File allegato - Fondazione Venezia 2000
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File allegato - Fondazione Venezia 2000
almanacco della presenza veneziana nel mondo fondazione venezia 2000 sommario a cura di Fabio Isman hanno collaborato Guido Beltramini Sandro Cappelletto Isabella Cecchini Giuseppe De Rita Fabio Isman Rosella Lauber si ringraziano Fabio Achilli Emanuela Bassetti Riccardo Bon Stefano Bortoli Dennis Cecchin Augusto Gentili Antonella Lacchin Piero Lucchi Stefania Mason 7 Acqua, piacere e governance: tre delle ragioni di un’intensa affinità elettiva Giuseppe De Rita 15 I traffici tra la Serenissima e Londra, su navi speciali. E arriva perfino il baccalà Fabio Isman 39 Tutta l’Inghilterra è ricolma di Palladio. E “ruba” perfino il volto all’architetto Guido Beltramini 53 Quando sotto San Marco Haendel arriva per cercare delle voci castrate Sandro Cappelletto 69 Il più famoso tra i viaggiatori mai stato in laguna; Byron ha 14 famiglie e bestie Fabio Isman 97 Letti, cassapanche e comò: come nel Novecento gli inglesi si rifanno l’arredo Isabella Cecchini 115 Il mercante vende ai britannici un migliaio di opere; e al Residente taglia un Tiepolo Rosella Lauber in collaborazione con Fondazione di Venezia progetto grafico Studio Tapiro, Venezia © 2011 Fondazione Venezia 2000 www.fondazionevenezia2000.org In copertina: In copertina: Raffaello Sanzio, o bottega, Studio di galea, disegno, Venezia, Gallerie dell’Accademia. acqua, piacere e governance: tre delle ragioni di un’intensa affinità elettiva Giuseppe De Rita 1. John Ruskin, Casa Contarini Fasan, da The stones of Venice, New York, Lovell, 1851. 2. William Downey, Dante Gabriel Rossetti e John Ruskin, s.d., Archivio Jeremy Maas. Y Fin dall’inizio dell’avventura di Venezia Altrove, quando mi accingo all’esercizio di prefatore, resto da anni letteralmente sommerso e sconvolto da quel pozzo senza fondo che per secoli è stata la produzione culturale veneziana, e dall’intrigo senza bandolo che è stato per secoli lo scambio commerciale su di essa esercitata. Y I nostri lettori, ormai tutti sul web e certamente con qualche nostalgia della carta patinata e delle fotografie del passato, conoscono bene l’eccezionalità un po’ mostruosa della citata produzione e del citato scambio commerciale; ma son convinto che, anno per anno, in loro “si rigenera l’attesa”: la voglia cioè di tornare a meravigliarsi della potenza veneziana nei due campi citati. Una potenza di cui in dieci anni abbiamo scandagliato le tracce in ogni grande capitale europea, russa, americana; e che questa volta siamo andati a verificare a Londra ed in Inghilterra, ritrovando ulteriori prove di quanto sia significativo, in quantità e in qualità, l’altrove veneziano sedimentato nelle isole britanniche. l’editoriale secoli di reciproca attrazione tra venezia e gran bretagna: perché? 7 secoli di reciproca attrazione tra venezia e gran bretagna: perché? 3. Tiziano Vecellio, La morte di Atteone, forse dipinta per Filippo II di Spagna tra il 1559 e il ’75, Londra, National Gallery, acquisita nel 1972, grazie a speciali fondi e donazioni, e a un pubblico appello. 4. Frederic Leighton, Una nobile signora di Venezia, 1864, Leighton House Museum, Royal Borough of Kensington and Chelsea, Londra. 8 Y Per la qualità, basta leggersi, con Rosella Lauber, le avventurose imprese del Residente britannico Strange e del suo sodale Sasso (il “mercante degli inglesi”) negli ultimi decenni del 1700, per constatare quante eccelse opere d’arte siano transitate per le mani di quei due e poi per le abitazioni e le case britanniche (ben 245 lotti di opere messe all’incanto a Londra il 10 dicembre 1789!). E si tratta soltanto di un tassello del grande mosaico di acquisti, collezioni, vendite, esportazioni venutesi a creare in tutto il Settecento. Ma la sorpresa è anche nella più banale quantità degli oggetti comuni arrivati in Inghilterra fino a cento anni fa: l’attenzione del mercato inglese per tutto quel che sapeva di veneziano è rimasta vivissima anche scadendo nel livello di qualità. C’è da restare stupiti, leggendo l’avvio del saggio di Isabella Cecchini, di quanta “roba” sia partita da Venezia per Londra in appena due mesi, cioè in settembre ed ottobre del 1926; o quanti ogni anno, nel 1898 e nel 1922, due anni scelti a caso; siamo lontani dalla sublime qualità del passato; magari una parte di quegli oggetti era «di grossolana imitazione o di lavoro ordinario»: ma il loro volume e la loro varietà stanno a ricordare che molti inglesi, anche in pieno Novecento, volevano avere in casa un pezzetto di Venezia. Per alcuni, a ricordo di un viaggio; per altri, a borghese consonanza con un mito. Y Guido Beltramini s’incarica di mostrarci come ad un certo punto, perfino Palladio sia diventato quasi più britannico, che non veneto; e Sandro Cappelletto, che per soddisfare certi desideri, s’intende artistici, la Serenissima era il luogo indubbiamente migliore e più idoneo al quale guardare. Ne escono non soltanto informazioni, ma curiosità a bizzeffe. Basta leggere i due testi di Fabio Isman, prodighi di viaggiatori, artisti, epopee, 5. Antonio Canal, detto Canaletto, Il Molo del bacino di San Marco nel giorno dell’Ascensione, 1733-4 circa, Collezioni di S.M. la regina Elisabetta II, Castello di Windsor; commissionata del console inglese a Venezia Joseph Smith, e venduta nel 1762 a re Giorgio III. Nel dettaglio, una galea ormeggiata davanti a Palazzo Ducale. 6. Giovanni Bellini, La Madonna del prato, 1550 circa, Londra, National Gallery, acquisita nel 1828. l’editoriale imprese, perfino di “007” ante litteram e di rotte avventuristiche. Y C’è da domandarsi perché Venezia e l’Inghilterra abbiano avuto per tre-quattro secoli una tale affinità elettiva a vari livelli. Non basta, come spiegazione, che nel periodo storico in cui tale affinità nacque, Venezia e l’Inghilterra fossero le due più grandi potenze marinare, una connessa con il vasto mondo dell’Oriente, l’altra invece tutta baldanzosamente atlantica. Le ragioni della affinità elettiva devono essere più profonde; e si possono ricavare anche dalla lettura dei saggi che seguono. Tenterò, da semplice lettore, di metterne in evidenza alcune, con qualche pudore e molta umiltà. Y La prima mi sembra essere il rapporto con l’acqua: più con la sua regolazione minuta in adesione al territorio, che con il dominio degli oceani. Chi conosce l’amore con cui i britannici valorizzano l’acqua (nei ruscelli che attraversano i prati dei loro castelli, nei fiumi che connotano le città, e anche nei porti dell’antica potenza), può capire con quale meraviglia ed ammirazione essi abbiano percorso i rii e i bacini di Venezia. Nell’acqua regolata c’è più cultura e soddisfazione, che sull’acqua ribelle degli oceani; c’è più capacità di pensare e costruire un insediamento; c’è più cura del particolare; c’è più valorizzazione della quotidianità. Queste cose non saranno mai state al centro di convegni e volumi di confronto fra veneziani e britannici; ma devono aver contato nella reciproca loro attrattiva. Y La seconda ragione di affinità sta probabilmente nel gusto del paesaggio, riproposto se possibile anche in dipinti e stampe. Non a caso l’artista inglese più apprezzato in Italia è Turner, come apprezzati e comprati a caro prezzo degli inglesi furono Canaletto e Guardi («sapevano copiare», cioè avevano genio fotografico). Ed in effetti, l’attrazione particolare dei grandi colle- 11 12 to, tutte puttane». Non saranno attrattive elettive; certo, comunque, sono attrattive pesanti. Y La reciproca attrazione che ha contraddistinto i rapporti fra Venezia e l’Inghilterra è passata quindi per percorsi e campi più antropologici che di alta cultura e di grande arte. È una interpretazione che potrà non convincere tutti, e spiacere a molti; ma ha il pregio di documentare il fatto che una vicinanza così stretta, come quella fra l’Inghilterra e Venezia, non avrebbe avuto vi- l’editoriale secoli di reciproca attrazione tra venezia e gran bretagna: perché? 7. Nimrud, un rilievo dal palazzo di Assurbanipal II, New York, Metropolitan Musum: scavato verso il 1840 da Austen Henri Layard, che vive lungamente a Venezia, è un dono di John Davison Rockfeller nel 1930. zionisti britannici per gli scorci paesaggistici dei due autori citati è nel tempo diventata più intensa di quella riservata ai maestosi quadri storici e mitologici, ai grandi capolavori; e non sarebbe comprensibile la curiosità inglese per Palladio, se non la sapessimo alimentata dalla capacità – appunto palladiana – di progettare anche edifici vicini al paesaggio circostante, oltre che edifici monumentali. Y Naturalmente, non possono bastare queste due ragioni per spiegare l’affinità elettiva fra Venezia e gli inglesi. Leggendo i saggi che seguono, altre due se ne aggiungono, anche se di diversa consistenza e di opposto valore. Da una parte, avanzo l’ipotesi che due mondi così lontani fossero tendenzialmente convergenti nella concezione della governance pubblica, con una virtuosa e graduata compresenza dei poteri del monarca (doge, o re), dei poteri dell’oligarchia, dei poteri democratici. Una ipotesi forse un po’ “tirata”, ma che può far capire come, per secoli, veneziani ed inglesi si siano sentiti entrambi orgogliosi di avere un equilibrato assetto del potere pubblico, quasi dei precursori dei processi oggi in atto un po’ in tutto il mondo. Y E dall’altra parte, per rendere più leggero il ragionamento, avanzo l’ipotesi che nell’immaginario inglese, Venezia fosse un luogo di piaceri: teatranti, spie, e specialmente dame. Penso a quanto facilmente possa esser nata la voglia di andare a vedere in loco se corrispondesse a realtà quanto scriveva Byron sulle sue tante conquiste nel proprio scannatoio: «Alcune contesse, alcune figlie di ciabattini, alcune nobili, alcune borghesi, alcune di basso ceto, alcune splendide, alcune discrete, altre di poco con- ta plurisecolare se non fosse stata incardinata, più o meno coscientemente, su scelte di segreta psicologia collettiva. Sulle vette si gode molto; ma non ci si vive tanto a lungo quanto è prosperata quella vicinanza. 13 i traffici tra la serenissima e londra, su navi speciali. e arriva perfino il baccalà Fabio Isman 1. Una galea a tre rematori per bordo, da Cristoforo Canal, La milizia Marittima, inedito, 1550 circa, Venezia, Biblioteca nazionale Marciana. 2.Sebastiano Caboto in un’antica incisione. 3.La statua di Giovanni Caboto, nella piazza di Montreal a lui dedicata Y Prima sono le navi, i commerci, i traffici; poi la cultura e il “grand tour”, che valgono racconti a parte. Politica, poca: Londra è lassù, lontana dal Mediterraneo, e a Venezia non interessa poi troppo; almeno fin verso il tramonto della Repubblica, il bacino d’influenza è un altro. Però, i legami non sono sporadici, e s’intensificano. «L’Inghilterra e Venezia», ha scritto qualcuno, «appaiono legate da un rapporto morganatico»: sorte dal mare, nazioni anomale, per secoli custodi della propria insularità, con immensi imperi marittimi e commerciali. Nel Quattrocento, le prime spedizioni inglesi verso il Nuovo Mondo, e Lorenzo Pasqualigo scrive da Londra ai fratelli Alvise e Francesco di «sto nostro venezian, che andò con uno navilio de Bristo a trovar isole nove, e dice d’aver trovato lige 700 lontam di qui terra ferma, ch’è el paese de Gram Cam»; però era Terranova, il Canada, scambiato per la Cina: vi pianta i vessilli inglese e pontificio, e forse il Leone di San Marco. Pasqualigo lo chiama Zuan Talbot: ma è Giovanni Caboto (figg. 2 e 3), che morrà in Inghilterra come il figlio Sebastiano, pure grande navigatore e con lui a 13 anni, nella prima spedizione del 1497, i cui successivi viaggi meritano un racconto dettagliato a papa Leone X. Y Alle Fondamenta Nuove, non lontano da quella di Tiziano ai Biri dove è sparito il verde che possedeva, la casa veneziana dei l’indagine ambasciatori e spie raccontano anche gli amori della regina 15 ambasciatori e spie raccontano anche gli amori della regina 4. Il modello di una galea veneziana, ricostruito per l’Expo di Okinawa, che si è svolta nel 1975. 5. La descrizione di una “galea grossa”, pubblicata da Jules Sottas in Les messageries maritimes de Venise aux XIV et XV siècles, Parigi, 1939. A fronte: 6. Raffaello Sanzio, o bottega, Studio di galea, disegno, Venezia, Gallerie dell’Accademia. 16 Caboto esiste ancora, e ha forma di una prua di nave. Caboto junior, cartografo di Enrico VIII a Greenwich, battezza Baccalaos quelle terre, perché vi trova pesci simili ai tonni, così chiamati dai locali: «Tanto fitti, che talora ritardavano la corsa dei bastimenti». Insomma, il termine baccalà forse nasce da qui; lassù, «vivono orsi in gran numero, i quali si nutrono di pesce». Però lo stoccafisso era già stato importato in laguna da un altro grande navigatore. La storia è curiosa: Pietro Querini parte da Creta il 25 aprile 1431 per il mare del Nord, con 68 marinai, vino e spezie. Una tempesta nel Canale della Manica li costringe alle scialuppe. In 14 arrivano su un’isola delle Lofoten, al Nord del Circolo polare; anche per la libertà dei costumi, che descrivono nei particolari, ci rimangono cento giorni. Querini ritorna il 12 ottobre 1432, e al Maggior Consiglio presenta anche lo stoccafisso, che ben presto entra nella gastronomia veneziana. Ma 60 anni dopo, quel nome Baccalaos resta imperituro. E le stranezze non finiscono qui: nel 1398, da Orkney in Gran Bretagna, con 12 vascelli del principe Enrico di Sinclair, erano già salpati Antonio e Nicola Zen; e se i Caboto toccano Terranova e il Labrador, costeggiano il Canada e la Groenlandia, gli Zen arrivano alla Nuova Scozia e alla Nuova Inghilterra; ne lasciano un resoconto 94 anni prima di Cristoforo Colombo, e un cannone veneziano, trovato di recente al largo di Terranova, parrebbe confermarlo. 18 Y Almeno dal Duecento, la marineria della Serenissima spaziava dal Mar Nero all’Algeria, pronta a valicare le colonne d’Ercole ed a spingersi a quello del Nord e alla Manica, grazie al sistema delle “mude”: convogli di galee (però chiamate galere) di solito a remi, ma in via sussidiaria anche a vela (figg. 4 e 5), di proprietà dello Stato e armate; perfino Raffaello ne trae un disegno (fig. 6) e quella diretta all’area anseatica e inglese era l’unica a spingersi nell’Atlantico (fig. 7). Nel 1317, si istituisce il viaggio annuale per le Fiandre e l’Inghilterra. Le galee possiedono fino a sei ordini di rematori: tre per bordo, 180 uomini (fig. 8); lo si vede ancora al Museo navale a Riva degli Schiavoni (tutti volontari; pagati poco più di un ducato al giorno, e due a fine Quattrocento, ma autorizzati a trafficare in proprio); quattro remi per banco di voga, solo quelle militari. Carpaccio la immortala (fig, 9). Il capitano era eletto dal Maggior Consiglio, ma stipendiato dai mercanti (fig. 10): 600 ducati a viaggio nel 1517; con lui, medici, un notaio, due pifferi e «due trombetti»; e 30 balestrieri, comandati da due giovani patrizi. Nel Trecento (dice Gino Luzzatto), ce n’erano «da 30 a 50, portata certamente inferiore alle 95 tonnellate». Nel Quattrocento, la capacità arriva a 250 mila chili: lunghe quasi 50 metri e larghe otto, le galee hanno fino a tre alberi. Più grandi soltanto le galeazze, pen- 8. La ricostruzione di una galea a tre rematori per bordo, del Museo navale di Venezia, esposta alla mostra Venezia e l’Egitto, a Palazzo Ducale fino al 22 gennaio 2012. l’indagine ambasciatori e spie raccontano anche gli amori della regina 7. I percorsi delle “mude” veneziane alla fine del XIII secolo. sate a metà Cinquecento: 228 ai remi, una potenza di fuoco inusitata, che ne compensa l’inevitabile lentezza. In quel secolo, cento galee sono sempre di riserva, un quarto armate, pronte all’Arsenale, fino alla battaglia di Lepanto (1571) il complesso industriale più grande al mondo (figg. 11 e 12), con uno status privilegiato. Lo regge un ammiraglio: alla morte del Doge, alla testa degli “arsenalotti”, controlla la sicurezza di Palazzo Ducale; e accanto al neoletto, brandisce il vessillo di San Marco. Y Il doge Tomaso Mocenigo (fig. 13), nel 1423 riassume così la potenza navale: impegnati 10 milioni di ducati sulle navi; due di utile dall’import, e due dall’export; in navigazione tremila imbarcazioni «da 10 a 200 anfore con 17 mila marinai, 300 navi con ottomila, 45 galee con undicimila». Le “mude”, il cui viaggio richiede buona parte dell’anno, durano fino al 1560; poi, saranno le navi a vela, non più statali, capaci anche di 600 tonnellate: i mercanti di Venezia, come l’Antonio di Shakespeare, armano le «ricche caracche» a proprio rischio e pericolo. Sempre piene di merci. Già nel Duecento, questi precursori dei servizi di linea trasportano «da tre a cinquemila tonnellate ogni anno; nel Trecento, fino a diecimila». La parte preponderante del carico dalle Fiandre è la lana, di qualità superiore a quella dell’Estremo Oriente e del Levante (e ancora più bassa la tipologia dall’Albania e dalle Puglie), importata appunto dall’Inghilterra e smistata alle filande in Lombardia, o in Oriente. In cambio, s’intende, di altre merci nei viaggi d’andata. È il ruolo di “ponte sui mari”, che alla Serenissima garantisce prolungata e doviziosa prosperità (fig. 14). Y Ecco l’esempio di un viaggio: l’8 febbraio 1383, quattro galee «de melioribus quae sint in Arsenatu de mensura magna», caricano da 60 a 220 mila libbre di «merci sottili»; le possono imbarcare anche di privati, però a pagamento. Per zavorra, 80 19 l’indagine ambasciatori e spie raccontano anche gli amori della regina mila libbre di metalli non pregiati. Al ritorno, lana, che, per sconsigliare la concorrenza, importare via terra dopo giugno costa di dazi un quarto del valore. Eppure, il viaggio è un fiasco: le prime due galee appaltate per 15 lire, ma per le altre nessu- 11. Pianta dell’Arsenale come era nel XVI secolo, Venezia, Museo Correr. A fronte: 9. Vettor Carpaccio, Il rimpatrio degli ambasciatori inglesi (dettaglio), forse 1495, terzo dei dieci “teleri” del ciclo delle Storie di Sant’Orsola, Venezia, Gallerie dell’Accademia. n’offerta. Però non rallenta il commercio; nel 1402, infatti, ne partono cinque: un carico che vale 300 mila ducati d’oro. Una cinquantina sono sempre in mare, con ottomila marinai; oltre 10. Gabriel Bella, L’asta delle galee in piazzetta, tra il 1779 e il 1792, Venezia, Fondazione Querini Stampalia. ad altri 3.300 navigli inferiori, con 25 mila a bordo. Nel 1423, valuta il doge Mocenigo, l’utile dei mercanti, «tra provvixion e noli, dazi doganali e senseri, tentori, noli de nave e de galie, pesadori, barche e marinai e galioti», è di «600 mila ducati dei nostri de Veniexia». Guglielmo Querini, commerciante patrizio di cui rimae la corrispondenza, ha rapporti con metà mondo: da Costantinopoli, a Bruges e Londra. In ogni luogo, trova amici o parenti; o concittadini che ci vivono per tanti anni, o fanno continue trasferte da Venezia. Nel 1498, le tre galee per la Fiandra sono ridotte a due «per mancanza di aspiranti» che le finanzino; da Candia, per l’Inghilterra, «patron Alvise Trevisan» carica 2.200 botti di vino, lasciandone a terra 500, per non sfidare il peso: quasi 600 tonnellate. In più, le navi per l’Inghilterra portano spesso gioie assai costose, ovviamente lavorate a Venezia. Y Già nelle sette mappe nautiche di Pietro Vesconte del 1318, uno degli atlanti più antichi che ci sono pervenuti e tesoro del museo Correr, le coste inglesi sono segnate, ma senza troppi 21 22 13. La tomba del doge Giovanni Mocenigo, di Tullio Lombardo, nella Basilica dei Santi Giovanni e Paolo. tate cinque, anziché le quattro previste (con un voto di 60 a 40 in Senato): in una, Barbarigo carica sei balle di pepe. Nel viaggio, la flotta incappa in 10 galere e altri 26 vascelli castigliani: se la cava pagando con gioielli, forse in vetro, valutati lo 0,2 per cento del valore delle merci. Il pepe giunge a Bruges, ai Cappello; e da Londra e Sandwich, tornano 23 barili di stoviglie di stagno e peltro, e altrettanti panni di stoffa inglese: un investimento di 1.600 ducati. Approdano a Venezia appena ad aprile 1431: lana venduta a Rialto; stoviglie in Puglia, a Ferrara e Verona. Y Il mercante importa 20 «panni fini» da Londra anche un anno dopo, e ne chiede fino a 200, da acquistare a credito, al tasso dell’8 o 10 per cento annuo, da destinare in Siria. In cambio, spedisce pelli; ma manda anche fili d’oro da Costantinopoli via terra, per alienarli a Londra, dove la colonia veneziana è di 40 componenti. Su Barbarigo, per Lane, pesa anche l’ombra di “doppi giochi” tra agenti. Nel 1440, gli investimenti in Ponente per le merci delle navi di Fiandra toccano i cinquemila ducati; di solito, spezie (per conferire gusto ai cibi e conservarli) contro stoffe. Il prezzo di 120 chili di pepe, dai 56 ducati di inizio Quattrocento, arriva fino a 100; e nel 1501, tocca i 130: Antonio Grimani ne è ben rifornito, e senza nemmeno muovere un ciglio, guadagna 40 mila ducati. Un bel gruzzolo: un decimo delle entrate nel 1586, annota il futuro doge Leonardo Donà, per i dazi delle mercanzie nell’intera Serenissima. Un viaggio che va a male, può rovinare un’intera famiglia, lo spiega anche Shakespeare ne Il mercante di Venezia. Una querelle infinita tra i due stati sono i dazi sull’uva secca. Y La linea per il Nord, le cui galee svernano a Southampton (e qui, i rematori “Schiavoni” hanno perfino un cimitero: in una chiesa di North Stoneham c’è ancora una lapide del 1491), è assai importante. «Producono sui mercati britannici un movimento l’indagine ambasciatori e spie raccontano anche gli amori della regina 12. Antonio Canal detto Canaletto, Il ponte dell’Arsenale, Woburn Abbey, Collezione del duca di Bedford. dettagli; un’altra “carta da navegar” di Francesco de Cesanis in quel museo, 1421, registra svariate decine di porti inglesi e irlandesi (fig. 15); e una tavola di Andrea Bianco del 1436 descrive la Manica. Nel Quattrocento, commerciava con l’Inghilterra pure Andrea Barbarigo, non del ramo che offre due dogi alla Serenissima: pochi studi e molta pratica sul campo, cioè sul mare (è balestriere su varie navi, dice lo studioso Frederic Lane), anche lui ha lasciato numerosi documenti. Parte con 200 ducati, e dopo 12 anni, nel 1431, ne possiede 1.600. Lavora con i Balbi, banchieri, ed i Cappello, di cui due, più volte, sono capitani di galee nel viaggio di Fiandra; poi, si dedicheranno alla carriera politica, e uno sarà il Capitano generale della flotta. Come lui, avevano perso il padre da piccoli. Barbarigo fa scontare a Londra lettere di cambio; dei tre fratelli Cappello, suoi corrispondenti, diverrà cognato. La posta giungeva in 25 giorni, e almeno con Bruges, c’era già un regolare servizio; è del 7 marzo 1282 la prima notizia di un officium postale di stato veneziano. Ma il Nord restava ancora davvero remoto. E pericoloso: nel 1485, sei vascelli pirata uccidono 130 veneziani e ne feriscono 300; per la restituzione del bottino, interviene perfino Carlo VIII di Francia; Piero Malipiero comanda una galea nel 1488: lamenta l’attacco di tre navi inglesi che «pretendevano il saluto», muoiono 18 britannici e due soli veneziani. Y Comunque sia, nel 1430 Andrea carica merci su una “cocca”, nave da 400 tonnellate, che compiva il viaggio in tempi precedenti alle «galee di mercato» organizzate dalla Repubblica (fig. 16); quattro del convoglio arrivano a Bruges, e la quinta, la Balba, è catturata da pirati genovesi. La maggior parte del carico era tuttavia riservata alle più sicure galee statali. Ne sono appal- 23 ambasciatori e spie raccontano anche gli amori della regina 14. Il bacino di San Marco affollato di navi mercantili (a sinistra, una galea appena arrivata, con i remi in mare), in una xilografia del Supplementum chronicarum di Johannes Philippus Forestus Bergomensis, Venezia, 1490. 15. Franceco De Cesanis, Carta nautica, 1421, dettaglio con la penisola iberica e, in alto, le coste inglesi e irlandesi, Venezia, Museo Correr (già coll. Cicogna). 24 quanto poté mai produrlo 60 anni fa», scrive un inglese a metà Ottocento, «l’arrivo a Calcutta della flotta delle Indie». A Bruges, parecchi gli uomini d’affari veneziani; per determinare i prezzi, si riuniscono nella casa dei van der Boerse; da qui, per qualcuno, il nome di una fondamentale istituzione moderna: la Borsa. Nel XIV secolo, sul Tamigi, nasce lo Steelyard, o Stalhof; era una concessione ai mercanti di Colonia già da due secoli. Magazzini e botteghe; alloggi per ospitalità temporanee; la chiesa più vicina è All Hallows the Great (fig. 17); è difeso manu militari; residenza obbligatoria per i mercanti, e le donne off-limits; di sera, le porte chiuse. Tanti parallelismi con il Fondaco dei Tedeschi a Venezia, 200 camere e 21 botteghe a pian terreno. Il Trionfo della povertà e quello della ricchezza, di Hans Holbein il giovane (perduti, ma noti da copie) decorano la Guild-Hall (e a Venezia, i mercanti del Fondaco pensano alla Pala della Festa del Rosario di Albrecht Dürer, nell’attigua chiesa di San Bartolomeo, che poi Rodolfo II vorrà a Praga, fig. 18). Il predominio sulla rotta si esplica fino al 1625: quando i prodotti delle Indie orientali entrano ormai nel Mediterraneo su navi olandesi e inglesi salpate da Amsterdam, o Londra. L’attività veneziana di grande mediatrice tra Oriente e Occidente viene meno. E i guadagni, pure. I viaggi costituivano davvero un ottimo mercato, se nel 1587, l’ospizio delle Convertite alla Giudecca offre intense preghiere per il buon esito degli stessi, in cambio dello 0,08 per cento dei capitali assicurati: proposta troppo speculativa per il tribunale. Nemmeno un secolo dopo, il futuro di porto regionale non è così lontano, anche se, con i suoi 175 mila abitanti, la città rimane (Alvise Zorzi) «una specie di New York del Cinquecento; 17. Londra, la chiesa di All Hallows the Great. tra i due paesi, l’Inghilterra e la Serenissima: questi capitani di mare «valevano ben di più degli agenti diplomatici a mantenerli», come scrive Rawdon Lubbok Brown ne L’archivio di Venezia con riguardo speciale alla storia inglese, apparso a Londra nel 1864 e l’anno dopo a Venezia e a Torino, introdotto dal conte Agostino Sagredo (fig. 19); un libro capitale, da cui attingeremo svariate notizie, di un singolare autore di cui diremo parlando del “Grand tour”. Brown è figura atipica: a 27 anni arriva per «vedere Venezia» (Zorzi) e non se ne va più fino alla morte, a 67 anni, la bara avvolta nel gonfalone di San Marco. Lavora tantissimo all’archivio: riscopre Marin Sanudo e i suoi Diari; trova casa a John Ruskin. E capitano della nave di Fiandra è Gabriel Dandolo, il primo agente diplomatico di Venezia in Inghilterra che Brown registra, nel 1316. Dal 1554 al 1787, conta ben 9.991 dispacci mandati in laguna dai diplomatici spediti a Londra, cui vanno aggiunte 13 relazioni di Ambasciatori, ancora presenti nell’Archivio dei Frari (luogo per studiare dei migliori al mondo; «forse nessun Paese vanta un patrimonio dei suoi governi più ampio, dettagliato e rivelatore», afferma John Julius Norwich): da quella del 1531 di Ludovico Falier, a quella di Francesco Morosini e Tommaso Querini del 1763, a quella di Sebastiano Giustinian (come tra i capitani di Fiandra, anche tra i diplomatici a Londra tanti bei nomi), che ci resta quattro anni ai tempi di Enrico VIII. Finché Venezia «non vuole più mantenere» esponenti di un tale rango «alla corte d’un principe in aperta rottura con la Santa Sede», e seguiranno 44 anni di vane l’indagine ambasciatori e spie raccontano anche gli amori della regina 16. Vettor Carpaccio, L’incontro dei fidanzati e la partenza in pellegrinaggio (dettaglio), 1495, quarto dei dieci dipinti del ciclo delle Storie di Sant’Orsola, Venezia, Gallerie dell’Accademia; nel particolare, tre “cocche”, di cui quella a sinistra abbattuta per il carenamento. ma per la libertà dei costumi, l’attrazione intellettuale e il richiamo che esercita», si può paragonare solo «alla Parigi di prima della seconda guerra mondiale». Y Nel Seicento, però, tanti espatriano anche dalla laguna in Inghilterra; scrive l’ambasciatore, Girolamo Lando: «Accasati con mogli e figli, e con buoni utili». Tra loro, nove, banditi da Murano nel 1617, perché accusati di omicidio in una faida tra i Licinio dal Drago ed i Seguso. E otto anni dopo, probabilmente, pure due personaggi assai singolari, Vincenzo e Bernardo. Sono i superstiti di una straordinaria spedizione. A Jamestown, in Virginia, sotto l’egida di Giacomo I Stuart, c’era poco più di un fortino, comandato dal leggendario capitano John Smith. Per renderlo autonomo, si pensa ad una fornace, fuori dai pali del forte, che produca quanto serve ai coloni. Ne sono officiati otto tedeschi e polacchi; tuttavia, non funziona. E, ad agosto 1621, quattro di Murano, con due aiutanti, vanno per fabbricare perle, da offrire agli indiani negli scambi. Difficoltà con chi già c’era; la fornace crolla ed è riparata; muta il comandante dell’avamposto; tanti i malati; gli indiani provocano un massacro; un “Simone” muore, e nel 1624, abortisce anche il secondo tentativo: Vincenzo e Bernardo tornano a casa, in quella Venezia che è tutta un mercato. Nel 1674, esistevano 497 sensali, di cui 25 di nozze e 20 di case e noli marittimi: un numero infinito; e mai stanchi, sempre all’opera, annota Marco Boschini, autore, nel 1660, della Carta del navegar pitoresco. Y Per le «galee di Fiandra» passano anche gli antichi rapporti 27 28 Y Brown annota molti «prodotti e manifatture» trasportati dalle galee di Fiandra, con i luoghi di provenienza. Seta e «damaschi rari» lagunari, con altre sete dalla Persia e dalla Turchia; cotone dalle Indie e dall’Egitto; altro greco; «semenza di perle da triturare» dal Golfo Persico, usata come medicinale; materiali da 19. Un interno di Palazzo Sagredo, oggi. Angora. Più tutte le «spezierie» immaginabili. Dal pepe «d’Indostan», all’assenzio di Persia; dal «verzìn, ossia la Phytolacca scosandra, fiori di albero purgativi che forniscono tintura purpurea», alla noce moscata di Malacca, alla canfora del Borneo, al rabarbaro di Aleppo; il «turbito raffinato di Ceylon e Goa», che è un altro purgativo, come la scammonea di Aleppo; lo storace della Siria; lo zibetto delle Indie orientali e «qualunque luogo dove si trova la jena», che guariva i neonati dalle coliche. Il «tignami o Elichrysum di Alessandria, pianta di fiori vermifuga, facilita i mestrui»; il bezoìm delle Indie orientali, Siam e Sumatra, gomma resinosa per i polmoni ulcerati, curante dell’asma e antidoto al veleno; vari prodotti, francamente, più potabili ed abituali, compresi i ribes di Patrasso, «buona qualità e ben venduti»; con le spezie, agli inglesi non dispiacciono nemmeno l’uva passa greca e il vino dolce, la malvasia; e addirittura libri manoscritti, stampati e miniati. Y Quella della stampa è arte innanzitutto veneziana: nel Cin- l’indagine ambasciatori e spie raccontano anche gli amori della regina 18. Albrecht Dürer, la Festa del Rosario, Praga, Národni Galerie. sollecitazioni della regina Elisabetta: il Senato (96 sì, 44 no e 58 astenuti) provvede giusto sei settimane prima che la sovrana muoia; le resta soltanto il tempo per l’udienza di presentazione e di benvenuto. Y Dei 34 consoli veneziani in Inghilterra, due, nel Quattrocento, sono inglesi, a Sandwich ed a Hampton: due porti, a riprova di quanta rilevanza avessero i viaggi delle galee. Mentre appena del 1608, e anonimo, è il primo console inglese a Venezia, «nominato dai mercanti ivi residenti». Il primo ambasciatore, 1340, è il cappellano della casa regnante a Napoli; e del 1532 il primo residente, dopo alcuni inviati o straordinari. Brown conta oltre duemila lettere mandate a Londra solo dal 1602 al 1629. Venezia sarà l’ultimo Stato a riconoscere quello di Cromwell, dopo la decapitazione di Carlo I Stuart (fig. 20). La sua tradizione diplomatica è celebre, come quella degli spioni. Lord Chesterfield esorta il figlio, «in qualunque parte si trovi, a coltivare l’amicizia dell’ambasciatore veneziano». Y Dal 1431 la Repubblica ha missioni diplomatiche permanenti, «primo Stato a mantenerne», scrive Norwich: eletto papa Eugenio IV Gabriele Condulmer (fig. 21), c’è bisogno di un delegato a Roma. Già prima, però, nelle capitali giungevano diplomatici incaricati di singole partite, cui dal 1268, una legge imponeva di presentare rapporto al vertice della Repubblica; dal 1470, sono in italiano. E il gioco delle spie nel mondo era tale, che questi rapporti si ritrovano in vari archivi stranieri, e perfino alla biblioteca Bodleiana di Oxford. Invero, a Venezia esistono anche 49 lettere scritte dai monarchi inglesi ai romani pontefici nel Quattrocento, e non si sa come vi siano giunte. 29 30 21. Bernardino di Betto detto Pintoricchio, Enea Silvio Piccolomini fa atto di sottomissione a papa Eugenio IV (dett.), 1503-8, Siena, Duomo. chiede l’elenco di miniatori, stampatori e rilegatori veneziani, e con un decreto ne sancisce l’importazione. Y Ma tra Londra e Venezia non sono soltanto i viaggi. Esistono inglesi, ad esempio, che domandano aiuto a Venezia per giungere in Terrasanta: il duca di Norfolk, Thomas Mowbray, bandito da Riccardo II, nel 1399 spera in una galea in prestito per un pellegrinaggio, ma muore di peste. La salma ritorna in Inghilterra, come lui voleva, solo nel 1532. Resta la lapide, poi inserita nel porticato di Palazzo Ducale, finché, 1810, i francesi ordinano che sia resa illeggibile, piena come era d’insegne del nemico. Domenico Spera, lo scalpellino incaricato del lavoro, si limita a rivoltare la pietra; e nel 1839, proprio Rawdon Brown la scopre, e la spedisce agli eredi. Tra gli atti che pubblica, infinite le curiosità. Un Avviso (è il nome dei dispacci) racconta, nel 1531, di 7 o 8 mila donne che si precipitano fuori di Londra, per uccidere Anna Bolena (fig. 26), «l’amata del re inglese che cenava in una casa di piacere sopra una fumeria»; ma la avvertono, e lei scappa in tempo, traversando in barca il Tamigi. La foresta di Chute, donata da Carlo I al Premier, cela uno scandalo ante litteram: «Una vendita fatta dal Lord Tesoriere a se stesso sotto falso nome»; non è processato perché poco dopo (provvidenzialmente) muore. Tra le carte, imperversano le spie. Le prime lettere inglesi nell’archivio della Serenissima riguardano il conte di Devon «Edoardo Courtenay (fig. 27), che morì a Padova di lenta febbre, benché non senza sospetto di veleno». Era stato incarcerato 15 anni nella Torre di Londra, dove, l’indagine ambasciatori e spie raccontano anche gli amori della regina 20. Anton Van Dyck, Carlo I Stuart a caccia, a 35 anni, Parigi, Louvre. quecento, la città produce due terzi dei libri dell’intera Penisola; in 50 tipografie, tre volte e mezzo quelli globalmente stampati da Milano, Firenze e Roma. I torchi sono 1.500; 493 tipografi ed editori danno lavoro a 2.500 abitanti. Un solo nome: Aldo Manuzio. Inventa il carattere “aldino” (il corsivo: lo troviamo ancora con il nome di italic nei nostri computer); è editore di Pietro Bembo ed Erasmo da Rotterdam; e suo è il sogno di ogni bibliofilo, il libro più prezioso del Rinascimento: la Hypnerotomachia Polyphili del domenicano Francesco Colonna, «battaglia d’amore in sogno», un mix di latino e volgare, arricchita da splendide incisioni (fig. 22). Le edizioni di Manuzio, con àncora e delfino (fig. 23), sono un modello; inventa anche i tascabili, piegando un foglio in otto: sono i volumi in ottavo. Ma l’arte di Gutenberg approda in laguna già nel 1469, con tanto di placet dogale: la portano Vindelino e Giovanni di Spira; suo il primo libro veneziano: le Epistolae ad familiares di Cicerone (fig. 24), conservate in quel gioiello che è la Biblioteca Marciana. Con loro è Johann Emerich, che si fa chiamare Giovanni de Spira: dall’inizio, è in società con Johannes Hamman di Landau, che dal 1482 spedirà anche a Londra i propri messali per le chiese di York e Salisbury, finanziati da investitori fiamminghi (fig. 25); erano già la mobilità dei capitali, l’intraprendenza commerciale, le lunghe vedute di uomini colti. Riccardo III, immortalato da Shakespeare, nel 1483, il primo anno di regno, ri- 31 32 23. Aldus Pius Manutius, il frontespizio, con àncora e delfino, di Institutionum grammaticarum libri quatuor, Venezia, 1508 o 1514. propria mano in testa». Né è detto che la sovrana muoia davvero per infermità, come si afferma. Appena sei settimane prima, era «in tutto il vigore d’una verde vecchiaja» (Rawdon Brown): lo dice il segretario Carlo Scaramelli, in un dispaccio. Dopo 44 anni, un diplomatico era stato inviato, ma a spese dei mercanti, non della Repubblica. Lei era «vestita di tabì d’argento et bianco fregiato d’oro, con habito alquanto aperto davanti, sì che mostrava la gola cinta di perle et rubini fino a mezzo petto, capelli di un color chiaro che non lo può far la natura, peri di perle grossi attorno alla fronte, gran numero di gemme nella persona, quasi coperta di cinte d’oro gioielate, e pezzi separati di carnonzi, balassi et diamanti, filze doppie di perle più che mezzane»; assistevano, «scoperti, l’Arcivescovo di Canturberì, il Cancelliere, il Tesoriere, l’Ammiraglio, il Secretario e tutto il Consiglio privato, dame, cavalieri, musici da ballo». La Regina si leva in piedi; saluta; scambia cortesie; discute; fa progetti. Legge la missiva da Venezia che il segretario le porge, e «di placida, quasi ridente si fece alquanto più grave nel volto»: protesta, perché, fino ad allora, Venezia non ha mandato un ambasciatore. Ricorda anche d’aver imparato l’italiano da piccola; e dice che forse le riuscirà di parlarlo nuovamente. Una moribonda? Y Nemmeno i sovrani vanno esenti da quella umanissima pecca che si chiama gelosia. Tra i dispacci dei quattro anni di Sebastiano Giustinian a Londra, 226 trovati da Brown quando si pensavano perduti, uno riferisce di un incontro con Enrico VIII, nel 1515 di 24 anni: «Sua Maestà è entrato nel nostro pergolato, e rivolgendosi a me in francese ha detto: Parla un po’ con me; il re di Francia è alto come me? Gli ho risposto che la differenza era poca. Ha proseguito: È altrettanto robusto? Gli ho risposto di no. Poi: Come ha le gambe? Muscolose, ho replicato. Al che, ha aperto il farsetto e, mettendosi la mano sulla coscia, ha detto: Guarda qui; e ho anche buoni polpacci!». E intanto, allo Steelyard si mercanteggiava. l’indagine ambasciatori e spie raccontano anche gli amori della regina 22. Francesco Colonna, una xilografia dell’Hypnerotomachia Polyphili. con la madre, aveva assisto all’esecuzione del padre Henry, tutti accusati di complotto filocattolico. Spende in Italia l’anno estremo; ma il Consiglio dei Dieci lo crede «stromento della corte di Francia», e ordina al Podestà di Padova d’inviargli in segreto lo stipo con le sue lettere; convoca un fabbro, lo vincola al silenzio e ne sottrae alcune; poi rispedisce il tutto, riposto nell’esatto ordine in cui si trovava, con ogni sigillo. Ma ad Antonio Foscarini (1570 - 1622) i sospetti costano ancora di più: ambasciatore in Francia e Inghilterra, al ritorno è accusato di relazioni con esponenti stranieri (proibite); alcuni incontri, a Palazzo Mocenigo, da Lady Alathea Talbot, moglie del II Conte di Arundel (uno dei primi collezionisti di opere italiane, fig. 28), che, per smentirli, invano si reca a Palazzo Ducale. Con voto unanime del Consiglio dei Dieci, è condannato, strangolato in carcere e il corpo appeso tra le due colonne in Piazzetta San Marco. Pochi mesi dopo, scoperta la falsità delle accuse, giustiziati i rei; e lui, pienamente ma tardivamente riabilitato. Y Mandate dall’ambasciatore veneziano a Parigi, non mancano neppure due lettere d’amore, del 1579, della regina Elisabetta (fig. 29) al duca Francesco d’Angiò già d’Alençon, figlio di Caterina de’ Medici, la regina madre di Francia. Se un po’ di gossip è lecito, sono divertenti. La sua «presenza mi ha dato e dà la salute et ogni contentezza che ho», «all’intera sodisfazion mia non mancherà altro che la persona di V.A.»; gli dona un orologio di pregio e una «beretta giogielata che vale quattro mila scudi»: li definisce «piccoli doni, l’uno perché portandolo al collo habbi causa di ricordarsi ogn’hora di me», e «la beretta a significazione della corona di questo regno, che più volentieri le metterei di 33 ambasciatori e spie raccontano anche gli amori della regina 24. Marco Tullio Cicerone, una pagina delle Epistolae ad familiares, il primo libro pubblicato a Venezia, da Giovanni di Spira, nel 1469. 25. (a fronte) Johannes Hamman de Landoja, una pagina miniata del Messale romano, Venezia, 1491. Y Di spessore certamente inferiore i contenuti di altri registri veneziani, quelli degli spioni e delle informazioni. Tra Londra e Venezia, c’era anche una “guerra di cifre”. Gli inglesi fanno subito conoscere «il manualetto di Leon Battista Alberti, padre della crittologia occidentale» (è del 1466, però pubblicato solo nel 1568, il suo De componendis cyfris); «si avvale di John Dee, mezzo scienziato mezzo astrologo, che conosce i segreti crittografici di Tritemio e Cardano» (così Paolo Preto nel fondamentale I servizi segreti a Venezia); e già nel Cinquecento, la Serenissima sviluppa un suo codice, per cui “bovi” significa galee, “specchi di Muran” artiglieria, “biscotti” sta per occhiali, “spetie” per fanteria, i “damaschi” sono l’armata del papa, la “cannella intera, un pezzo” gli arabi, il “velluto cremisin” il fuoco, “volpe” le navi turche, e così via. Perché, all’epoca, la corrispondenza era spesso intercettata. Nel 1746, Pietro Andrea Cappello, ambasciatore a Londra, sa tutto della celebre “camera nera” inglese, strumento speciale che «imprime li dispacci su una carta espressamente preparata con una spezie di gomma, che ne attrae da qualunque inchiostro l’impressione». Y A Venezia, bastava un sospetto di collusione, e si finiva in piena notte nel Canal Orfano: «In più cauta et secreta maniera», con due marmi impiombati addosso. E in laguna, nel 1583, circolano voci sui tentativi di avvelenare la regina Elisabetta con mazzi di fiori, acque profumate e con la biancheria. Potere e affari. Nicolò Tron, ambasciatore nel 1718, nel suo lanificio a Schio introduce la «navetta volante» inventata nel 1733 da John Kay, e la Serenissima registra; il residente a Londra Cesare Vignola manda 26. Anna Bolena, in un dipinto della National Portrait Gallery di Londra. 27. Edward Courtenay, morto a Padova, in un’antica incisione. 36 tere e rotative a vapore; ne imbarca di nascosto i modelli, come poi farà per certi affusti di artiglieria, con cui Angelo Emo bombarderà i porti tunisini. Proteggere i commerci, e l’industria è da sempre un compito della nutrita rete di “007” veneziani. Quando, nel 1622, un gruppo di muranesi si trasferisce in Nuova Scozia portando i propri segreti e apre nove fornaci, l’ambasciatore offre denari a uno di loro, convincendolo a ritornare. Anche Giacomo Casanova è attivo a Londra: propone agli inquisitori, nel 1763, un nuovo modo per tingere di scarlatto i fazzoletti di cotone. Ma facciamo punto con tante vicende più o meno equivoche. Tra queste carte, ci sono anche descrizioni che soltanto i testimoni possono offrire: le galanterie di corte, il bon ton diplomatico. Francesco Gradenigo scrive nel 1596 che «trovai la regina [Elisabetta] sotto il baldacchino, tosto le baciai la mano, che mi disse in italiano, la qual lingua parla benissimo: il Re mio fra- 28. Anton Van Dyck, Thomas Howard, XXIV Conte di Arundel, con la moglie Alathea, 1639-40, Arundel Castle nel West Sussex inglese, collezione del duca di Norfolk. 29. L’attrice australiana Catherine Elise Blanchett, detta Kate, nel film Elizabeth, the golden age del 2007, seconda parte di una trilogia diretta da Shekhar Kapur. tello mi scrive che debba farvi vedere le cose belle che sono in questo regno, et alla prima voi haverete veduta la più bruta, che son io». Ovvi i seguiti, ed i reciproci salamelecchi. Sipario. Ma con un pensiero a una (forse) povera monaca: nelle Curiosità veneziane, Giuseppe Tassini (1863) racconta che, nel 1643, «il gentiluomo inglese Giovanni Bren, o Brin, addetto all’ambasciata d’Inghilterra, presa una gondola da traghetto, stava per asportare dal monastero delle Convertite una monaca, che aveva già messo sotto il “felze”, coperta con un drappo, allorquando i barcaiuoli, alle grida dell’altre monache, ricusarono di muovere la barca, così andò fallita l’intrapresa. Il Bren perciò dovette stare in prigione sei mesi». Ma dopo, è assolto: «Giovane e alquanto inesperto», era stato «gabbato da una vecchia ruffiana, per nome Margherita Locarda, la quale fu condannata a 4 anni di carcere». Che esistesse, già allora, l’impunità diplomatica? l’indagine ambasciatori e spie raccontano anche gli amori della regina notizie sulle ultime invenzioni: il cronometro marino, la draga, la giacca di salvataggio, il pallone aerostatico. E per avere una nuova qualità di ferro, un ignoto fabbro veneziano corrompe l’operaio di una fornace inglese con un banalissimo bicchiere di punch. Un colpo sensazionale si deve nel 1780 all’ambasciatore Simone Cavalli: riesce ad introdurre in Veneto macchine copialet- 37 tutta l’inghilterra è ricolma di palladio. e “ruba” perfino il volto all’architetto Guido Beltramini 1. Lord Richard Boyle, terzo conte di Burlington, Chiswick House, facciata, 1726, Londra. 2. Anton Van Dyck, Ritratto di Inigo Jones, matita, Chatsworth, The Trustees of the Chatsworth Settlement. Y Il primo inglese ad arrivare e a scriverci sopra fu una specie di buffone di corte, e Palladio non lo impressionò affatto. Thomas Coryat (1577 c. - 1617) pubblica nel 1611 il resoconto del proprio viaggio di cinque mesi attraverso l’Europa, compreso un soggiorno a Vicenza, avvenuto tre anni prima. Nelle sue Crudities - letteralmente: cose ancora grezze, non raffinate - Coryat nomina palazzo Valmarana, il teatro Olimpico e la Rotonda, ma la celebre Basilica palladiana ha la peggio di fronte all’antiquato palazzo della Ragione di Padova, «di gran lunga la cosa più bella che io abbia visto». Qualche anno dopo, invece, con Inigo Jones (1573-1652, fig. 2) fu amore a prima vista. Jones è a Vicenza due volte, nel settembre del 1613 e alla fine dell’estate del 1614. Percorre le strade della città con in mano una copia della terza ristampa (1601) dei Quattro Libri dell’architettura (fig. 3), il trattato che Palladio aveva pubblicato nel 1570, su cui annota puntualmente ciò che vede. Da questo esemplare, oggi conservato al Worcester College di Oxford (fig. 4), possiamo trarre il più antico report sullo stato degli edifici palladiani, a poco più di un trentennio dalla morte dell’autore. Jones commenta le immagini del trattato, segnalando le differenze con quanto effettivamente realizzato. Nella tavola di palazzo Barbarano aggiunge, tratteggiate, le due campate effettivamente costruite, che mancano nell’illustrazione; sulle planimetrie di palazzo Chiericati e di case, palazzi, ville tanti edifici, e un ritratto forse falsificato dal console smith 39 40 case, palazzi, ville tanti edifici, e un ritratto forse falsificato dal console smith 3. Andrea Palladio, I quattro libri dell’architettura, Venezia, 1750. palazzo Thiene, invece, segna il limite cui si era arrestato il cantiere. Non manca di appuntarsi un gossip per noi prezioso, quando sulla pagina relativa a palazzo Thiene scrive: «Scamozzi e Palma il giovane dissero che questi progetti erano di Giulio Romano ed eseguiti da Palladio, e così pare», smascherando il tentativo di Andrea di attribuirsi l’edificio del più noto collega. Y Sempre dalle note sul trattato, veniamo a sapere che vecchi muratori vicentini condussero Jones di fronte a palazzo Thiene e, indicandogli il capitello sullo spigolo del piano nobile, affermarono con orgoglio di categoria: «Questo lo ha scolpito Palladio con le proprie mani». Y Perché questa esegesi palladiana? Che cosa spinge Jones ad uno studio tanto accurato degli edifici vicentini e delle ville nelle campagne? Inigo - che, ricordiamo, è scenografo di corte e architetto - è giunto in Italia con l’obiettivo di trovare dei modelli su cui basare un rinnovamento radicale della provinciale architettura inglese del proprio tempo. All’inizio del XVII secolo, pur destinata a diventare una grande potenza europea, la Gran Bretagna scontava il suo periferico isolamento, con uno stile edilizio dove le novità della nuova architettura classica continentale si mischiavano ingenuamente con una tradizione locale ancora gotica. Jones vede in Palladio la via per un rapido aggiornamento: una architettura basata su modelli antichi, ma che aveva saputo adattarli ad edifici contemporanei 4. Il Worcester College, a Oxford. 5. Paolo Caliari, detto Veronese (attr.), Ritratto di Vincenzo Scamozzi, Denver, Denver Art Museum. come ville, palazzi, chiese. Il linguaggio palladiano appare a Jones puro e limpido, fatto di proporzioni e di misura, basato su regole semplici; in un certo senso, più vicino ad una certa austera mentalità nordeuropea di quanto non lo fossero le eleganze michelangiolesche o le successive complesse ricerche spaziali barocche. Con in più il fascino, per nulla secondario per tutti i palladianisti, di provenire dal territorio della Serenissima Repubblica di Venezia, vale a dire il paese dove si riteneva - dai veneziani naturalmente - concretamente realizzata la forma di governo ideale vagheggiata da Platone, in cui convivono la monarchia (il doge), l’oligarchia (il Consiglio dei X) e la democrazia (il Senato). Y Ma la passione di Inigo per Palladio probabilmen- 41 7. Jonathan Richardson il Vecchio, Ritratto di Lord Richard Boyle, terzo Conte di Burlington, National Portrait Gallery, Londra. antiche, che pubblicò nel 1730 come Fabbriche antiche disegnate da Andrea Palladio vicentino, stampati in color seppia ad imitazione degli inchiostri originali: è la prima pubblicazione “in fac-simile” di disegni di architettura. Dagli eredi di Burlington, le ormai diverse centinaia di disegni palladiani approdarono nel 1894 nelle raccolte del Royal Institute of British Architects, riconosciute come una sorta di riserva aurea della cultura architettonica della nazione. 8. Inigo Jones, il salone della Banqueting House, a Whitehall, 1619-22, Londra. 9. Henry Flitcroft, il salone centrale della Wentworth Woodhouse di 365 stanze, edificata a partire dal 1723 nello Yorkshire. Y Palladio per gli inglesi non è mai stato un architetto qualunque. Non lo fu per Inigo Jones, che ispirandosi a lui rivoluzionò l’architettura del proprio paese con edifici come la Banqueting House (fig. 8), ultimata nel 1622 per il re Carlo I. E non lo fu per i successivi tre secoli, se pensiamo che le letture palladiane di Rudolf Wittkower contenute nel libro The Architectural Principles in the Age of Humanism, (London 1949) divennero fondative per la nuova architettura inglese del secondo dopoguerra. Un allievo di Wittkower, Colin Rowe, tracciò proprio in quegli anni una discutibile ma feconda linea di contatto fra Palladio e il Movimento Moderno, attraverso Le Corbusier, con il celebre saggio The Mathematics of the Ideal Villa, in cui paragonava la villa modernista a Garches con la Malcontenta palladiana. E di edifici palladiani case, palazzi, ville tanti edifici, e un ritratto forse falsificato dal console smith 6. Paolo Caliari, detto Veronese (attr.), Ritratto di Daniele Barbaro, fratello di Marcantonio, Amsterdam, Rijksmuseum. te non sarebbe stata sufficiente ad innescare la rivoluzione architettonica del palladianesimo se egli non fosse rientrato in Inghilterra con diverse centinaia di disegni del Maestro. Non sappiamo con certezza come sia successo. È possibile che i disegni fossero rimasti in possesso di Silla, il figlio minore di Palladio, o più probabilmente di Vincenzo Scamozzi (1548-1616, fig. 5), suo allievo o quantomeno erede dei cantieri in corso alla morte di Andrea (dalla Rotonda, al Teatro Olimpico) e delle preziose relazioni con committenti quali Marcantonio Barbaro (fig. 6). Dato che Scamozzi aveva un pessimo carattere - e bisogno di soldi per pubblicare il proprio trattato ci siamo fatti l’idea che egli abbia fatto commercio dei disegni palladiani, vendendoli a Jones. In effetti non ne abbiamo le prove e mi piacerebbe pensare che il vecchio Scamozzi abbia voluto affidare i disegni del proprio maestro al futuro: al campione di una nuova nazione potente a caccia di una nuova architettura. Non lo sapremo mai; ma come nel XV secolo i codici greci furono trasportati dal Cardinale Bessarione a Venezia da Costantinopoli, al momento della caduta della città nelle mani turche, e attraverso essi la Serenissima divenne l’erede di una sapienza secolare, così i disegni palladiani trasformarono nel profondo la cultura architettonica inglese. Jones li conservò come reliquie, e in contrasto con le fitte annotazioni e disegni tracciati sulla propria copia de I Quattro Libri, evitò di apporvi il minimo segno. Intonsi giunsero al suo allievo e congiunto John Webb (1611 - 1672), che nel 1628 aveva sposato sua nipote Anne, il quale continuò a rispettarli preferendo ricopiarli in grandi preziosi fogli oggi al Worcester College di Oxford. Da Webb, giunsero ad un altro architetto inglese, William Talman (1650-1719), che li acquistò prima del 1701 e li lasciò in eredità al figlio John (1677-1726), collezionista e antiquario, che nel 1720-21 li vendette a Lord Burlington (16941753, fig. 7), anch’egli architetto dilettante. Quest’ultimo, non sazio, nel 1719 organizzò un viaggio in Italia a caccia di nuovi fogli palladiani, ritrovandone un folto gruppo relativi alla Terme 43 12. Un’immagine di Villa Almerico detta La Rotonda, come è stata realizzata. 13. Mereworth Castle, nel Kent, progettato da Colen Campbell nel 1723, per John Fane, settimo conte di Westmorland. Campbell la replica nel Kent per John Fane, Earl of Westmorland, a partire da 1722-1724, non guarda alla villa costruita, ma si rifà alla illustrazione dei Quattro Libri (fig. 13). E lo stesso avviene con l’anonimo autore di Foot Cray Place (realizzata intorno al 1754 e distrutta da un incendio nel 1949, fig. 14), ma anche, in tempi recenti, per Henbury Hall, costruita da Julian Bicknell nel 1983, e per la Rotonda che Munib el-Masri si è fatto costruire fra il 1998 e il 2000 sulle colline di Nablus, in Palestina (fig. 15). Y I Quattro Libri furono un veicolo irresistibile per la fama di Palladio, tranne che per una cosa: il volto. In controtendenza con una pratica frequente a Venezia, Palladio non inserisce il proprio ritratto all’inizio del trattato. In questo, sembra piuttosto seguire l’adagio che possiamo leggere nella medaglia di Erasmo di Quentin Matsys del 1519 (e nel ritratto inciso di Durer del 1526), secondo cui «gli scritti presenteranno una immagine più veritiera» dell’autore, di quella che il bulino possa incidere, ancorché dal vero. Se è vero che i Quattro Libri sono un ideale autoritratto, dell’aspetto fisico di Palladio oggi conosciamo solamente la mano sinistra, e tanti altri “ritratti” su cui però non abbiamo certezze: anche uno del Greco (fig. 16). La mano, invece, la troviamo disegnata sul margine inferiore di un foglio conservato al Royal Institute of British Architects (X, 15r). Esso raccoglie studi e pensieri sulla Loggia di Brescia, e l’inchiostro con cui è tracciata la mano è omogeneo a quello gli altri schizzi architettonici, suggerendoci che Palladio stesso la abbia ritratta, soprapensiero. Il problema è che questo è tutto ciò che abbiamo di lui. case, palazzi, ville tanti edifici, e un ritratto forse falsificato dal console smith 10/11. Andrea Palladio, I quattro libri dell’Architettura, 1567: due delle tavole dedicate alla Basilica di Vicenza e una di quelle di Villa Almerico, detta La Rotonda, a Vicenza, diversa da come è. - o presunti tali, dato che va considerato il penetrante influsso di Scamozzi - ridonda l’intera Gran Bretagna; ne valgano due per tutti: Chiswick House, la dimora che Lord Burlington costruì per sé nel 1726 ispirandosi ad un disegno di Palladio e alla Rocca Pisana di Scamozzi, e Wentworth Woodhouse, nello Yorkshire (figg. 1 e 9). Y Ma quale Palladio è guardato con ammirazione dagli inglesi? Non tanto il Palladio costruito, quanto il Palladio rappresentato nei Quattro Libri dell’Architettura. Nel proprio trattato, in particolare nel secondo e terzo libro, Palladio aveva inserito più di una ventina di progetti di ville e oltre una dozzina di palazzi di città, qualche ponte e la Basilica palladiana. Essi sono presentati con poche righe di testo (che ne ricorda il proprietario, i caratteri del sito, e alcune caratteristiche funzionali) e con disegni che ne danno una rappresentazione astratta ma efficace (fig. 10). Palladio non era infatti interessato a rappresentare nei minimi dettagli ogni proprio singolo progetto, quanto a fare emergere i caratteri comuni, a restituire il proprio “architectural system”. Come si era accorto subito Inigo Jones, gli edifici reali - stretti fra carenze di tempo, di soldi e spesso di volontà dei committenti - erano ben diversi dalle rappresentazioni idealizzate del trattato. Ma la forza comunicativa dei Quattro Libri vinse presto sulla realtà delle cose, ed ecco sorgere nella campagna inglese ponti come quello nel giardino di Wilton House, che non sono mai esistiti se non nell’illustrazione contenuta nel terzo dei Quattro Libri di Palladio. La stessa Rotonda ha avuto una propria peculiare fortuna britannica. Cominciata a costruire alla metà degli anni Sessanta, fu ultimata da Vincenzo Scamozzi una trentina di anni più tardi. Rispetto alla illustrazione dei Quattro Libri, che mostra una cupola a semisfera completamente estradossata (fig. 11), l’edificio costruito presenta una cupola ribassata, sul modello di quella del Pantheon (fig. 12). Quando Colen 45 17. Tommaso Temanza, Vita di Andrea Palladio, Venezia, Giambattista Pasquali, 1762. case, palazzi, ville tanti edifici, e un ritratto forse falsificato dal console smith 14. Foots Cray Place, sorta nel 1754 nel sobborgo londinese di Bexley e distrutta dal fuoco nel 1949. 15. Munib Al Masri davanti alla sua nuova dimora. 16. Doménikos Theotokópoulos detto El Greco, Ritratto di Andrea Palladio (?), Copenaghen, Statens Museum for Kunst. Il volto - o meglio “i” volti - di Palladio che oggi ci sono familiari, hanno origine nel Settecento in Gran Bretagna. In un caso, possiamo dimostrare che si tratta di vera e propria falsificazione; in un altro, non è possibile verificare la auto-dichiarata origine cinquecentesca, che appare peraltro improbabile. In ogni caso, Palladio è fino ad oggi, senza un volto certo. Dico «fino ad oggi» perché fonti cinquecentesche provano l’esistenza di almeno due ritratti di Palladio, e non è detto che non possano venire alla luce. Y «Fu il Palladio di statura piuttosto piccola che mezzana, di bella presenza e faccia molto gioviale». Così scrive Tommaso Temanza nel 1762 (fig. 17), facendo riferimento ad un manoscritto della vita di Palladio in proprio possesso, ma oggi perduto, e di cui non conosciamo né l’origine, né l’autore. Questo - a parte la mano sinistra - è tutto quello che sappiamo della sua persona. Ma Palladio è mai stato ritratto da un pittore? Era usuale per un architetto farsi eternare? Conosciamo diversi ritratti di architetti, a partire dallo splendido doppio ritratto di Pietro di Cosimo che rappresenta Giuliano Da Sangallo e suo padre Francesco Giamberti intorno al 1485, ora al Rijksmuseum di Amsterdam. La passione di famiglia per i ritratti continua con il nipote di Giuliano, Antonio Da Sangallo, che sessant’anni dopo si fa dipingere mentre stringe in mano 18. Jacopo Robusti detto Tintoretto, Ritratto di Jacopo Sansovino, Firenze, Uffizi. compasso e squadra, attributi della professione di architetto. Sansovino si fa ritrarre da Tintoretto con il compasso in mano, insieme scultore e architetto (fig. 18). Scamozzi si fa rappresentare da Paolo Veronese come teorico di architettura, mentre indica con il compasso il modulo del capitello (fig. 5). Giulio Romano si fa invece ritrarre come intellettuale, non architetto professionista con squadra e compasso, ma come “autore di architetture” di cui mostra una planimetria tracciata su un foglio (fig. 19). Y Come si sarebbe fatto rappresentare Palladio? La domanda non è oziosa perché Vasari, nella edizione delle Vite del 1568, scrive che il pittore veronese Orlando Flacco (nato verso il 1530, e nella città tra il ’91 e ’93) ne dipinse uno, di cui abbiamo completamente perso le tracce. Sappiamo anche che un ritratto di Palladio era nella collezione di quelli di artisti raccolta dall’orafo e gioielliere tedesco Hans Jacob König, peraltro a sua volta immortalato da Veronese nel 1575 (fig. 20). In un inventario di fine Cinquecento, redatto per vendere la collezione alla famiglia Borghese, si elencano, fra gli altri, un ritratto di «Michiel Angelo Bonaroto di Jacopo Tintoretto, di Antonio da Ponte di Jacopo Tintoretto, e Andrea Paladius di Giacomo Tintoretto». Quello di Antonio da Ponte è oggi conservato al Louvre; ma quello di Palladio non è ancora stato ri- 47 20. Paolo Caliari, detto Veronese (attr.), Ritratto dell’orafo Hans Jacob König, Praga, Collezioni d’arte del Castello. ladio britannico”, sia l’atteggiamento dell’effigiato abbiano molto più a che fare con il Settecento, che non con il Cinquecento; e per convincersene, basta paragonarli a ritratti di architetti inglesi settecenteschi, come il famoso ritratto in giovane età di Lord Richard Boyle, terzo Conte di Burlington (fig. 7), dipinto da Jonathan Richardson il Vecchio (1665 – 1745), conservato alla National Portrait Gallery di Londra (Burlington, a Vicenza nel 1719, si sorprende perché Palazzo Chiericati era stato completato solo di recente). Ma i tratti del volto del supposto Palladio sono completamente inventati, oppure si basano su un prototipo cinquecentesco? John Shearman, nel catalogo The Early Italian Picture in the Collection of Her Majesty the Queen del 1983, ipotizza che la fonte per l’incisione di Ricci possa essere un quadro di Bernardo Licinio oggi nelle Royal Collections ad Hampton Court (fig. 24), in cui un uomo elegante stringe fra le mani una squadra e un compasso, tradizionali attributi dell’architetto, ed è appoggiato ad un parapetto su cui è inciso «Andrea Palladio architetto, di ventitré anni, 1541». Shearman nota che «a radiograph reveals numerous small losses in the head, which has also been rubbed and retouched in the shadows, so that its forms are only trustworthy in general terms» e considerato ciò, ritiene accettabile la derivazione dal ritratto di Licinio del volto di Palladio nell’incisione di Ricci. Shearman rivela tuttavia una evidente falsificazione della iscrizione: mentre sono autentiche le prime due righe (B.LYCINII / OPUS) e le ultime case, palazzi, ville tanti edifici, e un ritratto forse falsificato dal console smith 19. Tiziano Vecellio, Ritratto di Giulio Romano, Mantova, Palazzo Te. trovato. Y In assenza di un ritratto “ufficiale” nei Quattro Libri - come invece accadeva con quello di Jacobo Barozzi detto il Vignola, 1507 – 73, nel frontespizio della sua Regola delli cinque ordini d’architettura, o di Scamozzi nella Idea dell’Architettura Universale - ritratti fittizi cominciano a venire alla luce proprio in Gran Bretagna, a partire dai primi decenni del Settecento. Il primo appare in forma di busto, in una grande allegoria nelle prime pagine del volume The Architecture of Andrea Palladio, che Giacomo Leoni pubblica a Londra a più riprese fra il 1715 e il 1720 (fig. 21). Sotto l’incisione si legge «Sebastianus Riecius inventor, B[ernard] Picard delineavit e sculpsit 1716». Il busto di Palladio è chiaramente tratto dalla incisione pubblicata nella pagina precedente (fig. 22), che viene dichiarata tratta da un dipinto di Paolo Veronese. E l’invenzione ha fortuna durevole, dato che compare sulla copertina del numero 609 di Domus nel settembre 1980, come autentica immagine palladiana. Y In verità, già negli anni Cinquanta Rudolf Wittkower aveva espresso per primo forti dubbi sulla reale origine cinquecentesca del modello dell’incisione, osservando che molto più probabilmente, si trattava di una immagine inventata dallo stesso Sebastiano Ricci più che derivare da un ritratto di Veronese di cui non c’era traccia. Non c’è dubbio che sia l’abito di questo “Pal- 49 21. Sebastiano Ricci, Ritratto immaginario di Andrea Palladio, antiporta di Giacomo Leoni, The Architecture of A. Palladio, London, 1721. 22. Bernard Picart, Apoteosi di Palladio da un’invenzione di Sebastiano Ricci, incisione, 1716. 50 tre (ANNORUM / XXIII / MDXLI), sono state aggiunte successivamente la terza, quarta e quinta riga (ANDREAS / PALADIO / A.). Come a dire: il quadro è effettivamente di Licinio; è stato dipinto nel 1541 e rappresenta un uomo di ventitré anni; ma l’identificazione dell’effigiato con Andrea Palladio è fasulla. A chi attribuire la falsificazione? Nel 1741, il quadro risulta essere nella collezione del Console inglese a Venezia Joseph Smith, un appassionato palladianista, che nel 1762 lo vende a re Giorgio III. Nel 1768, Smith promuove una edizione fac-simile del Quattro Libri di Palladio, e del nostro quadro esiste una incisione, realizzata da Pietro Monaco, che molto probabilmente vi doveva essere inserita in apertura (fig. 23). È quindi possibile che la falsificazione del quadro di Licinio sia stata operata su indicazione dello stesso Smith, anche se va sottolineato che, nel 1762, Temanza riteneva il dipinto originale, tanto da fissare, sulla sua base, la data di nascita di Palladio al 1518, contro la tradizionale datazione al 1508, proposta nella sistematica biografia redatta dal vicentino Paolo Gualdo nel 1616. Oggi sappiamo per certo che la data 1508 è corretta, e anche questo esclude che il dipinto rappresenti Palladio. In ogni caso, l’elegante vestito suggerisce un case, palazzi, ville tanti edifici, e un ritratto forse falsificato dal console smith rango sociale elevato dell’uomo ritratto, che potrebbe essere un aristocratico dilettante di architettura. Come ogni falsificazione, anche l’operazione di Smith portava dentro di sé lo spirito del proprio tempo: nel Settecento, la fama di Palladio è tale da rendere plausibile un suo ritratto in abiti più confacenti allo “status” di uno dei suoi ricchi committenti. Tuttavia sappiamo che la realtà di Palladio era ben diversa, e ne conosciamo la fatica del vivere, fra problemi economici e turbolenze familiari. Il mondo dei suoi aristocratici clienti gli era lontano; anche se talvolta, a leggere quanto annota nel manoscritto dei Quattro Libri, gli era forse troppo vicino: «Mi è stato bisogno obedire non tanto alla natura de i siti, quanto alla volontà de i padroni, i quali parte per conservare in parte le fabriche vecchie in piedi, parte per altri rispetti e voglie loro, mi hanno sforzato in qualche parte da quello ch’io ho avertito che si debba osservare e che haverei fatto, benché mi sia sforzato sempre appressarmeli più che habbi potuto». 23. Un’incisione dal Ritratto di uomo di Bernardo Licinio. 24. Bernardo Licinio, Ritratto di uomo, Royal Collections, Hampton Court; venduto da John Smith, console britannico a Venezia, a re Giorgio III. 51 quando sotto san marco haendel arriva per cercare delle voci castrate la musica i carnevali al teatro che è ormai diventato il malibran Sandro Cappelletto 1. Jacopo Amigoni, Ritratto di Farinelli, 1734-35 circa, Bucarest, Muzeul National de Art al României. 2. Thomas Hudson, Georg Friedrich Haendel, 1756, Londra, National Portrait Gallery. Y Esserci, quel 1724 all’Haymarhet Theatre di Londra, quando debutta il Giulio Cesare di Georg Friedrich Haendel (fig. 2), e il ruolo dell’imperatore è affidato a Francesco Bernardi, detto il Senesino (fig. 3). Lui sapeva entrare in scena come nessuno: sempre stanco, sempre annoiato, come se fosse lì quasi per caso, indifferente a quanto gli accadeva intorno, soprattutto ai colleghi. E quella sera, realizzò il suo capolavoro: contemplava il monumento eretto alla memoria di Pompeo, e rifletteva sulla vanità della gloria umana, avvolto in un mantello rosa, indossando una giacca blu con bottoni dorati, in un trionfo di parrucca e di riccioli, le scarpe con il tacco, i fianchi e il ventre dilatati dalla grassezza e dallo sforzo di gonfiare il petto, da dove usciva quella sua voce potente e, insieme, dolcissima. Y Esserci, quel 1729 a Venezia, quando, sul palcoscenico del teatro di San Giovanni Grisostomo (fig. 4) sono presenti, simultaneamente, Nicola Grimaldi, detto Nicolino, Domenico Gizzi, detto Gizziello, Carlo Broschi, detto Farinelli (fig. 1). La cardinalizia famiglia Grimani (fig. 5), che di quel teatro è proprietaria e ha fatto costruire nel 1678 da Tommaso Bezzi detto “lo Stucchino” (ne possedevano già due, a San Giovanni e Paolo, dove si eseguiva Monteverdi, e a San Samuele, fig. 6, nella cui orchestra suonò anche Giacomo Casanova), deve attingere alle sue riserve per ripianare i debiti di un luogo di spettacolo messo 53 54 la musica i carnevali al teatro che è ormai diventato il malibran 3. Alexander Van Haecken, da un ritratto di Thomas Hudson del 1735, Francesco Bernardi detto il Senesino. al tappeto dai cachet favolosi corrisposti ai tre divi. Vanno di moda le caricature, e le più veritiere raffigurano quei cantanti con l’intero teatro caricato sulle spalle, ma vuoto (fig. 7): infatti, dopo che avevano cantato le loro arie, il pubblico usciva; la sala si svuotava; l’estasi finiva. Y Esserci, appena l’anno dopo ancora a Venezia, quando Haendel, avuta eco di quei trionfi, in gran fretta riprende nave, carrozza, Burchiello (fig. 8) e infine gondola; lascia Londra e torna in Laguna, con uno scopo preciso: scritturare cantanti; portare al di là della Manica voci capaci ancora una volta di stupire il pubblico inglese, che si stava saturando delle meraviglie dell’opera italiana: chiedeva vicende e spettacoli meno improbabili, più credibili; cantati non più in italiano, ma in inglese. Ma Haendel, tedesco di nascita, italiano di formazione, inglese di carriera e successi, grazie al suo talento e alla capacità infallibile di scegliere i migliori cantanti, è convinto che in Italia si possano ancora trovare ed esportare le voci più ambite, quelle di soprano. E di due tipi: soprani donne e, ancor più desiderati, soprani maschi, come Senesino, Grimaldi, Gizziello, Farinelli: evirati cantori, tutti e quattro. «Voci d’angelo», secondo l’eufemismo più diffuso. «Sonori capponi», come li avrebbero presto ribattezzati i primi Illuministi, esasperati di fronte alla meravigliosa innaturalità delle loro voci. Oppure, semplicemente “castrati”, come anche si chiamavano tra di loro: «Maledetto castrato», grida Farinelli rivolto a un collega di professione e di condizione, che non gli stava simpatico: Giovanni Carestini, detto il Cusanino (fig. 9). Y «Si trovano in Italia dei padri barbari che, sacrificando la Natura alla fortuna, conducono i propri figli a questa operazione per compiacere persone crudeli e voluttuose, che osano ricercare il canto di questi disgraziati. Facciamo ascoltare, se è possibile, la voce del pudore e dell’umanità che grida e si innalza contro quest’abitudine infame: i Principi che l’incoraggiano con le loro ricerche, arrossiscano una buona volta perché nuoccio- 4. Francesco Del Pedro, Spaccato del teatro di San Giovanni Grisostomo, 1776, Venezia, Museo Correr. no, in tale modo, alla conservazione della specie umana». Così Jean Jacques Rousseau in una sua celebre invettiva, redatta nel 1768. Il filosofo, e musicista, invoca i fondamenti della morale, che certamente impediscono il sacrificio della potentia coeundi ac generandi, tanto più se compiuto su un bambino ignaro e inconsapevole. Un bambino: perché la pratica dell’evirazione poteva portare frutti vocali solo se compiuta prima della muta della voce, che avviene spontaneamente attorno ai 10-12 anni, ed è definita una «caratteristica sessuale secondaria». Spuntano i primi peli; si dilata il pomo d’Adamo; si ispessiscono le corde vocali; la tessitura della voce si abbassa di un’ottava almeno. L’evirazione impedisce che questi caratteri maschili si sviluppino, e così quegli adulti continuavano a raggiungere le vette della vocalità, sollecitando corde vocali rimaste leggere come quelle di un fanciullo, messe però in movimento da un diaframma e da polmoni potenti come quelli di un uomo, e ancor più irrobustiti grazie ai quotidiani esercizi di respirazione che i professionisti del canto praticavano ogni giorno. Y Ma la morale può aspettare, se il suo sacrificio genera un piacere che seduce l’orecchio e il cuore, riempie le tasche di quei cantanti, dei loro impresari, dei compositori che per quelle vo- 55 la musica i carnevali al teatro che è ormai diventato il malibran 5. Bernardo Strozzi, Ritratto del cavaliere Giovanni Grimani, Venezia, Gallerie dell’Accademia; la famiglia ha dato alla Serenissima tre dogi e quattro patriarchi di Aquileia; il protagonista del quadro, forse del 1640, fu ambasciatore a Vienna e Parigi, e Procuratore di San Marco; morì nel 1653. ci scrivono opere. E sono sempre “opere italiane”, cioè cantate nella nostra lingua, a quel tempo, ormai da oltre un secolo, ritenuta la lingua franca dell’opera. Gli “angeli di Dio” conquistano i palcoscenici di tutta Europa, da Lisbona a San Pietroburgo; ma il marchio di fabbrica è sempre nostrano. Un primato, che la nostra storiografia critica, e più ancora la coscienza collettiva, tendono a rimuovere, giudicandolo imbarazzante. L’Italia è stata per oltre tre secoli, da metà Cinquecento ai primi del Novecento, la sola nazione al mondo a praticare l’evirazione per uno scopo artistico. Y Venezia, 26 dicembre 1709, teatro di San Giovanni Grisostomo (fig. 10). Il giorno di Santo Stefano segnava, tradizionalmente, l’inizio della più importante stagione d’opera: detta «di Carnevale», perché proseguiva fino all’«ultima sera di Carnovale» (fig. 11); poi, si entrava nella pausa di Quaresima, e i teatri restavano chiusi. Quella sera debutta Agrippina, seconda opera italiana di un giovane musicista nato ad Halle in Sassonia, nel febbraio del 1685, un mese prima che – poco distante, ad Eisenach – venisse al mondo l’altro gigante di quel tempo barocco: Johann Sebastian Bach. Tutti e due tedeschi; mai incontrati, mai stretta la mano, mai parlati di persona durante la loro vita. Preferivano farlo attraverso la musica, che era il loro modo di comunicare: “copiando” l’uno dall’altro temi e idee; creando, l’uno dall’altro, variazioni e canoni sulle partiture del collega. Tra loro, una differenza fondamentale. Haendel è stato molte volte in Italia, Bach mai. Sarà (anche) per questo che il Sassone ha composto circa sessanta tra opere, “pasticci” e musiche di scena, sempre per il teatro, mentre il Kantor, no, mai, neppure una? Y Seconda opera, Agrippina: la prima, in parte perduta, era stata Vincer se stesso è la miglior vittoria, data a Firenze, nel 1707, su invito e sollecitazione di Ferdinando de’ Medici. Da Firenze a Roma, 6. Gabriel Bella, Lo scenario e l’illuminazione del Teatro di San Samuele, tra il 1779 e il 1792, Venezia, Fondazione Querini Stampalia. 7. Anton Maria Zanetti, Gaetano Majorana (detto Caffariello); nella dicitura si legge: «Il celebre Caffariello che cantava al San Giov Grisostomo, e porta via il Teatro i poi che finita ha la sua Aria si votava affatto». dove Haendel stupisce suonando l’organo nella Basilica di San Giovani; e dove il cardinale Benedetto Pamphili gli concede l’onore (questo, allora, era il rapporto tra nobile committente e artista) di musicare alcuni suoi versi. Ma nella capitale dei papi, ha orecchie anche il cardinale Vincenzo Grimani, che vuole assolutamente portare «il tedeschino» a Venezia, e farlo lavorare per il proprio teatro. È lo stesso nobiluomo veneziano a scrivere il libretto di Agrippina. Scegliendo un soggetto che racconta gli amorosi e perfidi intrighi della madre di Nerone e della Roma imperiale, Grimani intende rimarcare – è questo il reale sottotesto dell’opera – la differenza della classe dirigente lagunare rispetto a quella romana, del passato e del presente. Questo, del testo, gli intellettuali veneziani leggono e apprezzano. Però, il pubblico va a teatro per altro, come raccontano documenti attendibili: «Quasi ad ogni pausa il teatro risuonava di grida e di applausi, di “Viva il caro Sassone!”, e altre espressioni di consenso tanto 57 8. Gian Domenico Tiepolo, Il Burchiello, Vienna, Kinsthistorisches Museum, Gemäldegalerie. 9. Giovanni Carestini, detto il Cusanino, in un’antica incisione. 58 stravaganti da non poterle ridire», scrive John Mainwaring, le cui Memorie su Haendel escono a Londra nel 1760, un anno soltanto dopo la scomparsa del maestro. Y In Agrippina, il pubblico riconosce la bellezza e la libertà del trattamento delle voci, ma scopre anche altro: «Fino ad allora (i veneziani) non avevano mai conosciuto la forza dell’armonia e della modulazione disposte in modo così forbito, e combinate con tanta energia». L’opera resta in cartellone per ventisette sere consecutive. Un primato concesso solo a quei titoli che si imponevano con tale rapido e unanime consenso da far stravolgere cartelloni, programmazione e impegni già stabiliti. Soprattutto se i cantanti sono eccellenti; e se come Nerone, va in scena un «evirato cantore» di grido, Valeriano Pellegrini. Y A Venezia, Haendel scopre il piacere, oltre che del successo, anche della maschera e del gioco, sempre musicale: «Fu riconosciuto ad una mascherata, mentre suonava il cembalo, anche lui in maschera. Capitò che fosse presente Domenico Scarlatti (fig. 12), il quale affermò che non poteva trattarsi che del famoso Sassone, oppure del diavolo in persona». Figlio di Alessandro, anche lui compositore amato dai Grimani, Domenico Scarlatti è perfettamente coetaneo di Haendel e, per la gioia del pubblico, all’Ospedale degli Incurabili, alle Zattere, sede di uno la musica i carnevali al teatro che è ormai diventato il malibran dei celebri Conservatori di musica della città, va in scena una delle più celebri “gare” tra compositori di tutti i tempi, una “sessione” d’improvvisazione all’organo e al clavicembalo, parago- 10. Francesco Del Pedro, Pianta del pian terreno, dal Progetto del teatro di San Giovanni Grisostomo, 1776, Venezia, Museo Correr. nabile a quella che, a fine Settecento, vedrà protagonisti Wolfgang Amadeus Mozart e Muzio Clementi a Vienna. Y Ma in laguna, Haendel non si ferma a lungo, e proprio come conseguenza del successo di Agrippina. L’elettore di Hannover, che intrattiene eccellenti relazioni tra i rii, lo pretende infatti al proprio servizio come maestro della cappella di corte. E a inizio Set- 59 60 12. Domingo Antonio Velasco, Domenico Scarlatti, 1738. cora non esisteva; ma lui, come tutti gli artisti, gli studiosi, gli intellettuali, continua tranquillamente a chiamarla Italia. La musica, scrive, «vive tuttora in Italia, mentre la maggior parte delle altre arti parlano un linguaggio morto; classico e dotto certamente, ma meno piacevole e utile agli studiosi che nei giorni di Leone X, quando l’Italia era così superiore al resto del mondo, e quindi così degna di essere visitata, com’era la Grecia al tempo di Pericle o di Alessandro». Se lo è ancora («degna di essere visitata»”), l’Italia lo deve molto alla musica: «Dire che la musica in Italia non fu mai tenuta come ora in così grande considerazione, o così ben compresa nel resto dell’Europa, equivale a dire che i suoi abitanti sono ora generalmente più civili e colti di quanto non lo fossero in qualsiasi altro periodo della storia dell’umanità». Considerazioni che valgono soprattutto per la musica vocale, per il teatro d’opera. Per quanto riguarda invece «il contrappunto, le fughe e i cori a più voci con strumenti, lo ripeto, non ho udito né mi attendo di udire altra musica che possa uguagliare quella di Haendel», il cui ricordo persiste netto. Y Pochi mesi, e l’11 febbraio 1771, a Venezia, assieme al padre Leopold, arriverà anche Wolfgang Amadeus Mozart. È tempo di Carnevale, di maschere; padre e figlio rimangono ospiti, per quattro settimane, di una famiglia di amici, commercianti di Salisburgo trasferiti per lavoro a Venezia: i Wider. In casa, ci sono sei figlie femmine. Esplodono gli ormoni dell’adolescenza: «Venezia mi piace molto», scrive Wolfgang Amadeus in calce ad una lettera del padre. E anche lui, come Haendel nel 1709, su- la musica i carnevali al teatro che è ormai diventato il malibran 11. Frederik Valckenborch, Il Carnevale di Venezia, Kremsmünster, Gemäldegalerie. tecento, per un musicista è impossibile anche il solo pensiero di rifiutare un impiego fisso. La rotta delle capitali del “bel canto”, che partiva da Napoli, scendeva a Palermo, risaliva le principali città dell’Italia per poi prendere il volo per il resto d’Europa, sta già trascinando con sé il Sassone. E l’eco del successo al San Giovanni Grisostomo (fig. 13), arriva fino a Londra, dove gli impresari chiedono a Haendel di comporre la sua prima opera italiana destinata al pubblico inglese. È il 1711, quando all’Haymarket Theatre, trionfa Rinaldo, libretto ispirato ai poemi di Torquato Tasso e Ludovico Ariosto. Tutta italiana la compagnia; tutti italiani i soprani e i contralti, donne e uomini. Tra loro, anche Nicola Grimaldi, detto Nicolino, che Haendel non perderà di vista e, quasi venti anni più tardi, incontrerà ancora a Venezia. Y Da allora, gran parte della vita del compositore trascorrerà nella capitale della Gran Bretagna, con l’incarico di Master of Orchestra della Royal Academy of Music, che aveva come scopo sociale quello di promuovere l’opera italiana. E a Londra, salutato da grandi onori, Haendel muore nel 1759: ancora oggi, all’Hallelujah del suo Messiah, gli inglesi, a qualunque latitudine, si alzano in piedi, per imitare, pare, il gesto impulsivo di re Giorgio II (fig. 14), imitato da tutto l’uditorio, quando lo ascoltò per la prima volta. Nel nostro paese, il ricordo della sua presenza resterà a lungo vivissimo. È il 1770, quando il compositore e storico della musica inglese Charles Burney “scende” in Italia. Si ferma dapprima a Torino, quindi la percorre con metodica disciplina: prima l’asse del Nord, poi il Centro, giungendo fino a Napoli. Dai suoi appunti, nasce quel Viaggio musicale in Italia che costituisce il più attendibile e appassionante documento e insieme racconto sullo stato della musica, allora, del nostro paese. Burney spende sei mesi, da luglio a dicembre, nell’Italia che come nazione riconosciuta an- 61 14. Charles Jervas, Ritratto di Re Giorgio II, Londra, National Portrait Gallery. 62 la musica i carnevali al teatro che è ormai diventato il malibran 13. Anonimo veneziano, Festa al Teatro San Grisostomo in onore del Duca di York, XVIII sec. dall’archivio fotografico di Federico Zeri, Bologna, Fondazione Zeri. bito chiede di mascherarsi: di giocare a perdere, ritrovare, mutare la propria identità, allo specchio di se stesso e degli altri. Ma di evirati cantori Mozart non parla. Non ne va a caccia. Quarant’anni dopo l’ultimo viaggio di Haendel in Laguna per scritturare “castrati”, il loro periodo d’oro è già finito; il gusto del pubblico sta cambiando; l’epopea ha iniziato a declinare, lasciando il posto ad un gusto più realistico, aggressivo, mordente. L’ambiguità sublime della voce degli evirati – immagine sonora e credibile del mito dell’ androgino, caro già a Platone – non riesce a competere con il canto, così maschio, dei tenori. Potremmo mai credere a un Alfredo Germont innamorato di Violetta, a un Mario Cavaradossi che seduce Tosca, interpretati da soprani-uomo? Varrà, come epigrafe in memoria, la considerazione di Rossini, nel 1866: con la scomparsa di quelle voci è venuto a mancare «il cantar che nell’anima si sente». A Richard Wagner, sei anni prima, aveva confessato: «È difficile farsi un’idea della bellezza del consumato virtuosismo che questi fuoriclasse possedevano, in mancanza di altre cose e per caritatevole compenso». Y Si usavano anche in Vaticano: al definitivo no papale del 1902, le voci bianche della Cappella Sistina erano 28; si ridussero a sette per mancanza di volontari, e le poche rimaste non furono cacciate, ma se ne attese la quiescenza. In antico, una tra loro, Pedro Montoya, era diventato celeberrimo, eppure non lo sapeva: Michelangelo Merisi, il Caravaggio in contatto con i più importanti 15. Michelangelo Merisi detto Caravaggio, Il suonatore di liuto, San Pietroburgo, Ermitage; dipinto dal 1595 al ’96, è la versione Giustiniani, presente nell’inventario del 1638; fu venduto a Parigi nel 1808. 16. Michelangelo Merisi detto Caravaggio, Il suonatore di liuto, New York, Metropolitan Museum: coevo e realizzato per il cardinal Del Monte, è passato poi ad Antonio Barberini, dalla cui collezione è emigrato. musicisti e cantanti della Roma di Clemente VIII Aldobrandini e che scriveva a un amico «sappiate che io suono di chitarriglia et canto alla spagnuola», l’aveva preso a modello per il suoi due dipinti del Suonatore di liuto, uno all’Ermitage di San Pietroburgo e l’altro al Metropolitan di New York (figg. 15 e 16), uno commissionato dal cardinale Francesco Maria Bourbon del Monte 63 64 18. Corrado Giaquinto, Ritratto di Carlo Broschi detto Farinelli, Bologna, Museo della Musica. anni della sua vita a Bologna, in una villa appena fuori città, oltre porta delle Lame (fig. 19). Parlano dei tempi andati; e Farinelli, nato ad Andria in Puglia, educato musicalmente a Napoli, poi trionfatore in tutte le grandi piazze teatrali, prima del precoce ritiro a Madrid, ricorda anche quello «strapazzoso viaggio» con cui giunse «in Londra felicemente, quantunque credevo non vedere quest’Isola per il passaggio del mare così perverso accadutomi; grazie al Cielo, ora posso dire per ogni genere, Te Deum Laudamus». A Londra, dopo essersi sfiorati a Venezia, lui e Haendel si trovarono, negli anni Trenta del Settecento, a giocare ruoli opposti: entrambi impegnati nelle opere italiane, lui a cantarle e il compositore a scriverle, ingaggiati però da due compagnie rivali. «One God, one Farinelli», gridò una sera una Lady inebriata: un solo Dio, un solo Farinelli. Y Quella voce così acrobatica da poter inanellare in Quell’usignolo che innamorato, dalla Merope di Geminiano Giacomelli, una sequenza di ventuno trilli consecutivi; così estesa da attraversare tre ottave, scendendo dall’acuto al grave e risalendo con irrisoria facilità, in modo da sprofondare negli abissi e intravvedere poi la salvezza, in Son qual nave che agitata dall’Artaserse composta dal fratello Riccardo, stregherà gli inglesi per tre anni soltanto. Da Lon- la musica i carnevali al teatro che è ormai diventato il malibran 17. Jacopo Amigoni, Ritratto di Farinelli con l’ordine di Calatrava, Bologna, coll. priv. Santa Maria, suo primo mecenate e committente della capitale dei papi, e l’altro per i fratelli Giustiniani, il marchese Vincenzo e il cardinale Benedetto. Prima di andarsene da poco centenario, sir Denis Mahon, identificando l’esemplare ora americano, aveva anche individuato, nella “guardaroba” giustinianea redatta alla morte del marchese, non soltanto la piccola spinetta che, invece della natura morta di frutta russa, vi è ritratta, ma anche la romanza che il Montoya era intento a cantare. Altri invece diventavano celebri, ben sapendo di esserlo: Girolamo Crescentini (1762 – 1846) è nominato da Napoleone cavaliere della Corona ferrea, la massima onorificenza di Francia, che però, di solito, si riservava ai mutilati sì, ma in battaglia; e a Farinelli, allievo di Nicola Antonio Porpora e grande amico di Pietro Trapassi detto Metastasio che lo chiamava «gemello arciamabile», la Spagna tributa la croce di Cavaliere dell’ordine di Calatrava (fig. 17), riservata ai nobili, a lui che non lo era. «Possedeva virtù e facoltà vocali quali nessun altro cantante al mondo ebbe forse mai, ed era capace di soggiogare chiunque lo udisse, il sapiente come l’ignorante, il nemico come l’amico», scriveva di lui Charles Burer. Resta leggendario il “duello” ingaggiato al Teatro Argentina di Roma con un clarinettista: questi continuò la cadenza fino allo spasimo, ma al cantante non bastava, e lo surclassò tra fragorosi applausi, lasciandolo, in pratica, senza fiato. Non sarà un caso che sia stato immortalato da grandi della tavolozza, come Jacopo Amigoni e Corrado Giaquinto (fig. 1 e 18). Y Ma torniamo a Burney: uno storico scrupoloso come lui non poteva ritenere completo il suo viaggio italiano se privo di una visita appunto a Farinelli, che a carriera finita trascorre gli ultimi 65 66 la musica i carnevali al teatro che è ormai diventato il malibran 19. La Villa di Farinelli, fuori da Porta Lame a Bologna, in una rara foto dell’Ottocento, da Corrado Ricci, Figure e figuri dl mondo teatrale, Milano, 1921 dra a Madrid: impossibile resistere all’invito di Elisabetta Farnese, moglie di Filippo V di Spagna, che a quella voce meravigliosa chiede di riuscire là dove i medici di corte ormai disperano: placare dai terrori notturni lo sposo, trasformare i suoi incubi in più miti immagini. «Solo la vostra voce potrà tentare», implora la regina italiana, che ben conosce il potere della musica. E che altro può fare un cantante castrato se non accogliere la sfida impossibile? E vincerla così totalmente, da dover cantare ogni notte a palazzo la ninna nanna per il re folle, ripetendo sempre – per anni e anni – le stesse arie: «Mi bevevo ogni sera le solite quattro o cinque arie in corpo», scrive il cantante, testimoniando del più formidabile esempio di terapia omeopatica nella storia della musica, e della medicina. E dopo il padre, il figlio: Ferdinando IV, ipocondriaco e ossessionato da manie persecutorie. Così, Farinelli (fig. 20) cantò ancora, fino a sfinirsi. Y E i Grimani? Il loro San Giovanni Grisostomo, già a fine Seicento il teatro più grande in Europa, con 40 orchestrali e un palco di 26 metri per 20, cinque ordini di stalli con le colonne scolpite e dorate e il più sontuosamente decorato dei 18 che allora Venezia possedeva, un autentico primato nel mondo (tra il 1637 e il 1700, la città produce ben 358 opere), vive ancora: si chiama Teatro Malibran, e la sua programmazione è oggi affidata alla Fenice. La nobile famiglia fu infatti costretta a rinunciare sia alla proprietà che alla gestione, troppo onerosa. Un deficit annuo superiore ai 3.000 ducati era un lusso che nemmeno le meraviglie delle opere di Haendel e del canto degli evirati potevano giustificare. Ma senza Grimani, niente Agrippina. 20. Jacopo Amigoni, Farinelli , la Castellini, Metastasio, il Pittore e un ussaretto, Melbourne, National Gallery of Victoria 67 il più famoso tra i viaggiatori mai stato in laguna; byron ha14 famigli e 19 animali Fabio Isman 1. Tiziano Vecellio, Bacco e Arianna, 1520-3, Londra, National Gallery. 2. Oxford, la Bodleian Library. Y Il più famoso narratore di Venezia e della venezianità, in laguna non è mai approdato: William Shakespeare la racconta, senza esserci mai stato. L’unico luogo che cita è Rialto, ma non per descriverlo: per due volte, nel Mercante di Venezia, suona la domanda «che notizie a Rialto?», da sempre centro dei commerci. Nel 1818, George Gordon, lord Byron, arriva, spiega il poeta Percy Bysshe Shelley, con 14 domestici, due scimmie, otto cani, cinque gatti, una cornacchia, uno sparviero, una volpe, un pappagallo; e «tutta la masnada va in giro negli appartamenti come se ognuno fos se il padrone». Perfino nella “leggenda nera” di Ca’ Dario, il “portasfortuna” più famoso in laguna, è coinvolto un inglese. E hanno vera sete di quadri veneziani i suoi connazionali: non soltanto di Canaletto, il cui agente è un diplomatico dei reali britannici, come altri rappresentanti di sua maestà più occupato dai dipinti che dalla politica: richiestissima è anche la grande arte del Cinquecento, il secolo davvero “d’oro”. Y L’Inghilterra è colta; la prima grande biblioteca pubblica è aperta nel 1602 ad Oxford: la Bodleiana (fig. 2), accessibile ai l’arte e il “grand tour” l’inghilterra davvero assetata di dipinti veneziani 69 4. Oxford, Ashmolean Museum, su una finestra la gratitudine per il munifico dono. 70 5. Londra, la National Gallery, a Piccadilly Circus. Guardi; la Natività di Giovanni Battista Pittoni (rivelata dopo l’acquisto la parte superiore); vari Tiepolo. Desta sensazione il passaggio a Londra della Famiglia di Dario ai piedi di Alessandro di Paolo Veronese da Ca’ Pisani Moretta, sul Canal Grande: ne diremo nei dettagli, ma dopo. Y Prima, meglio occuparsi dei viaggiatori. Perché il “grand tour” nasce come un imprescindibile viaggio di formazione delle classi colte, specie le inglesi, francesi e tedesche. A Londra, non si era ammessi all’esclusivo Club dei dilettanti (del resto, Vivaldi lo era di musica, no?) senza essere stati almeno una volta a Roma. La raccolta Tursi, alla Marciana, è archivio dei più nutriti sul Viaggio in Italia; Angiolo Tursi, di Taranto (1885-1977), nel 1924 sposa la veneziana Alba Barozzi, e poi raccoglie e studia, in città, le opere dei grandtouristi: 15 mila pezzi donati nel 1956 alla Biblioteca. I tempi del Voyage erano eroici: a Torbole, verso Rovereto, nel 1768 Goethe chiede alla locanda “La Rosa” dov’è la toilette; gli rispondono «in cortile»; insiste per sapere da quale parte; gli replicano «dove preferisce», e lui si scandalizza. Assordano il mondo i 96 campanelli della carrozza a quattro a quattro cavalli di Charles Dickens (fig. 10); e un’altra inglese, Mariana Starke (1762 - 1838), suggerisce agli aspiranti un nutrito corredo da viaggio. È lungo, ma merita leggerlo. «Una cuccetta da trasformare in divano letto, due sacchi a pelo di pelle di pecora, un paio di cuscini, uno di coperte di lana e uno scendiletto, due federe, una zanzariera di velo sottile, lenzuola, lucchetto da camera, asciugamani, tovaglie, tovaglioli non belli ma resistenti, pistole, coltelli, uno tascabile da pranzo, cucchiai da tavola in argento, da minestra, da tè, cucchiaini per il sale, teiera d’argento o anche placcata, bricco di latte per bollire l’acqua del tè», e continua per altre due pagine; anche il soldier’s confort, via di mezzo tra lo scaldino, la «lampada cieca per la notte» e la casseruola per cuocere le verdure; né manca un elenco di medicinali e spezie, con nomi esotici, o oggi dimenticati, come Paragoric elisir, ipercauna, calomelano, che farmacisti e gourmet invidierebbero. l’arte e il “grand tour” l’inghilterra davvero assetata di dipinti veneziani 3. Oxford, l’edificio principale dell’Ashmolean Museum. membri dell’ateneo (l’Ambrosiana di Milano è successiva di cinque anni). Ed il primo museo discende da un dono di lord Elias Ashmole: nel 1675, lascia all’Università di Oxford, per gli studenti, le proprie collezioni (figg. 3 e 4), accessibili dal 1683 (a Roma, i musei Capitolini seguono di 50 anni: però sono i primi regolarmente aperti al pubblico; si sistemano invece a fine Cinquecento i marmi Grimani a Venezia, donati per stare in «luogo pubblico»: la prima raccolta non privata d’archeologia al mondo). Eppure, quando nasce nel 1824, la National Gallery di Londra (fig. 5) è modesta. Per 30 anni, è senza direttore, né acquisizioni. Colma il gap il primo di loro, Charles Eastlake; e l’inizio del Rinascimento italiano è oggi «uno dei suoi gioielli più belli» (Michael Levey). Per fermarci a Venezia, quattro dei 20 dipinti realizzati da Antonello da Messina in città, con i ritratti di Maometto II di Gentile Bellini (fig. 6) e del Doge Leonardo Loredan di Giovanni (fig. 7); suoi anche Il giardino degli Ulivi, con quello di Mantegna, e la Madonna del prato; L’adorazione dei Magi di Giorgione (fig. 8); Tiziano tra i più belli (La famiglia Vendramin, fig. 9, La morte di Atteone, pag. 8, Bacco e Arianna, fig. 1) e la Lucrezia di Lorenzo Lotto fanno buona compagnia ai vari Duccio, Giotto, Masaccio, Angelico, Caravaggio (La cena in Emmaus), Piero della Francesca (La natività e Il Battesimo di Cristo), Lippi, tanto per citare; o ai Leonardo, Raffaello e Michelangelo; o a stranieri di prima grandezza. E a un celebre Sebastiano del Piombo, La resurrezione di Lazzaro, eseguito per il futuro Clemente VII Medici in competizione con la Trasfigurazione di Raffaello. Del Seicento, di Pietro Longhi, Il rinoceronte a Venezia; i Canaletto e i 71 l’arte e il “grand tour” l’inghilterra davvero assetata di dipinti veneziani Y Tra i primi a narrare Venezia è Thomas Coryat: Crudities, Crudezze affrettatamente raccolte in cinque mesi di viaggio, appare a Londra, nel 1611. Non solo ascolta tre ore di musica alla Scuola Grande di San Rocco (sette organi, dieci tromboni, quattro cornetti, due viole e un solo, misero, violino), ma giudica la «città di tale meravigliosa e incomparabile bellezza che nessun posto al mondo può starle a confronto». Poi, è straordinaria «l’abbondanza di tutte le vettovaglie, pur non avendo vicino né prati, né pascoli, né terre arabili»; frutta in stupefacente quantità, speciali «i meloni moscatelli, tutte le piazze ne traboccano» d’estate. Luogo, «gloriosissimo, impareggiabile, virginale», perché ancora mai conquistato, che affascina; in piazza San Marco, vede «la più alta magnificenza architettonica che un posto sotto il sole può offrire», anche se i gondolieri «sono i più viziosi e licenziosi furfanti della città: se un forestiero non dice subito dove vuole andare, lo portano in un tempio di Venere, dove lo spenneranno ben bene». Y Le curiosità attirano tanto lo scrittore John Evelyn (1620-1706), che, visitando la raccolta di Federico Contarini arricchita da Carlo Ruzzini nel 1645, si dimentica dei 120 dipinti, per raccontare gli «arredi e statue, teste d’imperatori romani in un ampio salone»; «medaglie greche e latine, molte curiose conchiglie, oggetti pietrificati, un porcospino intero trasformato in pietra»; «in un altro Gabinetto, posato su 12 pila- 8. Zorzi da Castelfranco detto Giorgione, L’adorazione dei Magi, Londra, National Gallery. 9. Tiziano Vecellio, La famiglia Vendramin, Londra, National Gallery. A fronte: 6. Gentile Bellini, Ritratto di Maometto II, Londra, National Gallery. 7. Giovanni Bellini, Il doge Leonardo Loredan, Londra, National Gallery. stri di agata d’Oriente e cinto di cristalli, diversi nobilissimi intagli d’agata, e specie una testa di Tiberio e una donna al bagno con il cane; rare corniole, onici, cristalli; in uno, una goccia d’acqua non congelata si muoveva su e giù; un magnifico rubino era cresciuti in un diamante; in svariato pezzi di ambra stavano incastonati i più diversi insetti». Venezia collezionava già ogni cosa, senza risparmiarsi nessuna mirabilia. Ed amava la scienza. Nel Cinquecento, il patriarca di Aquileia Marco Grimani (fig. 11) è l’agente veneto al Cairo, e prova per primo a misurare una piramide. Calcola in 280 “varchi”, circa 250 metri, quella di Cheope; e reputa l’altezza pari alla base: un solido perfetto. Sebastiano Serlio, nel Terzo libro dell’Architettura (Venezia, 1540), la chiama “Piramide Grimani” (fig. 12). Pierluigi Panza spiega che quando John Graves ne pubblica i risultati in Inghilterra, diventa docente di astronomia a Oxford; Newton li userà per stabili- 73 74 11. Jacopo Robusti detto Tintoretto, Marco Grimani, Vienna, Albertina. 12. Sebastiano Serlio, Disegno della Piramide di Cheope misurata da Marco Grimani, in Il Terzo libro nel qual si figurano, e descrivono le antiquità di Roma, e le altre che sono in Italia, e fuori de Italia, Venezia, Francesco Marcolini, 1544, Venezia, Biblioteca di Storia dell’architettura, Iuav. Nel Novecento, tocca al magnate americano Charles Biggs: fugge dall’Italia per una vicenda omosex, ed il suo amante si ammazza. Quello del conte Filippo Giordano delle Lanze, Anni 60, gli spacca invece la testa con una statuetta, prima di sparire a Londra. Non si salvano Cristopher “Kit” Lambert, manager del complesso dei Who, nel 1981; l’uomo d’affari veneziano Fabrizio Ferrari nel 1985: un tracollo, storie di droga, e Nicoletta, la sorella che ci vive, muore nuda, in un prato della terraferma. L’ultimo, finora, è Raul Gardini, l’ex proprietario di Montedison, suicida a Milano, durante “Mani pulite”: quando la acquistò, rifiutava il sortilegio; giurava che ne sarebbe rimasto immune: lo ricordo ancora. Y Per Venezia transitano, ad esempio, William Wordsworth (1779): un sonetto si intitola On the fall of the Venetian Republic, il suo «valore non tradì la sua nascita, figlia primogenita della Libertà. E quando scelse un compagno, sposò il mare immortale»; Roger Ascham, tutore della regina Elisabetta e suo segretario di latino: «Si considera buona politica, quando ci siano vari fratelli in una famiglia, sposarne uno e far sguazzare gli altri nella lussuria, con la mancanza di ritegno con cui i maiali si rotolano nel fango»; per 20 anni dal 1739, Mary Wortley Montagu, e Charles Burney (1726 1814), suo amico, pioniere della musicologia: «Le strade sono ben pavimentate, le case di grandi e nobili proporzioni, tutte però intonacate e dipinte all’esterno a colori sgargianti, di pessimo gusto»; James Edward Smith (1786): «La chiesa di San Marco è il luogo pubblico in Europa più sporco, forse dopo la sinagoga di Roma»; Gustav Hamilton, II visconte Boyne e membro della Società dei Dilettanti, viaggia con Edward Walpole fratello di Horace, e con lo scrittore Joseph l’arte e il “grand tour” l’inghilterra davvero assetata di dipinti veneziani 10. Charles Dickens, in un’incisione del 1858. re che la piramide nasce da due diversi valori del cubito. Galileo mostrerà il suo cannocchiale, la prima volta in pubblico, nel 1609, dal campanile di San Marco al doge Leonardo Loredan. Y C’è perfino quasi una nemesi. John Law, genio finanziario scozzese e controllore generale dei fondi di Luigi XV in Francia, era secondo solo al re fino al 1720, quando deve fuggire. Sceglie Venezia, dove muore nel 1729. È sepolto a San Geminiano (fig. 13), che occupava una buona fetta di piazza San Marco; l’aveva rifatta Jacopo Sansovino e vi aveva trovato la pace; per il figlio, era la chiesa «più ornata di qual si voglia altra in città, dentro e fuori incrostata di marmi e pietra istriana, ricchissima». Eugenio di Beauharnais, viceré francese, la sacrifica nel 1810 per espandere nelle Procuratie Nuove il palazzo reale. È governatore militare un pronipote di Law, divenuto conte di Lauriston: ne trasloca le spoglie a San Moisé, dove ancora sono. Pure inglese è il primo ponte all’Accademia: si parlava di un transito in loco dal XV secolo, ma lo getta Alfred Neville nel 1854, un ingegnere britannico, provvisorio fin da allora. Y Per la Serenissima passano in tanti, ma non Shakespeare; anche se la casa di Desdemona sarebbe la Ca’ Contarini Fasan, non lontana da quella Giustinian; ed Otello, più che di pelle, sarebbe stato Moro di cognome: si dice Cristoforo, luogotenente a Cipro nel 1505. La fonte è forse il racconto della sua tragedia, nel 1565: perde la moglie in un viaggio per Candia, mentre è capitano di una “muda” di 14 galere. Era già iniziata la “leggenda nera” di Ca’ Dario (fig. 14), edificata forse da Pietro Lombardo nel 1487 e voluta da Giovanni che firma la pace con i Turchi: l’unica sul “Canalazzo” con il nome del committente in facciata. Defungerà di crepacuore la figlia Marietta, abbandonata da un Barbaro. Un cui discendente, Vincenzo, è ucciso a Candia nel XVII secolo, mentre ne è governatore. Duecent’anni dopo, ci vive un mercante di diamanti armeno, Arbit Abdoll: perde tutto, e muore. L’unico non proprietario dell’edificio che ne eredita la sfortuna è Rawdon Brown: la abita dal 1838 al 1842, si suicida. 75 13. Antonio Canal detto Canaletto, Piazza San Marco; in fondo, si nota la scomparsa chiesa di San Geminiano. 76 Spence, i due si fanno ritrarre da Rosalba Carriera (figg. 15 e 16); il secondo, della Maddalena di Tiziano in casa Barbarigo ed ormai all’Ermitage (fig. 17), diceva che «non lo fa solo con gli occhi, piange fino alla punta delle dita»; fino a Ezra Pound (1908): «La grazia di Venezia è diventata per me una cosa di lacrime». Y Tra l’Otto e Novecento, vari inglesi di rilievo, nati o cresciuti in Gran Bretagna, soggiornano più volte, o a lungo, in città: Byron (1788 - 1824), Dickens (1812 - 70), Joseph Mallord William Turner (1775 - 1851), John Ruskin (1819 - 1900), Austen Henry Layard (1817 - 94), James Abbot McNeill Whistler (1834 1903), John Singer Sargent (1856 - 1925) e Frederick Rolfe, detto Baron Corvo (1860 - 1913). Byron (fig. 18) ci sta tre anni, e studia l’armeno: «Il mio spirito aveva bisogno di essere tenuto desto da qualcosa di solido e impegnativo; ecco perché ho scelto la lingua più difficile che esista, un ottimo strumento per rafforzare la mia volontà». Sull’isola di San Lazzaro, scrive l’Aroldo. Ogni mattina arriva in gondola, o a nuoto dalla casa sul Canal Grande; finanzia una grammatica per inglesi e un dizionario armeno-inglese a padre Pasquale Aucher (per lui era «il sapien- l’arte e il “grand tour” l’inghilterra davvero assetata di dipinti veneziani 14. Venezia, Ca’ Dario, un dettaglio della facciata sul Canal Grande. te»): ne scrive perfino la prefazione, anche se conosce solo 30 dei 38 glifi della lingua. Ha studio nell’attuale museo; possedeva infinità di penne d’oca, poi cedute dai monaci ai viaggiatori inglesi, in un turn-over di puro mercato. Ma vanta anche altri hobby: a Palazzo Mocenigo, dove vive, pare che vi fossero due entrate, per le donne di Cannaregio, e quelle di Castello. Più o meno prezzolate. In varie lettere, descrive le sue prodezze. Arpalice Tarruscelli è «la più graziosa baccante al mondo»; seguono la nobile Da Mosto, una Lotti, una Spineda, una Rizzato, dice Alberto Toso Fei; e poi «Eleonora, Carlotta, Giulietta, le Alvisi, Zambieri, la Da Bezzi già amante del re di Napoli Gioacchino; la Glottenheimer e sua sorella; la Teresina di Mazzacurati; la Teresina e sua madre; la Fornaretta», cioè una prediletta, Margarita; «la Caligari, la Portiera, la Santa, la Tentora e sua sorella, la Bolognese figurante, e molte altre. Alcune contesse, altre figlie di ciabattini; alcune nobili, alcune borghesi; alcune di basso ceto, alcune splendide; alcune discrete, altre di poco conto; tutte puttane». A Carnevale 1818, spiegherà, c’era la coda davanti al suo scannatoio. Y All’autore dei Due Foscari e del Manfred non occorre troppo per innamorarsi: da pochi giorni (nel 1816, aveva 28 anni; era già affermato), «sono nell’isola più verdeggiante della mia immaginazione; mi piace come mi aspettavo, e mi aspettavo molto», e all’editore scrive, poche settimane dopo, «la malinconica gaiezza delle gondole e il silenzio dei canali», ma anche «sto molto bene con Marianna, non m’annoio; dall’arrivo, non ho trascorso 24 ore senza donare e ricevere da una a tre, e di quando in quando un extra o suppergiù, dimostrazioni piuttosto inequivocabili di reciproca e buona soddisfazione». Marianna Segati ha 22 anni, come “la fornarina”, Margarita Cogni che la sostituirà; inoltre, i salotti di Isabella Teotochi Albrizzi, 20 anni dopo gli amori con Ugo Fo- 77 16. Rosalba Carriera, Ritratto di Joseph Spence, Sierre, coll. priv.: Spence posò con Horace Walpole e lord Lincoln. 78 17. Tiziano Vecellio, Maddalena penitente, San Pietroburgo, Ermitage. Battista Falcier, il gondoliere preferito? Venezia è «amata fin da ragazzo, così l’ho trovata e non me ne sono mai separato». Per lui, era un po’ tenebrosa: Gino Benzoni spiega che la rende a meraviglia un quadro di William Etty (1787 - 1849) conservato a York, Il ponte dei sospiri ritratto al chiaro di luna, «mentre dalle Prigioni esce il cadavere di un decapitato» (fig. 19). Y Dickens dedica invece alla città un Sogno, nel 1844, che riediterà due anni dopo in Pictures from Italy: «Non vi sono parole che possano evocare lo splendore»; a San Marco, «un palazzo splendido e grandioso nella sua vecchiezza più d’ogni edificio della terra nel pieno del proprio splendore»; la «cattedrale splendente negli ori degli antichi mosaici, scrigno di ricchi tesori, iridata dai finestroni a vetri dipinti, irreale, fantastica, solenne, in ogni angolo straordinaria». C’è chi scrive, e chi dipinge: Turner, a Ca’ Corner Martinengo Ravà del XVI secolo, sul Canale non lontano da dove viveva la prima laureata al mondo (Lucrezia Corner Piscopia dottorata nel 1678 a Padova), realizza un ciclo di vedute, dall’ultimo piano di quel che era l’hotel del Leon Bianco. Una cerniera nella sua produzione: come le 37 di Claude Monet del 1908, dall’hotel Britannia, già Ca’ Badoer Tiepolo, rappresentano l’omega dei suoi viaggi; non lascerà più Giverny. L’inglese vede nella città (Romanelli) «le stimmate della morte», con «le sciabolate di luce, le ferite sanguinanti», e «profluvi di pietre preziose, ori e coralli, berilli e granate, e perle lucenti» (figg. 20 e 21). Dal 1819 al 1840, è tre volte a Venezia: centinaia di opere, un terzo della produzione, redatte pure dopo il ritorno. Un critico dice: «È l’alba dell’Impressionismo, ciò che è Debussy per la musica». l’arte e il “grand tour” l’inghilterra davvero assetata di dipinti veneziani 15. Rosalba Carriera, Ritratto di Gustav Hamilton, secondo visconte Boyne, Londra, coll. priv. scolo, e di Marina Benzon Gussoni, già avanti nel tempo (ma non pare troppo per Byron), che da giovane aveva ispirato La biondina in gondoleta. Le rivali di 22 anni, hanno un diverbio per lui: «Tu non sei sua moglie, io non sono sua moglie; tu sei la sua donna, io sono la sua donna; tuo marito è cornuto, il mio anche; per il resto, se lui preferisce quello che è mio a quello che è tuo, è colpa mia?» chiede Margarita a Marianna; e Byron ammette: «Nei due anni in cui ho avuto più donne di quante potrei contare o raccontare, era l’unica a mantenere un ascendente su di me». Non sa leggere né scrivere; ma lo fa ridere, ed è spudorata. Spesso, lui vive, da loro: con l’amante e il marito. Esercita quasi alla luce del sole: Venezia, allora, era così. «La gelosia non è all’ordine del giorno, e i pugnali fuori di moda», scrive lui. Cattura oltre 200 “prede”; la Teotochi lo descrive occhi «dell’azzurro del cielo», «i denti si agguagliano alle perle», «il collo, bianchissimo, sembra fatto al tornio», «belle quanto l’arte può farle le sue mani». Y Quando scriva non è chiaro, tanto è impegnato a smistare il traffico e in gare di nuoto (un giorno, dal Lido a Santa Chiara, dove finisce il Canal Grande: «In mare dalle quattro e mezzo alle otto e un quarto, senza toccare terra o riposarmi», e una donna al pomeriggio e un’altra la sera; una notte, nuota reggendo una torcia per non farsi investire dalle gondole; in ricordo suo, fino al Novecento, si disputerà perfino una Coppa Byron di nuoto); o nelle mattinate dagli Armeni; o nel palco fisso alla Fenice; nelle cene e nei balli; a cavallo, sul Brenta o al Lido, al tramonto. Lavora fino a tarda notte. Spesso, non mangia nulla «se non un pesce adriatico chiamato scampi, che però è il più indigesto di tutte le vivande marine». Sarà in memoria di tutto questo che, quando muore in Grecia nel 1824, accanto al letto gli è vicino Giovanni 79 80 19. William Etty, Il ponte dei sospiri, York, York Art Gallery. acquistare il Seicento italiano dal 1864 e, con due eccezioni, tornerà a farlo solo nel 1957, con L’adorazione dei pastori di Guido Reni (fig. 23), dopo non facili lotte ad esempio di sir Denis Mahon. Mahon, dribblati i 100 anni, se ne è andato da poco; ricordava: «Tra i trustees, la spuntai per un voto, mi aiutò anche Henry Moore». I tre volumi de Le pietre di Venezia, apparsi dal 1851 al ’53 (e un’edizione più breve per i viaggiatori), destano allora sensazione. Lui era così “veneziano”, e la città ridotta così a malpartito, che nel 1852, gli offrono le rovine di Santa Maria dei Servi, «con il terreno e tutto il resto, o pietra su pietra», scegliesse lui. Arriva per la seconda volta (la prima, nel 1835, a sei anni) a maggio 1841: «Grazie a Dio sono qui, questo è il paradiso delle città». Lo affascina soprattutto Tintoretto: visti i 69 dipinti di San Rocco, scrive: «Ho avuto una dose di quadri sufficiente ad annegarmi, non mi sono mai sentito così schiacciato al suolo di fronte a un intelletto umano; non penso di aver saputo prima che significasse la pittura, non credo che gli servissero neppure 10 minuti per dipingere una tela intera». E «senza quella visita, avrei dovuto scrivere Le pietre di Chamonix, anziché di Venezia». Y Il suo albergo preferito è il Danieli: il palazzo, già dei Dandolo, nel 1822 era passato allo svizzero Joseph Da Niel, che gli aveva dato il nome. Ma una volta gli trova casa Rawdon Brown; un’altra è al Gritti; e una terza è all’attuale pensione Calcina, alle Zattere. Disprezza i «veneziani odiosi della classe media, siedono indolenti e leggono giornali vuoti». Sono una «pochezza» il Rinascimento, e perfino Palladio. Esalta il Gotico. Palazzo Ducale è «l’edificio centrale del mondo»; ma vede porticati già «talmente logori e malconci», che dubita possano campare altri cinque anni: il tasso di degrado è «quello di una zolletta di zucchero nel tè caldo», anche per la troppa pressione demica delle folle di visitatori; figurarsi cosa direbbe ora. Lascia centinaia di schizzi: assai spesso dettagli architettonici (figg. 24 e 25 e pag. 6). Il suo capitolo sulla Natura del Gotico sarà la l’arte e il “grand tour” l’inghilterra davvero assetata di dipinti veneziani 18. Richard Westall, Lord George Gordon Byron, Londra, National Portrait Gallery. Neppure quattro settimane di soggiorno in tutto, ma scopre la luce. Dal 1833 (e aveva già 58 anni) al ’64, solo due volte non porta dipinti veneziani all’annuale rassegna della Royal Academy (25 olii fino al 1846), dove, enfant prodige, aveva esposto il primo acquarello a 15 anni, quando già da tre vendeva disegni. Della Serenissima osserva, quasi maniacalmente, ogni dettaglio. La città rappresenta una vera sfida per gli artisti; Dickens spiega che «è al di sopra, al di là, al di fuori della portata dell’immaginazione umana». Y Però, «l’aveva già dimostrato Canaletto, Venezia offriva un materiale senza uguali per un topografo di talento, con la passione per il mare e gli effetti di luce» (Warrel). Turner vi compie il primo viaggio a 44 anni: in precedenza, solo due volte aveva attraversato la Manica; si porta i consigli di James Hakewill, autore di A pictoresque Tour in Italy. L’hotel del Leon Bianco è frequente meta di inglesi; anche di lady Blessington (Marguerite Power Farmer Gardiner, 1789 - 1849), celebre perché gira l’Europa con quello che si chiamerà Blessington Circus: carrozza a doppie molle, fornita di materassi, cuscini, toeletta, e l’inseparabile biblioteca. La luce origina una trasformazione tangibile in lui, che ambienta addirittura la Giulietta shakespeariana quasi sulla terrazza dell’hotel (fig. 22), e di Samuel Rogers illustra Italy e Poems, anche con Ponte di Rialto, chiaro di luna. Sviluppa «una sorta di dipendenza da Venezia». La città era così di moda oltre la Manica, che nel 1850 William Makepeace Thackeray (1811 -1863) si dice perfino «stufo di gondole, tende a strisce, marinai con berretti da notte». Y Amava tantissimo Turner anche Ruskin (erano amici di famiglia, e in casa c’era una sua grande veduta del Canal Grande), cui va riconosciuto almeno il merito di avere trasformato per primo la salvezza di Venezia in un caso del mondo, e non una faccenda locale. Oggi, francamente, molte sue elucubrazioni paiono superate. Specie l’odio per il Rinascimento: «Le sue invettive risultano assurde, e forse non furono mai prese interamente sul serio» (Kitson). Per il suo ukase, la National Gallery di Londra smette di 81 21. Joseph Mallord William Turner, Lampi temporaleschi nella Piazzetta, Edimburgo, National Galleries of Scotland. l’arte e il “grand tour” l’inghilterra davvero assetata di dipinti veneziani 20. Joseph Mallord William Turner, Il Canal Grande dalla Giudecca, Londra, Victoria and Albert Museum. Bibbia dei Preraffaelliti (da Dante Gabriel Rossetti, con gli abiti sfarzosi detti in «stile veneziano», a Edward Burne-Jones e tanti altri): il loro vale quasi un atto di scoperta dei Primitivi. Y Singolare e significativa anche la presenza dei Layard. Austen Henry è lo scopritore di Nimrud (pur se la pensava Ninive): «L’uomo che ha dato ragione alla Bibbia»; cittadino onorario di Londra e sottosegretario per due volte agli Esteri; anche finanziatore di Rawdon Brown. Crede già all’unità d’Italia con il Veneto; assiste all’arrivo di Vittorio Emanuele II; fonda la chiesa anglicana in città (e la moglie Enid, una clinica per marinai inglesi, alla Giudecca); è perfino il maggior socio della ditta di mosaici Salviati, di cui resta ancora l’insegna su un palazzo di fronte a Santa Maria del Giglio, che rifornisce tra l’altro il palazzo di Westminster. Sul Canale, Brown gli trova Ca’ Cappello: approda a Venezia a 66 anni, e gli resterà l’angustia di non essere diventato Pari d’Inghilterra, né direttore del British Museum. In casa, non si fuma; riceve le regine Margherita e Alexandra, il principe ereditario tedesco, il futuro imperatore Guglielmo II, e tanti altri. Dopo la morte di lui, nel 1894, lei (fig. 26) torna, e ci resta finché ha vita, nel 1912. Mentre Lady Helen Radnor porta nel castello di Longford, Wiltshire, il gondoliere prediletto, loro acquistano arte: Layard lascerà 82 dipinti alla National di Londra, tra cui il Maometto II di Gentile Bellini, da lui degno di una stanza tutta sua (fig. 6); Carpaccio; «il più squisito Cima mai visto», offertogli, in carta da pacchi, a sole cinque sterline. Ma 22. Joseph Mallord William Turner, Giulietta e la nutrice, esposto alla Royal Academy nel 1836, Argentina, coll. priv. non frequenta solo gli ineccepibili; Alexander Malcom, affarista che possiede palazzo Benzon nel cui salotto andava Byron, è coinvolto in mille vendite: pure nell’export in Inghilterra di lastre di marmo prelevate durante i restauri da San Marco. E a proposito di rilievi, quelli Layard trovati nel palazzo di Sennacherib, a Ninive, vantano un primato: sette, recuperati nel 1956 dietro degli scaffali nella residenza di Canford Manor nel Dorset, dove viveva spesso prima di Venezia, venduti per 14 mila sterline; e un ottavo, scoperto nel 1994, a 12 milioni di dollari: il massimo prezzo spuntato da un’antichità (fig. 27 e pag. 13). Y Anche Whistler e Sargent dipingono la laguna. Il primo, poco amato da Ruskin e ci fu perfino un processo per diffamazione vinto dall’artista, è un americano divenuto ben presto londinese, che a Venezia ha studio a Ca’ Rezzonico. La città, dice, «è un posto impossibile per sedersi e tracciare uno schizzo: c’è sempre qualcosa di meglio giusto dietro l’angolo»; ama la gente, la Venezia minore e della vita d’ogni giorno, calli e rii meno noti: ci sono addirittura suoi bozzetti che non si sa ancor oggi cosa ritraggano. Vi attracca a settembre 1879; la mattina, parte con la gondola e due scatole di pastelli; sistema i disegni tra fogli di carta ar- 83 84 24. John Ruskin, La Ca’ d’oro, Londra, coll. priv. 25. John Ruskin, Ca’ Loredan, Londra, coll. priv. con gondolieri e spesso assai giovani. Scrive Venice letters, 23 missive e due telegrammi mandati non si sa a chi dalla città, tra il 1909 e l’anno dopo: crudissime ed assolutamente realistiche, dedicate ai piaceri; per qualcuno, «le più dolorose ed erotiche lettere omosessuali mai scritte in inglese». Si era convertito al cattolicesimo; era anche un mancato prete; aveva pronunciato un voto ventennale di castità: scaduto il tempo, si rifa abbondantemente. Sappiamo di un bordello di ragazzini a Fondamenta Osmarìn, a Castello, trasferito poi a Padova. Fa sei bagni di mare ogni giorno, dall’alba al «tramonto, fiamme di ametista e topazio». Vive in un pupparìn, un’imbarcazione: talora ci dorme, perché non ha soldi. «Arrivai in agosto per una vacanza di sei settimane; abitai, lavorai e dormii quasi sempre nella mia barcheta»; «immaginate un mondo al crepuscolo, un cielo sgombro di nubi e il mare più levigato, il tutto fatto di caldo, liquido, limpido eliotropio e di violetto e lavanda, con fasce di rame lucidato, impreziosito di smeraldi». Incapace di amicizie; tanti improperi; anche una settimana senza cibo; una fine assai misera; «un egocentrismo smisurato», osserva Norwich. Y Ma torniamo all’arte figurativa antica, e soprattutto al mercato: a Venezia, quello degli inglesi è forse un caso unico. Nel Settecento, dalla Serenissima iniziano a sparire moltissimi capolavori. I patrizi, cedono con facilità alle lusinghe di «orde di agenti che imperversavano in città», dice Raimondo Callegari, «come avvoltoi», aggiunge Francis Haskell; e si fa «ufficio arti- l’arte e il “grand tour” l’inghilterra davvero assetata di dipinti veneziani 23. Guido Reni, L’adorazione dei pastori, Londra, National Gallery. gentata; sono «la raccolta più completa che esista delle immagini e della vita della città». Nel 1880, giunge Sargent. Vive a San Moisé, hotel Bauer Grünwald, allora d’Italie; poi, in piazza San Marco 290, in quello dell’Orologio. È veneziano per 33 anni. Predilige un punto d’osservazione ribassato, dalla gondola (figg. 28 e 29): scorci singolari dei palazzi. Nel 1913, l’ultima stagione, lascia una Veduta di San Geremia; quand’era giunto la prima volta, aveva 14 anni, e già disegnava, anche lui, quotidianamente. È figlio di americani trasferiti in Europa: nasce a Firenze, «a pochi passi da Ponte Vecchio»; un anno dopo la sorella Emily, a Roma. A 28 anni, si trasferisce a Londra, dove, a 69, nel 1925, se ne andrà. È intimo del più anziano Giovanni Boldini; per Henry James, è «il Van Dyck dei tempi nostri». Pure lui adora Tintoretto: «Ho imparato a ammirarlo immensamente, è secondo forse solo a Tiziano e Michelangelo, le cui bellezze era suo intento unire». In tutto, 15 periodi in città; espone due Vue de Venise già al Salon del 1881; ne raccoglie 50 tele Isabella Stewart Gardner: ma la più significativa, Un interno a Venezia con il salone di Ariana e Daniel Curtis (di cui era cugino) a Ca’ Barbaro, è alla Royal Academy di Burlington House (fig. 30): Londra, e non Boston. Y Infine, Baron Corvo, al secolo Frederick Rolfe, singolare individuo, a Venezia dal 1908 al ’13, quando muore. Vive pure lui a Piazza San Marco, all’hotel Bellevue et de Russie, attiguo all’orologio, ma non paga i conti; anzi, visto che non poteva onorarli, li distrugge. È tipo discusso; non solo per gli amori, spesso 85 86 27. Uno dei rilievi scavati da Austin Henry Layard a Nimrud. dodici Poussin, otto Tiziano tra cui il Ritratto di Francesco Maria della Rovere. È un gran bel dipingere, anche se, si sa, all’epoca non si attribuiva troppo per il sottile. In compenso, Udny è accusato di essere assai avido, e perfino un «gran scorticatore di quadri». Y Leggiamo ancora della Lena. «Un altro inglese capitò a Venezia, per nome Slade. Anche costui acquistò quadri in gran copia; la maggior parte e il meglio della Galleria Vetturi passò in sue mani»; «Hamilton, negoziante di quadri in Roma morto assai vecchio, finché visse comperò. Hoare, altro inglese, fece lo stesso. Era commissionario di costoro il buon Sasso». Gavin Hamilton (1723-98), «il padre del neoclassicismo pittorico inglese» e «figura di rilievo negli studi archeologici» (spiega Francesca Del Torre), decano della colonia britannica di pittori a Roma, lavora per i Borghese, è socio di Piranesi nei commerci. Nel 1764, acquista la Madonna degli Ansidei di Raffaello, già nella chiesa dei Serviti di San Fiorenzo a Perugia (fig. 31); e nel 1785, la Vergine delle Rocce di Leonardo, dall’ospedale di Santa Caterina della Ruota a Milano (fig. 32), entrambe ora alla National Gallery di Londra: la seconda, ceduta a un lord dal conte Cicogna, amministratore dell’ospedale, approda nel 1880 (novemila ghinee) al museo. Qui appare pure Sasso, «intelligentissimo, sterminata memoria in materia di belle arti», dice della Lena che ne sarà l’esecutore testamentario. È al soldo di Wright (8 lire al giorno per il lavoro, il 20 per cento per ogni affare); tra i tanti, consulente di Girolamo Manfrin, “nuovo ricco” con l’esclusiva del tabacco in Dalmazia (aveva almeno tre Tiziano: i Ritratti dell’Ariosto e di Caterina Cornaro, la Deposizione dalla Croce; la Sibilla di Giorgione; Antonello da Messina, e vari altri; nel 1856, cede 16 dipinti «ad un inglese per 10 mila Napoleoni d’oro»), per il quale sceglie anche la Madonna con il Bambino di Alvise Vivarini, ora alla National di Londra, e una Madonna con otto angeli musicanti, ora al Louvre. l’arte e il “grand tour” l’inghilterra davvero assetata di dipinti veneziani 26. Una “parure” appartenuta a lady Enid Layard. stico d’informazioni per gli acquisti» la residenza inglese, a beneficio degli stranieri che, sotto San Marco, cercano i tesori. Ci fornisce l’elenco delle loro “malefatte” l’abate Giacomo della Lena, viceconsole spagnolo a Venezia dal 1760, in un manoscritto che si intitola Esposizione istorica dello Spoglio, che di tempo in tempo si fece di Pitture in Venezia, d’inizio Ottocento. VeneziAltrove ne ha riferito nel 2003. Il residente John Murray, spiega, diventa ambasciatore a Costantinopoli, tuttavia dopo aver fatto a Venezia «sceltissima raccolta di quadri; ne aveva tre camere fornite, e si gloriava di contare sette Tiziani della bella maniera». Dal 1766, lo sostituisce James Wright: «Non è credibile la sterminata quantità di quadri che mandò a Londra: il palazzo a San Giobbe pareva un magazzino di pitture, non v’era angolo o parete che non ne avesse appesi»; affastellati «in tutte le stanze del piano superiore», dove lavorano due restauratori fissi. Muore nel 1803; l’anno dopo, tutto va all’asta da Christie’s, spesso anche per poco: il record, 110 sterline, è per La Vergine, il Bambino e San Giovanni di Guido Reni; solo mezza ne spunta il Cristo coronato di spine di Tiziano. Y Per Wright lavora un singolare personaggio, Giovanni Maria Sasso, che per 12 anni sarà poi “consigliori” artistico e uomo di fiducia di John Udny, suo successore dal 1773: «Cosa non acquistò di superbe pitture in Venezia, egli che ne era intendentissimo e sommamente avido?», chiede della Lena retoricamente; e spiega: «Le maggiori e più pregiate opere della Galleria Imperiale di Russia sono di veneziani da lui vendute», in parte rilevate dai Sagredo nel 1762. Il Provenance Index del Getty Institute ne registra 28 acquisti nel 1773 da Andrea Corner; e, dal 1802 al 1820, 444 vendite da Christie’s, sue o del fratello Robert che attinge dalla collezione Salviati. Anche dieci Andrea del Sarto; due Caravaggio; le Nozze di Santa Caterina di Correggio e una sua Danae già di Federico II Gonzaga, Carlo V, Cristina di Svezia, Odescalchi, Orléans e Labia; quattro Giorgione, con una Conversazione musicale a mezze figure, che ritrae Petrarca e Laura, ex Vendramin. Perfino dieci Leonardo, otto Raffaello, sei Rembrandt, 87 29. John Singer Sargent, The Rialto, Filadelfia, Philadelphia Museum of Art. l’arte e il “grand tour” l’inghilterra davvero assetata di dipinti veneziani 28. John Singer Sargent, Interno di una fiaschetteria veneziana, 1902 circa, Londra, coll. priv. Y A Sasso si riferiscono quasi tutti gli inglesi, in quella fine Settecento quando (Haskell) «Venezia fu spogliata di molti suoi capolavori»: anche un altro Hamilton, sir William, e John Skippe, collezionista e pittore; i due ultimi residenti, John Strange (lo è dal 1774 al ’90: 30 anni d’affari fatti assieme, ne parla Rosella Lauber da pag. 115) e Richard Worsley (l’estremo, 1793-97). Abraham Hume, «collezionista d’arte, minerali e pietre preziose», vuole da Sasso «Giorgione, Tiziano, Tintoretto, Veronese», e, nel 1788, ottiene una Giuditta con testa di Oloferne di Giorgione per 60 zecchini, e il Ritratto d’un giovane di Tiziano, già Morosini, per 50; Sasso ne ricava 15 zecchini: «A kind contribution», annota Hume. E da lui iniziano le traversie di uno dei due Libri di disegni di Jacopo Bellini, quello del British Museum e non l’altro, del Louvre. Da Gabriele Vendramin passa «a Marco Cornaro della Ca’ Granda, vescovo di Vicenza; poi, al conte Bonomo Algarotti, ai conti Corniani, a Sasso; nel 1802, è comprato da Bonetto Corniani; lo rileva don Girolamo Mantovani, nel 1803; nel 1855, suo nipote Giovanni Mantovani, farmacista in calle larga San Marco, lo vende al Museo di Londra per 400 Napoleoni d’oro», dice Francesco Scipione Fapanni che piange, pure lui in un manoscritto, le raccolte veneziane perdute. Stando ai Diari di Emanuele Cicogna, media Rawdon Brown; e, scrive Sasso, prima dei Cornaro era «col n. 431 nella libreria del senatore Jacopo Soranzo». Lo 30. John Singer Sargent, Un interno a Venezia, 1898, Londra, Royal Academy of Arts. individua nel 1530 Marcantonio Michiel, in casa di Gabriele Vendramin: «El libro grande in carta bombasina de dissegni de stil de piombo fu de man de Iacomo Bellino»; 101 fogli di 41,5 x 33,6 cm; 134 disegni in punta di piombo su carta bianca, alcuni ritoccati in penna ed acquerello. Y Ma, ovviamente, non soltanto i pubblici musei inglesi sono ben forniti di numerosi capolavori veneziani: basti pensare alla Wallace Collection di Hartford House, ancora a Londra, che vanta anche il Perseo e Andromeda di Tiziano (fig. 33), a un certo punto incredibilmente riscoperto nel bagno al primo piano; era stato dimenticato, «ingiuriato dall’atmosfera umida, scurito da plurimi strati di vernice»: VeneziAltrove ne ha scritto nel 2004. Accanto, ha Canaletto, Bellotto, Guardi; e, di nuovo di Tiziano (Venere e Amore), la Santa Caterina d’Alessandria di Cima da Conegliano. Tiziano è protagonista anche alla National Gallery of Scotland di Edimburgo, con Diana e Atteone e Diana e Callisto (figg. 34 e 35), “poesie” ideate dal 1556 al 1559 per Filippo II di Spagna: un prestito del Duca di Sutherland. Che aveva pure una Madonna con Bambino e santi di Lorenzo Lotto; una Deposizione di Cristo nel sepolcro di Jacopo Tintoretto, 89 32. Leonardo da Vinci, La Vergine delle rocce, forse 1483 – 86, Londra, National Gallery. 90 33. Tiziano Vecellio, Perseo e Andromeda, Londra, Wallace Collection. 34. Tiziano Vecellio, Diana e Atteone, tra il 1556 e il 1559, Edimburgo, National Gallery of Scotland. l’arte e il “grand tour” l’inghilterra davvero assetata di dipinti veneziani 31. Raffaello Sanzio, La Madonna Ansidei, forse 1505, Londra, National Gallery. rubata, ricorda Ridolfi, dalla terza cappella sinistra di San Francesco della Vigna, dove rimane la centina con l’angelo; e, di nuovo di Tiziano: la Vergine con il Bambino e santi, Le tre età dell’uomo, citato da Vasari nel 1568 e passato per Cristina di Svezia, e la Venere Anadiomene (fig. 36). Y E 24 tele di Canaletto (acquistate per 188 sterline da Joseph Smith) arredavano, fino al 1800, la casa del duca di Bedford a Bloomsbury; suoi disegni erano anche da Thomas Monro, un medico specialista in malattie mentali, e dal suo vicino John Henderson, ad Adelphi; una stanza ne era piena a Howard Castle (fig. 37); 31 sue acqueforti, con importanti disegni, a Stourhead, da sir Richard Colt Hoare. Altri suoi quadri, poi, da William Beckford e dal conte di Ashburnham (La riva degli Schiavoni guardando verso Ovest è oggi al Sir John Sloan’s Museum di Londra); o da sir George Beaumont (il Cortile del tagliapietre è oggi alla National di Londra, fig. 38). Sono solo alcuni dei mille nomi possibili. Opere che Turner aveva certamente ammirato e, su lui ed altri vedutisti inglesi, hanno esercitato non poca influenza. Y Di tele veneziane era ricco anche James, il primo Duca di Hamilton: suo intermediario era il visconte Basil Feilding, cognato e ambasciatore a Venezia verso il 1630. Compera quadri del mercante Bartolomeo della Nave, del procuratore Michele Priuli e del pittore-sensale Nicolò Renieri; assembla una collezione tanto meravigliosa che supera in alcuni casi quella del re Carlo I, alla cui corte era dei più influenti. Sue erano la Donna nuda allo specchio di Giovanni Bellini; la Laura, i Tre filosofi e l’Adorazione dei pastori di Giorgione; Cristo e l’adultera e Susanna e i vecchioni di Tintoretto; la Madonna con il Bambino e i santi Nicola di Bari, Anastasia, Orsola e Domenico (“Pala di S. Cassiano”) di Antonello da Messina e vari Tiziano, tra cui 91 92 36. Tiziano Vecellio, Venere Anadiomene, Londra, National Gallery. dese, Daniel Nys, che vive a Murano; del lotto fanno parte anche frammenti delle collezioni Vendramin, Contarini e Grimani; i Gonzaga possedevano il palazzo dell’attuale Casinò. La vendita deve restare riservata: ne va del buon nome del casato; e le trattative sono complesse. Con i Gonzaga erano già in rapporti Thomas Howard, conte di Arundel, e sua moglie; e anche l’architetto Inigo Jones. Da qui prendono il volo i Cesari, dipinti da Tiziano per Federico II Gonzaga (alla cessione dei quadri di Carlo I Stuart, andranno a Filippo IV di Spagna e bruceranno poi nell’Alcazar); la Morte della Vergine di Caravaggio (ora al Louvre); la Toletta di Venere di Guido Reni e l’Educazione di Amore di Correggio, che sono alla National Gallery di Londra; i Trionfi di Cesare di Mantegna, nelle collezioni reali inglesi a Hampton Court, per limitarci a pochi casi. E una curiosità riguarda il fallimento di Nys: la sua casa viene ispezionata e si scopre che, un anno dopo la partenza delle opere, nel 1631, possedeva ancora quadri ormai del re inglese; anche quattro Tiziano (una Maddalena e una Lucrezia tra loro) e un Triplice ritratto di Lorenzo Lotto, forse quello di orefice oggi Vienna, con una Donna in abito verde di Raffaello: partono per Londra sulla nave Assurance appena il 6 agosto 1632, lo ha raccontato Leandro Ventura in VeneziAltrove 2007. Y Tra le opere cedute al re inglese attraverso Nys c’è anche l’Adorante, bronzo del IV secolo a.C. alto 119 cm, ora tra i vanti dell’Altes Museum di Berlino. All’arrivo, è «il più importante pezzo d’antichità» nella capitale tedesca, già desiderato (invano) da Isabella d’Este, disposta a pagare anche «1.000 corone d’oro, e 300 d’entrata», di rendita annua; tra i più apprezzati da Johann Joachim Winckelmann. Per secoli, è l’unico bronzo greco noto salvatosi dal naufragio del tempo. Scoperto nel 1503, scavando le mura di Rodi, è donato ad Andrea Martini, setaiolo d’origini lucchesi che abita ai Carmini, autorevole cavaliere gerosolimita- l’arte e il “grand tour” l’inghilterra davvero assetata di dipinti veneziani 35. Tiziano Vecellio, Diana e Callisto, tra il 1556 e il 1559, Edimburgo, National Gallery of Scotland. la Madonna con il Bambino più nota come la Zingarella, la Violante, Madonna con il Bambino e i santi Stefano, Girolamo e Maurizio, Ninfa e pastore, oltre a Veronese, Bassano, Lotto. Ma quando divampa la guerra civile, il duca imballa troppo tardi seicento casse: sono intercettate, tutto confiscato, lui messo a morte nel 1649. Buona parte della collezione è acquistata dall’arciduca Leopoldo Guglielmo, governatore dei Paesi Bassi, e finirà poi a Vienna, al Kunsthistorisches Museum. Insomma, per la Gran Bretagna passa parecchio tra il meglio della pittura veneziana, e qualcosa d’importante anche fugge. Y Ma di tutti i diplomatici inglesi a Venezia, il più importante è certo il console Joseph Smith. Arriva nel 1700, a 18 anni, e ci rimane fino alla morte, 60 anni dopo; è console dal 1742. Di Canaletto era l’esclusivista; però vendeva anche per conto di Marco e Sebastiano Ricci, di Francesco Zuccarelli e Rosalba Carriera, tra le massime ritrattiste a pastello. Eppure, anche se Canaletto gli dedica l’unica serie d’incisioni pubblicata, un suo ritratto non esiste. Peccato. Perché «nessuno straniero ha avuto ruolo così multiforme nella vita culturale di Venezia per un periodo così lungo» (Pomian). Cede a Giorgio III, per 20 mila sterline, l’intera collezione nel 1752; e a lui tre anni dopo, per 10 mila, i manoscritti e i libri, fondamento della British Library. Ma inizia una nuova raccolta d’arte che, alla morte, serviranno 13 giorni di aste per esitarla tutta. Tra i Canaletto venduti al re, anche un Interno di San Marco, che è dei suoi pochi dipinti notturni. Ma a comperare, sono in tanti: tra loro, il Conte di Fitzwilliam, il Duca di Leeds, il Conte di Carlisle. Y Per le lagune transita, in gran segreto, anche una delle cessioni più misteriose di sempre, quella della collezione Gonzaga, venduta a Carlo I Stuart: 90 dipinti e 200 sculture; Tiziano, Raffaello, Correggio, Mantegna e altri. Ne è intermediario un olan- 93 38. Antonio Canal detto Canaletto, Campo San Vidal e Santa Maria della Carità, o Il laboratorio del tagliapietra, 1725 circa, Londra, National Gallery. 94 l’arte e il “grand tour” l’inghilterra davvero assetata di dipinti veneziani 37. Due delle quattro pareti della Canaletto Room all’Howard Castle. no. Lo ammira Pietro Bembo; lo esalta Pietro Aretino, che, senza fondamento, lo accredita a Prassitele, o a Fidia. Lorenzo da Pavia, agente di Isabella d’Este, le scrive: «Non vidi mai più bella cosa». Ha almeno 16 proprietari, in nemmeno 500 anni; un paio di volte, tanto era appetito, è anche bottino di guerra. Passa per Nys; per Nicolas Fouquet, sovrintendente alle Finanze nel governo del cardinale Mazarino; per Eugenio di Savoia, il principe del Liechtenstein, Federico di Prussia nel castello di Sans Souci, a Potsdam; lo rubano prima Napoleone, poi i russi dopo la II guerra: fino al 1958, è a San Pietroburgo. Y E chiudiamo con La famiglia di Dario ai piedi di Alessandro (fig. 39). Goethe nota nel Tagesbuch, a ottobre 1876: «Ho ammirato il migliore e più fresco quadro veneziano»; Paolo Veronese lo crea per la famosa famiglia dei Pisani; sta a Ca’ Pisani Moretta, sul Canale; grande 4,75 per 2,36 metri, è di prima del 1568, e sotto un soffitto affrescato da Tiepolo; per Ruskin, è «il Veronese più prezioso al mondo, e praticamente senza prezzo». Ma si sbaglia: il 14 luglio 1857 costa 13.650 sterline; 17.445 napoleoni d’oro, o 354.900 lire del tempo (oggi, sarebbero un milione e mezzo di euro). Li sborsa la National Gallery di Londra all’ultimo erede, Vettor Zusto 39. Paolo Caliari detto Veronese, La famiglia di Dario ai piedi di Alessandro, Londra, National Gallery. (forse, solo di nome), conte (austriaco) di Bagnolo. È ricco, non ha bisogno di soldi; ma, morto l’unico maschio, gli restano Cornelia, Laura e Beatrice, tre figlie sposate; e perché «non quistionino su questo quadro indivisibile», vende il capolavoro che ogni viaggiatore ammirava, e svende l’orgoglio di famiglia. L’ultima curiosità: Claudia Terribile scopre nel contratto che parte del prezzo, 1.650 sterline, il 12 per cento, va ai domestici, «per compensarli della cessazione delle sportule», le mance dei visitatori. In loco resta la cornice, esclusa dalla vendita: inquadra la copia del dipinto di tal Francesco Minorello, del 1656; ancora nel 1870, il locale era noto come «la stanza del quadro», anche se, da 20 anni, “il” quadro non c’era più. Sic transit gloria mundi. 95 letti, cassapanche e comò, come nel novecento gli inglesi si rifanno l’arredo l’analisi da venezia non si esportavano unicamente i capolavori Isabella Cecchini 1. Un celebre manifesto turistico veneziano datato 1920. Y In appena due mesi, settembre e ottobre 1926, vengono lasciati partire per Londra quattro divani, sette comò, trenta poltrone (alcune intarsiate o dipinte), due letti, cinque vasi in legno, quattro cassapanche, diciannove tra tavoli e mezzi tavoli, quindici tavolini, trentaquattro «mobiletti» e sedici mobili di vario genere, due «credenze antiche», quattro cassapanche, una consolle, dieci scatole di legno o paglia, cinque cornici, un armadio, sedici torciere, due specchi, una madia, ventuno sedie, un lampadario, due porte, quindici dipinti, duecento incisioni, un numero ampio di vari oggetti in legno e ferro, diversi pezzi di stoffa, e una scultura. Tutti gli oggetti possedevano un’origine “antica”. Il noioso elenco è infatti tratto da una trentina di dichiarazioni presentate agli ispettori dell’ufficio esportazione di Venezia, perché rilasciassero l’indispensabile permesso, e li autorizzassero a raggiungere i legittimi proprietari, per lo più in treno via Modane (un paio sceglievano Chiasso), per imbarcarsi poi a Calais. I due mesi sono stati scelti più o meno a caso; ma altre cernite, per periodi diversi, confermerebbero lo stesso profluvio di mobilio e oggetti vari, che da Venezia (come dalle principali città italiane) prendeva la via dell’estero, indistintamente. Ovviamente, non servivano licenze per gli oggetti contemporanei, né per i vetri del tempo, industria sempre rimasta assai fiorente a Venezia (figg. 2 e 3). Y La lettura delle dichiarazioni per la esportazione di oggetti e opere d’arte antica (una categoria elastica, che dal tardo Ottocento include anche le opere di artisti “moderni” purché defunti) restituisce innanzitutto il conflitto tra la debole tutela attuata dallo Stato, nonostante le fatiche dei funzionari locali, e la forza del mercato internazionale. E conferma anche la vitalità di alcuni settori industriali non eccessivamente considerati, quali quello del mobilio “in stile”. Se per tali prodotti di alto artigianato era sufficiente rivolgersi all’ufficio per ottenere un semplice nulla osta, trattandosi di oggetti realizzati in tempi assai re- 97 da venezia non si esportavano unicamente i capolavori 2. Antonio Salviati e Giuseppe Barovier, vetri veneziani in girasol ispirati a modelli antichi, ultimo quarto del XIX sec., Murano, collezione Emilio Barovier. 3. Vittorio Zecchin, Coppa Vestali in vetro soffiato decorato a smalti da Vittorio Gazzagon, 1919, Gardone, Vittoriale degli Italiani. 98 centi, non dimentichiamo che l’industria delle copie (se non dei falsi) era altrettanto fiorente; quanto, oggi è difficile stimarlo. Comunque, dopo l’Unità d’Italia, a Firenze e Roma, due centri nodali del turismo facoltoso, la maggior parte delle licenze concesse per l’esportazione interessa proprio gli oggetti moderni. Enrico Stumpo ha messo in luce come nei primi sei mesi del 1886 l’ufficio di Roma ha emesso 823 licenze, che radunavano più di ventiseimila lire di oggetti antichi; ma gli oggetti moderni sommavano a un milione e mezzo di lire. E non sappiamo quanti falsi possano esser finiti tra le opere “antiche”, né (ovviamente) quanto sia fuggito di nascosto. Ma torniamo alla tutela. Sia il ministero della Pubblica Istruzione (tra i cui oneri vi era la cura del patrimonio artistico italiano), sia altri enti cui il ministero chiedeva una sorta di prelazione sulle più importanti opere in vendita, possedevano scarsa capacità di manovra per l’esiguità dei fondi a disposizione, o per il frapporsi della magistratura, che negava le leggi del nuovo stato a favore di quelle dei vecchi stati; e dopo qualche inutile trattativa, le opere prendevano inesorabilmente la via delle grandi città europee, o americane. Famoso era stato lo scandalo della Madonna del libro di Raffaello (ora a San Pietroburgo, Ermitage), al centro di un vittorioso ricorso presentato dal conte Conestabile della Staffa che aveva ottenuto l’applicazione delle leggi pontificie del 1802, e così il dipinto, inizialmente bloccato, era stato venduto all’imperatrice di Russia per 310 mila lire in oro (fig. 4). Per non dire degli anni attorno a cui Venezia perde l’indipendenza: nel 1850, la vendita in Russia dell’intera collezione Barbarigo della Terrazza, 106 dipinti; nel 1876, quella del Veronese ex Pisani a Londra, e tanto si potrebbe ancora aggiungere. Gli episodi così eclatanti, forse non erano molti; ma lo stillicidio del patrimonio artistico era 100 5. Il manifesto della prima Biennale, organizzata a Venezia nella primavera-estate del 1895. fosse divenuta un fatto riconosciuto. A proposito di due antiquari prussiani, che anche nel Veneto stavano cercando di acquistare dipinti antichi nelle chiese, richiedeva un’attivissima cooperazione e sorveglianza, in particolare da parte dei prefetti. «Sotto tre aspetti diversi l’azione della autorità giudiziaria può essere in questo argomento provocata», continuava il procuratore. Innanzitutto, quando «si tratti di refurtiva o di oggetti in qualunque modo sottratti ai legittimi proprietari, o trafugati ai corpi morali specialmente ecclesiastici anche dai membri di essi per eludere gli effetti delle leggi di soppressione», che nel 1866 avevano abolito diverse c o n g re g a z i o n i religiose, avocandone il patrimonio. In secondo luogo, «quando si tratti di quadri, oggetti di belle arti antichi o moderni, oggetti di pregio o valore qualsiasi che senza l’autorizzazione del governo» fossero stati venduti, e si doveva allora procedere al sequestro senza indugio. Infine, quando «si tratti di quadri, oggetti di belle arti o simili di artefici non viventi, che venissero destinati all’esportazione in onta al divieto qui tuttora vigente in forza di parecchie disposizioni legislative e regolamentari», e si pregiava di ricordare le più importanti, databili (per il regno lombardo-veneto) almeno dal 1819. «Delle quali disposizioni, la sostanziale è scritta nell’articolo 2 della notificazione governativa 1819 così concepita. Qualora venisse scoperto che si tentasse qualche clandestina esportazione di tali oggetti (quadri, statue, antichità, collezioni di monete, incisioni, manoscritti rari, codici e prime edizioni in generale di tali oggetti d’arte) saranno i medesimi confiscati e se riuscisse di rilevanza che ne fossero stati clandestinamente estratti, sarà assoggettato il contravventore ad una multa equiva- l’analisi da venezia non si esportavano unicamente i capolavori 4. Raffaello Sanzio, Madonna e il Bambino leggenti, o Madonna del libro, o Connestabile, San Pietroburgo, Ermitage. continuo. Per limitarsi a un caso veneziano, nel 1873 era giunta ai funzionari delle Gallerie dell’Accademia di Venezia un’istanza firmata da Giuseppe Berra, abitante a San Tomà in palazzo Balbi. Berra aveva messo insieme una raccolta di trecento quadri, di cui tre (da lui nientemeno attribuiti che a Domenichino, Paolo Veronese e Jacopo Tintoretto) avevano ricevuto un’allettante proposta di acquisto. Magnanimamente, desiderava donarli allo Stato, purché gli fosse permesso di fare una lotteria della sua collezione (da lui valutata un milione di lire), che così non sarebbe stata dispersa. In caso contrario, naturalmente, il proprietario era costretto a privarsene, «tentando di realizzarne l’importo mediante vendita a privati anche forestieri, o meglio ancora esportandola in una delle grandi piazze d’Europa là dove la ricerca degli oggetti d’arte è più viva, gli aspiranti all’acquisto sono più numerosi, e torna perciò più facile di raggiungere lo scopo che per le circostanze peculiari in cui versa lo scrivente ha dovuto contro sua voglia prefiggersi». È abbastanza facile pensare che l’istanza non servisse che a facilitare il rilascio dei permessi di esportazione. Non è chiaro come sia andata a finire; certo, di questa raccolta, lo Stato non acquistò nulla. Y La repressione del traffico illegale di opere italiane coinvolgeva i prefetti, a capo delle commissioni che periodicamente rilasciavano i permessi d’esportazione. A gennaio 1873, una lettera del procuratore generale della corte d’appello di Venezia metteva molto chiaramente in luce come la tutela delle opere d’arte 101 6. Il manifesto della II Biennale d’arte internazionale; per l’Inghilterra, partecipano anche Alma Tadema ed Edward Burne Jones. 7. Alma Tadema, Autoritratto, datato 12 novembre 1896 ed esposto nel 1913 alla Royal Academy di Londra, Firenze, Galleria degli Uffizi. commissioni delle locali accademie di Belle arti, le quali avevano da tempo il compito di controllare – seppure blandamente – che non uscissero illegalmente dai confini opere particolarmente importanti, tanto che talvolta i membri di tali commissioni si trovavano in esplicito contrasto con i funzionari incaricati. Di fatto, come ricorda Andrea Emiliani, si verificò una vera e propria «vacanza legislativa» nella tutela almeno sino al 1902 (anno di promulgazione della prima vera legge dell’Italia unita): una vacanza lunga, confusa, «fitta di progetti e disegni – morti sul nascere o prima ancora», e soprattutto dibattuta circa la struttura amministrativa da assegnare al servizio di tutela e salvaguardia. Non va dimenticato che in questi decenni la storia dell’arte si afferma come disciplina autonoma, e fattivamente utile alla creazione di una tutela italiana, basti ricordare l’esempio di Adolfo Venturi. Y Le vicende legate alla esportazione di opere e oggetti sono – come si è ricordato – interesse (per quanto debole) dei governi preunitari almeno dal XVIII secolo, e in qualche caso molto precedenti. L’Italia unitaria aveva continuato ad occuparsene con il sistema delle accademie di Belle arti, ovvero con la convocazione di una commissione nella quale (presente anche l’intendente delle finanze per la riscossione della tassa) un gruppo di “esperti” (che quasi sempre collimavano con i docenti di pittura) decideva sul caso in questione. Tuttavia, un deciso passo in avanti avviene nel 1896, con l’istituzione di appositi uffici (e la conseguente predisposizione di formulari da riempire) dalla Direzione Generale delle Belle arti. L’ufficio di Venezia inizialmente l’analisi da venezia non si esportavano unicamente i capolavori lente al doppio del valore dell’oggetto portato fuori dello stato». Non è dato però di sapere con quale e quanto successo. Y Nel periodo immediatamente successivo all’Unità, poche persone competenti nell’amministrazione centrale erano in grado di gestire un tema complesso quale la tutela del patrimonio artistico e la conservazione di antichità e collezioni, pur se tra i funzionari si contavano personaggi del calibro di Giovan Battista Cavalcaselle. Nei primi anni, i circa sessanta dipendenti che formavano l’ufficio in seguito denominato Direzione generale delle antichità e belle arti erano per lo più funzionari di origine piemontese, di sicura competenza amministrativa, ma un po’ scarsi quanto a sapere artistico. Vi era tuttavia la più longeva esperienza di tutela attuata dai diversi stati italiani (con esiti diversi), tra cui Roma fornisce probabilmente l’esempio migliore, con l’editto del cardinal Pacca (1820) a fare da apripista per i provvedimenti successivi. E vi era l’azione delle 103 8. Ditta Nara, Molo e Riva degli Schiavoni dalla Dogana, fotografia di fine Ottocento. 104 aveva sede a Palazzo Ducale ma presto è trasferito presso le Regie Gallerie di Venezia (le attuali Gallerie dell’Accademia), dove al primo piano si predispone un locale in cui antiquari e spedizionieri facevano recapitare le casse di oggetti: per la regolare licenza, e per il versamento della dovuta tassa. L’ufficio si occupava sia delle esportazioni definitive, sia di quelle temporanee, sia della esportazione di oggetti d’arte “moderni”. Sono gli anni in cui nasce anche la Biennale (1895, fig. 5) e Venezia trova nuova linfa, nuovi viaggiatori e nuova arte; nel 1897 (fig. 6), il padiglione inglese della II esposizione ospita anche Alma Tadema ed Edward Burne Jones (fig. 7); il bacino di San Marco è tanto pieno di gondole e sandolini, che il rischio gli scontri aumenta a vista d’occhio (fig. 8). Y I compiti degli uffici venivano assegnati al personale delle Soprintendenze. A capo dell’ufficio veneziano si trovava il direttore delle Gallerie; a partire dalla sua istituzione, il ruolo era stato ricoperto da Giulio Cantalamessa, cui nel 1906 era subentrato Gino Fogolari, entrambi personalità di grandissimo spicco nel mondo degli studi storico-artistici dell’epoca. Ma era in realtà il conte Giuseppe Soranzo a sbrigare la gran parte del la- l’analisi da venezia non si esportavano unicamente i capolavori 9. Le osservazioni e la firma di Giuseppe Soranzo in calce a un permesso d’esportazione, Venezia, 26 maggio 1922. voro. Di famiglia patrizia, nato il 24 febbraio 1840, apparteneva a quella generazione di uomini e studiosi che (un po’ come Pompeo Molmenti, e Agostino Sagredo) avevano attraversato i tumultuosi cambiamenti storici. Era professore di anatomia presso l’istituzione accademica, e scultore di una certa fama; era stato nominato membro del collegio straordinario delle Gallerie nel 1897, con l’immediato incarico di reggere l’ufficio esportazione. Se tuttavia, inizialmente, il titolo era puramente onorifico, le sempre più gravose prerogative attribuite dal Ministero in tema di tutela avevano trasformato l’incarico in un onere burocratico assai gravoso; Soranzo aveva perciò rinunciato all’insegnamento e alla scultura per dedicarvisi completamente. Nel 1904, Giulio Cantalamessa, direttore delle Gallerie, ricordava come il buon funzionamento dell’ufficio dipendeva dal «fortunato concorso di parecchie buone volontà. Al Ministro, il mantenimento di quest’ufficio laborioso, intricato, oppressivo (perché gravido di minacciose responsabilità), non costa che lo stipendio del cavalier Conte Soranzo, il quale lavora indefessamente; compensato con cento lire al mese nominali, novantadue e centesimi in effetto»; per «l’ottimo conte Soranzo», Cantalamessa si spinge perciò a chiedere «uno stipendio meglio rispondente al valore dell’uomo, all’onestà e all’assiduità mirabili ch’egli dedica al suo dovere», 105 106 l’analisi da venezia non si esportavano unicamente i capolavori 10. Un manifesto turistico veneziano del primo quarto del Novecento. proponendo un compenso di almeno centocinquanta lire in via straordinaria. La questione verrà riproposta anche negli anni successivi, dato che Soranzo prestava servizio anche «in giorni e ore fuori dall’orario stabilito, per dare corso ai numerosi affari che gravano questo ufficio», rogando «le registrazioni, le relazioni, non solo per cotesto Ministero, ma anche per l’ufficio delle imposte», necessarie per calcolare la riscossione della tassa di esportazione. La questione di uno stipendio congruo per Soranzo, il quale aveva appunto una nomina puramente onorifica, non concorsuale, ma che sbrigava tuttavia la gran mole di lavoro, ritornava puntualmente. Così, nel 1907, il nuovo direttore delle Gallerie e dell’ufficio, Gino Fogolari, in una lettera al ministro perorava la causa del povero Soranzo e ne ricordava i meriti. «La perfetta conoscenza della città e degli uomini fanno del conte Soranzo, che per tutta la vita a Venezia si è occupato di arte e per le sue relazioni e per la sua gentilezza dei modi ha la possibilità di entrare in ogni più rispettabile casa, la persona veramente adatta a questo ufficio che vuole accortezza e prudenza perché affidato a chi non ha pratica si arresterebbe per ogni quisquiglia senza sapere usare energia quando occorre. Per tutto ciò la nomina definitiva del Soranzo ad Ispettore, mentre sarebbe un atto di giustizia, darebbe principio allo stabile assetto di questo ufficio di esportazione del quale l’importanza risulta dalla cifra delle operazioni fatte e dalle tasse che se ne riscuotono». Fogolari scrive que- 11. Per allettare i turisti, i souvenir spostavano perfino l’ambientazione della Ca’ d’oro. ste accorate righe il 2 giugno 1907; il 17 dicembre, giunge la sospirata nomina ad ispettore, con lo stipendio annuo di 2.500 lire a cominciare dal primo luglio 1907. Va notato che a quest’epoca una «vettura automobile» ne costava circa seimila, e i modelli di lusso fino a diecimila lire; lo stipendio di Soranzo non brillava perciò per prodigalità. E la questione era ancora lontana dal concludersi. A febbraio 1920, il Soprintendente Fogolari si rivolge ancora al Ministero: Soranzo – che ha 77 anni! – ne aveva maturati soltanto tredici di servizio. Malgrado l’età, è «uomo sanissimo e vigoroso, è di un’attività sorprendente, di una premura e di una diligenza, di una memoria superiore a ogni lode», e lo si propone per una pensione intera, che sarebbe riuscito ad ottenere soltanto con la sua messa a riposo, il primo gennaio 1935, un anno prima della morte. Y Sue, dunque, sono le firme che vidimano le registrazioni dei permessi, accompagnate talvolta da quelle degli ispettori supplenti (Nicolò Barozzi e Augusto Sezanne all’inizio, poi Giuseppe Fiocco, storico dell’arte e celebre critico, e i meno noti Cesare Ruga, Angelo Conti, Ugo Nebbia), e talvolta da quella del direttore. Sue sono anche le osservazioni che appaiono sporadicamente nel verso del modulo (fig. 9). Nel maggio 1922 ad esempio, in merito ai pezzi smontati di un balcone in pietra, precisò 107 l’analisi da venezia non si esportavano unicamente i capolavori 12. Un ricordo di viaggio liberty, in legno traforato, con la piazzetta e l’isola di San Giorgio. trattarsi «di pietre di disfacimento unite e restaurate che non hanno importanza alcuna», oppure che «i dipinti a tempera con disegni pompeiani sono cose di poco conto, i due a fiori sono bruttissimi, il cavallo di bronzo il suo meglio è una buona patina», giudizio a dir poco tranchant verso i due colli di oggetti presentati dalla ditta Minerbi & Co. per New York, e valutati 3.200 lire. Y Il carico di lavoro delle commissioni giudicatrici sulle esportazioni era in crescita sostanziosa già a metà dell’Ottocento, quando in Italia iniziavano ad affacciarsi i compratori americani che talvolta facevano concorrenza agli emissari dei grandi musei europei. A Venezia, il periodo coincideva con una costante espansione delle presenze turistiche (figg. 1 e 10), che già Agostino Sagredo segnalava in aumento a ridosso della metà secolo: il flusso di stranieri, secondo Sagredo che ne aveva tratto informazione da fonte fidatissima, passava dalle 4.662 presenze del 1836, alle 12.610 del 1843. E Venezia si stava in effetti identificando con un topos turistico che a differenza di altre città, quali Firenze e Roma, non aveva molta fruizione culturale dietro di sé. I salti di qualità nell’organizzazione e razionalizzazione dei servizi turistici iniziarono ad essere evidenti soltanto a fine secolo: 13. John Singer Sargent, Interno del Palazzo dei Dogi, 1898, Collezione dei conti di Harewood, Harewood, House Trust. quando la maggior parte di tali servizi viene sottoposta alla regolamentazione comunale, per contenere (se non per escludere) il crescente fenomeno dell’abusivismo e della frode. E se il turismo trascina con sé un indotto dai contorni difficilmente delineabili, con l’industria dei souvenirs (gondole, maschere, merli, mosaici, vetri, cartoline, figg. 11 e 12), cresce anche il numero di quanti hanno mezzi, cultura o entrambi per ambire a portare con sé, oltre i confini nazionali, anche qualcosa di “antico”. A fronte di organizzazioni sempre più preparate a combattere frodi e illegalità anche nel campo della tutela, come si è ricordato, anche il numero di registrazioni presentate all’ufficio competente cresce, passando dalle circa quattrocento richieste dell’anno fiscale 1898-1899 alle quasi mille del 1925-1926. Ed è in quel periodo che John Singer Sargent regala alcuni scorci dei meno usuali (figg. 13 e 14). Y Cambia la stessa provenienza degli acquirenti (fig. 14): a fine XIX secolo, la fanno da padroni l’Austria e la Germania con l’Inghilterra; un quarto di secolo più tardi, gli Stati Uniti e la Francia, ma sempre con l’Inghilterra. È palese la scomparsa del- 109 1898 1922 14.Valori complessivi degli oggetti di “arte antica” esportati da Venezia, per destinazione, sulla base delle dichiarazioni presentate nel 1898 e nel 1922. gura di «moro», tutto in marmo. Nello spazio del modulo di richiesta, sotto la voce «considerazioni che indussero l’ufficio a concedere l’esportazione, senza riferirne al Ministero o perché facesse uso del diritto di prelazione o ne proibisse la vendita», Augusto Sezanne verga: «Sculture moderne pitture restaurate, rifatte e di mediocre valore». Come si vede, ancora una fabbrica dell’immaginario artistico italiano i cui contorni continueranno a sfuggirci. Commenti simili («di nessun valore artistico», «oggetti affatto di arte industriale con scarso merito artistico», «oggetti in maggior parte di fattura moderna» e così via) si rincorrono in tutte le dichiarazioni di fine Ottocento esaminate. Alla ditta Dondeswel and Sons di Londra, l’antiquario Dino Barozzi, ancora a novembre 1820, spedisce un ritratto di uomo su tela acquistato dalla contessa Brazzà e valutato 350 lire (gli ispettori arrotondano verso l’alto); il commento è questa volta di Giulio Cantalamessa, che scrive trattarsi di un dipinto della fine del secolo precedente, «di fattura larga e simpatica, trattato decorativamente ma non di pregio tale da impedirne l’a- l’analisi da venezia non si esportavano unicamente i capolavori 110 la Russia e di altri paesi dell’Est risucchiati dalla Rivoluzione d’Ottobre, e la contrazione dei paesi tedeschi successivamente alla disgregazione dell’impero austroungarico. Il peso specifico dei compratori statunitensi cresce notevolmente, come anche quello dei paesi di lingua fiamminga, danese, finnica. Sostanzialmente stabile la Francia, ma si riduce l’impatto dei compratori britannici. Y Gli inglesi: parte di quanti avanzano richieste che cosa acquistano a Venezia? Abbiamo considerato i permessi per esportare gli “oggetti antichi” in due brevi periodi di analisi: il ricordato anno fiscale 1898-1899 ed i primi anni venti del Novecento. Non vi compaiono collezionisti importanti; e gli acquisti, alla luce di questa fonte particolare, assomigliano invece al desiderio di portarsi via (quasi) un pezzetto di Italia, perché immaginiamo che la gran parte di quanti presentano all’ufficio appartenessero all’esercito dei turisti. Ecco dunque, il 18 novembre 1898, il capitano Litterdale di Londra. Non lui fisicamente; all’ufficio per l’ispezione si presentano gli antiquari che si occupano poi di inoltrare i pezzi, oppure le compagnie di spedizione. Il capitano Litterdale ha acquistato (da un antiquario di Verona, Tito Tedeschi), un comò intarsiato e una croce di metallo; l’ispettore Augusto Sezanne commenta lapidario: «La croce è una grossolana imitazione, il cassettone di lavoro ordinario». Un paio di settimane prima, sono presentate cornici, sedie, un tavolo, due fanali da gondola e altri oggetti, sempre destinati al capitano. Valgono seicento lire, segno che non si tratta di grandi preziosità. Il commento di Nicolò Barozzi, che li lascia partire senza problemi, ne attribuisce una qualità artistica che non supera il «mediocre», trattandosi di oggetti «in gran parte imitazione dell’antico». Anche il signor Mackenzie, di Londra, lo stesso giorno, appare aver acquistato quattro sedie e due canapè di legno dorato; «mobili affatto comuni», scrive Barozzi. Y Più interessante è la richiesta inoltrata da una delle ditte più attive in laguna nel mercato antiquario e soprattutto nella produzione di souvenirs e mobili di pregio, la Venice Art Company & Co. Il destinatario è la filiale londinese della Salviati & Jesurum, altri due nomi di grosso calibro; i pezzi sono valutati complessivamente cinquemila lire, una somma abbastanza alta. Il 12 novembre 1898, si chiede di esportare diciannove quadri ad olio con cornici, due bassorilievi e due statue con base in marmo, un busto e due putti, un busto di Caracalla, due cariatidi, e una fi- 111 Desidero ringraziare Enrico Noè e soprattutto Giulio Manieri Elia, entrambi della Soprintendenza al Polo Museale Veneziano, per l’incoraggiamento e l’aiuto. La raccolta delle informazioni sui permessi di esportazione a Venezia è stata condotta all’interno del progetto Aristos, curato per la Soprintendenza da chi scrive sotto la supervisione di Giulio Manieri Elia. 15. La tipologia degli oggetti esportati da Venezia nel 1898 e nel 1922, confronto nei mesi di maggio, luglio e novembre di ciascun anno, in base alle dichiarazioni presentate. 112 sporto». Y A venti anni di distanza, e dopo una guerra mondiale, a scorrere le dichiarazioni di esportazione si ricavano impressioni analoghe, pur se i commenti degli ispettori si fanno sempre più rari. Soprattutto, prendono la via dell’estero i mobili; ma non mancano oggetti di vario tipo (fanali, lampade, scatole), e per non annoiare, ricordiamo come esempi soltanto i tre permessi richiesti dalla ditta Guido Minerbi e da Giorgio Cesana per una lunga lista di mobili, sedie, tavoli e tavolini, indirizzata a Thornton Smith (forse anch’egli un antiquario) a Londra, e valutati dodicimila lire. Non sono soltanto gli inglesi ad acquistare mobilio; anzi, molti stranieri a Venezia vi si dedicano. Mobili, dipinti e oggetti di arredamento restano i pezzi più richiesti, stando al numero di domande che li contengono (fig. 15); e va notata la riduzione del numero di “elementi architettonici” (vere da pozzo, balconi e scale in pietra, cornici di finestre) esportati nel 1922, rispetto a un quarto di secolo prima. Y Come conclusione, un ennesimo caso. Il 7 luglio 1922, lo spedizioniere Giuseppe Guetta si rivolge all’ufficio per un dipinto a olio, stimato 1.500 lire e destinato a Londra, alla Kuvedler & Co. Soranzo scrive che è una «mediocre copia da Francesco Guardi», il cui soggetto era stato anche riprodotto in incisione; il dipinto poteva perciò prendere tranquillamente la via l’editoriale perché questo almanacco dell’estero. Una copia di Guardi: quale prezzo per un turista inglese che aveva soggiornato a Venezia. 113 il mercante vende ai britannici un migliaio di opere; e al residente taglia un tiepolo Rosella Lauber 1. Bartolomeo Vivarini, Morte della Vergine, New York, The Metropolitan Museum of Art. Y Alla vigilia di Natale 1784, il veneziano Giovanni Maria Sasso scrive al Residente inglese: «Intesi ancora del piccione dal quadro del Tiepolo e lo taglierò, ma lei me lo dice in un modo come se fosse da mangiare e con avidità». L’emblematica notazione si rintraccia in dense lettere conservate nella British Library di Londra e recentemente rinvenute, indirizzate da Venezia a «Sua Eccelenza il Signor Giovanni Strange Ministro Residente di Sua Maestà Britannica presentemente in villa di Paese», in particolare nel 1781 e 1784-86. Il destinatario, John Strange (1732-1799), naturalista e appassionato d’arte, è il penultimo Residente britannico a Venezia, dal 1773 al 1790; il mittente, Sasso, artista «coltissimo» e restauratore, lo affianca dal 1774 al 1786 come «accomodatore de’ suoi quadri ed agente e direttore della numerosa sua galleria». Se il console Joseph Smith (che a lungo ambì alla Residenza), celebre collezionista e mecenate di Canaletto, fu definito il «mercante di Venezia», Sasso era invece noto come il «mercante degli inglesi», tanto fu intenso il rapporto con la clientela anglosassone, inclusi James Wright, predecessore di Strange, e Richard Worsley, l’ultimo Residente. Dal settembre 1774 al 3 aprile 1786, è attestata la permanenza ufficiale di Strange nella Serenissima, dove si sarebbe trattenuto fino all’ottobre 1786; oltre al palazzo in città, sceglie come “country house” una dimora immersa nel paesaggio veneto, villa Loredan a Paese, sulla via da Treviso verso Castelfranco (fig. 2). Y Nei fascicoli manoscritti con lettere e liste di opere riferibili a Strange, conservati nella British Library di Londra e che abbiamo recentemente rinvenuto, si riscontrano elementi anche sul “Trittico di Mestre” di Cima da Conegliano (ora diviso fra la Wallace Collection di Londra e il Musée des Beaux-Arts di Strasburgo; figg. 3 e 4), tali da consentire di precisare alcuni passaggi finora lacunosi, oltre a certificare committenza, datazione e prezzo per la sua celebre incisione di Antonio Baratti (fig. 5). Si introdurranno qui nuovi dati su centinaia di disegni e quadri già documenti novità su guardi e antichi maestri della collezione strange 115 2. Francesco Guardi, Villa Loredan a Paese, Oxford, The Ashmolean Museum, Western Art Drawings Collection, con iscrizione autografa di John Strange. 116 di Strange, inclusa la serie di vedute “di villa” di Francesco Guardi, accanto a due altre tele en pendant ora nella Frick Collection di New York. Si anticiperanno notizie su una costellazione di opere acquisite a Venezia dal Residente, tra cui pitture di Bartolomeo Vivarini, Antonello e Mantegna; Bellini e Crivelli; Giorgione, Tiziano, Tintoretto e Veronese; Bassano e Ricci; Rosalba Carriera, Carlevarijs, Canaletto e Tiepolo; numerosi dipinti furono imballati in casse spedite in Inghilterra; alcuni sovrapposti su telai, o arrotolati uno sull’altro, anche per eludere i dazi; centinaia di opere vennero battute in diverse aste e infine vendute. Y In merito al suddetto «piccione dal quadro del Tiepolo», subito dopo le festività, il 20 gennaio 1785, Sasso comunica di aver esaudito i desiderata del britannico e confessa una scelta senza precedenti: «Ho tagliato il piccione del Tiepolo e lo fodrerò prima di spedirlo ma per farlo proportionato mi è convenuto far di quelle cose che mai feci in vita mia, cioè mi convenne tagliare tre ditti del piede al povero Enea altrimenti il piccione veniva o mutilato o irregolare». La segnalazione rintracciata nelle lettere della British Library, significativa anche per ragionare sul soggetto della sfortunata opera di Tiepolo, costituisce un tassello che ora completa la vicenda introdotta da una missiva (edita da Mauroner, Haskell e Dorigato, dall’Epistolario Moschini nella Bibliote- documenti novità su guardi e antichi maestri della collezione strange 3. Giovan Battista Cima da Conegliano, Santa Caterina d’Alessandria; Vergine con il Bambino fra i santi Francesco e Antonio da Padova, Londra, The Wallace Collection (dal Trittico di Mestre). ca del Museo Correr), in cui Strange dichiara a Sasso: «Sono innamorato di quel Pigeone che cade col steccho, in quel Quadron grande di Tiepolo; ed assolutamente voglio che Ella mi lo tagli fuora col solo campo necessario, ma facendolo tirare in teleretto, mandandomilo poi colla Rosalba e Tiepolo di Padua; il buso poi del Quadron stroperà a suo tempo come che vorrà; ma intanto questo boccone tanto parlante di storia naturale mi lo voglio per me; ed il Quadron sarà di chi lo vorrà». In plausibile riferimento ai «Rosalba e Tiepolo di Padova», si rileva che il 24 dicembre 1784 Sasso scrive a Strange di avergli già spedito di Rosalba Carriera un ritratto della celebre scrittrice e drammaturga Luisa Bergalli, moglie di Gasparo Gozzi, «poetessa nostra e che traduce in versi Terenzio Plauto»; invece attende ancora il «modello Tiepolo, ma sarà forse per il mal tempo». Il 23 novembre 1784, Sasso informava: «Io non so se fecci bene o male comprai una testa di Rosalba dipinta a olio, ma bella assai con cornice dorata ed è una nostra poetessa cioè la Luigia Bergali Gozi» (un supposto Autoritratto di Rosalba, un tempo visibile a ca’ Rezzonico, è stato poi ritenuto un’immagine di Luisa Bergalli Gozzi; un suo ritratto a olio su tela è stato battuto da Christie’s a Londra nel 2007 come opera di scuola veneziana; lo si menziona già nella collezione Cernazai, a Udine, attribuito a Giovanna Carriera, sorella di Rosalba). Y Strange, richiedendo quel «boccone tanto parlante di storia naturale», richiama la sua vocazione di naturalista, che si intrec- 117 5. Antonio Baratti da Giovan Battista Cima da Conegliano, Trittico di Mestre, incisione. 118 6. Charles Philips, La famiglia Strong (la cosiddetta “The Churchill Family”), New York, The Metropolitan Museum of Art. Y John Strange nasce nel 1732 a Barnet e muore a Ridge, il 19 marzo 1799. Fra i quadri del Metropolitan Museum of Art di New York appare una «conversation piece» dipinta proprio nel 1732 da Charles Philips (Londra, 1703-1747), nota come «The Churchill Family» (fig. 6). Tra i personaggi, spicca la dama in veste azzurra, accanto alla figura in piedi in nero: costui è Edward II Strong (1676-1741), successore dello zio Thomas e del padre Edward I come «master mason» nella cattedrale di Saint Paul a Londra: anche una lapide ne eterna i nomi, come coloro che posero la prima pietra nel 1675, e l’ultima nel 1708, della nuova costruzione progettata da Wren. La dama in azzurro è Susan Strong, figlia di Edward II e dal 1722 moglie del giurista e politico John Strange (1696-1754, padre del Residente), insignito di cariche e onori, cavaliere e «Master of the Rolls»; negli Epitaphiana (1875), poco prima di quello di Lord Byron, si legge un epitaffio di sir John Strange, che gioca con humor sul termine strange (“strano”, in inglese): «Here lies an honest lawyer - that is Strange» (qui giace un uomo di legge onesto - che è Strange). Nella tela di Philips, Lady Susan Strange appare così nel 1732, l’anno di nascita del figlio John, il futuro diplomatico e appassionato di pittura veneta; sulla sinistra, appare la più anziana signora Strong vicino a due nipotine, nate da Susan; una, Mary, diverrà moglie di George Nares; il figlio Edward Nares nel 1797 sposa Charlotte Spencer-Churchill, figlia del quarto duca di Marlborough; da qui, l’intitolazione del dipinto, come da informazioni del discendente Oliver Nares nei Departmental files del Metropolitan Museum. Anche una Regata in «volta di Canal» e una Veduta con il Ponte dei Tre Archi a Cannaregio di Francesco Guardi, nella Frick Collection di New York (dono di Helen Clay Frick nel 1984), includono tra i possessori il reverendo Nares e Lady Henry Spencer-Churchill (poi Cecil Whi- documenti novità su guardi e antichi maestri della collezione strange 4. Giovan Battista Cima da Conegliano, San Sebastiano; San Rocco, Strasburgo, Musée des Beaux-Arts (dal Trittico di Mestre). cia con il colto milieu italiano, anche antiquariale, incontrato sin dal suo primo Grand Tour in Francia e Italia. In un successivo viaggio, Strange e la moglie (figlia di Davidge Gould) sono a Padova nel 1771, con altri collezionisti, il conte di Bute John Stuart e Lord Hervey, vescovo di Londonderry, insieme all’abate Alberto Fortis: l’autore di Viaggio in Dalmazia (1774) intraprende poi una nuova missione, con la supervisione scientifica di Strange. Nei carteggi, s’intercalano schizzi e immagini tracciati dal britannico, attento alla verità dei siti; anche da collezionista si dichiarerà «innamorato» di quattro sue vedute di Canaletto, di cui apprezza il primo periodo, «quando copiava esattamente». Nel 1785, commissionando due disegni a Guardi con le vedute «dell’Anconeta e del Casin della Giudecca», raccomanda a Sasso che risultino «non solo netti, bene finiti e compagni, ma anche coloriti esattamente come sono le cose costì», da unire ai «quadretti che se ne faranno». In un elenco di 245 lotti di opere di Strange messe in vendita a Londra dal 10 dicembre 1789, Guardi è presentato come artista ancora vivente, dapprima legato alla sfera d’attività di Canaletto, poi in grado di seguire una maniera personale e vivace, fra «spirito» e «verità». 119 7. Francesco Guardi, Villa Loredan a Paese vista di fronte, LondraMilano, Galleria Robilant-Voena. 120 te, Knoedler, Mrs. Rathbone Bacon, Henry Clay Frick, padre di Helen); come primo proprietario, annoverano John Strange «nel 1774-1786», gli anni veneziani. Y Fra le lagune s’incontravano molti “foresti” nel loro Grand Tour. In una lettera del 24 maggio 1777 (Bedfordshire and Luton Archives and Record Services) indirizzata a Thomas Robinson, barone Grantham e ambasciatore a Madrid, Strange accenna da Venezia a una missiva consegnata al principe russo Yousoupoff, presente per la Sensa. Menziona anche una cena con i duchi di Gloucester, intenzionati a trascorrere l’estate in Terraferma. La festa della Sensa, per l’Ascensione di Cristo, culminava nello Sposalizio del mare dal Bucintoro; piazza San Marco era teatro per 15 giorni di un’affollata fiera; proprio nel 1777, l’8 maggio, si inaugura l’allestimento progettato da Maccaruzzi, illustrato anche da dipinti di Guardi, compreso quello nel Kunsthistorisches Museum di Vienna. Un quadro simile, ma precedente, è nel Museu Calouste Gulbenkian di Lisbona, parte di una serie di quattro dipinti dalla collezione inglese dei conti di Camperdown, incluse una Regata «in volta di Canal», una veduta del Bacino di San Marco con la partenza del Bucintoro e una ideale del Canal Grande con il Ponte di Rialto secondo il progetto di Palladio mai realizzato (già raffigurato da Canaletto). Come si vedrà, Strange possedeva analoghi soggetti di Guardi, di cui fu importante collezionista. ti a un gruppo ora sparso tra Londra, Milano, New York, Chicago, Providence, Oxford, Rotterdam e Amsterdam, in collezioni pubbliche e private o in gallerie (figg. 2, 10, 11 e 12). Questa serie di “ritratti di ville”, un unicum nella ricca produzione guardesca, è stata finora riferita e datata per via di ipotesi al mecenatismo di Strange nei confronti di Guardi, cui Morassi, Byam Shaw e Haskell hanno dedicato fondamentali studi. Nuove carte attestano attribuzione, soggetti, committenza, prezzo d’acquisto e data del saldo dei dipinti e relativi disegni di Guardi, nel cui corpus i documenti e le date certe sono rari. Y Fra i Supplementary Strange Papers della British Library si riscontra infatti una lista manoscritta in inglese, intitolata «Note of Pictures bought at Venice from Mi(ch.)». La documentazione documenti novità su guardi e antichi maestri della collezione strange 8. Francesco Guardi, Villa Loredan a Paese vista da tergo, New York, collezione privata. Y Appena arrivato a Venezia, l’inglese rileva anche opere appartenute a Wright, «a caro prezzo coll’altra mobiglia di casa»; compra inoltre dipinti dalla vedova Smith (Elizabeth, sorella dell’ex Residente John Murray, sposata in seconde nozze dall’anziano console, quando ella era «una bella vergine sui quaranta»): Carpioni, Fetti, Lanfranco, Lazzarini, Liberi, i Ricci, Strozzi, Zuccarelli. Alla vita in città, accosta il soggiorno in campagna, a villa Loredan a Paese (figg. 7 e 8; i relativi progetti di Massari si datano al 1719 circa; fu quindi ceduta da Girolamo Antonio Loredan al marchese Giuseppe de Canonicis, che dovette affittarla a Strange). L’abitazione, come quella adiacente dei Pisani Sagredo detta Villa del Timpano arcuato (fig. 9), è nota soprattutto grazie a dipinti e disegni di Guardi appartenen- 121 10. Francesco Guardi, Giardino veneziano (cosiddetto “Giardino del Palazzo Contarini dal Zaffo”), Chicago, The Art Institute. 11. Francesco Guardi, Veduta attraverso il giardino di Villa Loredan a Paese, Oxford, The Ashmolean Museum, Western Art Drawings Collection. 12. Francesco Guardi, Giardino veneziano (cosiddetto “Giardino del Palazzo Contarini dal Zaffo”), Oxford, The Ashmolean Museum, Western Art Drawings Collection. zecchini ciascuna). È possibile riconoscervi i celebri “ritratti di ville”, sinora ipotizzati dipinti e disegnati da Guardi per il Residente verso gli anni Ottanta del Settecento; per delimitare la datazione, sono state osservate anche le acconciature piumate, le coiffures dette panaches de plumes (in voga a Parigi dal 1774/75, lanciate da madame du Barry, diffuse a Venezia verso il 1776), l’esistenza di costruzioni circostanti (tra cui villa Pellegrini) e soprattutto i due viaggi dell’artista nel 1778 e 1782 verso la Val di Sole, per questioni amministrative della famiglia, originaria del Trentino. Y Le voci della Note of Pictures riferibile a Strange consentono finalmente di attestare il saldo nella data ora certa del 1778, oltre a precisare le cifre corrisposte per le vedute di Guardi, riconoscibili nelle «quattro ville», analoghe nelle misure, che compongono la serie definita unicum: Villa Loredan a Paese vista di fronte (Londra-Milano, Galleria Robilant-Voena; fig. 7) e Villa Loredan a Paese vista da tergo (New York, collezione privata; fig. 8), con in primo piano a sinistra due gentiluomini e un artista in mantello rosso, chinato su un grande foglio (ipotizzati come Strange e un amico, accanto allo stesso Guardi all’opera); Villa Pisani Sagredo a Paese o Villa del Timpano arcuato (collezione privata, on loan alla National Gallery di Londra; fig. 9) e il cosiddetto Giardino del palazzo Contarini dal Zaffo, a Venezia (Chicago, The Art Institute; fig. 10; la critica si è chiesta perché tale veduta di «one of the courtyard of the Palazzo Contarini dal Zaffo» fosse inclusa nel set, ritenendolo sinora non chiaro). Analogamente si può procedere per i relativi disegni, i grandi fogli alla Rhode Island School of Design di Providence e al Metropolitan Museum of Art di New York, all’Amsterdams Historisch Museum e all’Ashmolean Mu- documenti novità su guardi e antichi maestri della collezione strange 9. Francesco Guardi, Villa Pisani Sagredo a Paese o Villa del Timpano Arcuato, collezione privata (Londra, The National Gallery, on loan). permette di ricostruire anno dopo anno acquisti veneziani, attribuzioni e soggetti, oltre a rivelarne i prezzi, aprendo a riflessioni anche sul mercato dell’arte e sulle valutazioni dei pittori antichi e moderni. Dal 1774 al 1778, si registrano quasi 370 esemplari, riconoscibili fra quelli passati nella raccolta del Residente, a partire dal suo arrivo, quantificabili in un totale di 1.603,3 zecchini. Il documento è ancor più rilevante in quanto ci sembra redatto dallo stesso Strange: l’autore della lista, infatti, si esprime in prima persona quando descrive una veduta del proprio palazzo veneziano e del relativo giardino di Francesco Guardi, come pure un suo gruppo di dipinti e disegni che include inequivocabilmente vedute di «Paese» e della locale villa Pisani (anche fra le 436 opere di Strange della vendita londinese del 1799, tra i 15 Guardi appaiono due sue vedute «near Padua, Mr. Strange’s country set» e «a superb chateau in the environs of Padua», come poi nel 1800, ma segnate con il più diffuso toponimo di «Padua»). Nella Note of Pictures risultano elencati, nel 1778 e sotto il nome di Guardi: «View of back front Paese and 4 Drawings of D.° wiews» (10 zecchini); «View of Spinola’s in Venice» (6 zecchini); «View of Dolo» (2 zecchini); «Ponte Rialto of Palladio»; «of my Palace in Venice»; «of my Garden de D.°»; «of Paese Villa Pisani»; «of St. Michele di Murano»; «Best view of Paese»; «an upright on board» (queste ultime sette opere, 6 123 124 14. Francesco Guardi, Veduta di Borgo Valsugana, collezione privata, con iscrizione autografa di John Strange. tro di palazzo Surian Bellotto, la cui facciata prospetta il rio di Cannaregio (fig. 13). Y Se il giardino del palazzo veneziano, un unicum in Guardi, risulta riconoscibile in quello un tempo celebre alle spalle di palazzo Surian Bellotto, aprirebbero allora a ulteriori ipotesi le correlate indicazioni di «wiew of my Palace in Venice» e «of my Garden de D.°» riscontrate nel 1778 nella «Note of Pictures bought at Venice» riferibile agli acquisti veneziani di Strange (e in un’altra lista inglese si elencano «nella Library», «2 wiews of the House and Garden by F.° Guardi»). Si può riflettere infatti anche sui due citati pendants di sicura provenienza Strange nella Frick Collection di New York, la Regata in «volta di Canal» e la Veduta con il Ponte dei Tre Archi a Cannaregio, nota anche come «Ricevimento a Palazzo Surian»; ne esistono un disegno a Berlino e tre studi, uno a New York e due al Museo Correr di Venezia. Se correlabile alla «wiew of my Palace in Venice», anche la veduta Frick di Cannaregio troverebbe un terminus ante quem nel 1778. È stato poi notato come sia raro il soggetto raffigurante il Ponte dei Tre Archi e la Fondamenta con il palazzo Surian Bellotto (che nel 1743 ospita anche Montaigu con il segretario Rousseau e a lungo fu sede dell’ambasciata francese). Secondo Morassi, la tela Frick rappresenta un «capolavoro assoluto», «l’unica veduta del Guardi che noi si conosca con il Palazzo Surian a Cannaregio che fa centro della composizione», temi «che non hanno precedenti iconografici»: questi potrebbero meglio comprendersi ora, e contestualizzarsi, alla luce del fatto che in quella Fondamenta, in prossimità del Ponte dei Tre Archi e della calle dell’Anzolo, sarebbe stata ubicata la residenza cittadina del mecenate Strange. Anche una nuova lista di quadri disposti all’interno, come si vedrà, dettaglia stanze affacciate «sulla Fondamenta», o sulla calle, o sul «Giardino» (e in una missiva del 1786, Sasso cita anche una «notta delli quadri sopra documenti novità su guardi e antichi maestri della collezione strange 13. Lodovico Ughi, Pianta topografica di Venezia (1729), incisione, particolare con evidenziato il giardino retrostante palazzo Surian Bellotto, prospiciente il rio di Cannaregio, in prossimità del Ponte dei Tre Archi. seum di Oxford, compreso quello, probabilmente “a ricordo”, con iscrizione autografa di Strange, attento anche all’erba entro i cancelli: «View of the Seat of S.E. Loredano at Paese near Treviso at present in the possession of John Strange Esqr., N.B. grass ground within the Fence, without the post road from Treviso to Bassan» (fig. 2). Risultano correlabili alle voci segnate nel 1778, inclusa la «Best wiew of à Paese», anche i disegni per villa Pisani Sagredo (Lille, Palais des Beaux-Arts e un piccolo studio a matita sul verso del foglio di Providence) e le vedute di Paese ora ad Amsterdam e a Oxford (fig. 11), ritenute tratte dall’alto, da finestre dei lati anteriore e posteriore di villa Loredan. Segue infine un accenno a un’opera su tavola, in verticale. Y Il giardino raffigurato nella tela di Chicago (fig. 10) e in disegni a Rotterdam e a Oxford (fig. 12) è tuttora tradizionalmente identificato in quello di palazzo Contarini dal Zaffo alla Misericordia, con l’adiacente “Casino degli spiriti” sulla sinistra. Tuttavia, già Tafuri nega l’ipotesi; individua l’area nello scoperto entro il quadrilatero delle sansoviniane Case Moro, segnate da quattro “torri angolari”, simili «quasi a un castello», e con al centro il portale sormontato dal basso muro merlato, che introduce al giardino. Zanverdiani riconosce invece lo spazio verde in quello alle spalle di palazzo Surian Bellotto, prospiciente il rio di Cannaregio. Nel dipinto e nei relativi disegni di Guardi, comparati con mappe, successivi rilievi catastali e con altre opere dell’artista (tra cui la pianta di Venezia e diverse vedute), ci sembra in effetti che nell’imponente sequenza dell’ordinata serie di edifici allineati sullo sfondo, delimitati ai lati dalle due “torri” e interrotti al centro, sia riconoscibile l’ala tuttora esistente delle Case Moro sul rio di San Girolamo, schierate però oltre la zona delle chiovere di San Girolamo, da una visuale che parrebbe far coincidere il giardino della serie Strange con l’area verde sul re- 125 15. Francesco Guardi, Canal Grande con il Ponte di Rialto di Palladio, Lisbona, Museu Calouste Gulbenkian. 126 in alto cioè nella camera sopra quella del Re e quelli anche che non stavano attacati»). Il luogo è rappresentato pure nella veduta di Guardi con Il Ponte dei Tre Archi e palazzo Surian Bellotto, apparsa in un’asta di Christie’s nel 2006 insieme alla tela con San Giorgio Maggiore, senza campanile, dalla Giudecca (già in collezione Rothermere), parte di una serie di quattro con Piazza San Marco verso San Geminiano e con Punta della Dogana e la chiesa della Salute dalla riva del grano (già della collezione Stucky di Venezia, quindi nella collezione milanese Crespi). Il Ponte dei Tre Archi è raffigurato da Guardi anche nella tela ora nella National Gallery of Art di Washington. Y I quattro “ritratti di ville” Strange erano ancora insieme nella collezione londinese di Lord Rothermere, Harold Sidney Harmsworth (1868-1940), il magnate della stampa proprietario pure del “Daily Mail”. Alla serie è stata anche accostata una sequenza di fogli di Guardi eseguiti nel viaggio dell’autunno 1778 in Val di Sole, compreso il disegno (già di Byam Shaw, passato da Sotheby’s nel 2002, ora in collezione privata) con la Veduta di Borgo Valsugana, che reca un’iscrizione simile a quella di Oxford relativa a villa Loredan, analogamente riconosciuta di mano di Strange (fig. 14): «Wiew of Borgo di Valsugana, with the Castle Giovanelli, and neighbouring mountains between Bassano and documenti novità su guardi e antichi maestri della collezione strange 16. Da Gentile Bellini, Ritratto del doge Niccolò Marcello, Londra, The National Gallery. Trento». In un’ulteriore lista di 120 opere, fra le lettere SassoStrange del 1784, si riscontra anche: «Guardi veduta di Val Sugana». Y La voce della Note of Pictures segnata nel 1778 con il «Ponte Rialto of Palladio» potrebbe riferirsi, più che al Canal Grande con il Ponte di Rialto secondo il progetto di Palladio della serie di Lisbona (fig. 15), a quello già in collezione Wallraf; del soggetto sussistono disegni a Londra e al Museo Correr. Anche la «wiew of Dolo» richiama dipinti come quelli di Detroit o di Lisbona (e i relativi disegno e studio). Ci chiediamo inoltre se le voci «View of Spinola’s in Venice» e quella «of St. Michele di Murano» possano connettersi a vedute di Guardi citate da Strange in alcune lettere (indicate da Haskell, dall’Epistolario Moschini). Numerose opere dell’artista rappresentano l’Isola di San Michele di Murano; il 5 dicembre 1784, Strange scrive a Sasso: «Dalla camera sopra canale vicino al portico, e sopra la camera verde, scielga fuori quella veduta Guardi con cornice, di San Michele di Murano, e la porti di sopra all’altre mie, volendola tenere, quantunque mediocre, come Lei sa». In una missiva non datata, invece, il britannico prevede di chiudere una trattativa aggiungendo «due vedute Guardi, compagne… Quella mia Guardi, cioè la veduta di Ca’ Spinola, in riva di Biagio, colla punta di Cannaregio, servirebbe per una, non piacendomi molto, ma non mi piacerebbe dare via altre mie»; così incarica Sasso di trovare il pendant. Almeno due dipinti di Guardi raffigurano riva di Biasio con il palazzo Bembo, poi Valier, Spinola, Dolfin: la tela ex Rothschild a Parigi (accostata però a un pendant con Piazza San Marco) e quella, già in deposito al Musée des Au- 127 18. Girolamo Mocetto, Strage degli innocenti con Erode, Londra, The National Gallery. documenti 17. Girolamo Mocetto, Strage degli innocenti, Londra, The National Gallery. gustin di Tolosa, restituita nel maggio 2005 agli eredi di Anna Jaffé (dai cui beni proveniva, prima della vendita imposta a Nizza nel 1943; nel 1944, fu destinata all’Hitler Museum di Linz); l’opera è stata battuta da Christie’s nel 2005. Queste pitture sono da confrontarsi con il disegno ora a Cambridge, Fitzwilliam Museum, e con la stampa di Dionisio Valesi tratta da Guardi (Venezia, Biblioteca del Museo Correr), che reca una dedica a Carlo Spinola, Marchese di Roccaforte, apposta da Melchior Gabrieli, cui il Senato aveva accordato il 23 maggio 1778 il privilegio esclusivo per 15 anni di far incidere opere di Guardi, secondo i Riformatori «universalmente stimate e principalmente da Forastieri, che amano di vederle, e che ne fanno acquisto». Y La Note of Pictures enumera esemplari di Guardi sin dal 1774, comprese due prospettive di chiese; due vedute di San Giorgio e della Salute; un piccolo interno di chiesa; due vedute molto piccole (per rispettivi zecchini otto; dodici; due; poco più di uno). Nel 1775, compaiono l’Arsenale (titolo poi cancellato) e San Michele di Murano; due vedute del Bucintoro e due con «The Rigatta and Fresco» (tre coppie, ciascuna per dodici zecchini); otto «small views Venice»; altre due vedute della città; «A sketch of a Sea Piece and 15 Miniature Portraits»; 19 pitture e sei cornici collegate al marchese Agdollo, «bought of Agdolo» (per rispettivi zecchini otto; dodici; cinque; dodici). Tali indicazioni nel catalogo guardesco possono consentire di ragionare, valutando anche le preferenze di Strange e indizi di presenza o meno di pendant e serie, su opere come l’Arsenale ora a Londra, o piuttosto a Vienna o a Boston; le rappresentazioni del Bucintoro, inclusi 129 19. Andrea Mantegna, Virtus combusta, Londra, The British Museum, Department of Prints and Drawings. 130 i due quadri en pendant della collezione milanese Crespi o opere della serie di Lisbona, comprese regate e “freschi”, i festosi e ariosi cortei veneziani di barche e gondole. Y Nel 1775, per poco più di uno zecchino, compare di Guardi una veduta «Mansion House and Greenwich Hospital», quindi cancellata dalla lista; analogo soggetto (già dipinto da Canaletto) è registrato di nuovo nel 1776 per sei zecchini, ma come «Guardi - copy»: forse replica dell’altro, ceduto (in merito al Greenwich Hospital, cui avevano lavorato anche gli Strong, antenati di Strange, è nota di Guardi una Veduta del Royal Naval Hospital di Greenwich, in collezione privata, da un’incisione di John June del 1750 circa). Nel 1776, sono indicate altre due vedute dell’artista, una piccola in tela e una ancora più piccola su tavola (ciascuna uno zecchino). La lista distingue diverse mani: così, ancora nel 1776, si enucleano le figure realizzate da Sebastiano Ricci in un dipinto di Marco Ricci; compaiono, elencati prima e dopo Guardi nel 1774, anche esemplari di Carlevarijs, Marieschi, Diziani. Y La Note of Pictures presenta dunque alcune entrate depennate: nel 1774, pure un Ecce Homo di Cima (uno zecchino), un San Gerolamo nel deserto di Gentile Bellini (tre), ma anche «Bart. Vivarini - The Death of the Virgin»: così è ora possibile attestare l’acquisizione da parte di Strange sin dal 1774, per 14 zecchini, del- documenti novità su guardi e antichi maestri della collezione strange 20. Andrea Mantegna, Tre divinità, Londra, The British Museum, Department of Prints and Drawings. la Morte della Vergine di Bartolomeo Vivarini (New York, The Metropolitan Museum of Art; fig. 1), a ridosso della soppressione della Certosa di Padova da cui la pala proviene. Era finora noto come l’opera, restaurata da Sasso, fosse stata spedita in Inghilterra nel 1775 e rivenduta a Henry Bathurst: l’avvenuta transazione motiva forse il conseguente frego nella Note of Pictures. Anche gli altri dipinti cancellati dalla lista potrebbero rientrare fra quelli presto alienati. Nel 1775, si contano quasi 190 nuovi acquisti di Strange, tra cui l’«altar Piece of 3 Saints» di Giovanni Bellini (dieci zecchini), come la sua «Virgin Child and Saints, and Bembo’s Port.» (otto), riconoscibili nella pala d’altare già in San Giovanni alla Giudecca e in una Madonna con il Bambino e santi, con il ritratto del cardinale Bembo menzionati nelle lettere e nei cataloghi Strange. In quell’anno, il Residente compra per dieci zecchini una tavola analoga di Cima, poi sempre citata quasi en pendant dell’opera di Bellini e dalla stessa collezione veneziana. Tra i possibili termini di confronto per i prezzi, si rileva nella nota Strange che nel 1775 entrano nella raccolta opere quali un Ecce Homo di Antonello da Messina (sei zecchini; depennata), una Madonna con il Bambino di Squarcione (tre) e una di Vittore Crivelli (uno), correlabile all’«opera rarissima… col nome» ricordata poi da Sasso come appartenente a Strange (quindi in collezione privata milanese). Sempre nel 1775, si registra un’Adorazione dei Magi di Mantegna (due zecchini) e un chiaroscuro (quattro), che si aggiungono alla sua «The Virgin Child S.t Christo.» (rilevata nel 1774 per uno zecchino). Il Residente ne offre invece quindici per un’Annunciazione di Veronese e venti per un «S.t John in the desert» di Tiziano, come per una Natività di Jacopo Tintoretto; mentre a un Cantarini («Simone da Pesaro - Time discover Truth»), ne destina trenta, gli stessi versati l’anno dopo per «The Deluge and 131 132 fondamentale testimonianza del complesso intero, ma di cui si ignorava finora la data (fig. 5). Y Fra le carte londinesi si riscontra una lista manoscritta, in francese, con 150 dipinti: 38 della «Ancienne Ecole», 73 della «Moyenne Ecole, des Grands Maitres» e 39 della «Ecole Moderne», soprattutto opere veneziane, riferibili a Strange: anche «La Resurrection… du sublime Giorgione» (di cui si dettagliano incisione, dimensioni, cornice dorata e scolpita all’antica con «petits amours»). Nell’«Ancienne Ecole», si assegnano a Gentile Bellini un «St. Jerome au Desert avec beau païsage» e una Madonna con il Bambino nel paesaggio su tavola (confrontabili con gli acquisti del 1774 e 1777), oltre a «Deux Portraits Turques, de Sultans Mahomed 2° et Amurat, et sur le meme bois, tableau de Cabinet, par le meme auteur, qui fut appellé à Constantinople par le Sultan…». Di Mantegna, oltre all’Adorazione dei Magi («sur bois, en couleur à l’huile») è indicato un «Païsage avec Satyres & Nymphes &c. peint sur toile en chiaro-oscuro». Di Antonello da Messina, sfilano anche un «Portrait d’Homme, sur bois, petit Tableau de Cabinet» e una «Crucifixion, avec païsage, de Cabinet aussi, par le meme auteur, qui y a mit son nom. Sur bois»: ci domandiamo se questa tavoletta «de Cabinet» con la firma di Antonello possa essere collegata alla piccola Crocifissione ora alla National Gallery di Londra, con antica provenienza nel 1884 dalla raccolta di John Crichton Stuart, marchese di Bute (1793-1848), discendente di Lord Bute (John Stuart, III Earl of Bute, 1713-1792), l’amico e corrispondente di Strange. Di Giovanni Bellini si ricorda anche la pala d’altare già in San Giovanni alla Giudecca, riconoscibile negli acquisti Strange del 1775, nelle missive Sasso-Strange e nei cataloghi; è inoltre dettagliata una Madonna con il Bambino e santi, con il ritratto del cardinale Bembo, «acheté de la Famille, appartenoit autrefois». Il dipinto è introdotto a confronto, anche per le misure, nelle lettere di Sasso a Strange del 19 e 26 settembre 1786, relative all’acquisto de «l’altarino di casa della procuratessa Pisani» descritto a parole e con un disegno: un quadro «vergine non mai tocco» di Giovanni Bellini, raffigurante una Madonna e santi con donatore, ottenuto per dieci zecchini (contro i 28 richiesti); Sasso precisa: «Devo farlo levare a mie spese dal contorno di marmo che lo circonda, ma sarà poca spesa di poche lire credo». Y Nella lista francese è menzionato anche il suddetto “Trittico di Mestre” di Cima, dalla chiesa di San Rocco; s’introducono documenti novità su guardi e antichi maestri della collezione strange 21. Giovanni Bellini, Sangue del Redentore, Londra, The National Gallery. Vulcan’s Forge» di Jacopo Bassano. Nel 1775, paga cinque zecchini un Buon Samaritano di Bassano, mentre nel 1778 ne versa uno per due sketches dell’artista. Strange elenca diversi sketches, compreso quello di Federico Zuccari acquistato nel 1775 per due zecchini, come uno di Johann Carl Loth, acquisito nel 1775 con un «Rembrandt- Style of - Democritus and Heraclitus - 2 Zeqs.» (poi cancellato), oltre a «Tiepolo - Two companions sketches» (due zecchini) e, nel 1776, «Lanfranc - a sketch S.t Mark model of the Cupola at Naples» (uno zecchino). Y Nel 1776, si può attestare l’acquisto da parte del Residente, insieme a una cinquantina di altre opere, della celebre «Resurrection» di Giorgione, per 25 zecchini. Nel 1777, si registrano di Gentile Bellini un disegno colorato del Paradiso e una piccola Madonna con il Bambino su tavola (uno zecchino), come pure di Giovanni Bellini una «Virgin and child etc. small» (quattro), oltre al «Portrait of Doge Nic. Marcello», pagato sei zecchini, che ora possiamo riferire al belliniano Ritratto di Niccolò Marcello della National Gallery di Londra, di provenienza Strange (fig. 16); segue, nel 1778, un altro «Portrait of Doge» (tre zecchini). Nella Note of Pictures compaiono inoltre voci riferite ad artisti quali Carpaccio, Mansueti, Vittore Belliniano, Catena, Caroto, Previtali, Pasqualino Veneto, Basaiti, Palma il Vecchio, Santacroce, Bonifacio, Polidoro, Pordenone. Nel 1777, si registra, per quattro zecchini, l’acquisto di un disegno della Resurrezione di Giorgione, mentre se ne versano sei per un altro dall’altare di Cima, riconoscibile nel “Trittico di Mestre” (figg. 3 e 4); per inciderli, s’investono perfino venti zecchini. La stampa settecentesca del Trittico, che si può dunque ritenere richiesta da Strange e saldata nel 1777, è plausibilmente identificabile in quella di Antonio Baratti (illustratore in contatto con Strange), 133 22. Da Girolamo dai Libri, Madonna con il Bambino, incisione, Venezia, Biblioteca del Museo Correr. accenna anche Della Lena: descrizioni di opere nei “porteghi” e nelle camere di Strange affacciate su Fondamenta, calle e giardino, si riscontrano infatti nelle lettere della British Library. Il 17 settembre 1781, Sasso commenta «scandalezato» l’acquisto di 31 opere del mercante Gregorio Agdollo, poi marchese, da parte di James Hugh Smith Barry, che «gitò via seicento zechini» per una maggioranza di «cative copie e strazie»: «Lui già per quello che mi dice è pentito, ma ha pagato li quadri e non vi è più rimedio»; intanto, programma una spedizione delle opere via terra in Gran Bretagna. La trattativa Agdollo-Barry, sinora accennata in lettere non datate dell’Epistolario Moschini (introdotte da Gardner), si può adesso fissare al 1781 e dettagliare, come la reazione di Strange, che dispose di far mostrare la sua collezione a Barry, perché ne rilevasse una scelta equivalente. Y Sasso racconta, lo stesso lunedì 17 settembre 1781, di aver trascorso «tre grosse ore» della domenica mattina a esporre la raccolta Strange a Barry, in «visita alli quadri». Al veneziano, l’ospite apparve «un poco stravagante», poiché non amava Liberi, Lazzarini, Strozzi e Bassano, riteneva Perugino superiore a Raffaello, diceva che «Tintoretto e Pietro da Cortona sono quasi una medesima maniera». Barry passava «facilmente da un luogo all’altro» selezionando le opere e Sasso le annotava, comprese «molte cose nelle camere basse», nonostante lo avesse avver- documenti novità su guardi e antichi maestri della collezione strange 134 nuovi elementi sull’antica provenienza, come sulla cornice del dipinto e dell’incisione; risultano certificate l’antica sostituzione con la copia, certamente settecentesca (ora nel duomo di San Lorenzo a Mestre), e l’ubicazione del Trittico nella “cappella dei religiosi” all’atto dell’alienazione. L’opera ricorre anche nelle lettere di Strange (che ne avrebbe previsto la vendita, sfumata con la perdita del cliente). Nella lista francese, si legge come «l’original en question ayant eté achetté pour le feu Roi de Pologne, mais par quelque hazard, il est resté à Venise»; il sovrano potrebbe identificarsi in Stanislao Augusto Poniatowski, mecenate e collezionista, ultimo re di Polonia (1764-1795), con molti agenti nella Serenissima. Sasso garantisce che l’opera «fu trasportata in Inghilterra l’anno 1786». Sempre nel 1786, il veneziano valuta un San Sebastiano di Mantegna: il 15 settembre scrive a Strange: «Sarà certamente bel quadro ed anche raro in quella grandezza, ma non è una gran fattura a vederlo bene», nonostante poi annoti, accostandolo a uno «Sposalizio Santa Catterina Girolamo Mazuola»: «Questi due piaciono a tutti». Y Collezionismo e mercato sembrano intrecciarsi in Strange. Giacomo della Lena, viceconsole spagnolo, nell’Esposizione istorica dello Spoglio, che di tempo in tempo si fece di Pitture in Venezia (VeneziAltrove 2003), introduce l’inglese come l’esordio di un’epopea: «Poi venne a Venezia il dotto Cavre Strange Residente d’Inghilterra»; chiude il paragrafo con una «prova della copia stragrande de’ Quadri» acquistati nella Serenissima da Strange, il quale «scrisse a Sasso di avere ricavato da suoi scarti spediti in Filadelfia» novemila zecchini. Della Lena (proprietario di 32 Guardi) precisa che a Strange «riuscì di fare una raccolta singolarissima, e dirò anche unica, degli antichi Pittori Veneziani, e dello Stato. Dai primordi della Pittura essa giungeva sino ai tempi di Tiziano»; l’inglese riconosceva il contributo dell’«intelligentissimo Sasso, e soleva dire che era la storia visibile della Pittura Veneziana». Strange aveva “riempito” «il suo Palazzo di quadri sceltissimi», inclusa la «Resurrezione di Cristo del Giorgione», fatta incidere in rame, accanto a molti soggetti sacri e storici: «Mi ricordo de’ tre Vivarini, del Carpaccio, di Cima, di Baxaiti, dello Squarcione, di Mantegna, e Giambellino, ognuno dei quali avea singolari pregi, ed incantava l’occhio per la bella semplicità, e verità negli accessori, e delle fabbriche, e del paesaggio», o per conservazione e restauro, curati da Sasso. Y È ora possibile entrare in quel palazzo ricolmo di pitture, cui 135 136 con storie romane di Andrea Schiavone», da Sasso ritenuti di Bonifacio, e che a Barry piacevano, «tanto che mi dice di portarli seco nel Baule». Y Si riscontra un’altra indicazione rilevante: «Camera dove sono le cose di madama Smit», che rievoca i contatti con la vedova del console. La visita guidata si spinge sino ai quadri dell’appartamento basso («benché già qui non si farà niente»). Dipinti di Palma, Padovanino, Renieri, Paris Bordon, Tintoretto sono pure nell’«Anticamera sopra Giardino», nella «camera dipinta sopra Giardino» e nell’«Anticamera sopra Fondamenta». Nella «Camera verde», risaltano una Fuga in Egitto di Cantarini (con l’avvertenza che Strange «questo solo lo ha pagato in Roma 300 zecchini») e un «Palma Vecchio grande che fa compagno al Prete Genovese», ovvero uno dei diversi Strozzi collezionati dal Residente (che certamente ebbe l’Adorazione dei pastori ora a Oxford, Ashmolean Museum). Nella «Camera de libri dove Lei scrive» spiccano «due compagni Gio Bellini e Conegliano», seguiti dall’«altare di Conegliano» e da «il ritratto bello Palma Vecchio»: alle due opere di Bellini e del maestro di Conegliano en pendant seguiva dunque il polittico di Cima, identificabile in quello già a Mestre. Infatti, in un altro elenco con 26 opere, nelle «camere apartamento basso» s’incontrano una «veduta grande» di Canaletto, capolista, seguita da «l’altare del Conegliano quelo di Mestre», «il Gio Bellino col ritrato Bembo e Conegliano compagno» e «il Gio Bellino in tre comparti della Giudeca»; l’elenco prosegue con dipinti quali «il bel Lazzarini grande Casto Giuseppe sopra la stua, il ritratto di huomo Paris Bordon quelo col teschio e putino, la Giuditta sopra del Cagnacci, il Dario Varotari nella stessa camera sopra la parette…», o «la Circe Nicolò Renieri sopra la veduta Canaletto». Sasso conclude che queste opere, in confronto a quelle di Agdollo, dovrebbero «valer migliaia di zecchini, ma noi non siamo così fortunati». Y Il 26 ottobre 1784, il veneziano comunica di aver ritrovato nel ghetto 15 cornici appartenute a Durazzo «e datte a gli ebrei con altri mobili»; il 9 novembre, annuncia una «sfornitura che fanno uno di questi giorni del cassin di Durazzo a Mestre», annotando come il collezionista fece «la pazzia di getar via per niente tutte le sue cose agli ebrei», compresi battello e due gondole (per 50 zecchini): otto o dieci cembali e spinette «ed anche di buoni autori sono nel getto quasi per niente»; il 12 novembre, rispon- documenti novità su guardi e antichi maestri della collezione strange 23. Àmbito di Giovanni Bellini, Madonna con il Bambino, New York, The Metropolitan Museum of Art. tito che il Residente non voleva «sfornire le camere e tanto più che sono cose in vista». Sequenza di quadri e loro esposizione nel palazzo veneziano (con cenni anche a opere nella villa di Paese) si possono ricostruire ripercorrendo la lista delle scelte di Barry allegata da Sasso a Strange, che si apre con «li apartamenti, e prima nella camera alta», dove si registrano opere di Tiziano, Schiavone, Leandro Bassano, Bonifacio, Giorgione, un «ritrato di Gentilhomo con ragazzo a mano del Tintoretto comprato ultimamente», il «ritratto Pordenone quelo che ho da terminare con quela letera in mano», «la tavoleta spacata picola con li due ritrati turchi - Gentil Bellino» (stimabili sei zecchini per Sasso), «quella Santa Cecilia Niccolò Renieri che si prese il giorno di sua partenza». Nel «portico alto e camere circonvicine» e in diverse stanze, sfila una galleria di dipinti, anche di Tintoretto e Tiziano, pure con indicazioni di provenienze, oltre a citazioni di fonti, incluso Verci per «Li due Bassani grandi Vulcano e il Diluvio»; da ca’ Loredan giungono opere di Vecellio, Leandro Bassano, Bonifacio, compresa la «tavola di Cebete» (stimata 80 zecchini, ma già “promessa” ad altri, come una Leda di Schiavone, da 30 zecchini). Nella «camera blu», Sasso nota «la sacra famiglia del Bronzino in tavola acomodata - ca’ Giovanelli». In un’altra carta, è segnata «sopra la porta che si entra quella Betsabea che si comprò con le cose Vitturi la dicevano di Gio Giosefo dal Sole; lui la fa caracesca»: risulta così certificato come alcune opere già Vitturi siano giunte a Strange, prima del settembre 1781. Nella «camera dirimpeto alla Blu», appare anche «il bel Paolo Farinato Grando che comprai a Torcello». In quella «del’inverno», risaltano «due piccoli quadri bislungi 137 24. Giovan Battista Cima da Conegliano, San Girolamo, Londra, The National Gallery. di doversi recare dal nobiluomo Molin «per l’affare Famiglia Cornaro di Tiziano, che il miglior modo sarà prenderla sul fatto, quando poi il prezzo non eccedesse la mia imaginazione». Il 13 gennaio 1785, «le cose Zannetti sono avanzate… ma è una quantità di cose infinite, che fa andar via il capo. Circa le altre cose Zannetti sono pazzi poiché mi dicono aver preso sbaglio nel passato negozio e volevano di sfarlo; dicono che hanno preso sbaglio del doppio, ma io non so che fare». Il 26 settembre 1786, Sasso introduce anche i celebri «Camei» Zanetti: «Li Zanetti sono dietro a dividersi tra fratelli e però un poco aquetate le cose credo che averò li Camei sua… io ho l’abate di casa che mi avisa di tutto e però alla vendita sarò sempre preferito io alli altri e questo con sicurezza; così o presto o tardi sarano nostri, ma non posso dispor io del tempo e delle loro disposizioni». Il 10 ottobre 1786, conferma: «Circa poi li Camei Zanetti io li averò sicuramente». Y Nello «Zibaldone di memorie di artefici veneti», steso da Sasso in vista della sua Venezia Pittrice, si annoverano dipinti di antichi maestri posseduti dal Residente, tra cui un Trittico di Francesco del Fiore, un Arcangelo Michele di Guariento, una Madonna con il Bambino di Jacopo Bellini (Venezia, Gallerie dell’Accademia), una di Andrea Previtali e una di Vittore Crivelli (quella sopra citata, in collezione privata milanese), un Cristo benedicente di Montagna (Columbus Museum of Art; poi nel 2010 battuto da Chri- documenti novità su guardi e antichi maestri della collezione strange 138 de a Strange: «Io non vidi nelle cose Durazzo il piano forte bensì molti altri cembali grandi e piccoli ed in particolare uno piccolo che va in piedi… del famoso Celestini e poi la cassa è tanto ben dipinta che me ne veniva la voglia». All’inizio di novembre Sasso riporta l’arrivo in città di Luca Brida, veronese, già al servizio di Wright a Venezia e a Londra, che raccontò «tutta la storia de quadri di detto signore», oltre a «tutti li negozi de quadri sì di Roma come di Londra e di Parigi e per quel che lui mi dice se vende bene le strazie e la maggior parte li quadri buoni non hanno fortuna; ecco la fatalità de tempi». Il 12 novembre 1784, Sasso «da casa», promette a Strange ragguagli di misure, quadri, casse. In un nuovo elenco riferibile al 1784, tra 44 dipinti si riconoscono ancora il «S. Gio Batta etc. Gio Bellin della Giudecca» e la «Tavola di Mestre del Conegliano», subito dopo la «Resurrezione di Christo. Giorgione», opera prediletta da Strange, citata anche da Giacomo della Lena. Sfilano inoltre di Tiziano il «Ritratto del cardinal Bembo», un’effigie dogale e un «Paese»; da Veronese, una copia della Cena a San Giorgio e il «soffitto di Paolo con Giove che fulmina i vizi», insieme a quadri di van Dyck e Castiglione, Bassano, Pordenone, Paris Bordon, Tintoretto (una Cena e il «Ritratto di General Mocenigo»), ma anche Pittoni e Bellucci, una «Sentenza di Salomone del Tiepolo» e «due altre vedute S. Giorgio e veduta sul Canal Grande, Canaletto». Le pitture di Strange (alcune offerte ad amici quali Lord Bute) includevano opere già in chiese o raccolte veneziane, anche dei Loredan, Vitturi, Giovanelli, Cornaro, Bembo, Nani, Pisani, Agdollo, Pinelli, Zanetti. Y Il Residente s’impegna inoltre in iniziative editoriali; promuove la ristampa, anche londinese, de Le Arti che vanno per via di Zompini e di numerose opere degli Zanetti, dai cui eredi compra pure rami, fogli di prova e primi esemplari: anche su tali acquisti si rilevano nuovi elementi. Il 22 ottobre 1784, Sasso scrive a Strange che il giorno dopo avrebbe visionato «queli rami Zanneti, ma prima di fare il negozio bisognerà vedere perché temo la stampatura mi farà perdere del tempo». A fine novembre, procedono trattative e informazioni sulle eventuali modalità di stampa; il 30 novembre, Sasso comunica che «Remondini da Bassano fa tutti li sforzi e maneggi per levarmi la compra, così non si potrà più tardare. Già che il galantuomo di Bortolo Zanneti vole assolutamente che tochino a me anche con suo discapito, così questa setimana converrà sbrigarsi». Intanto, aggiunge 139 tazioni, che sembra rinviare a un pendant della tavola della Giuditta di Giorgione ora all’Ermitage di San Pietroburgo. Strange si conferma attento alla pittura del maestro di Castelfranco: lo suggeriscono anche le osservazioni che Sasso gli invia il 28 giugno 1784 insieme a una lista di opere da una divisione della collezione Bernardi, molte già Vendramin, comprese la Tempesta e la Vecchia (Venezia, Gallerie dell’Accademia), o il Cupido con il leone di Tiziano (Oxford, Ashmolean Museum). Y Il 19 maggio 1786, Sasso afferma di poter spedire a Strange sei disegni di Canaletto, ma non ancora due modelli di Tintoretto, bisognosi di foderatura; presenta nuove opere, tra cui 17 disegni di Canaletto e 20 altri schizzi grandi: «Puri contorni… tratti dalli siti veri con la camera otica… le migliori e più belle vedute di Venezia» e ne invia due in visione (così da altre carte londinesi segnalate da Haskell, e da Mattioli Rossi per Canaletto). Il 23 maggio, Sasso accenna anche a trattative con la «vecchia Zanetti»; e tre giorni dopo, rassicura di aver preso i disegni «dico li primi sbozzi ecc. Canaletto ma credo presto averò li altri della vecchia Zanetti», incluso un Parmigianino, «solo che questa brutta vecchia mi fa impazzire per li prezzi, ma ad ogni modo mi riuscirà». Lo stesso giorno, Sasso descrive una visita eloquente su modalità di esplorazioni e vendite: «Ieri non sapendo ove andare fui a Sant’Andrea e lei si ricorderà che anni sono siamo stati assieme a veder quella tavola di San Girolamo di Paolo Veronese, così essendo tutti in piazza trovai la chiesa affatto vuota ed osservando detta pittura fui chiamato dalla Abbadessa quale dimandandomi se ero diletante mi fecce vedere… il modello originale di Paolo di detto quadro dipinto sopra piastra di rame di un piede poco più con qualche variazione nel paesaggio; io tentai di comprarlo». Nonostante gli venissero riferite diverse offerte ricevute, il veneziano conclude: «Insoma non credo dificile che per cinque sei zechini di averlo». Come promemoria del soggetto, riconoscibile nel San Girolamo di Veronese di Sant’Andrea della Zirada, Sasso invia a Strange un’antica stampa e lo avverte che «non avevano allora l’uso di copiarli dal specchio per che vengano driti come il quadro». Il 30 maggio 1786, Sasso gli scrive: «Nel rotolo troverà tutti li disegni e sbozi Canaletto e nel pacchetto troverà tutti quelli che presi dalla vecchia Zanetti e che con grandi fattiche e andare e tornare mi bisogni dare zechini n. 6; quello con cornice e specchio è quello di Polidoro romano, li altri li notai tal quali son descritti nell’indice documenti novità su guardi e antichi maestri della collezione strange 140 stie’s a New York), una Pietà con firma apocrifa di Carlo Crivelli già di Girolamo Zanetti, distrutta a Berlino nel secondo conflitto mondiale, i due dipinti con la Strage degli Innocenti di Mocetto ora nella National Gallery di Londra (figg. 17 e 18) e i due disegni di Mantegna con la Virtus combusta e Tre divinità (Londra, The British Museum, Department of Prints and Drawings; figg. 19 e 20). Anche Séroux d’Agincourt illustra, come proprietà di Strange, numerose opere incise per la Venezia Pittrice. Raimondo Callegari ha pure scoperto che il Sangue del Redentore di Giovanni Bellini, ora nella National Gallery di Londra (fig. 21) era passato da Sasso a Strange, come attesta una lettera del veneziano a Giovanni de Lazara. Y La Venezia Pittrice si profila come un progetto innovativo, anche per le incisioni traduttive: quasi un libro di storia e critica d’arte illustrato, segnato da una peculiare “fortuna dei primitivi”. Strange ne è promotore e suggerisce d’integrare le incisioni a puro contorno con l’indicazione dei proprietari dei dipinti e disegni, «come si fa comunemente a Parigi, Londra ecc.». Così, ad esempio, sarà introdotta di Girolamo dai Libri la «stupenda opera [Stampa n. 51] posseduta da S.E. il signor Giovanni Strange col nome», con a corredo l’incisione della Madonna con il Bambino (fig. 22). In merito a Cima, Sasso programma di descrivere le pitture, tra cui quelle «credute anche da’ nostri scrittori opere del Bellini», precisando come distinguerle; sembra prevedere le oscillazioni attributive per dipinti quali la Madonna con il Bambino di àmbito belliniano, dall’ammirato paesaggio (ora al Metropolitan Museum of Art; fig. 23), ritenuta di Cima in collezione Strange, quindi in quella Alexander, marchese di Douglas e poi decimo duca di Hamilton, anch’egli in contatto con Sasso (tramite il quale ottenne pure un ritratto di Antonello, ora negli Staatlichen Museen di Berlino: VeneziAltrove 2005). La stessa Madonna con il Bambino, sotto il nome di Cima, compare nella vendita londinese del dicembre 1789 al n. 125 di Pall Mall, nei 245 lotti appartenuti a un «Gentleman, Long resident of Italy», identificabile in Strange. Il catalogo specifica come vi sia confluita anche la raccolta del fu vescovo di Parenzo Gaspare Negri (1697-1778), evocata per oltre 23 pezzi, compresi quadri di Giorgione e un David con la testa di Golia (riconoscibile anche nella vendita londinese del 27 maggio 1799): abbiamo proposto di riferirlo a una menzione in una lettera del 17 ottobre 1786 a Strange di Sasso e a un suo prezioso disegno completo di anno- 141 di opere di Strange, tra cui la Resurrezione giorgionesca (come segnalava Russell). Il 12 gennaio 1791, infatti, risulta una vendita di opere del gentleman (303 lotti); il 27 maggio 1799, dopo la morte di Strange, all’European Museum di Londra sfilano 436 dipinti della sua collezione, inclusa la Madonna con il Bambino ora a New York (fig. 23); in un’asta del 15 ottobre 1822, si specifica per il quadro un’antica appartenenza alla «collection of the Nuncio di Verona», la stessa riferita al San Gerolamo di Cima ora nella National Gallery di Londra, già Strange e poi Beckford e Hamilton, nelle vendite del 1799 e 1822 attribuito a Herri met de Bles, detto il Civetta (fig. 24). Anche attraverso quasi un migliaio di voci nelle diverse vendite, il dotto Strange si conferma appassionato collezionista e mecenate; così come rimane unica e singolare la sua raccolta di antichi maestri e pittori moderni, che «incantava l’occhio» e componeva una «storia visibile della pittura veneziana». documenti novità su guardi e antichi maestri della collezione strange 142 cose Zanetti… che la vecchia tiene. Sotto li disegni troverà il piccolo San Girolamo in rame Paolo Veronese modello del grande», in visione in cambio di una cauzione. Sasso conclude: «Quella vecchia deve già aver altri disegni ed in particolare di Marco Ricci paesi per ora non ho potuto cavar altro che questi, ma tornerò a cercarla…». Y Fra i Supplementary Strange Papers sono inoltre conservati elenchi di opere dalla collezione di Faustino Lechi a Brescia (incluse provenienze Smith; in calce è riportata una glossa del 1777), oltre a un’interessante «Note of Mr. Musters’s Pictures» (nome che evoca la casata del Nottinghamshire, cui si unì Mary Chaworth, rienuta il primo grande amore di Lord Byron, il quale dovette rinunciare alla fanciulla, promessa a John [Jack] Musters, futuro marito; Byron dichiarò poi che se avesse potuto sposarla forse l’intero corso della sua vita sarebbe stato differente). Nell’elenco riferito a «Mr. Musters», si scoprono casse ricolme di quadri veneziani, alcuni già della «celebrated collection of Mr. consul Smith», altri in visione, e una cassa spedita da Livorno. Si riscontra anche una serie di Guardi: una veduta di Venezia con San Giorgio e parte della Giudecca, «its companion» con la Regata al Ponte di Rialto, una dell’Arsenale, un interno di chiesa e «its companion». Si aggiunge come Guardi, ancora vivente a Venezia (al pari di Zais, che segue nella carta: il documento è quindi databile ante 1784), ne rappresenti il migliore autore («the best hand here») e le sue vedute siano molto apprezzate, anche per l’originalità di stile «and a spiritual touch» (parole che sembrano anticipare quelle della vendita Strange del 1789). Y Quando Strange torna in Inghilterra, continua a scrivere a Sasso, anche con indicazioni per farsi recapitare i quadri; lamenta mutamenti nel costume e nelle preferenze artistiche: «È incredibile come sia decaduto qui il gusto de’ quadri antichi italiani», scrive nel 1789; due anni dopo, conferma: «Vogliono cose moderne, sprezzando le antiche». Tuttavia, il 19 ottobre 1790, Giovanni Antonio Armano, pittore e mercante, scrive a Sasso: «Mi fa piacere la notizia che Mr. Strange si sia disfatto con utile della maggior parte delle cose sue, segno evidente che gl’inglesi sono nel maggior fermento per le belle arti» (citava Haskell). Nel gennaio 1791, il capitano William Baillie riporta invece a Lord Bute l’infelice esito di una vendita londinese, nell’Auction Room King’s Street, St. James’s Square, con centinaia 143 gli autori hanno scritto guido beltramini, dal 1991 dirige il Centro Internazionale di Studi di architettura Andrea Palladio. Ha insegnato all’università di Ferrara e Milano, è stato borsista a Harvard e alla Columbia University. Ha curato mostre palladiane a Vicenza, Londra, Madrid, New York. sandro cappelletto, veneziano, vive a Roma; è storico della musica e scrittore, e critico del quotidiano La Stampa di Torino. abbiamo pubblicato 1/2002 L’editoriale/ Perché questo Almanacco Una diaspora senza rimpianti (quando la città era un centro di produzione) Giuseppe De Rita Il “caso”/ Un “altrove” che si cela a Palazzo Ducale L’ultimo deposito: 350 quadri “proibiti” da due secoli, c’era anche un Tintoretto Fabio Isman isabella cecchini, storica dell’economia, partecipa a numerosi progetti di ricerca in Italia e all’estero, collaborando con varie università e istituzioni. E’ stata docente a Ca’ Foscari; le sue ricerche spesso riguardano la storia finanziaria e i mercati artistici di età moderna. La collezione da riscoprire/ Cristoforo Orsetti e i suoi 92 capolavori Come sono andati dispersi (un Bassano è in Texas) i rari dipinti di un mercante Stefania Mason giuseppe de rita, romano, è segretario generale del Censis, ed ha presieduto, tra l’altro, il Cnel, e la Fondazione Venezia 2000. L’ “altrove”/ Tiepolo dal Brenta alla Tour Eiffel Venezia è anche sulla Senna: la singolare storia del museo Jacquemart-André Francesca Pitacco fabio isman, giornalista e scrittore, vive a Roma, è stato inviato speciale del quotidiano Il Messaggero, cui collabora, come a varie altre testate del mondo dell’arte; è il curatore di VeneziAltrove. rosella lauber, storica dell’arte, insegna e svolge ricerche allo Iuav, Istituto Universitario di Architettura di Venezia, e all’Università di Udine, dove vive. La musica/ Vivaldi perduto e ritrovato Due secoli di assoluto oblio (dal 1761, al 1928) poi il ritorno. Ma a Torino Sandro Cappelletto L’opera sparita/ I tanti misteri di un “Ecce Homo” Augusto Gentili dà la caccia a un famoso Tiziano: era partito per la Russia Fabio Isman Il documento inedito/ 4.800 biglietti, un tesoro in fumo Nel ‘700, una doppia lotteria polverizza una collezione: e ora un Raffaello è New York Linda Borean L’asta/ Il grande “cosmografo” Coronelli A uno sceicco (370 mila euro) un celebre mappamondo: l’incredibile vita di chi lo fece Fabio Isman La mostra/ Palazzi e collezioni, ora ricomposte Ganimede vola, ma a Bonn; ovvero: come si può ricostruire quanto esisteva a Venezia Fabio Isman 144 2/2003 L’editoriale/ Una vitalità così esplosiva che doveva tracimare altrove Il vero rimedio alla diaspora: riannodarne i fili per ridare radici ai capolavori Giuseppe De Rita Il documento/ A inizio ‘800, un diplomatico racconta Monsignore, il catalogo delle vendite è questo (cronaca di una grande razzia) Fabio Isman L’indagine/ Restano in citta’ solo 22 opere, su 260, segnalate nel ‘500 Breviario per una diaspora: in quali musei sono finiti i dipinti descritti da Michiel Rosella Lauber Il “caso”/ Un regesto delle biblioteche di nobili e cittadini Come è nato e dove s’è disperso il più grande patrimonio di codici e di libri al mondo Marino Zorzi La musica/ Un celebre solista e uno strumento unico al mondo Dal 1743, ad oggi: le peripezie del più famoso violino costruito da Guarneri in laguna Sandro Cappelletto Il dipinto/ Un capolavoro di Vittore Carpaccio e i suoi infiniti misteri Forse, si può dare un nome al “Cavaliere Thyssen”; e questo è il suo contesto Intervista ad Augusto Gentili Il “mistero”/Il Merisi è tra i pochi artisti assenti in laguna Come e perché la Serenissima non ha conosciuto la grande arte di Caravaggio Stefania Mason Il museo/A Boston, l’Isabella Stewart Gardner Per soddisfare il suo “plaisir” l’eccentrica mi stress ruba al canale anche i balconi Ketty Gottardo 145 3/2004 L’editoriale/ Dalla Laguna al mondo intero Continuando a vagabondare Giuseppe De Rita Il “caso”/ L’interno di un palazzo e tanti celebri dipinti finiti negli USA Cosí un intero angolo di città ha traslocato: è andato in Pennsylvania, a Filadelfia Fabio Isman La musica/ Un Grimani fa emendare il libretto scomodo Eliogabalo, prima censura: un’opera del ‘600 in scena nel 2004; ma in Belgio Sandro Cappelletto L’inedito/ In un carteggio del ‘700, tanti segreti delle vendite veneziane «Voglio dei dipinti vergini e senza macola» scrive l’inglese al mercante Linda Borean Il dipinto/ Alla Frick Collection di New York, un mondo intero in una tela Cosa racconta Giovanni Bellini in quel “San Francesco” che è uno dei suoi capolavori Intervista ad Augusto Gentili La scoperta/ Da Venezia a New York, l’epopea del “San Francesco” di Bellini Dal 1525, quando lo vide Michiel, ricostruite tutte le tappe (o quasi) della preziosa tavola Rosella Lauber La storia/ Le collezioni dall’800 in poi: normali vicende di dare ed avere Quelli che non hanno venduto (e Correr in fin di vita lascia alla città il suo museo) Giandomenico Romanelli Il “giallo”/ Una collezione di capolavori ormai alquanto mutilata Ma quei disegni di Quarenghi come sono finiti (e quando) a San Pietroburgo? Giovanna Nepi Sciré Il museo/ La Wallace Collection di Hertford House, Londra Per oltre la metà d’un secolo un capolavoro di Tiziano è stato dimenticato in bagno Francesca Pitacco 146 4/2005 L’editoriale/ C’è stata una diaspora: ma come s’è formata tanta fortuna? Le molte luci ed ombre in cinque secoli di un collezionismo assai colto e fastoso Giuseppe De Rita L’inedito/ Un manoscritto di fine ‘800 C’erano 300 raccolte private (molte assai singolari): e 70 sono state svendute così Fabio Isman La scoperta/ L’artista di Messina vive in laguna Pochi ma fondamentali mesi A Venezia ne dipinge almeno 20; però di Antonello un solo quadro rimane oggi in città Rosella Lauber Il personaggio/ Il “sacco” del patrimonio pubblico: anche un’asta di 5.000 tele I registri della dispersione. E Pietro Edwards decide: «A Vienna, Milano, da cedere» Intervista con Giovanna Nepi Sciré, di Fabio Isman La musica/ Dalla Spagna alla Marciana, tramite Farinelli, il “re dei castrati” Tutte le sonate di Scarlatti sono a Venezia: ecco il loro tortuoso percorso Sandro Cappelletto Il mistero/ Dispute e tante scoperte attorno a tre importanti ritratti del ‘500 L’Ariosto di Tiziano (Londra) non è Ariosto; e il Barbarigo non si sa chi sia Giorgio Tagliaferro Il museo/ La National Gallery di Edimburgo, ma anche tante ville e residenze Tiziano, Giorgione & Company: quando gli scozzesi facevano man bassa in laguna Francesca Pitacco 5/2006 6/2007 L’editoriale/ Non una dispersione insensata, ma un fenomeno da studiare «Si rigenera l’attesa …». I mille vortici di una diaspora che sempre stupisce Giuseppe De Rita L’editoriale/ Un modello che vuole ricrearsi Verso una nuova forma Giuseppe De Rita L’archeologia/ Tante razzie, poi infinite fughe: ecco dove Sono emigrate nove statue su 10, di quelle raccolte nella città che fu dei Dogi Irene Favaretto La sorpresa/ Due mostre a Washington e Vienna, specchio della diaspora Come spiegare la grande arte di Venezia del Cinquecento, senza dipinti rimasti in laguna Fabio Isman La sorpresa/ L’Ecce Homo di Tiziano ritrovato al Puskin: l’avevano rubato Dei 106 dipinti già dei Barbarigo finiti in Russia, tre quarti sono ormai dispersi Irina Artemieva Il racconto/ Le curiosità di 10 secoli di rapporti, spesso fecondi ma anche difficili Quando a Costantinopoli Venezia era di casa (arte, in cambio di caffè) Fabio Isman L’indagine/ Tante odissee: il Patriarca fugge sui tetti, lo salva il vessillo turco Smembrati ed emigrati così dieci immensi Tiepolo già dei Querini-Stampalia Tiziana Bottecchia L’artista/ Le mille peripezie dei dipinti nati per la città, dove di suo resta il 7 % Itinerario di una diaspora: giro del mondo in cerca dei Tiziano non più a Venezia Rosella Lauber Il dipinto/ Un Giovane e tanti indizi, anche una data fasulla Venezia-New York, e ritorno: la storia assai singolare d’un ritratto, forse di Giorgione Augusto Gentili La musica/ La breve vita di un autore a suo tempo assai stimato, poi dimenticato Emerge da secoli d’oblio il genio di Rigatti: rinasce, ma non in laguna Sandro Cappelletto L’inedito/ Nuovi documenti su una delle prime opere dell’artista Ecco perché il Culto di Cibele, un capolavoro di Mantegna, sfugge a Venezia, e va a Londra Rosella Lauber La storia/ Venduti in gran segreto 90 dipinti e 200 sculture Come passa per la laguna (e poi finisce a Londra) la raccolta dei Gonzaga Leandro Ventura Il progetto/ Decolla un’iniziativa di catalogazione senza uguali in Italia Un “indice delle provenienze” per conoscere tutto del collezionismo veneziano Stefania Mason La musica/ Importanti recuperi di opere che erano sparite Le sue note finite nell’oblio, a Torino e in altre città: Galuppi ritorna dopo 300 anni Sandro Cappelletto 147 7/2008 8/2009 9/2010 L’editoriale/ Neva e laguna: arte, edifici, e il rapporto tra la vita e la morte Due città legate da un mistero Giuseppe De Rita L’editoriale/ La città dell’imperatore e quella del doge Dalla rimozione e il rancore, alla riscoperta del grande patrimonio comune Giuseppe De Rita L’editoriale/ Che cosa trova Venezia, da Danzica al Mar Nero Un vero policentrismo, con tanti nobili ma anche grandi ciarlatani Giuseppe De Rita La rivelazione/ Due notti in incognito; analoghe le piante delle due città Anche con un viaggio segreto lo zar Pietro prende la Serenissima come modello Sergej Androsov La storia/ Quattro secoli di rapporti, tra confronti, rivalità, sospiri Da Venezia fino a Vienna, andata e ritorno: per chi suona la campana? Gino Benzoni Il regesto/ A Praga, Varsavia, Bucarest e Sofia, infiniti artisti e curiosità Tra spie, dipinti e sinfonie, Venezia è vicinissima all’Europa dell’Oriente Fabio Isman Un regesto/ Due secoli di rapporti con la Serenissima e infinite curiosità Come gli artisti della Laguna riempiono di opere le residenze della nuova città Fabio Isman La storia/ Due zarine creano la maggiore raccolta veneziana all’estero E il violinista fa la spola con San Marco, per arredare tanti palazzi Irina Artemieva La musica/ La traiettoria di uno sviluppo, da Galuppi a Cimarosa & Company Caterina II, con il “Buranello” dà alla città stile e perizia artistica Sandro Cappelletto La cronaca/ Che cosa celano i Giorgione, Tiziano e Veronese della zarina La vendita sconvolge il mondo: da Parigi all’Ermitage i capolavori veneti di Crozat Rosella Lauber Il contesto/ Uno storico nemico che priva la Serenissima della libertà Tra ambasciatori e spie, artisti e musicisti, secoli di rapporti in cagnesco Fabio Isman I documenti/ Come mutano i paesi negli atti della «metropoli dell’universo» A est di Vienna diplomatici e tanti intrighi, mercati e carne bovina Gino Benzoni I libri, i poeti/ Dal Settecento fin quasi al 2000: l’attrazione e la ripulsa La laguna come un’alterità a portata di mano. E poi, il mito della “città morta” Andrea Landolfi Il racconto/ La diaspora dalla Serenissima e “l’autunno” di Praga L’arte alla corte di Rodolfo II: collezionismo magico e passione per la pittura veneta Rosella Lauber Il racconto/ Una predilezione che inizia forse nel 1533, con Tiziano Un acquisto dietro l’altro, nasce la più ricca e documentata raccolta veneziana all’estero Sylvia Ferino Pagden I viaggiatori/ Quando ai cechi rii e calli (sporche) piacevano soltanto di notte Gli alberghi nel centro storico? Erano cari già nel Seicento, assai meglio dormire a Padova Annalisa Cosentino La curiosità/ Compravendite e trasferimenti dei «Mesi», capolavoro di Leandro Dalla laguna fino agli Asburgo: i tanti viaggi di un ciclo di 12 Bassano (ma uno è sparito) Francesca Del Torre Scheuch La musica/ L’estrema commissione 30 anni fa, su parole di Cacciari Un «Diario polacco» di Nono rifiutato a Varsavia a causa del “golpe” del 1981 Sandro Cappelletto La musica/ Vicende di note (e di gonnelle) tra le due capitali Nello stesso anno, il 1787, due “Don Giovanni”: ma quanto diversi tra loro Sandro Cappelletto L’indagine/ Sotto la dominazione austriaca Esiste già una “banda del buco” «Vendere a ogni costo»: spariscono 5.000 dipinti ma tornano cavalli e leone Rosella Lauber 148 149 150 151 152