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Vinicio Capossela
Tefteri
Il libro dei conti in sospeso
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Tefteri
A Francesca Leoncini,
alla tua gioventù
fatta di lacrime
e rebetiko
L’alba asciuga sempre la notte. Il cromosoma della gioventù è
nell’alba, nel giorno che tira via di dosso la coperta del buio. I
rebetes aprono la porta e fuori è il giorno. Il traffico del mattino.
Gli autobus, i clacson, il mondo fumigante, ma dentro, dietro la
porta, al Principessa, è ancora la notte. È come in Omero, che fa
allungare indefinitamente Nyx, la notte, per permettere a Odisseo il racconto. Dopo il massacro dei Proci, dopo le fiaccole accese nel buio a fingere le nozze, dopo il sangue lavato dalle ancelle,
dopo il riconoscimento di Penelope col tranello del letto, dopo finalmente il letto. Costruito nella radice dell’albero sopra al quale poggia la casa. Dopo il riconoscimento, l’unione della carne
e, dopo l’unione, il racconto. Racconto così infinito, così dettagliato da colmare gli anni e far tracimare la notte. Così i rebetes,
suonando e bevendo, allungano indefinitamente la notte, mentre
fuori il meccano del giorno comincia il suo giro. Fermano il tempo, lo riconducono a loro che se ne stanno dentro, asserragliati
nel tekés, nella taverna. E che muoia anche la notte. A uscire è
pelle spogliata, senso d’eterno, senso di onnipotenza sul sole, che
si paga solo dopo, nei frantumi di un sonno penitente, cagliato
e colpevole. Un sonno che manda in pezzi la coscienza liberata,
come in frantumi sono finiti i piatti, sotto le gambe incrociate e
il sorriso estatico di Iannis Papaioannu nelle foto della taverna.
Fuori le edicole, i fornai e i tabacchini sono gli unici con la
coscienza a posto.
Loro soltanto custodiscono tesori a cui affacciarsi come ai
tabernacoli delle chiese, ricolmi di immagini, di lumi e di fede.
Ci sentiamo in colpa sempre per le cose sbagliate, per essere
stati felici, mai per tornare all’infelicità dei nostri doveri, alla catena corta delle abitudini, a chinare di nuovo il capo nel
tempo dell’Utile.
Il vero mangas è il tempo. È un mangas di colore nero.
Atene, marzo 2012
«Crisi» etimologicamente deriva dal greco kríno, separare, cernere, dividere.
Crisi: un concetto adatto al rebetiko, che è musica nata da una separazione, e anche alla Grecia, da cui l’Europa si sta separando, nel disprezzo che sta alla base di
ogni rifiuto.
Di Grecia si sente molto parlare in termini che ricordano la tragedia, che proprio qui è stata inventata. Da
tragedia la parola tragudi, canzone, e nella sua radice
la parola tragos, capro. Tragodia, canto del capro. Capro
espiatorio dei peccati dell’Europa è il paese che ne è la
madre culturale. Europa, figlia di un re di Creta sedotta da Zeus. Europa, «grandi occhi», terra di ponente, disposta al tramonto.
Tutto quello che viene dalla Grecia, fin dall’antichità, ha un carattere universale. Ci parla dell’uomo,
dell’anthropos. Ci dice dell’uomo, del destino, di cosa sta
succedendo all’uomo d’Occidente in questo momento di
«crisi», di scelta.
Andiamoci, con un piccolo strumento in mano, come
un tirso, accompagnati da una musica nata da una catastrofe. Katastrofìs, così ancora oggi i greci chiamano la
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guerra greco-turca del 1922, la distruzione di Smirne e
l’esodo dei greci di Asia Minore. Il milione e mezzo di
profughi che, dopo il trattato di Losanna, in quegli anni
si riversarono, senza possedere più nulla, in una madrepatria per niente felice di accoglierli. Con loro portarono
una musica e usanze d’altrove, si ammassarono in quartieri suburbani che cambiarono la fisionomia sociale della
«Parigi del Mediterraneo orientale», come Atene veniva
definita negli anni venti, e come la voleva la politica di
occidentalizzazione culturale del giovane stato greco. La
musica rebetika, a differenza della dimotikì – musica da
suonarsi all’aperto, in grandi feste, madre della canzone
popolare –, è musica urbana. Musica che si consuma in
luoghi chiusi e che predilige lo struggimento individuale. Mentre la dimotikì si identifica con la regione d’origine e appartiene a chi si riconosce nei suoi canti e nelle sue
danze, la rebetika appartiene a tutti. È apolide. È musica
di sradicati di ogni regione. Si diffonde per il paese, incurante del luogo, dello strato sociale e del livello culturale
di chi la pratica. Nata da una divisione, unisce.
Si dice che, durante la terribile guerra civile, i combattenti arrivassero a sospendere gli scontri per cantare
insieme Ximeroni ke vradiazi, se a qualcuno capitava di intonare questo grande brano di Iannis Papaioannu che segnò un singolare record, quello di far vendere più dischi
del numero di grammofoni esistenti nel paese. Alcuni se
lo comprarono anche solo per tenerlo come un quadro,
da appendere tra le fotografie delle persone care.
Il rebetis non ama mischiarsi, né farsi portavoce di
nessuno.
Il rebetiko è un lamento che si canta in coro, ma si
balla da soli. Appartiene a tutti, ma parla a ognuno. Musicalmente viene da Oriente, dal café amán e dal canto
bizantino che, per antitesi alla Chiesa di Roma, alla sua
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polifonia, alla sua complessità armonica, ha perfezionato la monofonia, fino ad arrivare a monumentali tesori di
varietà ritmica e intensità espressiva. Molti altri elementi
vi finirono dentro, arricchendola in un meticciato etnico
più rassicurante della purezza ricercata dal nazionalismo
della classe di governo.
Questa musica vive tuttora e accompagna le esistenze di chi va a rinfrancarsi tra le strofe delle sue canzoni,
conosciute e condivise. È la colonna sonora della vicenda di una nazione.
Nei bar e nei ritrovi di ogni comunità greca sparsa
dall’Europa all’Australia si ballava rebetiko quando, nel
2004, ebbri di felicità ed euforia, si festeggiava la vittoria
del campionato europeo di calcio. I tovaglioli di carta venivano lanciati nell’aria a migliaia, un’usanza che da un
po’ di anni ha sostituito quella di lanciare piatti e romperli per terra. La Grecia ha perduto i suoi piatti spaccati
e le sue sigarette Santé. Ha perduto le lucciole, come diceva Pasolini del passaggio analogo avvenuto negli anni sessanta in Italia. Si è indebitata, ha provato la dose di
consumo a basso tasso e, ora che ha sviluppato dipendenza, le si toglie la dose.
Il rebetiko è musica che si è sviluppata anche attorno
al consumo di droga. Centinaia di canzoni sono dedicate all’hashish, al narghilè. Nel suo disincantato ateismo,
l’aldilà veniva contemplato in una tragudi dove si pregava Caronte di portare un po’ di hashish ai compagni, ai
rebetes finiti dall’altra parte dello Stige.
Caronte: tu che traghetti nell’Ade.
«Caronte è uscito in strada per raccogliere le persone…»
Caronte, molto presente nelle canzoni di rebetiko, anche lui incarna la sofferenza.
È la personificazione della morte.
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Noi traduciamo Caronte, ma è Charos, la morte in
persona.
Lo incontri come si incontra qualcuno per strada. Lo
chiami per nome. Ci dormi insieme. Come accade all’Odisseo di Kazantzakis: la morte va a riposare con lui,
stanca del cammino e, viandante come lui, dormendo
ha un incubo: sogna la vita. Una società si giudica nella sua autenticità dal modo in cui sceglie di affrontare la
morte. E davanti a Charos siamo tutti uguali, siamo nudi… ton Charo… vghike o Charos Panaghia…
Charos è traghettatore perché sta a un confine, quello tra esistere e non esistere.
Il rebetiko, come ha detto Manolis Papos una volta, è anche questo: stare di qua o di là da un confine. Di qua o di
là da un rigagnolo d’acqua. Stare da un lato o da un altro di un quartiere.
Di nuovo la parola kríno, da cui «crisi». Scegliere. Cernere. Il rebetiko si accompagna sempre a una crisi perché
obbliga a scegliere. Separare per vedere distintamente
chi ci piace e chi scegliamo di frequentare e chi invece
non ci interessa. Di cosa scegliamo di essere fatti.
Ora Papos lo sono venuto a trovare. Suona tutte le
sere al teatro in un recital che si chiama Amán amín, ma
il venerdì verso le due raggiunge il resto del gruppo sul
piccolo palco del Klimatarià. I musicisti stanno seduti sulle sedie, come da sempre. Come nel grande film
di Costas Ferris Rembetiko, del 1983, suonano da fermi,
mentre la storia del paese scorre.
Anche qui i musicisti siedono in fila, disposti di fronte ai tavoli del Klimatarià. Suonano gli strumenti di sempre. Chitarra, buzuki e baglamàs.
Dimitris Papadopulos versa retsina e fa scorrere in
una pellicola di parole la storia degli ultimi tre anni.
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«È la classe media che sta scomparendo. I poveri erano
nella merda anche prima, ora peggio che peggio. Ma è la
classe media che sta impoverendo fino all’estinzione. In
Grecia l’85 per cento della gente ha la casa di proprietà.
Era l’abitudine, la mentalità: lavorare tutta la vita e avere la casa di proprietà, non buttare soldi nell’affitto. Come in Italia. Ora tutte le nuove tasse sono sulla proprietà.
Hanno messo una tassa sulla casa e l’hanno abbinata alle bollette dell’elettricità. Se non la paghi ti tagliano la luce. Questo è illegale. L’elettricità, come l’acqua, è un bene
pubblico, non me lo puoi tagliare se non ti pago una tassa sulla proprietà. Ma l’hanno fatto. E poi hanno preso i
soldi della tassa e se li sono portati in Svizzera. Costringeranno la gente a vendere le case e a stare in affitto per
quello che gli resta da vivere.»
«Che dobbiamo fare?»
Dimitris ride incredulo, col suo bellissimo italiano
dall’accento greco, mentre si agita al solito tavolo del
Klimatarià.
I musicisti intanto eseguono uno tsifteteli. È un ritmo orientale. Due donne si alzano e iniziano a danzare
davanti all’orchestra. È una musica che accompagna la
danza del ventre. Di solito ha testi di sogni esotici, il sogno del mangas: vivere come un pascià. Donne. Fumo.
Tappeti. Sogni orientali. Spezie. L’harem, i rebetes così se
la passano. Tsifteteli! Ma poi subito arriva uno zeimbekiko e le cose peggiorano. «Questa strada mi ha portato
di nuovo di fronte alla tua casa, davanti alle tue finestre
chiuse. Nella separazione le serrature sono più pesantemente chiuse. Sono davanti alle tue finestre, davanti ai
tuoi gradini, e sto versando lacrime…»
«Un’altra cosa straordinaria è che i due partiti che ci hanno portato fino a qua, quelli che si sono fatti la guer15
ra l’uno contro l’altro per quarant’anni, il Pasok e Nea
Dimokratia, ora si sono messi insieme! Io non dico che
questo sistema non dovesse cambiare. Era tutto marcio.
Corruzione dappertutto, mazzette. Però così non cambierà. Lo aiutano invece a rafforzarsi! Se calcoli quanti soldi vanno in eroina, cocaina e hashish, in tre anni
hai riempito il buco finanziario dello stato. È tutto marcio. Hanno calcolato che parte della crisi mondiale viene
dall’uso di droga da parte degli operatori finanziari. Si
fanno una tirata, si sparano qualche cocktail forte a ora
di pranzo e poi bruciano i tuoi risparmi, numeri virtuali
in giro per il pianeta.
«Adesso qui hanno fatto l’operazione “Scopa!”. L’operazione pulizia! Hanno sbattuto in galera milletrecento immigrati. Ma non c’è posto, le prigioni sono piene,
hanno fatto un’operazione messa in gran risalto dalla televisione, ne hanno presi trentuno, per “espedienti”, un
poco di fumo, cazzate. Gli altri li hanno dovuti rilasciare. Sai quanti immigrati clandestini ci sono in Grecia? Un
milione. Ne hanno presi milletrecento. Sai quanti disoccupati ci sono? Un milione e duecento. Siamo dieci milioni. Ma la popolazione attiva è cinque milioni. Vuol dire
che uno su cinque non lavora. Uno per famiglia.»
Poi è arrivato Papos. Lo si è visto fermo sulla porta: statuario. Ora ha la barba bianca, i capelli però sono
rimasti neri. La solita faccia da cane boxer. Gli occhi in
giù, neri anche quelli. Indolenti. Buoni. Ad abbracciarlo
è come un semaforo. Dirige il traffico anche al Klimatarià. Quando arriva lui la musica cambia. Tutti iniziano a
fare sul serio. La musica lievita. Il suo buzuki è come un
lievito, come un panificante. Mette insieme le cose. Impasta il pane. Fa crescere tutto.
«Quanto suona bene Papos. Ma solo se ne ha voglia.
Se è nel suo posto, se gli piace quello che ha intorno. Se
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sta bene, allora suona benissimo e a lungo. È un artista.
Deve averne voglia.»
Papos, intanto, col buzuki fa ornamenti, scariche di
note, intarsi che non hanno pausa.
«Fino a quando si suona qui?»
«Fino a quando Papos non si annoia.»
Si finisce quando si alza dalla sedia. Ha il culo pesante, come una farfalla non può tornare a sedersi. Però
quando arriva Papos finiscono le musiche allegre. Arriva il nero. Povertà, problemi. Cala l’oscurità. Cominciano le lacrime.
«Ah, questa musica… Se ami, piangi. Se soffri, piangi.
Se sei felice, piangi. È così. Lacrime e rebetiko.»
«Den-se-thelo! Den-se-thelo! Me l’hanno detto quello
che hai fatto, me l’hanno detto anche quelli che leggono i
fondi del caffè. Non ti voglio. Densethelo. Non ti voglio.
Pare dromo. Prendi la strada. Vattene…»
«Come si chiama questa canzone?»
«Atakti.»
(Voglio impararla, cantarla anch’io. Buttare fuori il
nero nel coro den-se-thelo!)
Poi ne è venuta un’altra. Zeimbekiko, il tempo in 9/8
che trascina la pena sempre 1/4 in più oltre la battuta.
«Mi hai ferito e non dimentico…» Un amico di Papos, un
tipo calvo e imbiancato che se ne stava solo al suo tavolo, come un cane, si è alzato e ha ballato. Viene al locale
ogni volta che sa che c’è Papos. Per arrivare si fa un’ora
e mezzo a piedi. Ecco, ora ha fatto il suo ballo. Era uno
zeimbekiko. Lo zeimbekiko si balla da soli. Il vero mangas ne balla uno soltanto in una serata. Per questo è un
grave affronto rompere la solitudine del suo ballo. Entrare nel suo spazio, lo spazio dove sta liberando l’anima. È
cosa per cui, in passato, si poteva perdere la vita. Il mangas rispetta e vuole essere rispettato. Porta la giacca con
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il braccio infilato in una sola manica per distinguersi, ma
anche per avere una mano libera in modo da estrarre più
velocemente il coltello.
La manica non indossata pronta ad arrotolarsi come
un serpente in difesa del braccio.
Il mangas portava un cappello nero con la fascia nera.
Nera per il lutto dei suoi amici perduti e nera per i nemici che ancora aveva da uccidere.
Il mangas è il rebetis. Il rebetis. Ribelle, rèbelo in veneziano. C’è qualcosa in questo paese che si ribella.
«E quando la città va a fuoco, non si sa se è solo perché
siamo andati più avanti nella sfortuna, o è perché qui ci si
adatta di meno alla strozzatura. La gente viene picchiata
in piazza, ma ci va lo stesso. Lo vedi cosa è successo anche ieri in Spagna? Sciopero generale. Botte. Ma qui ci tiriamo meno indietro. C’è poco da farsi prendere in giro.»
«Di cosa parla questo pezzo?»
«Scommesse all’ippodromo. Confesso i soldi che ho
perduto. Faccio il mirolòi, la pira funebre, il lamento sui
soldi che ho perduto all’ippodromo.»
Per l’uomo greco antico, il lutto è diventare tutt’uno
col cadavere, per questo ci si sdraia nella polvere, nel silenzio che si fa intorno al morto. Lui lo fa con i soldi che
ha perduto, ci si sdraia a fianco e canta.
È ancora un pezzo della vecchia scuola, quella dei
bassifondi. Poi è arrivato Kolonaki, il quartiere per bene.
L’archondorebetiko, il rebetiko aristocratico. Il rebetiko
da night club, da salotto. La quarta corda al buzuki con
swing di Manolis Chiotis. Si è occidentalizzato. E l’altro
passo l’ha fatto Keti Dali. La madrina dello skiladiko.
Skiladiko, la cosiddetta musica dei cani. Skilù è la donna
che canta skiladiko, e lei è l’originale. Cantava da skilù,
ma in modo autentico. Quando lo ha fatto, negli anni ses18
santa, era bello. Non è stato bello quello che ne è venuto
dopo. Il massacro della musica greca.
Allora i buzukià, i locali dove si fa questo skiladiko,
erano come lo stadio. Chi entrava lì entrava in un luogo
in cui tutti sono uguali. Come nel calcio: di fronte al pallone non conta chi sei. Ci si fonde insieme. Si perdono le
convenzioni. Si diventa uguali. La canzone entra nell’anima, fa sentire le stesse cose al ricco e al povero. Come
la malattia e la morte. Sono uguali per tutti. È come una
droga: quando ti entra dentro non guarda chi sei. I buzukià. Lo skiladiko. Lo stadio. La taverna. Posti dove si
infrangono le divisioni, gli strati sociali. È come il Carnevale (carnem levare, togliere la carne, anche in greco),
la festa, il mondo rovesciato.
Skiladiko, forse si chiama così perché si recupera la
parte animale. Prima è il whisky, poi la musica e poi inizi
a buttare fiori o piatti a manetta. Non ci si limita. Si inizia
ad abbaiare. Esce la tigre dentro e si comincia a cantare
a squarciagola, assieme a tutti, canzoni dalle parole vergognose. Basta vedere il palco alle sei di mattina per capire. I barbari sono arrivati.
Davanti alla morte siamo come nello skiladiko o allo
stadio. Non abbiamo alternative, non siamo più protetti da quello che di grande abbiamo cercato di fare della
vita. Siamo in mano ai nostri istinti… Non esistono persone piccole o persone grandi. Se la terra è in alto, tutta
l’umanità è in alto. Se la terra è in basso, tutta l’umanità sarà in basso.
Anche nel rebetiko si rompevano piatti, ma per sfogo di
dolore, perché la canzone entra dentro il corpo e lo conquista, e il corpo non è più il tuo, ma del dolore. E il dolore ti porta a sfogare in un modo che non controlli.
È la vita che tocca la morte.
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