzata, infatti, da un iter esecutivo bifasico:
il momento dell'apposizione sul prodotto del marchio contraffatto (ipotesi più grave prevista dall'art.
473) e il momento della messa in vendita della merce falsamente contrassegnata (ipotesi meno
grave disciplinata dall'art. 474).
Ai fini della distinzione tra le fattispecie degli artt. 473 e 474 c.p. l’uso di marchi e di segni
distintivi punito dalla prima norma, essendo inteso a determinare un collegamento tra il marchio
contraffatto e un certo prodotto, precede l’immissione in circolazione dell’oggetto falsamente
contrassegnato e, comunque, se ne distingue. L’uso punito dall’art. 474 c.p., invece, è direttamente
connesso con l’immissione in circolazione del prodotto falsamente contrassegnato, in quanto
presuppone già realizzato il collegamento tra contrassegno e prodotto e, più specificamente, già
apposto il contrassegno su un determinato oggetto. Nel primo reato la condotta ha per oggetto
materiale il contrassegno, nel secondo il prodotto contrassegnato (Corte di Cassazione Penale, sez.
V, n. 4305 del 24 aprile 1996).
Ulteriore discrimen tra le due fattispecie astratte è dato dal dolo specifico di profitto che
contraddistingue la condotta di introduzione e commercio. La finalità specifica di trarre profitto,
secondo la giurisprudenza è coperta da dolo specifico e pertanto non è elemento costitutivo della
fattispecie legale astratta ed in quanto elemento esterno non deve realizzarsi per aversi il
perfezionamento del reato. Da qui sarebbe desumibile, secondo una parte della dottrina, la natura di
reato di pericolo concreto essendo centrale l’attitudine lesiva della condotta, a danno della fiducia
dei consumatori, non assumendo rilevanza, ai fini della configurazione della fattispecie legale
astratta, il prodursi di un profitto (a differenza di quanto avviene ad esempio nel delitto truffa, in cui
il profitto ingiusto è elemento costitutivo del reato.)
Il reato in esame presenta punti di contatto con il reato di ricettazione di cui all’art. 648 c.p.
considerato che trattasi di condotta di acquisto, ricezione, occultamento avente ad oggetto beni o
danaro provenienti da altro delitto. In sostanza ci si è chiesti se chi detiene ai fini di vendita prodotti
con segni contraffatti conoscendo la provenienza delittuosa degli stessi, commetta entrambi i reati
oppure sia perseguibile solo per il più grave delitto di ricettazione.
La tematica involge, invero, uno degli argomenti più dibattuti dalla scienza penalistica quello della
unità e pluralità di reati e del concorso apparente di norme, tematica affascinante e al contempo
inquietante per le oscillazioni giurisprudenziali che si registrano in merito.
Unità e pluralità di reati come un pendolo che oscilla tra le teorie moniste e le teorie pluraliste, per
appropriarci, a ragion veduta, di una frase di un celebre filosofo.
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Il problema è individuare un unico o una pluralità di fatti reato nella condotta di chi riceve e detiene
ai fini della vendita prodotti falsi di cui conosce ab initio a falsità e, in sostanza, la provenienza
delittuosa degli stessi prodotti. Ove vi fosse ravvisabile un unico fatto criminoso saremmo in
presenza di un solo reato, profilandosi un concorso solo apparente. Il concorso è apparente quando
ad un medesimo fatto sono applicabili, almeno prima facie, più norme incriminatrici, ma in realtà
solo una di esse è applicabile. Il concorso è effettivo quando con una sola condotta si violano più
volte la stessa legge penale (concorso formale omogeneo) o più volte diverse leggi penali (concorso
formale eterogeneo).
Mentre nel concorso materiale abbiamo più condotte sul piano naturalistico, nel concorso formale,
in sostanza, abbiamo una sola condotta che realizza elementi riconducibili a più fattispecie.
Capire se siamo in presenza di un unico reato o una pluralità è fondamentale ai fini del trattamento
sanzionatorio, considerato il cumulo giuridico del concorso formale ex art. 81 c.p.. Inoltre è
importante per garantire il rispetto del principio processuale, di portata indubbiamente anche
sostanziale, del ne bis in idem ricavabile dall’art.649 c.p.p. che vieta la punibilità per un medesimo
fatto. Applicato sul piano sostanziale tale principio vuole precludere l’attribuzione ad un soggetto,
per un medesimo fatto, la violazione di più norme penali quando una sola di esse è in concreto
applicabile e quando una sola è sufficiente ad esprimere l’intero disvalore del fatto. È chiaro che la
disciplina del concorso apparente mira a mitigare il rigore sanzionatorio del concorso formale di
reati. L’apparenza si scioglie applicando l’art. 15 c.p. che sancisce il principio di specialità,
secondo cui lex specialis derogat generali. In sostanza quando una norma speciale contiene tutti gli
elementi costitutivi di un’altra norma generale con un quid pluris, in aggiunta o in specificazione,
questa è destinata a trovare applicazione allorquando regolino la medesima materia. Secondo
autorevole dottrina (MANTOVANI) alla specialità unilaterale, cioè in aggiunta o in specificazione,
va ad affiancarsi la specialità reciproca o bilaterale allorquando ad un nucleo comune si accostino
contestualmente elementi generici e specifici dell’una rispetto all’altra e viceversa (nel senso che
l’una è generale e speciale rispetto all’altra e viceversa).
Quando le norme si pongono in relazione di interferenza, di eterogeneità ed incompatibilità andrà
escluso il rapporto di specialità, dandosi luogo all’applicazione dell’art. 83 c.p.
Invero, la giurisprudenza degli ultimi anni, oscillando come un pendolo, con il chiaro intento di
individuare più casi possibili di concorso apparente, ed escludere il cumulo giuridico, ha creato
diversi criteri, allontanandosi sempre più da esigenze di certezza e determinatezza tanto care alla
scienza penalistica. Secondo le teorie pluralistiche, il concorso apparente va giudicato per il tramite
di criteri di valore disancorati da analisi strutturale fedele al principio di legalità formale.
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Si pensi al criterio di sussidiarietà secondo cui la norma principale esclude quella sussidiaria che
tutela un grado inferiore del medesimo bene giuridico protetto dalla norma di grado superiore
(anche se è bene precisare che spesso è il legislatore attraverso clausole espresse applica tale
criterio).
O ancora, al criterio di assorbimento o consunzione che, infatti, consente di individuare un
concorso apparente quando la norma consumante prevale su quella consumata perché comprende in
sé il fatto previsto dalla norma consumata, esaurendone l’intero disvalore penale de fatto. Si
esclude, pertanto, il concorso di reati quando la realizzazione di un reato comporta, secondo l’id
quod plerumque accidit, la realizzazione di un atro reato che viene assorbito per una valutazione
normativo-sociale (si pensi ai casi di antefactum e postfactum non punibili, alla progressione
criminosa, al reato complesso in senso lato).
Tali criteri preterlegislativi però sono privi di ogni addentellato normativo, per questo, lasciano
all’interprete ampi spazi di discrezionalità che possono condurre a trattamenti differenti con una
palese violazione del principio di legalità e dei suoi corollari della determinatezza e tassatività. Le
Sezioni Unite della Suprema Corte nel 2011 con sentenza n.1235, hanno negato le tesi pluraliste
sostenendo l’applicazione del solo criterio di specialità per risolvere le antinomie apparenti tra
norme, cosi come auspicato dal legislatore. Infatti la certezza del diritto e la tutela del legittimo
affidamento rispondono non solo al canone di legalità formale preveduto dall’art. 25 Cost. ma anche
ai principi CEDU (articolo 7), sulla cui vis expansiva non è dato ormai discutere.
È chiaro che, alla luce della sentenza appena richiamata, il pendolo oscillante crei una naturale
curvatura verso la tesi monista, promuovendo il criterio di specialità nella sua accezione unilaterale
e bilaterale. La specialità, cosi come descritta, però impone un giudizio strutturale e giammai di
valore, perché il nostro diritto penale è un diritto penale del fatto che abbraccia elemento oggettivo
ed elemento soggettivo e, dunque, dalla disamina del fatto si deve partire.
L’analisi strutturale serve a capire se siamo di fronte ad un concorso effettivo o solo apparente.
Dal raffronto strutturale tra gli elementi costitutivi di ciascuna norma incriminatrice sotto cui è
sussumibile il medesimo fatto, è possibile cogliere l’esistenza di un rapporto tra le fattispecie legali
astratte che si riverbera poi sul piano sanzionatorio, con l’applicazione di soltanto una di esse.
È partendo da tale analisi che la Corte di Cassazione con la sentenza in commento, la numero 45711
del 2015, ha escluso il concorso apparente tra il reato di commercio di prodotti con segni falsi e il
delitto di ricettazione. La questione è, ad onor del vero, assai dibattuta tra la dottrina prevalente ed
una minima parte della giurisprudenza che optano per la specialità e la Suprema Corte che in più
battute ha affermato il concorso di reati.
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Innanzitutto sul piano strutturale trattasi di due delitti che proteggono beni giuridici diversi: la fede
pubblica il primo e i patrimonio il secondo.
Quanto alla condotta, la Corte di legittimità nel 2013 ha sottolineato che trattasi di condotte diverse
sotto il piano strutturale e cronologico. Infatti, la commercializzazione di prodotti falsi presuppone
l’acquisto e/o la ricezione degli stessi, ma non la consapevolezza della provenienza delittuosa,
elemento qualificante la fattispecie di ricettazione.
Espressamente i giudici di legittimità scrivono: “E’ principio acquisito nella giurisprudenza di
legittimità che il delitto di commercio di prodotti con segni falsi può concorrere con il delitto di
ricettazione, in quanto la fattispecie astratta dell’art. 474 c.p. non contiene tutti gli elementi
costitutivi della ricettazione previsti dall’art. 648 c.p. Ed invero il reato (ex art.474 cod. pen.) può
essere commesso dallo stesso autore della contraffazione o dell’alterazione o da un soggetto che ha
acquistato i prodotti, successivamente commerciati, senza la consapevolezza iniziale della falsità
del marchio o dei segni distintivi. Solo in questi casi manca un elemento costitutivo della fattispecie
della ricettazione: nel primo caso dell’acquisto da terzi di cose provenienti da delitto e nel secondo
caso dell’elemento soggettivo del dolo (Corte di Cassazione Penale sez. V, 5.11.1999 n.14277).”
Si tratta di attività che si susseguono essendo ipotizzabile una soluzione di continuità tra le stesse:
alla ricezione può seguire detenzione finalizzata alla vendita, ma ogni ricezione non è ricettazione
quando manchi la consapevolezza iniziale della natura delittuosa del prodotto.
Nella sentenza in commento si specifica che dal punto di vista morfologico la fattispecie dell’art.
474 c.p. non contiene tutti gli elementi costitutivi della ricettazione previsti dall’art. 648 c.p. perché
chi commercia in beni contraffatti può aver ricevuto o acquistato quei prodotti anche senza sapere
della loro illecita origine. E se manca questo elemento costitutivo dato dalla consapevolezza
iniziale, anche sotto forma di dolo solo eventuale e mai mero sospetto, manca un elemento del reato
di ricettazione. Il soggetto agente del reato di falso potrebbe venire a conoscenza anche in un
secondo momento della falsità, cioè non all’atto di acquisto-ricezione bensì all’atto di messa in
circolazione.
Non sussisterebbe in sostanza un rapporto di specialità tra le norme incriminatrici in astratto
analizzate.
Ne deriva che ruolo centrale assume nel processo, l’esame dell’elemento psicologico del soggetto
autore del reato, per comprendere se lo stesso si sia almeno rappresentato come certo o altamente
probabile la provenienza delittuosa nella fase iniziale della condotta, all’atto della ricezione. Tale
dolo, anche nella forma eventuale, può emergere da qualsivoglia indizio giuridicamente
apprezzabile, compreso il comportamento dell’imputato in relazione alla specifica attività posta in
essere.
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Chiaro è che rileveranno la evidente contraffazione della merce e le modalità con cui entra in
possesso della stessa al di fuori degli ordinari e leciti canali di vendita:
” ...in tema di ricettazione, la prova dell’elemento psicologico del reato può desumersi da qualsiasi
elemento di fatto e da qualunque indizio giuridicamente apprezzabile, compreso il comportamento
dell’imputato in relazione alla specifica attività posta in essere. Il giudice del merito ha a riguardo
valorizzato, con argomentazioni logiche ed immuni da censure, la evidente contraffazione della
merce che non poteva essere ignorata e che non poteva attribuirsi all’imputato; le modalità del
possesso, estranee ai canali di distribuzione per la vendita e tipiche invece dei mercato parallelo
dei capi non originali (ricezione della merce contraffatta e vendita illegale al dettaglio); la
mancata giustificazione del possesso di tali beni.”
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